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Autore: Estel_naMar    10/05/2020    11 recensioni
Esiste qualcosa di più affascinante degli individui? E qualcosa di più originale e coraggioso della loro quotidianità? Mi chiamo Abigail e vi presenterò delle persone, degli istanti delle loro vite cristallizzati in un peculiare infinito.
Le ho incontrate per strada, nell'attesa della metro, sulla terrazza di un albergo, lungo un viale alberato e in mezzo alla natura. Le ho incontrate per caso e loro, in preda a una gentilezza inconscia, mi hanno ceduto una parte delle narrazioni che li riguardavano e li abitavano: a me non resta che fare altrettanto e condividerle con ognuno di voi.
Mi chiamo Abigail e questi sono solo dei racconti sull'eccezionale ordinarietà di una vita qualunque come potrebbe essere la tua, la mia o la nostra.
Mi chiamo Abigail e queste sono le narrazioni che mi hanno sconvolto e rivoluzionato l'esistenza.
✠ Il capitolo "Max e Annie" è vincitore del contest "Attraverso i tuoi occhi (II edizione)" indetto da Milla4 sul forum di EFP
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Contest Generi a Catena indetto da Dark Sider sul forum di EFP

Genere: Introspettivo

Prompt: “La vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte”

 

 

 

 

JO e ME

 

 

 

 

Ad Anna, 

senza la quale non avrei conosciuto

questa particolare realtà.

 

 

 

 

 

Sette, il numero massimo di ogni cosa, come si suol dire. A me erano bastati esattamente sette singoli giorni per percepire il bisogno impellente e intrattenibile di chiamare Jann e informarlo che avevo la totale intenzione di rivedere ulteriormente sia la pianificazione del lavoro per i mesi successivi, a cui avevo già apportato diverse modifiche, sia tutto ciò che riguardava il contenuto di quello che mi apprestavo a scrivere… proprio tutto tutto, insomma. 

 

Lui non si era troppo irritato per la mia incapacità di prendere una decisione e portarla al termine in base ai criteri comunemente concordati, però devo dire che il suo tono di voce titubante aveva tradito una non indifferente preoccupazione. Così, dopo essersi assicurato che non fosse un problema per il suo capo, mi aveva cordialmente informata che mi erano state concesse due settimane entro le quali avrei dovuto inviargli una nuova progettazione per quella che doveva essere la mia terza pubblicazione. 

 

Mentre sto scrivendo queste parole, ancora non mi è chiaro se la scelta presa sia stata semplicemente dettata dalla frenesia di ciò che avevo appena vissuto (e mi fossi quindi ritrovata vittima di un raptus momentaneo) o se, al contrario, l’idea balzatami con prepotenza in testa si rivelerà effettivamente meritevole di esser stata percorsa. 

 

Eppure, nel dubbio, eccomi qui. 

 

 

 

 

«Dai, su, Ab, prenditela questa pausa! Hai pubblicato un romanzo meno di un anno fa e passato i mesi successivi a promuoverlo… Non credo che qualcuno ti metterà alla gogna nel caso in cui archivi per un po’ il tuo computer e ti concedi del tempo per vivere, dai!», se ne era uscita un giorno Josefine in una delle nostre frequenti videochiamate.

Come darle torto, erano mesi che non distoglievo attenzione e forze dal mio lavoro, lavoro che mi stava oberando e sfiancando come mai avrei potuto immaginare. Ne ero stata assorbita così tanto da rimandare tutte quelle “occasioni di piacere” che, da un punto di vista puramente economico, dopo il successo ottenuto con le mie due precedenti pubblicazioni, potevo finalmente permettermi di soddisfare senza più gravare sui miei genitori… Che poi è quello che ci si aspetta da una persona alla soglia dei trent’anni.

 

«Jo, continui a ripetermelo ogni volta che ci sentiamo! Non serve che tu lo faccia, lo so, lo so», le avevo detto io in risposta, con anche un po’ di sufficienza, irritata dalla sua ostinazione e incomprensione nei confronti dell’attività che svolgevo. Josefine si era laureata un paio di anni di prima, ma nel percorso che l’aveva portata al raggiungimento di quel traguardo, le sue ambizioni si erano lentamente plasmate e in quel momento si stava dedicando unicamente al suonare in giro per le strade di Berlino. La ammiravo, per la tranquillità con la quale prendeva le sue decisioni, ma in quel periodo delle nostre vite… non era esattamente la persona che più avrebbe potuto capire cosa significasse lavorare a tempo pieno. 

 

«Sì, beh, non mi pare che tu stia facendo granché a riguardo, per questo ci tengo a fartelo presente ogni qualvolta ne abbia l’occasione!», mi aveva risposto imperterrita, ignorando il mio disappunto.

«Ho delle scadenze da rispettare: dobbiamo concordare la pianificazione per i prossimi nove mesi della mia vita ed ogni giorno perso adesso significa lavoro in più in futuro, Jo. Sono scadenze fisse e pure poco malleabili, non è che mi stia divertendo a starm-»

«”Perché io lavoro almeno otto ore al giorno, e sì starò al pc nello studio nella mia villetta borghese, ma la scrittura è ciò che mi consente di portare a casa la grana, non è che sia un passatempo, al contrario tuo che invece ti dai alla bella vita!” e bla, bla, bla….», mi interruppe lei canzonandomi un po’, che stronzetta: mi ha dato della borghese – quando si tratta di Jo non è mai un complimento. «Lo so, Ab. Non serve che ti giustifichi con me; malgrado ciò potresti fartele delle ferie, perché lasciatelo dire: credo proprio tu ne abbia bisogno!», risi di buon grado scuotendo un poco la testa, maledetta Josefine, sarebbe finita per convincermi del fatto che fosse vero – solo a posteriori ebbi la conferma di quanto lo fosse.

