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Autore: paige95    18/05/2020    13 recensioni
La guerra in Afghanistan è il filo rosso che lega il destino di due uomini e due famiglie, due mondi distanti che non sanno di essere molto vicini tra loro.
Nell'estate del 2018, in pieno conflitto, il tenente comandante dei Navy SEALs Christian Richardson e l'inviato speciale del Los Angeles Times Samuel Clark verranno chiamati al fronte, lasciandosi alle spalle vissuti, affetti e i vasti territori californiani.
[Questa storia partecipa al contest "Chi ben comincia è a metà del prologo" indetto da BessieB sul forum di EFP]
Genere: Angst, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Destino'
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La terra di fuoco


 

 
Periferia Ovest di Kabul; 18 agosto 2018
 
Quando Samuel fu messo al corrente della terra di fuoco estesa nel centro di Kabul, il primo pensiero volò al suo compagno di viaggio e alla missione che aveva condotto Christian in quei luoghi devastati dalla guerra.
Aveva promesso al capitano che non avrebbe divulgato quell’informazione, ma sarebbe stato impossibile rimuoverla dalla mente. D'altronde gli aveva parlato di un ospedale nelle mani di gente spietata, non di un luogo qualsiasi; non riusciva ad immaginare un destino peggiore per quei poveri pazienti già fortemente provati dalla sofferenza. Si riscoprì devoto ad un dio che potesse affiancare quel soldato nel corso della missione delicata che avrebbe dovuto affrontare, affinché riuscisse a portarla a termine con successo.
L’accompagnatore del giovane giornalista era un nativo, dal quale Samuel era stato aggiornato sugli ultimi avvenimenti. Karim[1] era nato e cresciuto a Herat. L'Afghanistan era l'unico Paese che avesse conosciuto in vita sua, perciò era pratico della terra brulla che circondava la capitale e quindi era la guida più indicata e affidabile a cui Samuel potesse ambire; per un occidentale inesperto la sua presenza era questione di vita o di morte; in pochi sarebbero stati in grado di evitare una mina antiuomo inesplosa, uno di questi era proprio Karim.
I due uomini procedevano a piedi percorrendo strade ormai inesistenti. L’immenso spiazzo di periferia era diventato un deserto: i granelli di sabbia dorata tipici del Sahara erano rimpiazzati dalla polvere più insidiosa.
Samuel non si stupì di quello scenario apocalittico. Da lì le macerie dei centri abitati distrutti erano visibili in tutta la loro globalità e l’ammasso complessivo infieriva un colpo nello stomaco.
Era consapevole di non aver intrapreso una vacanza in un villaggio turistico, ciò che lo sorprese davvero infatti fu il sorriso spensierato di un paio di bambini che giocavano a cricket[2], come se nulla fosse, come se intorno non si stesse combattendo una guerra. Il ragazzo riusciva a scorgere nei loro occhi entusiasmo. E come dare loro torto? Erano riusciti a ritagliarsi in quell’orrore un angolo di paradiso; la resilienza dei piccoli superava l’immaginabile.
La strada per raggiungere il villaggio, in cui il giornalista avrebbe alloggiato, distava quasi due chilometri dalla base di Bagram, ma i militari erano riusciti a coprire solo poco più di un chilometro con la jeep, a Samuel e Karim era toccato a piedi il resto del tragitto.
Per il giovane americano fu quello il primo approccio alle terre d’oriente. Sotto la suola delle scarpe, avvertiva la scomodità di quei luoghi. Era prudente, non muoveva un singolo passo oltre l’uomo al suo fianco, come gli era stato raccomandato.
Era da escludere a priori un soggiorno a Kabul, eppure anche fuori dalle mura della città aleggiava un’aria intrisa di morte innocente, fumo sollevato dalle macerie e tensione. Un pericolo imminente era sempre presente sotto quella grigia volta celeste.
L’unica nota di colore era rappresentata dai passatempi infantili, che spezzavano un’atmosfera tetra. Più Samuel li osservava, più nella sua mente sorgeva l’idea che le nuove generazioni fossero l’unica speranza per un mondo creato sulle basi dell’odio, solide e inscalfibili come il diamante; proprio come quel materiale che riusciva ad essere scalfito solo da se stesso, anche l’odio sembrava essere combattuto da altro ingiustificato odio.
