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Autore: _Lightning_    11/05/2020    1 recensioni
Con il Giorno della Promessa all'orizzonte, Roy Mustang si ritrova a pensare sempre più spesso a Ishval, ai propri errori, e a cosa gli ha lasciato quel luogo se non ricordi dolorosi e sensi di colpa. Si imbarca così in una lunga reminiscenza con l'aiuto di Riza, fidata compagna di vita, nel tentativo di mettere finalmente a tacere i demoni che gli mordono la coscienza.
Dal prologo: «C’è qualche problema, Colonnello?»
È formale, distaccata, anche se siamo soli. Una pantomima sterile e autoimposta, affinata con gli anni.Non possiamo cedere, mai, nemmeno nel buio cieco di un vicolo dimenticato, o finiremmo per tradirci alla luce del sole con mille occhi intenti a scrutarci. L’abbiamo concordato in silenzio, che è ciò che di solito parla tra noi. Per questo adesso mi sento quasi un profano a romperlo, a voler trasmutare in parole ciò che mi passa per la testa. Ombre dense, a cui non dovrebbe mai essere data forma.
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Maes Hughes, Nuovo personaggio, Riza Hawkeye, Roy Mustang | Coppie: Roy/Riza
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Parte III

Ad occhi chiusi
 “Tutti andavano avanti zoppi; tutti ciechi;
ubriachi di fatica; sordi anche ai sibili
di granate stanche, distanziate, che cadevano dietro.”

[Dulce et decorum est – W. Owen]



.1.
 
 
 
 
 
 
 
 
21 Maggio 1908
Rione di Nasha, Ishval
14:30
 
Un colpo di mortaio esplode a pochi metri da noi. Sento la terra e il pietrisco graffiarmi il volto anche se sono accucciato dietro a un muretto mezzo abbattuto. Mi appiattisco contro i fragili mattoni d'argilla con le orecchie che fischiano, cercando di offrire meno bersaglio possibile, e aspetto che una raffica di proiettili voli sopra la mia testa prima di arrischiarmi a sporgermi oltre l'angolo per valutare la situazione.

I guerriglieri non cedono posizione, ben barricati in un palazzo diroccato a tre piani dimezzato dalle bombe. Ci tengono in scacco da quasi un'ora, grazie a una trappola semplice ma efficace che ci ha messi a ferro e fuoco nella piazzetta antistante. Una parte della squadra che ci ha gridato aiuto è bloccata in una stalla pericolante, proprio sotto le finestre che i cecchini usano come postazione di tiro. Impreco tra i denti, col respiro accelerato che mi si condensa nella gola irritata. Potrei usare le mie fiamme, ma questo è un tiro rischioso: il minimo errore, e potrei bruciare vivi i miei commilitoni intrappolati, o rischiare di far crollare loro addosso la stalla per il contraccolpo. 

Cerco di pensare velocemente a un piano B, ma stanno accadendo troppe cose insieme. L'unica considerazione coerente che affiora nella mia testa in tumulto è che gli addestramenti non ci hanno preparato a questo. E adesso m
i maledico per aver speso più tempo sulla potenza della mia alchemia, piuttosto che sulla sua precisione. Un proiettile mi sfiora, seguito dai suoi compagni che si abbattono poco sopra di me,scheggiando l'angolo del muro, e mi ritiro all'istante, col fiato corto e un’escoriazione sullo zigomo. Un centimetro più a destra e mi avrebbe perforato la tempia. Addio Alchimista di Fuoco, e con lui la squadra.

Mi do uno scossone mentale, isolando la sensazione viscosa del sangue che cola lungo la guancia, e giungo, coi pensieri che si rincorrono, all'unica via d'uscita da questa situazione. Rischiosa, ma praticabile. Molto rischiosa: devo avvicinarmi per guadagnare precisione e manovrabilità. Avvicinarmi, sotto il tiro di cecchini scelti e di un mortaio invisibile, nascosto chissà dove.