 

 

 

            Josefine e io eravamo amiche dai tempi della scuola primaria, provenendo entrambe da Brandeburgo Sulla Havel, una cittadina a sud-ovest di Berlino. Non ho ricordi della mia vita prima di conoscerla e sono sicura nell’affermare che per lei valga lo stesso. Abbiamo condiviso tutto, noi due… scuola, compagnia, ragazzi (!), tempo, passioni, sentimenti, esperienze. Ogni cosa fin da quanto eravamo solo delle bambine.

Approdando, poi, ad un’età più matura avevamo intrapreso strade differenti, ma non per questo ciò che ci legava è venuto meno, anzi. 

Josefine, terminato il Gymnasium, infatti, si era trasferita proprio nella capitale al fine di frequentare la facoltà di scienze politiche: non mi sarei potuta aspettare nulla di diverso da lei, con la personalità intraprendente e briosa che si ritrovava.

 

Entrambe noi ci eravamo affezionate da giovanissime ai temi delicati inerenti alla politica. Jo, in particolare, aveva presto iniziato a frequentare molti ambienti studenteschi deputati all’organizzazione di cortei, manifestazioni e, soprattutto, iniziative culturali (prima che politiche) che avessero lo scopo di sensibilizzare i cittadini affinché divenissero soggetti attivi nella società. 

L’ho sempre ammirata molto per la sua esuberanza e capacità oratoria ed è, senz’ombra di dubbio, la persona che più ho preso ad esempio. Un’inaspettata forza della natura, Jo, costantemente innamorata della vita e delle sue più ignote e inconoscibili sfaccettature, con una spiccata predilezione per la socialità e un’incantata aura di positività che coinvolgeva chiunque stesse a contatto con lei anche solo per una singola o sporadica manciata di secondi.

 

Fu proprio Josefine a convincermi, ormai diversi anni fa, a dedicarmi alla scrittura e alimentare quella passione che da sempre aveva fatto da padrone in tutto ciò che mi riguardava. Un giorno, all’ultimo anno, semplicemente mi chiese se mi fossi decisa sul da farsi e se avessi voluto seguire i consigli e le indicazioni dei miei genitori sull’università.

In parole spicciole mi chiese a che punto fossi della mia vita, se avessi preso un qualche tipo di decisione. Me lo domandò con nonchalance e ingenuità, senza considerare quanto per me quella domanda fosse ragione di sbigottimento e spaesamento. Erano mesi che io non pensavo ad altro, pur senza mai davvero pensarci. 

 

Realizzare che non avevo più il tempo e lo spazio per procrastinare e posticipare il risolvimento di quel quesito che era la mia esistenza, verso la fine dell’adolescenza e l’inizio di tutto il resto, mi mise un terribile senso di angoscia addosso, opprimente e sfiancante. La verità, infatti, era che io ero completamente e inesorabilmente smarrita. Non avevo le idee, le ambizioni e le certezze che vedevo in Jo e sicuramente non possedevo una qualche capacità innata che mi aiutasse a giostrarmi nel gioco dell’incertezza.

 

Ma Josefine lo sapeva, lei sapeva sempre tutto. 

Prese il quaderno che le avevo chiesto di leggere e correggere qualche mese addietro, me lo posò – lo lanciò, se proprio dovessi puntualizzare – sulle gambe, mi fece un occhiolino mentre un sorrisetto sghembo si faceva spazio tra le sue guance paffute e rosee e con la stessa facilità asserì: «Ab, mi chiedo davvero in che tipo di bolla tu viva. Che altro vuoi fare se non questo? Tu devi fare questo. E non guardarmi con quella faccia da rimbambita, su!»

 

Ebbene, erano mesi che non pensavo ad altro pur senza mai davvero pensarci, ma in quel momento tutto prese forma e consistenza, tanto era logico e scontato. Non avevo davvero bisogno di soffermarmi a ragionare su qualcosa che era così semplice. Nell’inconscio, ero perfettamente consapevole del fatto che niente nella vita mi avrebbe fatto sentire appagata quanto il profumo di un quaderno nuovo in attesa che l’inchiostro si riversasse sulle sue pagine vuote.  

Ogni volta mi sorprendevo e meravigliavo per il fiume di pensieri e parole che, incontrollabili, prendevano colore e movimento nella mia mente e premevano impazienti sui polpastrelli delle mie dita trepidando all’idea di concretizzarsi. Non avrei potuto fare niente se non questo, così questo fu proprio quello che feci.

Jo aveva studiato e si era laureata e io avevo studiato e pubblicato due romanzi. Eravamo felici e soddisfatte di noi stesse, alla faccia dei – per fortuna pochi – professori che durante la scuola premevano per disincantarci dai nostri sogni e incatenarci con fermezza alla realtà. 

 

«Dovresti smetterla di sfottermi, una volta tanto», le dissi; mi borbottò un “ma tu ti presti così bene!” in risposta, che ignorai e continuai: «Devo consegnare quanto prima la pianificazione che ci accompagnerà per i prossimi nove mesi, con tanto di struttura del nuovo romanzo, devo attenderne le revisioni e poi iniziare a studiare così da poter iniziare ad abbozzare»

«Ah, ma la pianificazione gliela devi mandare tu, non loro?»

«Beh, sì. Poi il team che mi supervisiona la rivedrà e la allineerà con gli impegni generali dei vari membri e della casa editrice»

«Allora direi che puoi tranquillamente prendertela quella settimana di pausa, no? Una settimana, una soltanto. Dai, devo farti vedere il posto in cui vivo da un po’ di mesi a questa parte. Ah! E farti conoscere Adrien che, come ti avevo detto, ti piacerà davvero molto!»

«Il francese?», le chiesi con un poco di malizia nel tono, «Una settimana, dici? È tanto tempo, ma forse si può fare. Posso provare a tenerla in conto: entro il weekend invio tutto il necessario a Jann e, una volta che mi avrà dato il responso, capirò e ti aggiornerò, contenta?»

«Eh sì, ti piacerà proprio il francese, almeno quanto piace a me. E sì: posso dirmi contenta. Ci sentiamo presto, babe», le mandai un abbraccio virtuale e chiudemmo la chiamata. Forse una settimana nella capitale avrebbe potuto essermi utile: un po’ d’aria fresca e nuova non fa mai male, d’altronde.

