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Autore: saraclove    14/05/2020    0 recensioni
C'era una guerra in corso nel continente tra il Regno di Raven e l'impero dell'Ishdon, una guerra che dura ormai da tre anni e non da segno di cessare. Anastasia Wyatt è stanca di questa situazione, perché sua madre sta male e ha bisogno di cure, ma la guerra impedisce a lei e a suo padre di guadagnare il necessario dalla loro piccola attività di caccia nel bosco sulle colline ai confini dell'impero. Così decide di partire, nonostante l'opposizione e gli avvertimenti del suo vecchio, per partecipare lei stessa a quella guerra a fianco dei soldati imperiali per vincerla e poter finalmente porre fine a quel caos. Ma una volta fuggita di casa e raggiunto l'accampamento militare, si accorge di quanto la sua idea di guerra fosse sbagliata, perché incontrerà soldati dalle capacità incredibili, quasi sovrumane e scoprirà di doversi scontrare con esseri mostruosi in grado di spazzare via da soli un intero reggimento.
Genere: Azione, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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«Perché non posso? Perché sono una donna?» Anastasia Wyatt sentiva il sangue ribollire e un’estrema necessità di urlare.
«No Stacy, non è questo...» cercò di spiegare suo padre seduto all’altro capo del loro minuscolo tavolo da pranzo, ma la sua voce sembrava un sussurro insignificante di fronte alle urla della figlia.
«Sì invece: una donna non può cacciare, non può comprare una casa, non può uscire da sola...» iniziò elencare tutti i divieti che le aveva insegnato fin da piccola contando sulle dita «e adesso non può diventare un soldato!» aprì le mani e le alzò al cielo.
«Ci sono già abbastanza uomini, non serve che anche tu-».
«Non serve? Non posso restare qui a far finta che tutto sia a posto e aspettare che magicamente la guerra finisca!» si alzò e sbatté le mani. Il tavolino traballò sotto il suo colpo. Era stato costruito a mano da suo padre e non era molto stabile.
«Cosa pensi che sia la guerra?» il tono dell’uomo diventò più acuto e il suo volto si tinse di un rosa poco rassicurante «Pensi che sia una cosa bella? Un gioco divertente?».
«So cos’è papà! Ho vent’anni! La guerra distrugge le case, le vite, i commerci. È per questo che non riesci ad andare in città, ed è per questo che la mamma non… non può essere curata. Ci ho pensato per un sacco di tempo sai? È la guerra la causa di tutto questo e io voglio andare in guerra per vincerla, così tornerà la pace e troveremo...troveremo i soldi per...» un nodo alla gola le impedì di continuare.
«Lo sai benissimo che lei...» si costrinse ad abbassare la voce, pur sapendo che dormiva «...che lei non ha più speranza. La sua malattia non ha una cura. Non ha bisogno di soldi, ha bisogno che tu, che noi le restiamo vicini nei suoi ultimi giorni. E tu pensi di partire per-».
«Per trovare una speranza. So che c’è, deve esserci!» le lacrime sgorgarono e si coprì il volto, correndo fuori.
«Aspetta! Stacy aspetta!».
Si sdraiò sull’erba e cercò di smettere di piangere. Suo padre aveva ragione, non c’era nessuna speranza, eppure non riusciva a smettere di sentirsi così arrabbiata.
Guardò il cielo sopra le colline del Gobbo. Era così bello e rilassante guardare le nuvole passare lente sopra di lei come pecorelle al pascolo e ascoltare il canto lontano degli uccelli cinguettare felici nel bosco dove cacciavano.
Presto la guerra sarebbe arrivata fin lì ad inghiottire il tutto. Ne avevano avuto un avvertimento tre anni fa, quando era iniziata: un villaggio al confine col regno di Raven, sulle montagne, era stato attaccato e completamente incendiato. Nonostante il suo villaggio si trovasse ad una certa distanza, di notte si sentirono gli spari, le urla e videro il fumo nero salire dalle cime come ceneri di un vulcano, ricoprire il cielo e inquinare l’aria. Molti fecero le valigie quella stessa notte e scapparono verso l’interno, verso la capitale. Rimasero in pochi, per la maggior parte anziani che non potevano muoversi.
Loro non potevano andarsene, non potevano lasciare indietro sua madre. E poi… suo padre era una persona ossessionata e conservatrice: non avrebbe mai accettato di lasciare quella casa - in realtà poco più di una capanna- dove avevano vissuto tutti i suoi antenati per nulla al mondo. Non era conservatore solo su quello, ma anche sulle tradizioni, sugli usi, sulle abitudini e sul ruolo della donna nella società. Credeva fermamente che ci fossero lavori che le donne non potevano svolgere, come ce n’erano altri che gli uomini non erano tenuti a fare. Era assurdo.
Sentì dei passi sull’erba vicino a sé, ma non si mosse. Sperò che il rossore sul suo volto fosse sparito.