Prendo una boccata d'aria calda e fumosa e sbircio di nuovo oltre l'angolo: non c'è traccia di Rod. Impreco di nuovo, col cuore che acquista battiti in più e perde il ritmo. Hanno diviso la truppa vicino al mercato, con una pioggia di proiettili e granate ben piazzata. Ai miei piedi giacciono morti tre dei miei commilitoni, che mi fissano con occhi vuoti o semichiusi. Non ricordo neanche il loro nome; me li hanno assegnati stamattina come rinforzo.

Ancora non riesco a vedere Rod, né gli altri, ma in compenso scorgo dall'altro lato della piazza un gruppetto di Ishvaliani che si avvicina discretamente alle stalle, fucili e coltelli alla mano, coperti dal fuoco incessante che proviene da sopra. Trattengo il fiato,  gettando al vento la prudenza, mi espongo leggermente issandomi su un ginocchio e invio una fiammata contro di loro, troppo rapidamente per calibrare bene potenza e direzione. Ritorno con le spalle al muro e il coro di grida e urla di dolore che sento fuga ogni mio dubbio. Mi si asciuga la gola. Ho lanciato qualche fiammata prima, ma alla cieca. Stavolta ho mirato per uccidere. Per difendere, soprattutto, ma per uccidere.


«Bel colpo!»

Mi giro di scatto, contraendo le dita, ed è con un fiotto di sollievo che vedo Rod  sbucare da un vicoletto in ombra e avanzare carponi verso il mio riparo, seguito a ruota da Alena e Patrick. Scaglio una fiammata diversiva direttamente sopra di noi, così da oscurare la visuale dei cecchini per qualche istante, e i miei compagni coprono i pochi metri di terreno scoperto per gettarsi dietro il mio riparo di macerie.

«Non che sia cambiato molto,» commento, facendo un cenno verso le stalle, da cui proviene di tanto in tanto qualche colpo isolato, segno che le loro munizioni scarseggiano. «Gli altri?»

«Bloccati nell'ex-distilleria. Quei bastardi hanno rimediato un mortaio,» dice Patrick tra i denti, senza cessare di guardarsi attorno come una preda braccata.

I suoi occhi neri compiono piccoli scatti nervosi; digrigna la bocca e stringe il fucile con tanta forza che le sue nocche coperte di sangue sono sbiancate.


«Ho notato,» dico, accennando al cratere a pochi passi da me – terribilmente vicino.

Una gragnuola di proiettili si abbatte contro il muricciolo, facendomi temere che possa cedere da un momento all'altro nel sentire gli impatti che mi vibrano nelle ossa.


«Mi serve una copertura. Bastano pochi secondi.»

«Tiri giù il palazzo?»

«Troppo rischioso. Offro alla Squadra Scout un diversivo. Spero che abbiano la prontezza di coglierlo, ma devo avvicinarmi.»

Parlo seccamente, forse troppo, ma non ho tempo per curarmene. Controllo che il guanto d'accensione sia ben calzato. Ho i palmi sudati, ma la mia mano è ferma.

«Toglietemi di mezzo quei cecchini.»

Patrick, Alena e Roderick piazzano le canne dei fucili sul bordo del muretto, pronti a sparare. Esito, tentato dall'infilare un guanto anche alla mano sinistra, ma questo non è il momento per esperimenti audaci, così mi limito a stringere il pugno e a sporgermi per contare quanti tiratori ci sono nel palazzo. Ne individuo almeno sei, sparsi tra la ventina di finestre. Inizio ad aumentare la concentrazione d'ossigeno davanti all'intera facciata, pretendendo una notevole dose di concentrazione del mio cervello martellato dalla paura di morire con ogni proiettile che ci piove attorno. I miei pensieri si soffermano per un istante di troppo sull'immagine del mio corpo crivellato che fa ritorno da zia Chris, avvolto in un drappo verde, ma la annacquo e soffoco all'istante, anche se sento le gambe farsi improvvisamente deboli. Il mio cuore inizia a pompare più vigorosamente, scaldandomi da capo a piedi.