La presenza di quei bambini gli fece ricordare un dettaglio che pochi anni prima un film drammatico - ma che rispecchiava la cruda realtà - gli aveva impresso nella mente: una bambina con un cappottino rosso era dipinta da Spielberg come simbolo di speranza e purezza nel profondo grigio della morte, un destino che non risparmiò nemmeno quell’anima innocente. Era passato più di mezzo secolo dal massacro che venne causato dall’Olocausto e dalla Seconda Guerra Mondiale e che Schindler’s List denunciò sul finire del secolo degli orrori, eppure il mondo non aveva ancora imparato niente dagli errori passati.
Samuel si ritrovò a pensare al destino che sarebbe toccato a quei bambini e a tutti i loro coetanei che fino a quel giorno erano riusciti a sopravvivere. Le percentuali di rivederli erano troppo basse. Avrebbe voluto dire loro di prestare la massima attenzione con l’aiuto di Karim che avrebbe avuto l’importante ruolo di mediatore linguistico, ma non se la sentì di irrompere in quel piccolo sogno, creato dalla mente e lontano dalla realtà che li circondava.
Il ragazzo era sicuro che i suoi occhi si fossero annacquati, così si schiarì la voce, anche se Karim stava prestando la sua attenzione al suolo su cui posavano i piedi e non al volto del suo protetto.
Era stato fortunato Samuel a poter beneficiare della compagnia di quell’uomo così istruito; Karim parlava fluentemente l’americano, si era laureato a Kabul, era diventato medico pochi anni prima che nel suo Paese scoppiasse la guerra. Aveva giurato con vocazione di fare tutto ciò che era in suo potere per salvare vite umane ed era ciò che stava facendo con maggiore intensità da quasi diciassette anni.
Samuel e Karim si erano brevemente presentati nel momento del loro primo incontro. Fu quella l’occasione in cui il giornalista venne messo al corrente della carneficina che l’ospedale di Kabul stava rischiando. Il medico aveva esercitato la sua professione tra quelle mura prima che il nosocomio diventasse inagibile, ad eccezione di quei pochi operatori sanitari che avevano avuto la sfortuna di trovarsi al suo interno, prima che venisse blindato dai Talebani.
Samuel era concentrato ancora una volta sulle sorti del capitano Richardson, non aveva modo di ricevere sue notizie. I suoi pensieri vennero bruscamente interrotti da Karim. L’uomo lo aveva sfiorato all’altezza del ventre, invitandolo a fermarsi con urgenza. Il medico rivolgeva lo sguardo preoccupato su un punto distante pochi centimetri da loro, non esplicitò le sue ipotesi, ma fu facile per Samuel intuirle dalle reazioni tese.
«C’è una mina?»
Karim confermò con un leggero cenno del capo e si voltò verso il ragazzo per incrociare i suoi occhi perplessi e inesperti. Non lesse paura, solo spaesamento e molto probabilmente una buona dose di incoscienza dovuta alla giovane età.
Da quello che all’afghano era stato dato modo di apprendere, Samuel era fresco di laurea in giornalismo. A lui sarebbe tanto piaciuto sapere quale genere di sciagurato aveva avuto l’ardire di spedirlo laggiù.
«È troppo rischioso proseguire per di qua. A meno che tu non abbia una gran voglia di perdere qualche arto»
Far riflettere Samuel sull’avventura che stava compiendo non era compito di un accompagnatore e mediatore linguistico improvvisato. Siccome avrebbe potuto essere suo figlio, vista la differenza di età di circa una ventina d'anni, si sentì in dovere di farlo.
«Certo che no. Prendiamo un’altra strada?»
«Senti. Mi togli una curiosità, se non sono troppo indiscreto? Perché sei qui? Non sei un soldato né un medico»
«È un modo gentile per dirmi che sono inutile?»
Non aveva percepito alcun tipo di provocazione nella voce di Karim. Le parole e il sorriso appena accennato di Samuel erano stati escamotages per eludere la domanda, non era abbastanza in confidenza per rispondere.
«Penso solo che la vita di un uomo non valga un servizio giornalistico in zone ad alto rischio per la propria incolumità»
Karim parlava con ragione di causa. Il giovane americano poteva solo immaginare la sofferenza di cui il medico era stato testimone negli ultimi anni.