 

 

 

 

Brandeburgo Sulla Havel dista esattamente settanta chilometri da Berlino. I miei genitori hanno sempre dovuto recarvisi con molta frequenza a causa dei loro impegni lavorativi e, alle volte, avevano scelto di portarmi con loro trattenendoci lì fino al termine del weekend. 

Ogni volta che questo accadeva era, per me, sempre molto emozionante poiché loro guardavano alla città coi medesimi occhi curiosi e stupiti con cui la osservavo io. Ero solo una bambina quando il muro venne abbattuto e ogni breve gita là era un momento di scoperta e sorpresa per tutti noi che finalmente avevamo l’opportunità di conoscere Berlino nella sua interezza.

 

Negli anni l’ho vista cambiare, crescere e modellarsi, divenendo il fulcro pulsante e la principale nota di colore dell’intera Germania. 

«Vedi tutte quelle gru? Ci stiamo impegnando per far diventare Berlino bella», mi aveva detto dolcemente, una volta, l’addetta ai biglietti per salire sulla torre della televisione dalla cui cima avrei potuto ammirare tutta la città. Ne rimasi profondamente colpita e affascinata. Alla tenera età di sette anni, nella prima metà degli anni ’90, avevo percepito quelle gru sparse tra gli edifici come l’emblema dei cittadini: rappresentavano quella volontà di eliminare il male e il dolore che tanto a lungo li aveva caratterizzati al fine di mostrare al mondo quanto fossero migliori delle memorie che li riguardano – e che riguardavano la Germania tutta.

 

Pian piano Berlino si apriva dinnanzi a me permettendomi di conoscerne anche gli angoli più remoti, quasi fosse un libro aperto in attesa di essere sfogliato. Ogni volta che mi ci recavo vi disperdevo costantemente un pezzo del mio cuore, ma non era un problema: ero sempre ben lieta di cederglielo. Ogni parte di me che avevo lasciato lì, infatti, le apparteneva e non avrebbe potuto essere destinata a nient’altro.

Ed ogni volta, ancora, mi sorprendevo nell’appurare quanto poco la conoscessi e quanto molto ancora avrei potuto apprendere. Non vi erano monumenti o musei che fossero sfuggiti al mio sguardo, quella città, però, non si riduceva alla sua storia più cupa e oscura, bensì alla forte speranza che caratterizzava i suoi cittadini e alla loro volontà di trasmetterla a noi viandanti.

 

Fu proprio in virtù di ciò che cercai di impormi su Jann, colui col quale mi interfacciavo maggiormente tra tutto il team di gestione del progetto che mi riguardava, chiarendogli che quella settimana di stacco sarebbe stata effettivamente utile anche ai fini della mia scrittura.

Con sorpresa, come già accennato, dopo che i piani alti gli diedero il permesso, mi rispose che la scelta era unicamente mia, che le scadenze erano necessarie, certo, ma che la nuova pianificazione andava bene e, in ogni caso, doveva solo servire a darmi una linea generale per quanto concerne i tempi, al fine di tenermi in riga e ordinata nel mio lavoro. Se avessi avuto bisogno di una settimana di pausa, dunque, nessuno me l’avrebbe negata.

Beh, alle volte le cose basta chiederle con gentilezza e educazione.

 

«Oddio Abbie! Sono così felice che tu riesca davvero a venire!», aveva esclamato Josefine alla notizia: non riuscivamo a vederci da mesi, entrambe eravamo elettrizzate all’idea. Mi aveva consigliato di portare cose molto spartane: «Ricordi quando andavamo in campeggio con gli amici? Ecco: fai come se fosse lo stesso»

«Che vuol dire? Tipo tenda, materassino e quant’altro?»

«Esattamente», esattamente?

«Mi sono persa qualcosa? Non volevi farmi godere di un po’ di rilassatezza e serenità senza l’incombenza del lavoro? No?»

«Beh, sì, anche se io ho detto che ti avrei fatto godere la vita»

«Le due cose non coincidono?»

«Alle volte sì, alle volte no, chissà… Portati una tenda e non rompere tanto le palle, dai!», insistette poi senza darmi troppe spiegazioni. Non avevo alcuna idea di dove si fosse cacciata la mia tenda; sbuffai un poco, ma fui assolutamente certa che mi avrebbe aspettato qualcosa di sensazionale e sopra le righe.

 

 

 

Giunta all’Hauptbahnhof realizzai presto quanto dovessi sembrare un facchino e quanto scomodo potesse risultare muoversi con uno zaino di cinquanta litri stracolmo – non che qualcuno prestasse attenzione a me eh, sia chiaro. Anzi, la stazione era molto popolosa – lavoratori, turisti o comuni abitanti erano soliti frequentarla –, ma nessuno aveva davvero il tempo di fermarsi, erano tutti impegnati a raggiungere un treno, una delle linee della S-Bahn o una della U-Bahn. Eppure, io, se con la scrittura non fosse andata come speravo, nella vita non avrei desiderato altro se non potermi permettere di starmene seduta in una stazione ad osservare la varietà degli sguardi dei viaggiatori e poterne assaporare le aspirazioni e gli stati d’animo.

 

Negli ultimi due anni, da dopo la laurea di Jo, non mi era mai capitato di riuscire a tornare a Berlino semplicemente per il gusto di farlo, o di potermi muovere in libertà per la città. Oh, quanto speravo di riuscire a tornare all’orto botanico ed ammirare gli alberi in fiore! Quel giardino era magnificente: più di 43 ettari di superficie ed una varietà infinita di piante. Avevo potuto recarmici solo una volta in autunno, la mia stagione preferita, e i suoi colori caldi mi avevano avvolto l’anima facendola totalmente loro. Ciò nonostante, confidavo nel fatto che anche in primavera non dovesse essere poi tanto male, sebbene non vi fossero foglie cadenti che, come mi aveva insegnato Rilke, “Tutte queste cose che cadono, qualcuno con dolcezza infinita le tiene nella mano”

Detto ciò, mi sarei comunque accontentata volentieri. 