Visualizzo le formule nel retro delle palpebre, assieme alla voce pacata del Maestro che mi guida attraverso i principi elementari dell'alchimia. Oltre le tenebre, c'è luce. [1] Quell'eco arriva, non richiesta. Ha un retrogusto acido, sul campo di battaglia, ma mi ci aggrappo comunque.


«Ora!» ordino con voce quasi stridula, e mentre loro sparano a raffica io mi alzo su un ginocchio e scatto verso l'edificio guadagnando qualche decina di metri, esponendomi completamente. Un cecchino cade dalla finestra, colpito a morte da un colpo.

Inchiodo sul margine della piazza e sfrego il guanto: un muro di fiamme si erge a divorare l'esterno dell'edificio, una patina infuocata che si dissolve in qualche istante ma che costringe i cecchini a ritirarsi momentaneamente, accecati.


«Via libera!» mi sgolo in direzione del capanno, mentre già un paio di uomini si lanciano fuori correndo nella nostra direzione, seguiti dal resto della loro squadra.

Ho appena il tempo di ripararmi prima che il fuoco nemico solchi l'aria nel punto in cui mi ero piazzato. Solo sette dei dieci uomini intrappolati riescono a gettarsi nella polvere accanto a noi: gli altri tre cadono nella terra di nessuno tra i due schieramenti. Uno dei sopravvissuti è riverso ai miei piedi, pericolosamente esposto; si stringe la gamba sanguinante tra le lacrime e gli spasmi. Do cenno a Patrick di aiutarmi a portarlo del tutto fuori dalla linea di tiro. Faccio in tempo a scorgere il suo volto devastato dal dolore, ma distolgo subito lo sguardo riportandolo alla palazzina occupata. Gli spari sono cessati. Probabilmente stanno esaurendo anche loro le munizioni. Ottimo, concludo, con una positività che stona e stride dentro di me.


«Tenetevi al riparo, copritemi solo se necessario,» ordino di nuovo, alzandomi stavolta del tutto in piedi e sentendo il coro dei fucili ricaricati e posizionati dietro di me.

Non so da dove provenga questa energia che sento totalmente estranea, ma mi permette di non vacillare mentre mi avvicino rapidamente di qualche passo, portandomi di nuovo vicino. Non ho più motivo di trattenere le mie fiamme, adesso, e mi formicola la destra. Scaglio una potente ondata di fuoco contro l'edificio, soffocandola quel tanto che basta per non ustionarmi. Il boato fa vibrare il terreno, la stalla viene carbonizzata e le mura si anneriscono rapidamente, avviluppate dealle fiamme violente. Qualcuno si getta dai piani alti, avvolto da lingue di fuoco, e si schianta urlando venti metri più sotto con un tonfo a malapena udibile oltre i ruggiti degli incendi.

Sento le grida d'incitamento della mia truppa dietro di me, accompagnate da spari sporadici, e lancio un'altra fiammata verso il tetto; ne incuneo un'altra ancora nelle finestre divelte, scuotendo visibilmente il palazzo ormai avvolto dall'incendio. I vetri vanno in frantumi, cadendo a terra in una pioggia tagliente che mi sfiora. Un cumulo di fumo nero si leva verso il cielo grigio, illuminato qua e là dai guizzi feroci e rosseggianti del fuoco. Tra le fiamme scorgo un corpo che penzola disarticolato da una ringhiera, sorretto dalla cinghia del fucile. Un quarto del palazzo collassa con un rombo di terremoto; fortunatamente il vento porta lontano il fumo e la polvere, risparmiandoci l'asfissia. Scende un silenzio inframezzato da calcinacci in caduta e scricchiolii d'assestamento. Gli unici spari sono echeggianti, lontani.

Mi rendo conto del mio cuore che batte all'impazzata solo nel momento in cui l'adrenalina inizia a calare, lasciandomi indebolito, ma allo stesso tempo pervaso un senso di euforia mi pervade nel realizzare che sono ancora vivo e illeso, e così i miei compagni.