Le raccomandazioni dell'uomo fecero rammentare a Samuel di non aver avuto ancora occasione di avvisare la famiglia del suo arrivo. La madre e la fidanzata erano di sicuro in pensiero, per il padre non avrebbe messo la mano sulle braci, si sarebbe sicuramente scottato.
Presero un sentiero diverso da quello che in origine avevano in mente. Karim riuscì a scortarlo sano e salvo alla destinazione, la sua presenza era stata fondamentale.
Quando i due uomini iniziarono ad intravedere le abitazioni, Samuel ebbe la netta percezione di aver solcato l’universo intero in poche falcate e di essere atterrato su un altro pianeta. Non vi era nemmeno più l’ombra della vita che aveva lasciato a Los Angeles.
Seguì Karim nei pressi di una porta in legno. Il resto dell’abitazione era costruita con blocchi regolari di pietra. Il soffitto era piuttosto basso, l’ingresso era pochi centimetri più alto di Samuel.
Il medico di Herat batté con delicatezza le nocche contro la porta. Il rumore risultò attutito, Samuel dubitava che qualcuno dall’altra parte sentisse.
Trascorsero solo un paio di secondi e furono accolti da un uomo che si premurò di socchiudere appena l’imposta, come se stesse nascondendo qualcosa.
A Samuel era stata insegnata la buona educazione, eppure la curiosità fu più attraente e prese il sopravvento. Si sporse appena, quanto bastò per intravedere l’atrio dell’abitazione. Fece solo in tempo a scorgere un paio di grandi occhi azzurri che risplendevano nell’oscurità, prima che il padrone di casa se ne accorgesse e chiudesse la porta alle sue spalle, per tenere lontani i curiosi.
Il giornalista non comprese una singola parola tra quelle che i due nativi si stavano scambiando. Vide Karim portarsi in rapida successione la mano sul torace, sulle labbra e sulla parte centrale della fronte, prolungare quel gesto in avanti e fare un inchino davanti all’uomo. Nonostante tutta la riverenza di Karim, l’altro ricominciò a parlare in arabo e stavolta con più concitazione. Agli occhi di Samuel, sembrava essere piuttosto infastidito dalla loro presenza.
«Scusa, Karim. Perché è così arrabbiato? Cosa gli hai detto?»
«Gli ho chiesto se potesse offrirti alloggio. Lui è il capo di questo villaggio. Sua moglie è morta da pochi mesi, è rimasta vittima di un bombardamento nei pressi dell’ambasciata americana. Ora vive solo con la figlia in età da matrimonio e il figlio ancora piccolo. E proprio per questo che non desidera ospitare uomini estranei»
Samuel capì a chi appartenesse quello sguardo così penetrante che aveva intravisto. Era di una giovane fanciulla afghana e quella era l’unica parte del corpo che poteva offrire agli occhi degli sconosciuti. Era inesperto, ma non abbastanza da non sapere quali fossero i timori dell'uomo.
«Prova a dirgli che sono fidanzato. Non appena ritorno a casa mi sposo, lei mi sta aspettando»
«Temo non sia una garanzia sufficiente, Samuel»
Karim era dispiaciuto. Era l’unico a poter mediare e a contrattare tra i due, ma non riusciva a trovare un punto d’incontro tra le necessità di entrambi.
Il medico afghano analizzò sovrappensiero i vestiti di Samuel. Gli abiti occidentali civili ispiravano poca fiducia a qualunque nativo a cui fosse chiesto di offrire un tetto per un forestiero.
«Ti devi cambiare e togliere il cartellino che porti contro il petto. Altrimenti non sopravvivi un solo giorno qui. Sei americano, non è così raro che giornalisti americani spariscano e di loro non si abbiano più notizie»
Nessuno aveva ancora trovato il coraggio di descrivere con una tale schiettezza il destino contro cui rischiava di andare un ragazzo nel fiore degli anni. Per la prima volta, da quando quell’avventura era iniziata, Samuel avvertì una stretta allo stomaco per la sua incolumità. Da diverse ore ormai non metteva qualcosa sotto i denti, eppure avrebbe solo desiderato vomitare.
Il rombo di alcuni elicotteri distrasse il giovane da quella sensazione di nausea. Le eliche vorticavano sopra le abitazioni di pietra e le loro teste. Nessuno dei due afghani si stupì, Samuel invece avvertì un’insolita sensazione di assedio, quei velivoli seguivano una traiettoria a bassa quota e smuovevano un’intensa turbolenza d’aria.
