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Autore: paige95    11/05/2020    13 recensioni
La guerra in Afghanistan è il filo rosso che lega il destino di due uomini e due famiglie, due mondi distanti che non sanno di essere molto vicini tra loro.
Nell'estate del 2018, in pieno conflitto, il tenente comandante dei Navy SEALs Christian Richardson e l'inviato speciale del Los Angeles Times Samuel Clark verranno chiamati al fronte, lasciandosi alle spalle vissuti, affetti e i vasti territori californiani.
[Questa storia partecipa al contest "Chi ben comincia è a metà del prologo" indetto da BessieB sul forum di EFP]
Genere: Angst, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Destino'
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La collisione delle stelle

 
 
 

Edwards Air Force Base, Stato della California; 17 agosto 2018
 
Christian era stato costretto a salire senza troppi convenevoli su un Boeing C-17A Globemaster III. Un velivolo che, nella metà del tempo di un qualsiasi aereo di linea, lo avrebbe trasportato sul suolo afghano.
Il Navy SEAL era sempre stato un uomo molto riflessivo. Era appartenuto fin dall’adolescenza alla schiera di quelle persone il cui passato non le abbandonava mai, ad eccezione di quei rari momenti di gioia che solo la sua famiglia era in grado di donargli. Sua moglie e sua figlia non sarebbero state al suo fianco per infondergli spensieratezza, stavolta sarebbe stato da solo con la triste compagnia dei fantasmi del suo passato.
Non appena mise piede nello stretto abitacolo, si accorse che l’interno di quell’aereo era ben distante da tutti quei mezzi volanti in cui fu costretto a volare in compagnia di soldati semplici, come un tempo era stato anche lui.
Prese un lungo respiro, incanalò quanto più ossigeno possibile e superò l’ultimo gradino, sfiorando con la punta delle dita le pareti rigide.
Fu il preludio di ciò che lo avrebbe atteso in guerra. Si sarebbe dovuto scordare per mesi del paesaggio sublime della sua California, intorno a lui in quel frangente campeggiava solo un ammasso di fredda lamiera che ispirava negatività.
Come era solito fare nei momenti più difficili, lasciò che il ricordo dell’ultimo viaggio tra i cieli invadesse la sua mente: non erano passati molti mesi, Alisia aveva avvertito il disagio del papà e aveva trascorso buona parte del volo con la manina intrecciata alla sua.
Christian si lasciò irradiare dalla reminiscenza di quel dolce contatto. Nulla, però, era come allora, quando aveva l’ingenua percezione che la protezione di una bambina di soli sei anni potesse curare tutte le sue fragilità. Il contesto era totalmente diverso, stavolta non era partito per le vacanze di Natale verso l’Europa in compagnia della sua famiglia, l’unica compagnia a cui in quel momento potesse aspirare era la sua arma di guerra, quella data in dotazione a qualunque Navy SEAL che prestasse servizio via mare o via terra.
Nella fondina all’altezza del femore spuntava la guancetta di una Sig Sauer P226 MK25. Aveva imparato a sparare appena maggiorenne al poligono di tiro The Gun Range a San Diego con armi di calibro inferiore. Quella di sua proprietà non vedeva polvere da sparo da diverso tempo ormai e l’ultima volta l’aveva caricata a salve per guidare l’esercitazione del suo plotone nella base militare del Coronado insieme all’ufficiale Hernandez.
Non aveva mai avuto la necessità di puntare la sua pistola munita di bossoli reali contro un essere umano né per attacco né per legittima difesa. Non era votato all’omicidio e di certo non aveva tra i suoi uomini la reputazione di tiratore scelto; dubitava di essere l’opzione migliore in un’azione di guerra senza esclusione di colpi.