Scruto con attenzione i dintorni, ma non noto alcun segno di vita, così alzo una mano tremante per dare il via libera alla mia truppa. Ancora non mi volto a guardarli. Fisso il cadavere dell'uomo ai piedi del palazzo, riverso in una posizione rigida e innaturale a una decina di metri da me. Delle fiamme residue continuano a levarsi dai suoi vestiti sbrindellati; quando realizzo che la chiazza rossastra e informe sul suo ventre sono le interiora ustionate e carbonizzate ho un conato che trattengo a stento. Porto una mano davanti alla bocca e faccio un respiro profondo, domando il mio stomaco in subbuglio nonostante non abbia toccato cibo da stamattina. Devo costringermi con la forza a distogliere lo sguardo e, quando infine mi arrischio a dare le spalle al campo di battaglia, la mia truppa è già in piedi in attesa di ordini.

Sono consapevole di avere un'aria stravolta, a dispetto del successo, e mi sforzo di camuffarla. Incrocio lo sguardo di Alena e Roderick e mi rendo conto che la loro espressione non deve essere molto diversa dalla mia: volti pallidi e al contempo arrossati da tagli superficiali, dipinti con una mano di fuliggine e terra. Patrick è indaffarato col ferito e insieme a un altro uomo cerca di arginare la perdita di sangue.

Sento una detonazione cupa non troppo distante da noi e il mio pensiero corre al resto dei miei compagni, ancora intrappolati nell’ex-distilleria. Una quantità enorme di informazioni si accavalla nella mia mente – i miei uomini, il nemico, il mortaio, la guarnigione probabilmente sotto attacco, il ferito, i corpi bruciati, le orecchie che ronzano disorientandomi – ma sento il mio corpo agire in automatico, come se lo stessi osservando dall'esterno.


«Patrick, tu e un altro continuate ad occuparvi del ferito. Voi,» indico i tre soldati della Squadra Scout ancora armati di fucile, «prendete la via dei tetti e posizionatevi sul magazzino sul lato est della distilleria. Non fatevi individuare. Noi,» faccio cenno al resto del gruppo, «avanziamo via terra. Apro io la strada. Il rendez-vous rimane lo slargo davanti al bazar.»

Mi risponde un coro squillante di “signorsì!” e ci dividiamo con un sottofondo di stivali che pestano la polvere. Avanzo a passo deciso, facendo strada alla mia truppa lungo la strada maestra del distretto commerciale. Stando alle mappe, dovrebbe sbucare sulla piazza del mercato, dove saremo completamente allo scoperto. Infatti, la vedo dopo poche decine di metri oltre l'angolo del magazzino che stiamo costeggiando.

Mi appiattisco contro il muro, ordinando silenziosamente l'alt. Scorgo in lontananza l’edificio malmesso della distilleria, che anche in tempi migliori non deve essere stato particolarmente stabile.

In mezzo alla piazza, rivolta verso l'ingresso, è stata approntata una barricata di fortuna dietro alla quale hanno preso posizione una ventina di ribelli Ishvaliani, riparati su tre lati. Tengono chiaramente sotto scacco i miei uomini intrappolati nell'edificio. Al sicuro dietro le casse, i sacchi di sabbia e le assi di legno accatastati alla rinfusa si intravede la sagoma di un mortaio mobile, sottratto chissà come al nostro esercito. Da qualche parte devono essere stipate anche le munizioni.

Dall'angolazione della canna, deduco che l'obiettivo sia in un raggio di circa un chilometro tra questo rione e quello di Kis, probabilmente la guarnigione di Nasha. Il colpo che poco fa mi ha quasi ammazzato deve essere stato un errore di calcolo nella traiettoria.

Poggio la testa al muro e socchiudo gli occhi imponendomi di pensare, di richiamare alla mente le pagine e pagine di strategia militare su cui ho passato notti intere all’Accademia, ma incontro solo una lastra bianca e sterile, priva d’informazioni utili. Non trovo schematiche che corrispondano a una situazione di per sé semplice. Per fortuna sembra esserci uno stallo: le uniche detonazioni che si sentono sono lontane, provenienti dalle mille schermaglie che fanno ribollire la città.