Il capo del villaggio attese che i mezzi militari si allontanassero per tornare a rivolgersi infastidito a Karim. A Samuel non sfuggirono le gestualità dell’uomo, l’espressione corrucciata e il tono di voce elevato.
«Karim, è arrabbiato con me?»
«No. Dice che da giorni ormai gli aerei americani volano sopra il suo villaggio in direzione di Kabul. È solo stanco come tutti noi della guerra e non riesco a dargli torto»
Il fedele accompagnatore dedicò a Samuel uno sguardo rammaricato e il ragazzo avvertì un velo di accusa. Era certo non fosse una questione personale, ma agli occhi di Karim era un occidentale e, come molti connazionali che si trovavano in quelle terre, era favorevole ad una guerra che uccideva milioni di civili innocenti, esattamente come era accaduto alla moglie di quell’uomo.
Samuel non aveva alcuna esperienza sul campo, le pochissime informazioni che era riuscito ad ottenere su quel conflitto provenivano dalla CNN e da qualche testata giornalistica, compreso il Los Angeles Times. I colleghi che prima di lui avevano affrontato quell’avventura erano tornati tutti a casa per raccontarla, nessuno di loro era rimasto segnato nel corpo e nell’anima. Si domandò come fosse possibile rimanere totalmente indifferenti ai numerosi stimoli che lo circondavano e svolgere quel lavoro come se fosse l’ordinaria cronaca di una rapina in banca. Il direttore Clark l’avrebbe definita professionalità, Samuel la considerava semplice insensibilità.
«Karim. Puoi dirgli che mi dispiace tanto per la sofferenza che state patendo? Non sono stati gli americani a dichiarare guerra, ma gli estremisti. Non importa se non vuole ospitarmi, capisco la sua diffidenza»
L’umanità del ragazzo stupì il medico. Samuel si trovava in Afghanistan da poche ore, eppure mostrava già completo rispetto verso quella popolazione, a lui totalmente sconosciuta. Doveva trattarsi di una predisposizione al prossimo innata, non aveva altre spiegazioni plausibili.
Karim gli posò una mano sulla spalla, accennandogli un sorriso.
«Non preoccuparti, ragazzo. Puoi stare da me. Vieni, ti presto qualche vestito e ti do qualcosa da mettere sotto i denti»
 
◦•●◉✿✿◉●•◦
 
Non appena Samuel fu entrato nell’abitazione di Karim, posizionata al centro del villaggio, comprese che l’uomo che lo aveva accompagnato fin lì era il medico della sua gente, prima ancora di prestare servizio all’ospedale di Kabul.
L’ambiente in cui si trovavano era lontano anni luce dalle comodità della civiltà. Negli Stati Uniti lo avrebbero definito meno di un monolocale, forse in senso dispregiativo lo avrebbero paragonato addirittura ad una topaia. Era allestito con un tavolo di legno marcio posto al centro della stanza, un letto - se così si poteva definire - nell’angolo e un mobile anch’esso di legno con l’anta mezza diroccata che fungeva da armadio e conservava tutti i pochi averi dell’uomo.
Al giovane americano non sfuggì quello che doveva essere il bene più prezioso per Karim: una piccola libreria incastonata nella pietra, appena sopra lo scomodo giaciglio. Il medico gli aveva spiegato che si trattava di rudimentali volumi di chirurgia, essenziali per poter soccorrere con celerità i feriti più gravi, in assenza di strumentazione adeguata.
Quando Karim lo aveva invitato ad accomodarsi alla sua tavola e gli aveva offerto una razione di pane raffermo che probabilmente rappresentava la sua dose giornaliera, Samuel sentì il cuore stringersi in una morsa. Non riuscì ad accettare con leggerezza un gesto tanto generoso.
«Cosa c’è? Non ti piace il pane? Lo so, non è il massimo. Ma dobbiamo accontentarci»
Samuel allontanò la ciotola di legno con dolcezza, per poterla avvicinare al padrone di quella povera casa che si trovava dall'altro lato del tavolo. Karim gli aveva posto la domanda con troppa ingenuità. Si premurava di accontentarlo, far in modo che si sentisse a suo agio, anche molto lontano da casa.