Mentre Christian era alla ricerca di un posto comodo in cui sotterrarsi per le successive tredici ore, non poté fare a meno di pensare alla base di cui gli era stato affidato il comando negli Stati Uniti e che ora era nelle mani esclusive del tenente Hernandez. Era un uomo in gamba con anni di esperienza, un collega del quale avere fiducia nel corso di qualsiasi missione. Lui avrebbe coperto le spalle anche a costo della sua stessa vita; un approccio al lavoro che spesso non era gradito alla sua famiglia. In diverse occasioni in mare aperto si era premurato di accettare i compiti più rischiosi, specie da quando Christian era diventato padre. Era consapevole che quel temerario uomo di mezza età non si sarebbe mai sottratto alle responsabilità, anche da solo alle prese con un plotone di Navy SEALs, ciò, paradossalmente, lo rendeva più esposto al pericolo di quanto non lo fosse Christian in pieno conflitto armato.
Il capitano aveva adocchiato un angolino stipato accanto ad una piccola finestrella circolare. Era fiducioso che scorgere il cielo e il panorama gli avrebbe fatto avvertire meno la pressione del volo sui nervi.
Era stato costretto a riempire il caricatore della sua arma con proiettili. Si assicurò di inserire la sicura almeno durante il viaggio; convivere con una bambina lo aveva reso molto prudente. Era certo che in territorio afghano sarebbe stato rifornito di armi diverse, leggere ma molto più offensive di una semplice pistola calibro 9x21. Sapeva che non gli avrebbero risparmiato nemmeno le armi più pesanti, le stesse in fondo che erano nelle mani dei nemici giurati dell’Europa e degli Stati Uniti d’America.
Mentre Christian ultimava con attenzione e delicatezza quella procedura, onde evitare che sfuggisse un colpo al suo controllo all’interno dello stretto abitacolo, intravide i piedi uniti e le gambe tese di un uomo alla sua sinistra. Quando alzò lo sguardo su di lui, scorse un giovane aviere che in prossimità del berretto sfoggiava il saluto militare con tutto il rispetto che gli era stato insegnato verso un suo superiore.
«Signore, siamo quasi pronti al decollo. Il sergente Jones le raccomanda di allacciare le cinture»
«Ringrazia il sergente Jones per le premure, ragazzo. Tengo alla mia pelle»
Il volto del giovane non si era ammorbidito, era rimasto impassibile alla battuta del capitano. Con un distinto colpo di tacco si era congedato, lasciando Christian da solo a lottare contro funi che avrebbero accentuato la sua fobia.
Era stato addestrato per affrontare qualsiasi circostanza stressante. Al tipo di psicosi di cui lui soffriva dall’adolescenza, però, non vi era modo di abituarsi e non esisteva nemmeno una qualche tecnica di difesa, se non farmaci che Katherine si premurava di raccomandargli e che lui da buon testone rifiutava nella maggior parte delle volte.
Si premurò che i tre ancoraggi delle cinte fossero ben fissati tra loro, come se in caso di avaria al motore ciò avrebbe potuto salvargli la vita; d’altronde così non era stato per i suoi genitori.
L’aereo in fondo era solo uno dei tanti pericoli a cui sarebbe andato incontro nei mesi successivi. Il cuore fremeva sempre e solo per il dolore che avrebbe inferto a sua moglie e a sua figlia una sua eventuale dipartita.
La fobia e i conseguenti attacchi di panico non erano il risultato di una reale paura del volo, ma di un trauma vissuto che gli aveva strappato i genitori e la serenità della sua giovinezza. Per anni gli incubi si erano impossessati delle sue notti solitarie, erano penetrati nella sua mente, facendogli desiderare più volte di essere morto con loro a bordo di quel volo di linea.
Non gli erano rimasti altro che un paio di nomi su una lapide di marmo e due bare vuote sotto terra, a cui portare un fiore fresco ogni settimana; confidava che in sua assenza Katherine non se ne dimenticasse.
Quando un funesto destino travolse la vita della famiglia Richardson, Christian era appena diventato maggiorenne secondo le leggi dello Stato della California. La sua giovane età non gli aveva consentito di manifestare il coraggio per partecipare al processo che vedeva come parte accusata quella compagnia aerea, prontamente denunciata dai familiari delle vittime di quel disastro. Aveva ricevuto un misero risarcimento che non valeva nemmeno lontanamente la vita dei suoi genitori e un’esistenza segnata in modo indelebile.