Sento un colpetto sul gomito e mi giro verso Rod, che indica in alto: dal tetto del magazzino si sporge una ragazza della Scout, invisibile dalla barricata.

Siamo in posizione,” comunica a gesti.

Replico affermativamente nello stesso modo. Butto fuori l’aria che non mi ero accorto di trattenere e i miei pensieri si schiariscono, focalizzandosi sulla situazione attuale.

Metto nero su bianco i dintorni, il nemico, gli alleati, le nostre risorse e i possibili ostacoli. Chiudo i manuali tattici e apro quella parte di cervello istintuale ma razionale rimasta sopita fino ad ora; quella che a volte si risvegliava, in misura più spensierata, quando correvo a perdifiato per le vie di Bushmills con le ginocchia escoriate dopo averne combinata una delle mie, e l'unico obiettivo che mi lampeggiava in testa era trovare un rifugio sicuro dai gendarmi. Allora istinti ancestrali di preda, venati di giocosità e brividi di trasgressione, adesso di cacciatore braccato coi piedi affondati in sangue non suo.

Mi prendo qualche secondo per soppesare quanti danni possa causare l'esplosione di una distilleria e concludo che non posso attaccare alla cieca: una sola fiammata diretta malamente potrebbe condannare i miei uomini nell’edificio. Stessa tattica, esito potenzialmente diverso, e  di nuovo, mi viene richiesta una precisione troppo poco esercitata. Sospiro tra i denti: dobbiamo creare un fuoco di sbarramento e prenderli di fianco, cercare di distrarli per dare modo alla Squadra Flame di uscire da quella trappola. 

Impartisco in silenzio gli ordini ai soldati sul tetto, ma mi sembra di agire ancora tramite qualcun altro, qualcuno con molta più esperienza di me che muove le mie braccia come quelle di una marionetta.

Al mio segnale, ritiratevi.

Ricevuto.”

La ragazza sgattaiola via silenziosa come è arrivata. Mentre aspetto che inizi il diversivo, cerco con attenzione una qualunque apertura che mi permetta di far arrivare le fiamme all'interno della distilleria. La usano probabilmente come base: sarà meglio raderla al suolo del tutto. Adocchio una finestrella a livello della strada… e forse nel seminterrato viene ancora conservato dell’alcool, il che faciliterebbe le cose. Roderick segue il mio sguardo e mi lancia un cenno d'approvazione, seppur nervoso.


«Farà un bel botto,» sussurra, quasi senza voce per la tensione.

Annuisco appena, altrettanto sulle spine. Leggo nei suoi occhi lo stesso senso di sbandamento che mi colpisce il cervello ogni pochi secondi: cosa ci facciamo, qua?


«Se c'è ancora alcool,» deglutisco poi, appena udibile. «Gli Ishvaliani nemmeno bevono.»


«C'è sempre qualcuno che usa una distilleria. Dacci dentro con quelle fiamme, però.»

Gli sono grato per il sostegno, ma sono troppo nervoso per concordare con lui o anche solo per rispondere. Un passo falso e muoio io, lui e tutta la squadra.

Finalmente la prima raffica di artiglieria lacera l'aria. Un Ishvaliano troppo esposto è il primo a cadere, e subito il resto si acquatta dietro la barricata, gli occhi puntati verso l'alto in direzione dei cecchini.

Lascio malvolentieri che Roderick si ponga in testa alla squadriglia e impugno la pistola, consapevole che usare l'alchimia con un mortaio, delle munizioni e una quantità indefinita di liquido infiammabile in posizioni precarie equivarrebbe a un suicidio. Mi maledico ancora mentalmente: devo riuscire a lanciare attacchi più mirati...

I miei pensieri si frantumano quando Roderick spara il primo colpo, centrando un altro ribelle in pieno petto, e siamo alla mercè dei loro fucili. Ci ripariamo dietro il muro di un altro magazzino, dal quale però abbiamo una linea di tiro sfavorevole.