«Posso sdraiarmi qui vicino a te?».
Non rispose, ma lui lo fece lo stesso.
«Quel ragazzo, Aron, sei preoccupata per lui, ti manca?» continuò a guardare le nuvole passare senza rispondere.
Aron Fry era il suo migliore amico praticamente da sempre. Aveva un anno in più di lei ed era uno dei pochi che era rimasto, assieme ai suoi nonni, quanto tutti se n’erano andati. Poi i suoi nonni morirono e vennero i soldati a prenderlo per arruolarlo nell’esercito. Da allora non ebbe più sue notizie. Non le spedì neanche una lettera, ma del resto non sarebbero mai arrivate a destinazione. Sì, le mancava parecchio, ma non era per lui che voleva andare in guerra. Era sicura che stesse bene. Non era un eccellente cacciatore e non sarebbe mai stato un ottimo soldato, ma lui sapeva sempre cavarsela.
«Che ne dici se andiamo a cacciare qualcosa per cena?» insistette l’uomo.
Suo padre sapeva quanto amava cacciare da quella volta in cui aveva preso un fucile e si era messa a rincorrerlo implorando di insegnarglielo. Insistette per una settimana, seguendolo ovunque mormorando “ti prego” fino a perdere la voce e alla fine cedette. Quello fu il primo cliché che fu disposto a rompere. Da allora fece pratica ogni giorno e superò in abilità l’amico. Forse era anche per questo che si era indignata di non essere stata arruolata: che importava se era una donna quando poteva fare meglio degli uomini?
Si alzò e decise di ascoltare la sua proposta, mentre il suo orgoglio le ripeteva che era solo per sfogare la rabbia e non perché volesse veramente obbedirgli. Andò in casa a recuperare un fucile e corse fuori verso il limitare del bosco, poco più in là. Varcò l’arco formato dai i due faggi col tronco inclinato che facevano da entrata e si inoltrò scavalcando tronchi caduti e rami sporgenti di cui ormai conosceva a memoria la posizione.
Si sentiva a casa lì, dove gli alberi le davano sempre il benvenuto e le facevano dimenticare tutto il resto, in quella terra di nessuno dove non c’era distinzione di sesso o di ricchezza.
Sapeva che suo padre la stava seguendo, ma non aveva importanza. Tutto quello che fece fu memorizzare la sua posizione per evitare di sparargli per sbaglio. Con la coda dell’occhio colse un altro rapido movimento alla sua sinistra. Si girò di scatto e avanzò agilmente tra i cespugli, col fucile puntato. Non era un bosco fitto quanto certe foreste a nord, ma la luce penetrava le foglie con fatica.
Non che questo fosse un problema per lei, aveva sempre avuto un’ottima vista anche al buio. Ad un certo punto lo vide: un piccolo cerbiatto che correva affannosamente con una radice in muso. Prese la mira e seguì i suoi movimenti fino a quando non scomparve dietro ad un faggio e non riapparve più.
“Furbo eh?” pensò tra sé mentre continuava ad avvicinarsi a passi felpati. Lo scorse di nuovo mentre inchinava la testa verso qualcosa e stava per premere il grilletto quando vide che non era solo. Il suo cuore perse un colpo e il fucile le scivolò di mano. Restò a fissare la scena, con la gola secca.
Un cervo adulto era a terra con una zampa incastrata sotto un tronco caduto e gemeva lentamente mentre cercava di liberarsi. Il piccolo gli stava portando da mangiare.
Qualcosa in quella scena la turbò profondamente. Ebbe un flashback di sé stessa che portava la zuppa di cervo a sua madre mentre lei gemeva dal dolore sdraiata sul letto.
Indietreggiò respirando affannosamente, agguantò il fucile e corse via, ma non aveva fatto più di due passi che si scontrò con una specie di muro soffice che non ricordava ci fosse mai stato. Alzò gli occhi dalla pancia gonfia di suo padre e lo vide guardarla con fare interrogativo.
«Trovato qualcosa?».
«N-niente» rispose cercando di nascondere il turbamento, ma lui capì che era una bugia. La superò e si diresse verso il punto da cui veniva.
«Aspetta» voleva urlargli, ma invece uscì solo un mormorio indistinto. Fu costretta a seguirlo.
Aveva sempre ucciso cervi e cerbiatti e allora perché questa volta sembrava tutto così sbagliato?
Quando arrivò, l’uomo stava già mirando al cervo adulto.
No.
Restò a guardare la sua schiena, paralizzata da qualcosa che non riusciva a capire e aspettò lo sparo… che non arrivò.
Suo padre abbassò il fucile.
«Ho visto tante volte la luce inquietante che avevi negli occhi quando uccidevi, era come se ti piacesse farlo. Cominciavo a preoccuparmi, capisci?» si girò a guardarla «Non è normale che una ragazzina ami uccidere gli animali invece che giocare con loro. La caccia non è un hobby, lo sai vero? Ma a quanto pare...» fece un cenno verso i due animali «hai ancora un cuore» fece un sorriso raggiante.