 

Dopo svariate peripezie tra la linea 7 e la linea 8, finalmente giunsi a Heinrich-Heine-Straße, dove avrei dovuto incontrare il volto familiare di Jo. 

«Ehi straniera! Ce ne hai messo di tempo!», mi urlò lei correndomi incontro e tentando invano di abbracciarmi.

«Mi dimentico sempre quanto tu ti appolpi alle persone, cavolo. Stavolta te lo faccio fare volentieri, però, Jojo», la feci sorridere mentre mi liberavo del peso dello zaino lasciandolo fracassare a terra senza troppi problemi, così da riuscire ad accogliere il suo corpo snello e caldo tra le mie braccia.

 

Appena ci dividemmo la squadrai un po’: avevo già notato nelle videochiamate diversi cambiamenti in lei, ma in quel momento potei appurarli con precisione: «La scorsa settimana sbaglio o questi non erano così?», le domandai mettendole davanti agli occhi una ciocca dei suoi lunghi capelli.

«Ah, sì, beh… Ho voluto aggiungere un po’ di contrasto con la mia pelle smorta!», i suoi meravigliosi capelli rossi naturali erano stati decorati con delle punte azzurre e cosparsi di qualche treccina colorata random che illuminava ancor più la sua pelle chiara e delicata dai mille nei marroncini. Stava sempre benissimo, questo era innegabile.

«Smorta, pff. Niente che ti riguardi potrebbe mai essere smorto»

«Hai ragione in effetti! Dai, dammi qualcosa che ti aiuto, dobbiamo camminare almeno per una decina di minuti e tu, vestita così morirai decisamente dal caldo. Quelli», precisò indicando gli anfibi che avevo ai piedi, oltreché le mie calze, «desidererai strapparteli via. È un maggio molto caldo questo e, soprattutto, che sta volgendo al termine!»

 

 

 

«Allora, sappi che, nel farti alloggiare nella mia modesta reggia, ho sinceramente confidato nel fatto che tu non sia mai stata una persona schizzinosa, visto che, come me, sei consapevole che in contesti come il campeggio i piedi possano esser lavati infinite volte, ma alla fine torneranno comunque neri; o che possa capitare di dover passare tra le tende con solo l’asciugamano indosso dopo esserci docciate nei bagni misti; o che i denti si lavano, chiaramente, alla fontanella più vicina – senza acqua potabile, ovvio…», Jo lasciò morire il discorso e io non stavo capendo la ragione di quelle premesse e giustificazioni.

 

La guardai sperando di captare qualcosa in più, ma nessun indizio traspariva dalla sua persona, così cambiai argomento: «…Questo Adrien insomma?»

«Ah! Lo amerai! È come se fosse la mia versione al maschile. Proviene da un paesino sperduto nella Normandia, abbiamo frequentato insieme un paio di corsi durante il nostro ultimo anno all’università e non appena terminato ci siamo dati alla bella vita… Che poi “bella”, quale eufemismo! Però ecco: ci divertiamo, facciamo busking in giro e raccattiamo un po’ di soldi, quello che basta per sopravvivere, almeno. Ogni tanto abbiamo suonato in qualche localetto giù nel Friedichshain, tipo al Centro Culturale Astra, te lo ricordi?»

«Come potrei dimenticarlo? L’ultima volta che ci sono stata ho offerto anche l’anima: avevo settanta euro nel portafoglio e il giorno dopo me ne erano rimasti meno di venti! Quindi, insomma, ti sei trovata un bel francesino eh? Come biasimarti, d’altronde…!»

 

«Ma no, sciocchina di una Abigail! Siamo solo molto amici, da un po’ di anni ormai e ci troviamo splendidamente insieme: ci comprendiamo allo schiocco di dita, esattamente come accade a me e te. Decisamente quello che mi mancava in questa città»

«Pff, farò finta di crederci, ma sappi che ti brillano gli occhi quando ne parli, vecchia porcellina!», io e Jo eravamo solite usare i nomignoli più stupidi per prenderci in giro. Lei di rimando rise scuotendo la nuca esclamando un “non hai capito proprio niente!”, poi mi parò un braccio davanti come a fermarmi e un sorriso emozionato le si formò sul volto.

«Benvenuta a TeePee Land!», esclamò aprendo il suo braccio in direzione di un cancello aperto alle sue spalle indicandomelo e facendomi cenno di proseguire, «Questa è la mia umile dimora… mia e di un sacco di altre persone e siamo tutti profondamente fricchettoni, sappilo»

«Non avevo dubbi», borbottai.

 

 

 

Davanti ai miei occhi potevo osservare un grande cartello in legno che delimitava l’entrata che citava “TeePee Land – bring yourself, please” ed un’altra serie di parole come “amore, amori, libertà, villaggio”.

Al di là scorgevo le prime tende appostate di lato al sentiero principale. Il posto era un po’ fatiscente: non era ordinato, non era bello, non era pulito e, anzi, potevo notare in vari punti, una serie di oggetti ammassati a casaccio – da bancali in legno malconcio a carriole o, in generale, cose usurate e distrutte dal tempo e dalle persone.

 

Mentre varcavamo l’ingresso seguii Jo farsi largo tra il labirinto di tende incrociando un paio di persone che la salutarono ridenti e intravidi un ulteriore cartello di fianco a una baracchina che pareva costituire un bar – abusivo, da quello che dedussi, ma sicuramente necessario – sul quale veniva dato un ulteriore benvenuto nel villaggio e veniva sollecitato il senso di responsabilità del lettore-visitatore ricordando che quella era un’area comune e quindi invitando al rispetto dello spazio e, di conseguenza, delle persone. C’era una specificazione, inoltre, in cui veniva condannato e non ammesso all’interno del villaggio sessismo, razzismo, aggressività e omofobia: mi sarei trovata decisamente a mio agio lì.