Manteniamo un fuoco costante e intravedo tra il fumo degli spari un gruppo di sagome che si precipita fuori dalla distilleria attraverso la piazza, tentando il tutto per tutto e sparando all'impazzata. Una cade a terra prima di raggiungere la salvezza dei vicoli dal lato opposto, e sento una stretta al petto.

Non sono sicuro che tutti siano riusciti ad uscire, ma la nostra posizione diventa sempre più rischiosa, e un proiettile mi strappa un grido nel colpirmi di striscio la gamba. Dieci uomini esposti sono troppo pochi per annientarne il doppio, soprattutto se barricati. Non posso fare altro che sperare per il meglio.


«Via di qui!» grido, facendo un gesto imperioso ai miei soldati.

Non se lo fanno ripetere e si ritirano rapidamente, diretti al rendez-vous.

Parte un'ultima raffica dal tetto e poi anche i cecchini indietreggiano. Gli Ishvaliani cessano a loro volta il fuoco dopo qualche secondo, e, sebbene non riesca a vederli, appiattito contro il muro, posso immaginare la loro perplessità. Probabilmente non hanno neanche mai visto un Alchimista di Stato in azione e non hanno la più pallida idea di ciò che li aspetta. Nemmeno io l'avevo, fino a ieri.

Sopprimo i pensieri e sfrego la stoffa d'accensione, indirizzando la fiammata verso la finestra della distilleria. Non è precisa, affatto: gran parte si schianta contro la parete e lambisce l'obiettivo, ma la quantità di fiamme che vi penetra è sufficiente.

Per quanto abbia smorzato l'ossigeno intorno a me per evitare che il fuoco mi raggiunga, non ho alcun controllo sulla potenza dell'esplosione che si sprigiona. L'onda d'urto mi scaglia di schiena a terra, mozzandomi il fiato, e un'immensa fiammata si leva dall'edificio, inghiottendo tutto nel raggio di cinquanta metri. Una serie di detonazioni assordanti squarcia l’aria quando le fiamme toccano le casse del mortaio, dilaniando chiunque fosse troppo vicino e scuotendo il terreno attorno a me.

Riesco a mettermi prono per schermarmi il volto e sento un calore rovente contro le spalle; mi rimetto in piedi a fatica, annaspando in cerca d'aria e trovando fumo e fiamme.

Qualcosa di tagliente mi sfiora il collo, ma a malapena percepisco il dolore mentre mi rimetto in piedi e corro tra la nebbia densa che invade le strade. Non riesco a respirare bene e il fumo acre di alcool evaporato mi irrita la gola. Mi ritrovo ben presto senza fiato e coi polmoni affaticati che pompano pulviscolo sottile. Mi porto a un'andatura moderata, cercando di allontanarmi velocemente senza sfiancarmi, col timore che ombre nemiche mi assalgano dalla nebbia.

Dopo una marcia nel nulla che mi fa procedere a tentoni e spallate attraverso vicoli e bivi, raggiungo la mia truppa davanti al bazar.

Qualcuno mi corre incontro e solo quando è a un passo da me identifico il volto sporco di sangue e fuliggine di Oskar, sollevato di vedermi vivo quanto lo sono io. Mi guida fino al resto del gruppo, che mi accoglie con altrettanta euforia smorzata dalla caligine che ci opprime. Non esulto, e il sollievo mi muore in gola: dei miei sessanta uomini ne conto a malapena una ventina.

Scorgo un paio di compagni d'Accademia, poi la mezza dozzina appena arrivata dal Nord, e un paio di altri volti familiari. Anche Jace emerge infine dalla nebbia, illeso se non pe la cappa bruciacchiata – rabbrividisco nel notarla. Appena vede Alena la abbraccia d’impeto, evidentemente sollevato. Gli concedo qualche istante prima di rivolgermi a lui:


«E gli altri?»

«Ci siamo separati prima che venissimo bloccati nella distilleria. Saranno già al campo di Nasha,» mi rassicura Jace, senza staccarsi dalla ragazza.