Neppure anni di terapia avevano sortito l’effetto sperato. Gli incubi non erano stati vinti grazie ad un gruppo di auto-mutuo aiuto composto da persone che non erano riuscite in autonomia a rielaborare un grave lutto. La vera svolta per la sua vita era sopraggiunta con Katherine, perciò senza lei e in mezzo ad una guerra non aveva idea di come avrebbe potuto reagire, di nuovo, la sua fermezza.
Ricordava fin troppo chiaramente l’orrore che ormai da anni si stava perpetrando in Medio Oriente e dubitava che la situazione a distanza di quasi due lustri avesse assunto fattezze più liete.
Il Navy SEAL recuperò il cellulare e si accertò che fosse inserita la modalità aerea. Tredici ore consecutive senza avere la più piccola notizia della sua famiglia lo gettava nello sconforto, ma per i prossimi nove mesi quella sarebbe stata una loro triste abitudine.
Oltre il vetro simile ad un oblò, le cui caratteristiche offrivano un’immagine leggermente distorta della realtà, molti uomini dell’aeronautica militare sfilavano sulle passerelle, prendevano voli verso l’ignoto oppure facevano ritorno sul suolo amico dopo un lungo soggiorno lontano da casa.
Inconsapevole, aveva iniziato a giocherellare con la fede che pendeva al suo collo. I suoi pensieri vennero nuovamente interrotti da passi felpati che, se avessero potuto parlare, avrebbero senza dubbio domandato venia per il disturbo.
«Scusi. È occupato?»
Christian si voltò in direzione di una voce intimidita: era un giovane uomo vestito in abiti civili.
L’ufficiale interpretò la sua soggezione a causa della divisa che indossava.
«Ragazzo, è un aereo privato. I posti non sono prenotati»
Visto l’impatto che aveva sortito sul giovane, preferì non infierire con i formalismi; lui per primo non ne era mai stato un gran fautore, specie da quando era stato elevato al grado di tenente capitano. Si rivolse a lui con un sorriso e una battuta che non aveva la più vaga aria del rimprovero.
A Christian non sfuggì il tesserino che il suo compagno di viaggio mostrava all’altezza del petto; da esso riuscì a conoscere con facilità l’identità e la professione del ragazzo.
Samuel si accomodò sullo scomodo sedile in imbarazzo, anche se ad essere più scomoda sembrava essere la sua posizione da civile fuori sede. Da esperto osservatore quale era, trovò opportuno prendere spunto dal militare al suo fianco, così si premurò di recuperare le cinghie della cintura e di allacciarle nel modo corretto; non ci teneva ad essere redarguito per ogni singolo errore che nei mesi a venire avrebbe certamente commesso sul campo.
Si ripromise di non fiatare più per tutto il tragitto, lungo o breve che fosse, onde evitare di commettere qualche altra gaffe. Peccato che la naturale curiosità di Samuel non gli consentì di tacere come si era ripromesso; quel tratto, distintivo di ogni giornalista che si rispettasse, era da sempre parte integrante della sua personalità.
«È un ufficiale? La sua divisa non sembra quella di un soldato semplice. Indipendentemente dalla forza armata a cui lei appartenga»
«Dimostro così tanti anni? Guarda che non ne ho compiuti ancora nemmeno quaranta»
«Come?»
«Continui a rivolgerti a me in modo formale. Non è necessario. Anche perché qui dentro siamo soli e penso che lo resteremo per ore, tanto vale instaurare un dialogo. Sì, sono un tenente comandante della Marina Militare. È la prima volta che prendi un volo per l’Afghanistan e fai un reportage laggiù, Samuel?»
Il ragazzo rimase spiazzato. Aveva informazioni che lui non aveva trasmesso a quell’uomo e ciò era inquietante.
Christian non poté fare altro che lasciarsi sfuggire un sorriso, stavolta più accentuato rispetto al primo. Indicò a Samuel il tesserino che aveva appuntato alla stoffa leggera della camicia, sperando che fosse sufficiente per sciogliere la tensione che trapelava dagli occhi del giovane fissi su di lui.
«Sì. Scusi…scusa. Di solito non sono così imbranato, tanto da non ricordare di avere il mio nome quasi stampato in fronte. Sono un po’ nervoso per quello che mi attenderà. È un salto nell’ignoto, spero di non schiantarmi al suolo»