 

TeePee Land non era uno di quegli hotel a cinque stelle a cui mi ero, mio malgrado in realtà, abituata. Era letteralmente un villaggio abusivo al di fuori di un edificio abbandonato – e poi occupato – nel quale qualcuno aveva creato una comunità con delle regole ben precise circa la moralità e l’etica accettata al suo interno.

«Che posto è questo?», domandai a Jo esigendo di saperne di più.

«Questo? Eh, è un posto che apprezzerai perché rispecchia perfettamente il tuo amore per la vita e per gli individui. Qui siamo tutti una grande famiglia e ognuno di noi lavora al fine di mandare avanti la comunità, alimentando quel senso profondo di altruismo reciproco che dovrebbe essere alla base di ogni collettività», sospirò fiera e riprese «Adrien e io siamo capitati qui per caso, poco meno di un anno fa, dopo aver conosciuto dei musicisti ad Alexanderplatz che si erano fermati ad ascoltare una nostra esibizione e ci avevano chiesto se avessimo voluto suonare qui. Beh, inutile dire che rispondemmo di sì»

 

Jo mi accompagnò in un giro perlustrativo: mi mostrò l’angolo dedicato al teatrino formato da bancali in cui aveva strimpellato in una jam session la prima volta che lei e Adrien erano entrati nel villaggio e dove, mi spiegò, gli abitanti fissi erano soliti organizzare attività culturali e ludiche. I primi cittadini di TeePee Land si erano assestati in quel preciso spiazzo proprio in virtù della linea del muro di Berlino, proprio a pochi metri di distanza – si poteva scorgere l’East Side Gallery da là. Il fondatore era un operaio tedesco che durante la giornata lavorava fuori dalla città, ma che ogni giorno sceglieva di tornare nel villaggio a mangiare con tutti gli altri residenti.

 

«È un fatto molto importante questo, sai? Si pranza e si cena con quante più persone possibile; si cucina insieme attorno al falò su dei fornelli pressoché improvvisati, si fanno chiacchiere, si suona musica, si ascoltano le storie che qualcuno ha voglia di raccontare. Si cerca di fare gruppo, insomma, stare assieme e condividere tempo – la cosa più importante che una persona può scegliere di condividere con qualcuno, ti pare?»

Sorrisi ammaliata: «Beh, sicuramente è la prima cosa necessaria per riuscire a condividere anche altro, la più preziosa perché lascia spazio al resto, no? Sono contenta che tu mi abbia portata qua!»

«Ma io lo sapevo perfettamente che avresti apprezzato, Abbie! Conoscono bene i miei polli. E quel pollo che poi saresti tu lo conosco così a fondo, che non potevo ignorare quel bisogno di tornare in mezzo alla gente che tanto leggevo tanto nelle tue espressioni!»

 

Di solito ero io che lasciavo pezzi di me sparsi per il mondo. Quella, però, fu una delle prime volte in cui mi accorsi di quanto anche gli altri ne avrebbero lasciati a me, se avessi avuto il coraggio di accoglierli. Dare è sempre bello ed era qualcosa che avevo fatto volentieri molto spesso, ma altrettanto frequentemente avevo rifiutato di ricevere la medesima cura. Jo, invece, mi stava lasciando entrare in un angolo della sua vita di cui io non facevo parte, solo per il piacere e l’affetto che ci legava. La guardai e le volli ancor più bene di quanto non gliene volessi già. 

 

 

 

La zona adibita ai pasti era un’area comune dalla forma circolare: al centro vi si trovavano dei sassi che delimitavano il punto in cui si accendeva il falò e tutt’intorno si diramavano divani e bancali sui quali le persone potessero sedersi e cucinare in compagnia. Erano sicuramente di terza mano, con cuscini scuciti o sfondati, ma questo contribuiva a rendere il posto ancor più vissuto e provvisto di una peculiare eleganza. Avevano costruito una specie di gazebi con delle staccionate in legno, il cui tetto era costituito da banalissimi teli dalle fantasie orientali che ombreggiassero sui diversi posti a sedere. Lungo i legni che formavano i pilastri che tenevano in piedi la struttura, erano state affisse una serie di lucette di Natale e simili. Immaginai che di sera quel punto dovesse proprio avere il suo indiscutibile fascino. Poco più in là, invece, si trovavano degli alberi dove erano state attaccate una serie di amache e io amavo le amache, non vedevo l’ora di farvici un pisolino. 

 

Il luogo era sprovvisto di un aggancio diretto all’acqua perciò, quotidianamente, a turno, qualcuno doveva recarsi con un carrello stracolmo di barili, in uno stabile vicino così da averne a sufficienza per lavare pentole, padelle, bicchieri e quant’altro.

«Beh a volte è capitato che qualcuno saltasse il proprio turno e che ci ritrovassimo a lavare direttamente nella Sprea… Non guardarmi così, lo so che non è il massimo dell’igiene… è successo solo in qualche occasione sporadica, giuro!», mise le mani avanti Jo vedendo la mia espressione palesemente impensierita – e forse anche un po’ inorridita – a riguardo.

 

«Sai, di norma gli esterni possono trattenersi fino a massimo di sette giorni»

«Non hai detto che abiti qui da diversi mesi?»

«Beh, io e Adrien eravamo particolarmente simpatici, non so se permetterebbero a te di fare lo stesso!», mi fece una linguaccia continuando a prendermi un po’ in giro; in tutta risposta sollevai gli occhi al cielo ridendo… forse era un po’ vero, effettivamente. «A parte le minchiate, è tutto puramente a discrezione dei “capi”: i responsabili si riuniscono al termine del tempo nel caso in cui l’esterno abbia mostrato l’interesse a trattenersi più a lungo, e discutono rispetto all’apporto a lungo termine che quel determinato individuo potrebbe dare alla loro comunità»

«Beh, allora immagino sia vero che qualcosa di buono tu lo faccia di tanto in tanto»

«Pff, no, figurati. È solo merito di Adrien»

 

Quanto mi mancavano quei momenti. Io e Jo eravamo perfette nella nostra auto e vicendevole ironia. Eravamo cresciute nella consapevolezza di poterci confessare ogni cosa. Alle volte, le persone non capivano il tipo di rapporto che ci legava, visto quanto ci insultavamo a vicenda, così capitava che giocassimo sui loro dubbi, complici, inscenando litigate e incomprensioni e poi ridevamo assieme degli sguardi spaesati di coloro che avevano assistito alla cosa.