Mi acciglio. Gli ordini erano di rimanere uniti; ci saremmo risparmiati quest'assalto azzardato se non si fossero divisi. E forse i miei uomini e quelli della Squadra Scout non sarebbero morti. Altre sagome e volti conosciuti emergono dalla foschia. Alcuni si stanno prendendo cura dei feriti; Un gruppetto di soldati forma un capannello serrato nel tentativo di schermarsi dal fumo.


«Quanti caduti?» chiedo, a nessuno in particolare.

È una domanda che mi suona estranea, ma so intrinsecamente di doverla porre. Pochi secondi di silenzio sembrano protrarsi all'infinito.


«Una decina, credo. Anche Dennis e William,» risponde in fretta Oskar, schivando il mio sguardo.

Non dico nulla, anche se quelle parole mi colpiscono come un maglio. Non li conoscevo così bene, ma ricordo con improvvisa vividezza i loro nomi chiamati nell'appello all'Accademia. Relego da parte quel ricordo e faccio cenno alla truppa di incolonnarsi, assicurandomi che i feriti più gravi abbiano un appoggio o una barella di fortuna, per poi fare strada in direzione del campo. È impensabile continuare gli attacchi qui a Nasha in queste condizioni, e spero solo che i superiori saranno altrettando comprensivi.

Non siamo fortunati e il vento spira adesso verso di noi mentre arranchiamo, portando con sé il fumo. I miasmi sono asfissianti e dopo poco ci ritroviamo tutti a tossire, con gli occhi che lacrimano.

C'è qualcosa che mi disturba nell'odore acre del fumo, ma non riesco a focalizzare cosa sia di preciso. C'è sentore di legna bruciata, di alcool e polvere, di carbone, e di qualcos'altro che non riesco ben a inquadrare.

Arriccio il naso infastidito, mi schermo il naso col bavero del mantello e respiro con la bocca attraverso le maglie della stoffa.

Superiamo con passo stanco il palazzo che ho dato alle fiamme poco fa. E quando i miei occhi si posano di nuovo sul corpo semi-carbonizzato schiantatosi sul mattonato, lo collego con orrore a quel puzzo nauseante.

Mi fermo di scatto, con la gola ostruita. Sento il sangue defluirmi dal volto e ristagnarmi nelle vene, gelido, solido. Persino da questa distanza riesco a scorgere gli occhi bianchi del cadavere che sembrano sbarrati verso di me, e il braccio scarnificato che sembra indicarmi accusatore.


«Roy?» la voce di Roderick sembra provenire da un altro mondo, uno in cui non siamo ancora carnefici. «Roy, ti senti...»

«Raddoppia il passo. Non siamo ancora al sicuro,»  mi sento dire in un tono monocorde che non mi appartiene.

Pesto i tacchi degli anfibi nella polvere e riprendo la marcia con forzata vivacità, chiedendomi quanta cenere umana sto calpestando.

Il resto accade come in un sogno. Realizzo a malapena di uscire finalmente dalla zona dei combattimenti, di superare la piazza di scambio, di entrare nel campo di Nasha crivellato di colpi del mortaio rubato e di indirizzare frettolosamente la mia truppa in infermeria prima di congedarmi. Squadrano con un misto di risentimento e perplessità la mia ritirata, ma non me ne curo.

Ho la vista sfocata, compressa, come se qualcuno mi avesse piazzato la testa in una morsa e la stesse stringendo sulle mie meningi.

Raggiungo la mia tenda riuscendo a non correre e riesco persino a chiuderla del tutto prima che le gambe mi cedano di schianto. Crollo a terra e annaspo verso il secchio vuoto in un angolo, pochi secondi prima di perdere il controllo del mio stomaco e rigettare una boccata di bile acida.

Tossisco convulsamente e la nausea non sparisce, si accavalla e basta, così rimango fermo con la testa nel secchio, ansimando in attesa del successivo conato che non tarda ad arrivare. Mi sembra di sentire ancora quel fetore ributtante. Ce l'ho nelle narici, incollato al palato. Tiro un respiro tremolante, senza arrischiarmi ad abbandonare il secchio.