Fu Samuel a regalargli un sorriso poco convinto. Christian conosceva il tipo di nervosismo della prima volta. Era triste, però, pensare che quella sensazione di ansia accompagnasse anche la seconda e probabilmente la terza.
Non era il momento giusto per rivelargli la cruda realtà della guerra, avrebbe solo reso più insopportabile il tragitto che li separava dal campo di battaglia.
«Ti chiami Clark, come il direttore del Los Angeles Times?»
«Sì, proprio lui. Sono suo figlio»
Non vi era la più piccola nota di orgoglioso o di entusiasmo nella voce del ragazzo; forse anche quello era un argomento poco conveniente da sfiorare.
Per quanto le cinture consentissero all’ufficiale di protendersi verso Samuel, gli allungò la mano destra per accorciare le distanze tra loro; un tentativo che il più giovane apprezzò.
«Christian Richardson. Ma puoi chiamarmi Chris, se ti fa piacere»
«Grazie»
L’affabilità del capitano fu d’aiuto. Si sentì meno un pesce fuor d’acqua.
Qualcuno, anche se non indossava una divisa, lo stava trattando come un suo pari e non sembrava nemmeno avere ribrezzo per l’ambiente giornalistico, come invece provavano molte persone, accusando i cronisti di essere invadenti.
«Allarmarsi prima del tempo è controproducente. Prova a non pensare alla destinazione, almeno fino a che non saremo arrivati»
«Sei pratico di guerra, vero?»
«Diciamo che non vado in guerra tutti i giorni. Presto il mio servizio nell’Oceano Pacifico del Nord. Mi hanno richiamato al fronte, perché hanno alcune grane a collegarsi con l’ospedale militare nel centro di Kabul. Pare sia sotto assedio dei militanti talebani. Non l’ho detto a mia moglie, non volevo che mi immaginasse in una missione specifica, in cui con molte probabilità potrei perdere la vita. In realtà, sei la prima persona con cui ne parlo all’infuori dei miei superiori e non so se sia prudente informare un giornalista di una missione segreta»
Samuel gli aveva infuso fiducia, escludendo dal principio che potesse essere un nemico della patria; aveva perciò condiviso con ingenuità informazioni militari che non era ancora il tempo di diffondere tra i cittadini americani attraverso un quotidiano di divulgazione pubblica.
«Puoi stare tranquillo. Non sono esperto, non mi intendo di missioni militari. Sei sposato, ho capito bene? Hai figli?»
«Una bambina di sei anni. Tu?»
«Mi sarei dovuto sposare la prossima settimana»
«L’hai mollata sull’altare?»
L’aereo iniziò a percorrere la pista di volo procedendo con lentezza, dando modo alla scaletta e ai carrelli di rientrare.
Samuel non rispose all’evidente provocazione di Christian. Sapeva che era la verità, ma non eluse la domanda impiegando malizia, fu piuttosto il movimento del mezzo su cui si trovavano a distrarre entrambi.
«Stiamo decollando»
«Me ne sono accorto»
«Non hai una bella cera, tenente. Mal d’aria?»
La curiosità del giornalista irritò Christian per la prima volta da quando si conoscevano. Stava male e gli mancava il fiato, non aveva abbastanza ossigeno per spiegare a Samuel le psicosi che lo tormentavano da ventitré anni.
«È qualcosa di più. Dovrei prendere dei calmanti, ma sono restio agli psicofarmaci»
L’ufficiale estrasse il telefono, quanto bastò per leggere l’ora attuale in California sul display. L’aereo era partito puntuale come un orologio svizzero.
«Non sono sicuro che prenda la rete ad alta quota»
«Lo so e non ha alcun senso chiamare mia moglie per allarmarla del mio malessere. Sa che sono partito ed è sufficiente. Lei è l’unica, insieme a mia figlia, che saprebbe infondermi tranquillità e placare i sintomi senza il ricorso ai farmaci»
Le parole morirono nella laringe di Christian. Biascicava le ultime sillabe, era affannato, ma nonostante tutto cercava di celare la sua sofferenza fisica.
Samuel temeva di dover assistere impassibile ad una crisi respiratoria.
«Posso aiutarti in qualche modo?»
«Temo di no»
Il reporter lo vide slacciarsi la divisa sul petto, allentare il nodo della cravatta nera e sganciare i primi bottoni della camicia candida. Sotto la visiera rigida del cappello da ufficiale la fronte era madida di sudore, così come qualche ciuffo di capelli che sfuggiva al controllo del suo proprietario.