 

Mi guardai meglio intorno e in mezzo a tutti quei personaggi che erano gli abitanti del villaggio notavo così tanto da imparare e indagare, così tanto di affascinante e incredibile, che sono sicura mi brillassero gli occhi. Erano tutti così sorridenti e felici nel loro piccolo angolo di mondo (quasi) incontaminato, che subito non potei che domandarmi come fosse accaduto che, in una città che concede così tanti vizi e dipendenze, spunti e aspirazioni e ambizioni come faceva Berlino, qualcuno avesse deciso di abbandonare ogni cosa per liberarsi dalle catene della modernità e abbracciare tutte quelle piccolezze che tanto erano invisibili agli occhi meno allenati e attenti. 

 

Sembravano una comunità hippie degli anni ‘60 e io li ammiravo perché, per quanto mi ammaliasse l’idea alla base di TeePee Land e delle persone che ne facevano parte e per quanto comprendessi come quella fosse un’esperienza al di fuori dei canoni della normalità che ero assolutamente lieta di aver avuto l’occasione di compiere, non credo avrei potuto vivere secondo i loro principi con cotanta facilità, abbandonando i comfort di cui ero stata circondata da sempre. 

 

«Sai, fino a qualche anno fa era pieno di ratti, qui, mi hanno detto», rabbrividii un poco al pensiero: non avevo niente contro i topolini… ma i ratti? Pelle d’oca anche solo a sentirli nominare, soprattutto se concentrati in uno spazio piccolo e circoscritto, «Tranquilla Ab, al loro posto adesso ci sono un sacco di gattini. Guarda! Quello è Alien, guarda quant’è carino tutto sfigatino com’è!», esclamò Jo indicandomi un micetto tutto nero e spelacchiato con le punte delle orecchie bianche. Fui assolutamente sollevata.

«Quella è la mia tenda. Tu puoi metterti qua, tanto anche se siamo distanti una decina di metri non è che passeremo molto tempo nelle tende. Ti aiuto a montarla, poi ti porto da Detlev. È uno degli abitanti stabili del posto, un personaggio unico: è tipo un vecchio di settant’anni, in pensione, che passa le sue giornate a farsi tisane ai funghetti allucinogeni e cucinare per noi altri mentre ci parla della sua vita. Non hai idea di quante ne abbia vissute. Abita a Berlino fin da quanto è nato: è cresciuto in questa città. Quando hanno tirato sul il muro, aveva circa una ventina d’anni e, abitando proprio in prossimità della divisione, si era ritrovato a Berlino Ovest, mentre la maggior parte dei suoi amici erano a Berlino Est», aggiunse che questo fatto gli aveva completamente cambiato la vita, potendo lui fare avanti e indietro, mentre ai suoi amici non era consentito. 

 

Alla fine, aveva trovato l’amore e si era assestato nel lato Est della città e, in realtà, non gli era affatto dispiaciuto: stavano bene. Quando il muro, poi, cadde, lui e la moglie presero a girare per il mondo, ma lei si ammalò e presto morì, non avevano mai avuto figli, perciò Detlev continuò a fare esattamente quello che faceva con lei, finché non ha conosciuto questa realtà e Ben, uno dei fondatori di TeePee Land. Erano dieci anni, circa, che abitava nel villaggio.

 

 

 

 

«Oh, Adrien, dove ti eri cacciato in tutto questo tempo? Abbie, questo è Adrien», mi disse Jo non appena lui apparì alle mie spalle.

«Quindi tu sei la famosa Abigail! Jo parla spesso di te, piacere», gli sorrisi voltandomi nella sua direzione. Era un ragazzo non troppo alto, ma con un certo charme. I suoi occhi erano grigi e i capelli neri come l’acqua di un lago nella notte, mi domandai perché avesse deciso di radere la barba lasciando però quegli inquietanti baffi sulle sue labbra, ma mi morsi la lingua dicendomi che forse potevo evitare di fargli quella come domanda iniziale durante il nostro primo approccio. 

«Beh, adesso che finalmente ho conosciuto il compagno che mi ha gentilmente rimpiazzata nell’affiancare questa dolce pulzella, ditemi: che mi fate fare oggi?»

«Assolutamente niente, Ab. O meglio: potrai scegliere di seguirci se vorrai. Noi a breve andiamo a suonare in giro, oggi in teoria dovremmo farci l’Oberbaumbrücke, poi l’East Side Gallery a ritroso e, infine, procederemo fino ad Alexanderplatz. Ti unisci a noi?»

«Ma che domande mi fa? Ovvio che sì, tsk»

 

Josefine recuperò il marsupio colorato e rattoppato, quello stesso che la accompagnava fin dalla prima adolescenza, e il tamburello a sonagli, ormai un po’ rovinato, che le avevo regalato a uno dei suoi compleanni. Adrien dall’altra parte prese la chitarra e si fece passare la cinghia tra il braccio e la testa, manifestando l’intenzione di suonare letteralmente camminando in giro. 

E così fecero anche mentre si dirigevano verso l’uscita: il loro era come il canto delle cicale al cui passaggio risvegliavano tutto ciò che avevano tutt’intorno. Vidi quello che Jo mi aveva indicato come Detlev fargli un cenno abbassando il suo cappello verso il basso: ormai era troppo anziano per avere la forza di farsi tutto quel giro a piedi. 

Ammirai anche una serie di persone fare capolino dalle loro tende o alzarsi dalle loro sdraio, recuperare – qualora ne suonassero – qualche strumento ed unirsi all’allegra combriccola. 