Stacy rimase sorpresa da quelle parole, ma ancora di più dalla sua risposta: «Volevo solo dimostrarti che ero in grado di farcela» abbassò la testa. Non sapeva come fosse giunta a quella conclusione, ma sapeva che era vero. Lui si avvicinò e le accarezzò la testa. Era imbarazzante, nonostante non ci fosse nessuno a guardarli. Ormai era alta quanto lui, eppure la trattava ancora come se fosse una bambina.
«Non devi dimostrare niente, so che hai talento. Non partire. La fuori ci sono persone con occhi come i tuoi, forse ancora più inquietanti. I soldati alla fine sono tutti semplicemente degli assassini. Noi uccidiamo per necessità, per sopravvivere, come fanno tutti gli animali in natura, ma loro uccido per i propri interessi, per avidità e potere. Non c’è nulla di naturale in tutto questo.» fece una pausa e quando riprese, il tono serio era sparito dietro ad un sorriso «Diamo loro una mano?».
All’inizio non capì, poi lo vide dirigersi verso il tronco caduto e lo seguì. Insieme lo alzarono quel poco che bastò per permettere al cervo di spostare la gamba e lo rilasciarono cadere a peso morto, col fiato corto. L’animale era ferito, così suo padre strappò un pezzo della sua camicia beige e la usò per legargli un ramoscello in modo da immobilizzare l’arto nel punto fratturato. Erano certi che tra qualche giorno sarebbe guarito, così tornarono a casa.
Durante il tragitto rimasero in silenzio, lei per l’imbarazzo e per la stanchezza, suo padre per la felicità e altra stanchezza.
Quella sera rinunciarono alla carne e mangiarono del pane con un’ottima minestra di verdure raccolte nell’orto di sua madre che ora stava curando lei.
Lei non si era ancora svegliata, ma forse era meglio così. Se si fosse alzata, sarebbe diventata cosciente del dolore alla gamba e non si sarebbe più addormentata per giorni. “Morte delle ossa”, è così che la gente comune chiamava la sua malattia, perché il suo vero nome era praticamente impronunciabile, tanto quanto era impossibile da curare. Era un tipo di cancro alle ossa, le avevano spiegato i numerosi medici che l’avevano visitata senza successo, era come un mostro che divorava pezzo per pezzo le ossa del corpo e lentamente si prendeva tutta la vita.
Finirono la cena e andarono a letto presto. Anche questo era una delle tradizioni inviolabili di suo padre: coricarsi al tramontare del sole.
Tuttavia, quella sera Anastasia non riuscì a chiudere occhio. Ogni volta che lo faceva, vedeva quella coppia di cervi e sua madre. Immaginava il giorno in cui avrebbe dovuto separarsi da lei, tentando invano di non provare dolore. Non si poteva mai essere abbastanza preparati ad una perdita del genere.
Ad un certo punto, circa a mezzanotte, si alzò di scatto, si vestì con tutto quello che aveva e pescò una borsa che aveva nascosto sotto il letto. La riempì frettolosamente di viveri, qualche risparmio, alcune munizioni per il fucile da caccia e… fu tentata di portarsi via l’album delle foto, ma si impose di non cedere ad inutili sentimentalismi, anche perché avrebbe aumentato il peso da portare.
Non era una decisione impulsiva. Aveva programmato quella fuga un migliaio di volte. Ogni volta però, arrivata a quel punto il buon senso prendeva il sopravvento e tornava sotto le coperte. Anche stavolta si sentì una stupida adolescente in crisi, ma quando raggiunse il corridoio e guardò nella stanza alla sua destra si riscosse. Sua madre dormiva profondamente, ma era un sonno destinato ad essere spezzato dal dolore o a durare per sempre. Era come il cervo ferito, solo che nel suo caso nessuno sarebbe venuto a salvarla. Fece un passo avanti, poi un altro e in qualche modo raggiunse l’entrata.
Quando si girò per prendere uno dei fucili appesi al muro, lo vide lì in piedi in fondo al corridoio. Suo padre la guardava con un misto di rassegnazione e disperazione. Una parte di lei voleva tornare indietro, abbracciarlo e chiedergli scusa per tutto quanto, ma si girò chiuse gli occhi e uscì nella notte.
Corse, corse a perdifiato su e giù per le colline pur sapendo che non l’avrebbe inseguita, corse anche quando le lacrime le annebbiarono la vista, fino a quando non le mancarono le forze e crollò a terra. Strisciò per raggiungere un albero sul ciglio di una stradina proveniente dalla città e vi si appoggiò cercando di riposare. Sapeva che lì, il giorno dopo o quello ancora, sarebbero passati dei carri che portavano rifornimenti al fronte.
   
 
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