«Sono tredici ore di volo. Non puoi affrontarle in questo stato»
«Tranquillo, non è la prima volta che mi capita. Non riesco più a prendere un aereo in serenità da diversi anni. Non peggiora, te lo garantisco»
Samuel lo fissò impotente e preoccupato. Christian era pervaso dal tremore in preda alla tachicardia.
Il ragazzo decise di distrarlo dai sintomi del malessere, le parole erano l’unica medicina che avrebbe potuto sfruttare.
«Sì, ho mollato la mia fidanzata sull’altare. Ma non perché non l’amassi. Non è un buon biglietto da visita, me ne rendo conto. Non ho l’aria di una persona molto affidabile»
Riuscì a strappare a Christian un sorriso sofferente. Erano chiari i sensi di colpa di quel ragazzo, non solo le sue azioni discutibili.
Samuel si sporse verso il finestrino, avvicinandosi al capitano. Sentiva il soffio caldo e concitato del respiro dell’uomo sul collo, come se fosse reduce da una folle corsa. Si sorprese scoprendo che stavano già sorvolando la Big Apple. Il metallo dorato della fiaccola appartenente alla Statua della Libertà brillava sopra il fiume Hudson, era travolta dal sole pallido di fine agosto.
«Intravedo New York»
«Dove vivono quelle serpi velenose dei miei suoceri»
Il pensiero dei genitori di Margaret irruppe con prepotenza nella mente di Samuel. Non era certo che i signori Allen gradissero ancora che diventasse loro genero, il suo gesto aveva quasi sicuramente tradito la loro fiducia.
«Hai bisogno di un po’ d’acqua?»
Samuel aveva appena riconquistato il suo posto sul sedile; le cinghie della cintura tiravano troppo per restare a lungo in quella posizione.
Incrociò l’espressione di Christian persa nel vuoto. Declinò con un cenno del capo la sua offerta. Era concentrato e impegnato nel tentativo di regolarizzare il suo respiro, sempre affannato ma stabile nella sua disfunzionalità.
«Sicuro di poter affrontare una guerra in questo stato?»
«Sicuro. Ora mi passa, quando scenderò dall’aereo questa crisi sarà solo un ricordo»
«Parlami di tua figlia. Mi hai detto solo che ha sei anni»
Era grato a Samuel per aver sfiorato un argomento così lieto, che avrebbe giovato al suo cuore in preda alle palpitazioni.
Con un leggero tremore, Christian recuperò dal taschino esterno della sua divisa il disegno che custodiva come se fosse ricoperto d’oro e lo porse al ragazzo. Per l’ufficiale quel disegno era la prova tangibile che il cielo non riservava solo dolore, ma anche meraviglia. La sua bambina glielo sapeva dimostrare con ingenuità infantile.
«È di mia figlia Alisia. Tra qualche settimana inizierà la scuola. Mi sarebbe davvero piaciuto essere al suo fianco»
Samuel si era distratto e aveva immerso lo sguardo tra i tratti delle matite colorate che quella bambina aveva utilizzato per realizzare quel disegno.
Solo un pensiero invase la sua mente: Margaret gli aveva esplicitato il desiderio di formare una famiglia con lui e forse nel corso dell’ultima Notte di San Lorenzo che avevano trascorso insieme, lo aveva espresso ad una di quelle stelle cadenti, come quelle che Alisia aveva disegnato sul foglio. Erano quelli i momenti in cui il giornalista sarebbe saltato giù da quell’aereo e sarebbe corso da lei, attendendo il suo arrivo sotto l’altare. Per fortuna quel gesto estremo gli era precluso, non desiderava morire prima di sposarla.
Riemerse dalla realtà parallela in cui si era inoltrato e restituì il disegno al legittimo proprietario con un mezzo sorriso.
«Non deve essere stato facile lasciare la tua famiglia»
«No. So che se la caveranno anche senza di me, ma essere loro accanto è tutt’altra storia»
Christian si stava affaticando. La sua voce era diventata un rantolo strozzato e l’unico modo per farsi comprendere con nitidezza era sussurrare.
«Forse dovresti provare a riposare. Il tempo passerebbe più velocemente prima dell’atterraggio»
Il Navy SEAL socchiuse le palpebre e appoggiò la nuca contro la spalliera del sedile, provando a riscoprire la pace dei sensi.
«Se solo ascoltassi più spesso mia moglie…con l’aiuto degli ansiolitici a quest’ora starei già meglio»
 