 

«Tu sei nuova! Piacere ragazza, sono Cassandra», la bionda che mi si mise a fianco dopo avermi baciato le guance capii essere italiana dal suo accento, oltreché grazie all’intraprendenza con la quale mi si presentò, «Loro, invece, sono Emma e Nicholas, sono londinesi, ma Emma si è trasferita qua in Germania da un po’ di anni a causa del lavoro del padre, stanno spesso con noi», i due ci sorrisero. 

«Piacere mio ragazzi, sono Abigail, tipo la più vecchia amica di Jo!»

«Aspetta Abigail, prendi questa… ed anche questi!», mi disse Emma mettendomi una coroncina di fiori in testa e dandomi in mano dei fili al termine dei quali c’era un pesetto. Mi venne da ridere nell’appurare quanto facilmente quegli elementi potessero rientrare nello stereotipo degli artisti di strada. E forse sarà stato anche così, ma io mi sentii perfettamente a casa in mezzo a quegli sconosciuti che mi trattavano come una di loro che volevano farmi essere parte della loro contentezza. 

 

Eravamo finalmente fuori dal villaggio quando Cassandra urlò ad Adrien e Abbie di suonare un pezzo italiano, proposta che, con mio stupore, accolsero con genuino entusiasmo. 

Così Cassandra prese a cantare: «L’estate che veniva con le nuvole rigonfie di speranza, nuovi amori da piazzare sotto il sole» ed era incredibile perché tutti i presenti – eccetto me – conoscevano quella melodia. Emma e Nick mi presero le mani agitando le loro braccia e si rivolsero verso me cantando in un italiano dal dubbio accento: «Fiorivi, sfiorivano le viole e il sole batteva su di me e tu prendevi la mia mano mentre io aspettavo io teeee»

Jo mi guardò, senza mai smettere di intonare quelle parole che non capivo, ma che mi trasmettevano delle sensazioni di estrema positività. Il sole si poggiava su di noi, così come facevano gli sguardi dei passanti che presto avevano tirato fuori i loro telefoni per riprendere la nostra camminata di felicità o avevano deciso di aggiungersi a noi, lasciandosi coinvolgere non solo dalla musica, ma anche dalla capacità di intrattenimento di Emma e Nick che dopo avevano preso a giocare con i fili facendoli roteare in delle acrobazie che, nella loro semplicità, attiravano l’attenzione di tutti. 

 

Attraversammo il ponte e non appena giunti sull’altra sponda della Sprea, i ragazzi si fermarono lasciando un cappello a terra così da riuscire a raccogliere un po’ di soldi. Io mi assestai di lato, sui gradoni che davano verso il fiume, ad osservare l’incanto dei raggi che si facevano spazio tra le colonne e gli archi dell’Oberbaumbrücke e si riflettevano sull’acqua durante il tramonto. 

Stampato sul cemento una scritta che citava “Stop here, appreciate life for a minute, and smile”: non potei che ubbidire. 

 

Piansi una lacrima, tanto era potente quella richiesta che era sì banale, ma al contempo affatto scontata. Troppo spesso ero stata colta dalla frenesia, dal lavoro, dagli impegni, dal bisogno di fare, fare, fare e fare ancora; troppo spesso ero andata alla ricerca spasmodica delle cose, dimenticandomi di quello che contava e dei piccoli e ordinari dettagli che rendono l’esistenza così memorabile e magica e particolare. Mi ero ripromessa, tempo addietro, di non dimenticarlo mai, ma, alle volte, la vita vera non lascia molto spazio; o almeno: non lo aveva lasciato a me che mi ero completamente scordata.

 

Dopo riprendemmo a camminare, continuando a spargere gioia e amore per le vie, sicuri che in molti ne stessero godendo almeno tanto quanto me. Continuammo a cantare e danzare e giunti ad Alexanderplatz, Emma tirò fuori dalla valigetta che si era portata appresso una piccola piscinetta gonfiabile all’interno della quale, una volta che le fece raggiungere la sua massima dimensione, svuotò una boccetta e qualche bottiglia d’acqua appena riempite in una fontana. 

Nick le passò due aste di legno unite da uno strano e lungo spago che Emma immerse nel composto creato. La giovane aprì le braccia al cielo e subito dopo prese a correre lentamente per la piazza. 

 

Davanti ai miei occhi incantati si aprì uno spettacolo di sfumature viola, gialle e verdognole formato da bolle di sapone che presero a volare e posarsi dolcemente sulle mani dei bambini – e non solo – dal tocco più delicato. 

Immortalai quel momento nel mio telefono e nel mio cuore. Ero tornata a Berlino da solo pochissime ore e ancora un’altra volta si stava prendendo gioco di me e io glielo lasciavo fare, perché ero certa che non potesse esserci sensazione più memorabile ed emozionante di quella che stavo provando in quel momento. 

Negli sguardi avvinti e luccicanti della marmaglia di persone che si trovavano nella piazza in quel preciso istante e in quelli dei miei nuovi e vecchi amici che brillavano di riflesso a quello che erano stati capaci di creare negli altri, lì e solo lì io capii che dovevo cambiare rotta, che c’era qualcosa che mi aveva avvicinato alla scrittura in principio e che era la stessa cosa di cui volevo godere ancora una volta e una volta ancora. 

 

Guardai Josefine avvicinarsi a me sorridente cingendomi una spalla, io le presi il fianco e poggiai la mia testa alla sua spalla. Sentì perfettamente la mia gratitudine.

 

Fiorivi, sfiorivano le rose

E il sole batteva su di me

E tu prendevi la mia mano

Mentre io aspettavo te, mentre io aspettavo te

 

 

 

 

Le scintille del falò scricchiolavano dinnanzi al mio sguardo mentre me ne stavo appollaiata sull’amaca e continuavo a gioire del naturale talento musicale di Jo e Adrien: l’indomani sarei dovuta tornare a casa e io non volevo assolutamente perdermi niente di ciò che potevo cogliere di meraviglioso in quelle ultime ore rimastemi. 