Lascio ricadere il capo in avanti, poggiando la fronte accaldata sul bordo metallico e serrando le dita sul manico. Un crampo mi attanaglia lo stomaco e mi preparo di nuovo al peggio, ma il tutto sfocia in un debole colpo di tosse dal retrogusto acido.

Dopo parecchi minuti mi costringo a mettermi seduto, afferro una pezza pulita dalla mia sacca gettata a terra e la bagno con un po' d'acqua ormai calda dalla borraccia, pulendomi la bocca. Verso un po' d'acqua nei palmi e mi detergo il sangue e la polvere dal viso con gesti assenti, sentendo bruciare le escoriazioni.

I tagli sulla guancia e sul collo pulsano fastidiosamente e mi concentro su quella sensazione per qualche minuto, così da frenare i miei pensieri, quasi potessi farli uscire da me come il rivolo rosso che mi cola lungo la guancia.

Non riesco comunque a impedire alla mia mente di galoppare a briglia sciolta, imbizzarrita, e ho l'impressione che un macigno mi stia schiacciando a terra, sapendo che questo giorno si ripeterà. Ancora, e ancora.

Per settimane, forse mesi. Anni.

Non c'è più adrenalina, né euforia: solo un'estrema spossatezza, di chi è rimasto sott'acqua troppo a lungo e fatica a riprendere fiato. Le mie mani sono percorse da un fremito impercettibile e quasi mi strappo il guanto di dosso.

Fisso lo sguardo sul simbolo alchemico, sottili linee cremisi che si intersecano sul tessuto un tempo candido, ora lurido di sangue e polvere.

Oltre le tenebre, mi rimbomba in testa, e stavolta il tono è accusatorio.

Non è più il mio maestro, a parlare, anche se lei quelle parole non le ha mai pronunciate. Le porta solo vergate sulla pelle e me le ha affidate un giorno d'autunno, quando parlavamo ancora per speranze e sogni. Quando la guerra stessa era un fantasma lontano.

Trovo infine la forza di alzarmi e mi tremano le gambe: mi blocco sulla soglia, un lembo della tenda stretto in mano nel gesto di aprirlo.

Chiudo gli occhi e vedo quelli del cadavere bianchi e bolliti dal calore che mi fissano di rimando. Ciechi a qualsiasi luce, ormai.

Mi lascio scivolare di nuovo a terra, lentamente, e consento a quell'immagine di imprimersi nella mia mente. Dopo un po', dopo aver sostenuto quello sguardo abbastanza a lungo, non sembra nemmeno così spaventosa e il tanfo di carne bruciata scema gradualmente dalle mie narici. Prendo un respiro profondo.

Dovrei andare a fare rapporto al Colonnello. Rimango seduto a lungo nella penombra asfittica della mia tenda. 


Oltre, da qualche parte lontano da qui, c'è luce.

 


 

Note:

[1] Sul tatuaggio di Riza si legge, tra le altre cose, "post tenebram lux". È un estratto del passo di Giobbe che fu anche adottato come motto calvinista-protestante; visto il contesto di FullMetal Alchemist, qui è slegato da qualunque accezione religiosa e ho reso più libera la traduzione per meglio adattarla alla figura decisamente controversa di Berthold Hawkeye.


Note dell'Autrice:

Cari Lettori, con questo capitolo si entra nel vivo dell'azione, e di conseguenza della guerra. Spero che il tutto sia risultato credibile: il pezzo originario risale a quasi sei anni fa, e sebbene l'abbia modificato e riadattato pesantemente, non sono del tutto convinta del risultato finale. Qualunque opinione è gradita!
Grazie a tutti coloro che hanno letto sin qui e/o hanno aggiunto la storia alle loro liste <3 Ogni voto e opinione conta, davvero :)
A presto col prossimo capitolo,

-Light-



 
   
 
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