 
 
 
Base aerea di Bagram, Afghanistan; 18 agosto 2018 (ora locale)
 
Christian e Samuel erano atterrati alla base aerea di Bagram, un comando statunitense situato poco a Nord rispetto a Kabul.
I due uomini non ebbero altra scelta che separare le loro strade, non appena ebbero messo piede sul suolo afghano. Al più giovane dispiacque dover salutare Christian, avevano condiviso un lungo viaggio e l’ufficiale continuava a mostrare in viso un pallore preoccupante, che lui sminuì al momento dei saluti; non desiderava infondere a Samuel ulteriori apprensioni.
Si erano raccomandati prudenza e si erano lasciati con la speranza di incontrarsi presto. Scherzando, Samuel minacciava di includerlo in qualche sua telecronaca, se mai un giorno lo avesse intravisto fuggire dalle bombe. Si erano salutati come vecchi amici. Avevano condiviso tredici lunghe e intense ore tra timori e tremori, molto più di quanto molti amici, o presunti tali, non condividevano nell’arco di una vita intera.
Appena sceso dall’aereo, una folata di aria bollente investì le membra già accaldate dell’ufficiale.
Nell’esatto istante in cui Samuel e Christian salirono su mezzi di trasporto diversi, quest’ultimo perse di vista l’altro. La destinazione del Navy SEAL era la base militare statunitense situata alle porte di Kabul, che avrebbe raggiunto con una delle tante jeep militari in dotazione alle truppe americane.
Lui e il suo accompagnatore, un soldato semplice che per l’occasione fungeva anche da autista, in poco più di un’ora e mezza raggiunsero la capitale. La 4x4 si fermò appena prima di valicare i confini di Kabul.
Il primo dettaglio che saltò agli occhi esperti dell’ufficiale fu una torre di controllo che ostentava con orgoglio la bandiera degli Stati Uniti d’America, posta lì per dare in ogni occasione uno schiaffo morale ai talebani, e il filo spinato che si estendeva lungo tutto il perimetro della struttura. Christian si era sempre chiesto se all’interno di quei cavi scorresse elettricità, non aveva mai osato testarlo sulla propria pelle e si augurava che a nessun civile fosse venuta un’idea così malsana.
Il resto dell’edificio era fatiscente. La maggior parte delle vetrate era rimasta vittima del tritolo dell’ISIS. Sembrava un’abitazione fantasma abbandonata da anni, non un quartier generale nel quale gli americani impegnati sul campo prendevano importati decisioni, che incidevano pesantemente sulle sorti di quella guerra sanguinosa.
Essere patriottici non includeva anche l’entusiasmo di ritrovarsi tra quelle quattro mura inzuppate di umidità. Vivere in territori bellici era tutt’altro che comodo. Alloggiare per mesi senza il progresso della civiltà occidentale non era facile e a questo si aggiungeva la consapevolezza che ogni giorno la loro base potesse diventare bersaglio dei nemici. Vivere nove mesi con il pensiero che ogni missione, ma anche ogni notte e ogni giorno nell’unico apparente rifugio, potesse essere testimone del suo ultimo respiro metteva una certa pressione sul cuore.
Il triste richiamo al passato che quel luogo tetro suggeriva a Christian venne interrotto dall’arrivo di tre figure che l’ufficiale appena giunto in Afghanistan riconobbe dalla peculiarità delle loro divise: un generale dell’esercito americano si muoveva nella sua direzione con passo cadenzato ed era in compagnia di due sottotenenti.
Christian si avvicinò a loro, lasciando indietro l’autista, e si incrociarono a metà strada. L’ultimo arrivato venne accolto con estremo orgoglio. I due sottotenenti rimasero nella posizione dell’attenti, mentre il soldato di grado superiore gli rivolse un saluto militare, sfiorando con la punta delle dita della mano mancina la visiera rigida del proprio cappello. Era più anziano di lui, forse avrebbe potuto avere l’età di suo padre se fosse stato ancora in vita; di sicuro il velo di barba bianca sulle guance non era sinonimo di gioventù.
«Capitano Richardson. Siamo onorati di averla tra noi»
«Grazie»
Christian gli rivolse un mezzo sorriso. Era davvero grato per l’accoglienza che gli avevano riservato, ma preferì ricambiare il saluto con una semplice stretta di mano. Non era particolarmente incline alle lusinghe.
«La sua fama la precede, tenente. Abbiamo voluto fortemente che fosse lei a guidarci e a consigliarci»
Ma che fortuna, pensò Christian. Non sono un eroe, sono solo un padre di famiglia che ci tiene a rivedere i propri cari.
Mantenne quei pochi e scettici pensieri sigillati nella propria mente e seguì il generale verso l’entrata oltre il filo spinato, anch’essa fatiscente, del quartier generale.
Uno dei due sottotenenti fece gli onori di casa e lasciò all’ufficiale della Marina la porta aperta, posticipandolo. All’istante un odore acre si infilò nelle narici del Navy SEAL fino a giungere nella laringe, provocandogli qualche colpo di tosse.
«Qui non siamo soliti fare uso di deodoranti per ambienti, capitano. Ricorda?»
Non era facile dimenticare. Poiché non aveva il potere di ordinare ai suoi polmoni di smettere di incamerare aria essendo muscoli involontari, ogni volta quel luogo fetido gli provocava la stessa reazione.
Una lampadina, collegata all’estremità inferiore di un filo scoperto pendente dal soffitto, penzolava su un tavolo marcio, logorato dai ratti.