Le loro voci creavano delle armonie che mi facevano rabbrividire al punto da sentire la spasmodica necessità di scrollare le spalle invitandomi a liberarmi delle mie agitazioni. Lui, con quella voce roca e graffiata che tanto mi scioglieva all’ascolto, e lei, col suo fare genuino e sempre capace di ammaliare chiunque le fosse appresso. 

 

I loro melodici canti si inseguivano in una corsa fluida e suadente che andava ben oltre il singolo pezzo che si apprestavano a suonare. Si allontanavo, ricercavano e riacchiappavano, incapaci di scindersi l’un l’altra, quasi fossero un’unica anima spezzata in due corpi che niente poteva se non tornare ad unirsi in una moltitudine di sfumature creatrici di allegria e serenità. 

 

Ogni loro evanescente movimento si disperdeva nell’aria circostante posandosi con dolcezza sugli individui e sulle superfici tutt’intorno; io stessa ne ero stata involontariamente avvolta, venendo trascinata con amichevolezza in quel limbo surreale che il fuoco del loro amore per la vita con estrema facilità andava contagiando ognuno di noi spettatori. 

 

Io non ero un’eccezione: non riuscivo a guardarli senza desiderare ardentemente che quella medesima forza, quella medesima passione, quel calore insito che li aveva spinti ad abbandonare ciò per cui avevano lavorato per anni optando per dedicarsi all’appropriazione di una profondità e un’attenzione per i dettagli più scontati di cui ogni esistenza è inconsapevolmente colma, divenissero anche un po’ miei. 

 

Il loro, forse, era stato proprio questo: un salto nel vuoto inconoscibile che è la vita all’interno del quale concedere gentilezza e armonia senza mai pretendere di riceverne in cambio, perché nulla li avrebbe fatti sentire sereni, appagati e, banalmente, felici quanto il sorriso di uno sconosciuto che per un singolo ed effimero frangente aveva scorto pace in mezzo a un cumulo di impegni e frustrazione.

 

Il tamburello a sonagli che Jo aveva preso in mano al cambio di canzone era ormai divenuto il mio strumento preferito: mi stava chiamando e invitando a ballare. Feci un cenno a Nick, l’inglesotto che da qualche settimana, mi era stato detto, si era trasferito a TeePee Land, affinché mi accompagnasse in quella danza che tutti noi esigevamo di compiere. 

 

Ballai e cantai e mi dimenai, abbandonandomi all’euforia, al piacere e all’incanto, e in mezzo ad un villaggio ricolmo degli estranei più familiari che avessi mai potuto immaginare di incontrare mi accorsi di quanto, nei mesi, avevo perso di vista il punto di riferimento che mi aveva sempre guidata verso i più nuovi e originali orizzonti. 

 

E mentre il fuoco scoppiettava calore e scintille in ogni dove, sulle note dirompenti di una notte berlinese, negli occhi di quei compagni intravidi ancora una volta quelle stessa luce che tanto spesso mi aveva abitato e che io avevo erroneamente e inconsapevolmente messo da parte. L’avevo lasciata sostituire con le abitudini, l’ordinarietà e la serietà della stabilità, ignorando il fatto che fossero cose che potevano tranquillamente coesistere, che non si escludevano a vicenda e che, piuttosto, rendevano la vita meritevole di essere vissuta. 

Perché in fondo non è altro che questo: delle schegge di luce che, solitarie, si addentrano in ogni individuo e lo fanno tremare e gioire e piangere e disperarsi e respirare; delle schegge di luce ed energia che illuminano fin là… proprio dove la notte finisce e albeggia un nuovo giorno.

 

L’indomani sarei tornata a casa, ma non avrei mai davvero abbandonato TeePee Land.

 

 

 

 

 

LOOK AT ME!

Amici, finalmente sono riuscita a pubblicare un altro racconto di questa raccolta nonostante l’ispirazione ben scarseggiante.

In questo caso, ancor più del solito: vi prego di segnalarmi errori e refusi (che temo ce ne siano abba).

 

Entrando nel merito, invece: per la prima volta – capiterà anche in un altro paio di occasioni, in teoria – ecco a voi Abigail! 

Spero che questo primo squarcio su di lei (e Jo e TeePee Land) vi sia piaciuto, questo racconto doveva un po’ spiegare le ragioni che l’hanno portata a scrivere questa raccolta, oltreché darle un minimo di background.

 

Poi qualche specificazione per voi:

- Non sono mai stata a TeePee Land, ma è una realtà esistente che mi è stata più volte raccontata e che ho ritenuto meritevole di essere narrata, spero di averlo fatto nel modo più realistico possibile. Unica specifica: i personaggi che ho descritto sono tutti inventati da me - sebbene li abbia "caratterizzati" a partire dalle descrizioni di persone reali che le mie conoscenze hanno davvero incontrato lì;

- La canzone citata quasi al termine è Sfiorivano le viole di Rino Gaetano, il quale mi ha accompagnato spesso in questa quarantena;

- I cartelli che ho nominato, presenti nel villaggio, erano realmente là, non so se nel frattempo siano stati tolti però;

- La scritta sull’asfalto nei pressi dell’Oberbaumbrücke potete davvero trovarla lì e davvero mi ha fatto commuovere la prima volta che sono stata a Berlino;

- A proposito di Berlino, sappiate che, salvo imprevisti, la ritroveremo anche in altri racconti perché è per me una città molto importante;

- Piccola nota finale: l’aneddoto che ho affibbiato ad Abbie riguardo i soldi spesi al Circolo Culturale Astra (ho tradotto il nome del locale, ma lo si trova davvero a Berlino) è davvero successo a me; il giorno dopo avevo il portafoglio vuoto e un mal di testa lancinante, ma ne valse la pena.

 

Attualmente non mi viene in mente altro, se non ringraziare Dark Sider per aver indetto questo contest e _Mhysa_ per il genere/prompt, perché mi hanno in qualche modo aiutato a concludere questo racconto che era in bozza da diverso tempo.

Purtroppo, non sono particolarmente soddisfatta del risultato, ma in questo periodo di magra temo di dovermi accontentare.

 

Grazie a chiunque vorrà passare da qua

 

Bongi

 

   
 
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