Quando Christian fu abbastanza vicino all’allestimento di quella riunione di fortuna, notò che sulla superficie di legno era dispiegata una cartina di Kabul. La riconobbe subito ed iniziò a realizzare a pieno quanto fosse lontano da casa; non appena scorse quel fitto agglomerato di strade, che a piedi o su un mezzo a quattro ruote aveva percorso tante volte.
«Se per lei va bene e non è particolarmente stanco dal viaggio, le mostro subito gli itinerari che abbiamo progettato per la missione»
Più che stanco era sconvolto, un lenzuolo era meno candido di lui.
Per quanto avesse cercato di dissimulare davanti a Samuel, il ragazzo a ragion veduta se ne era accorto. In fondo quel giornalista era l’unico ad aver assistito al suo malessere, altri sconosciuti non avrebbero mai potuto immaginare l’inferno che aveva attraversato durante il volo.
Un altro paio di soldati non decorati erano accostati ai lati del tavolo e lo salutarono formalmente. Erano molto giovani. Aveva la loro età, quando mise piede su quel terreno polveroso per la prima volta, anni prima della missione che lo rese così celebre tra i militari. Chissà se si erano resi disponibili volontariamente per affrontare la messa a punto di un’ennesima azione suicida. Era proprio il caso di dirlo, non erano molto distanti dalle idee perverse dei kamikaze.
«Comodi, comodi»
Dopo aver invitato i due militari a cessare i convenevoli, si tolse lui per primo il cappello e lo posò nell’angolo, in uno spazio non occupato dalla cartina.
Uno dei soldati di grado inferiore tra i presenti, il più giovane dei due, prese la parola.
«Signore, abbiamo già perlustrato la zona rossa della città grazie all’aviazione della base aerea di Bagram, dove il suo aereo è atterrato. Dalla nostra base militare fino all’ospedale del centro però ci vuole…»
«…più di mezz’ora di auto. Sì, lo so. In quel tragitto si è troppo esposti, se non si prendono misure di sicurezza accettabili»
Il generale intervenne con fervore.
«È per questa ragione che abbiamo richiamato lei. Hanno in ostaggio un intero nosocomio, tra i cui feriti si trovano civili ma anche nostri soldati. Minacciano una strage ed è tutto confinato. È diventato loro territorio, intorno a cui hanno innalzato mura umane. Capitano Richardson, ha sventato un attacco terroristico in passato. Lei sa come ragionano, sa come si muovono. È in grado di intercettare un agguato, prima che muoiano centinaia di nostri commilitoni»
Non lo sapeva fare, no.
Christian era appoggiato con i palmi a quel tavolo in cerca di un supporto. Lo stress fisico ed emotivo delle ultime ore lo stava esaurendo. Rivolse lo sguardo al suolo in preda ad una crisi di nervi. La soluzione non era scritta nella polvere di cui era fatto quella sottospecie di pavimento.
«Non so entrare nella mente di un esercito armato di terroristi. State riponendo in me troppa fiducia»
L’ufficiale veterano non voleva infierire sull’evidente malessere dell’uomo, ma il tempo non era loro favorevole, come non la era l’indole collerica e risolutiva dei Talebani.
Il militare si avvicinò a lui e cercò di modulare il tono della voce, che diventò sottile ma rimase fermo. Era intenzionato a ribadire la gravità della situazione.
«Comandante. Non possiamo più aspettare. Stiamo parlando di una terra di fuoco che ha al centro un ospedale con migliaia di ricoverati che rischiano di morire se non ricevono cure adeguate, compresi i nostri connazionali. Ci sono attacchi giornalieri, i civili muoiono di continuo intorno alla zona rossa»
«Lo so, conosco la guerra. Ma ho bisogno di fare mente locale»
«Non abbiamo più tempo! Ufficiale, stiamo perdendo uomini nel tentativo di raggiungere quella zona. Ho interrotto le spedizioni per impedire che un altro soldato della mia unità perdesse la vita. Hanno eretto barriere umane per impedire di raggiungere l’ospedale. Ci sparano a vista. Incrociamo granate sul nostro cammino. Ho fermato tutto nell’attesa del suo arrivo, ma non significa che i civili nelle loro mani non stiano continuando a morire…non arrivano rifornimenti medici»
Christian si stava sforzando di elaborare un pensiero, di mantenersi lucido. Comprendeva la gravità, ma non era sufficiente al suo cervello per trovare una soluzione pronta all’uso.
«Non riesco dopo un viaggio di tredici ore a pensare. Dovete concedermi qualche minuto»
Recuperò il suo cappello e troncò bruscamente la conversazione.
Nel cortile della base, cercò di inalare quanta più aria possibile, anche se era rovente, specie quando giungeva nei bronchi.
Recuperò il cellulare e tolse la modalità aerea. Non aveva chiamate perse o messaggi non letti; sua moglie attendeva con pazienza, come le aveva chiesto di fare. Non aveva avuto modo neppure di avvisare la famiglia del suo arrivo a destinazione.
Katherine era sicuramente sveglia e in pena, anche se a San Diego era passata già da un paio d’ore la mezzanotte. Preferì lasciarle un semplice messaggio. Se l’avesse chiamata, lei si sarebbe accorta del suo malessere dal tono di voce e la testa di Christian non necessitava anche dell’ansia di quella donna, stava già scoppiando dopo l’esperienza appena vissuta in aereo.
 
Tutto bene. Sono arrivato. Ti amo. A presto.
 
Non fece in tempo a riporre il telefono nell’uniforme, che iniziò a squillare, ad illuminarsi ed infine il nome della moglie comparve sullo schermo.
«Kathe»
«Chris, mi senti?»
«Ti sento, amore»
Per entrambi la voce del coniuge risultò lontana, flebile e a tratti assente.
Come il Navy SEAL aveva previsto, a lei non sfuggì il suo umore.
«Cos’hai?»
«Niente. Tesoro, devo andare. Ti lascio dormire. Buonanotte»
Katherine indugiò a rispondere. Aveva atteso sue notizie, aveva bisogno di sentirlo come se fosse aria fresca e lei stesse affogando nell’arsura.
«Ricorda il nostro appuntamento giornaliero»
«Ci sentiamo più tardi. Un bacio ad Alisia»
Fu Christian a riattaccare. Gli faceva male sentirla così lontana, sapere che lei senza lui non riposava; ricordare che il cielo a San Diego era tinto di un altro colore, da lei la luna dominava la terra, a Kabul il sole riscaldava la giornata.
Rivolse uno sguardo a quel cielo. Era quasi tutto coperto da nuvole bianche, tranne uno spiraglio inondato di raggi che creava un riflesso quasi sovrannaturale. In effetti era inverosimile che lui si trovasse lì, di nuovo.
 
Non ti ho mai chiesto nulla. Non me la sono presa con te quando mi hai lasciato solo, quando me li hai portati via. Ma ti supplico, non lasciare che la mia bambina provi il mio stesso dolore. Lasciami tornare a casa sano e salvo. Ricordati di Katherine e di Alisia, hanno bisogno di me. Vivo solo per loro.
 
Ripose il cellulare, rimise il cappello e rientrò per proseguire l’intensa riunione al quartier generale.
Era un uomo di parola in fondo, aveva chiesto solo qualche minuto per fare mente locale e così era stato.
 

Buongiorno, cari lettori e care lettrici!
 
Nel prossimo capitolo seguiremo Samuel nel suo primo approccio con l’Afghanistan e il Medio Oriente. Mi sono dilungata fin troppo in questo capitolo, non mi sembrava il caso di aggiungere altro alla trama.
Vi ringrazio davvero di cuore per continuare a seguire questa storia (è più un esperimento per la verità). Dedico un ringraziamento speciale a tutti coloro che mi hanno lasciato un riscontro positivo per me totalmente inaspettato, ma che mi ha motivata tantissimo. ❤️

Alla prossima!
Un abbraccio,
Vale
   
 
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