«Non me la sento di privare te»
«Pensi sia la prima volta che resto senza cena? Ho pranzato e per oggi mi è sufficiente»
Karim riavvicinò la razione di cibo al suo ospite, non mancando di accompagnare quel gesto con un sorriso rincuorante.
«Su, coraggio, mangia. Ti cerco i vestiti»
Samuel seguì i passi di Karim fino all’armadio. Più di una domanda sorse spontanea al ragazzo, quell’uomo era troppo povero per occuparsi di un occidentale, provvedeva a malapena alla sua sussistenza.
Il giornalista ignorò il pane, non si sarebbe appropriato nemmeno di una briciola, la sua fame non doveva essere nelle priorità di alcuna persona. Si avvicinò al medico, si inginocchiò a sua volta per raggiungere l’altezza di Karim e fu Samuel ora a posare una carezza sulla sua spalla.
Il buon uomo che gli aveva offerto aiuto con generosità era un medico laureato, ma in quel paese non ricopriva un ruolo prestigioso e ciò non gli offriva alcun beneficio; solo conoscenze che sfruttava al servizio del prossimo, viveva nella stessa indigenza del resto della popolazione.
«Karim. Ti sono grato, ma preferisco tornare in ambasciata. Si occuperanno loro di me e della mia permanenza qui. Non ha alcun senso privarti di tempo e risorse, risparmiali per chi ha veramente bisogno. Ti chiedo solo un ultimo favore, riusciresti a riaccompagnarmi dove ci siamo incontrati?»
L’uomo aveva cessato le sue ricerche per ascoltarlo, ma non era affatto d’accordo con lui. Era un bravo ragazzo, meritava il suo tempo, il suo aiuto e la sua attenzione. Sentiva di non sbagliarsi, la sua anima era pura.
«Senti, Samuel. Non mi sei di alcun disturbo, vivo da solo e necessiti di qualcuno del posto che ti aiuti. Per quanto l’ambasciata risulti il luogo più sicuro per gli americani, non lo è affatto. È un bersaglio esposto ad attacchi e non mi stupirebbe se un giorno la distruggessero»
La verità piombò addosso al giovane come una doccia fredda. Era ingenuo pensare che in quei territori si potesse scovare un angolo al riparo dalla morte e dalla distruzione. La stessa moglie del capo di quel villaggio era morta in seguito ad un attentato organizzato a pochi metri dall’ambasciata americana.
Karim era fiducioso che Samuel accettasse quella proposta. Prima ancora che il forestiero gli rispondesse, aveva già recuperato una kurta[3] pulita, un paio di pantaloni e un copricapo molto simile a quello indossato dai beduini nel deserto. Gli porse gli indumenti con un mezzo sorriso, si era preso un impegno dall’esatto momento in cui aveva deciso di scortare e guidare un americano in territorio minato.
Con modestia, doveva ammettere che senza lui sarebbe già morto, fosse solo per le origini e l’esperienza di Karim.
Il medico fissava impaziente il suo ospite, il quale a sua volta scrutava pensieroso gli abiti che gli venivano offerti con una generosità disarmante.
Il momento di stasi che i due uomini stavano vivendo fu interrotto bruscamente da un violento schianto del legno della porta contro il muro di pietra.
Karim era rivolto verso l’ingresso e comprese subito la gravità della situazione. Accostò i vestiti al petto di Samuel con distrazione e si piombò ad accogliere colei che aveva fatto irruzione in casa sua.
Quando Samuel si voltò, la scena che si stava consumando davanti ai suoi occhi lo fece rabbrividire. Una donna con il capo coperto reggeva tra le braccia un bambino che dava pochi segni di vita, solo qualche leggera scossa che dimostrava quanto il suo corpicino stesse lottando contro la morte.
L’afghana lasciò che il medico si portasse dolcemente il piccolo contro il petto; quel gesto rivelò una macchia rossa estesa sulla stoffa chiara del niqab[4] della donna.
Samuel riconobbe quello sguardo femminile e delicato dall’unico dettaglio che gli era stato consentito conoscere di lei. Per una frazione di secondo, rimase incantato dall’azzurro intenso che solcava il viso della figlia del capo del villaggio. Nell’arco di quel breve tempo, lei non si accorse nemmeno della presenza del ragazzo, era concentrata sui gesti di Karim e nel suo sguardo traspariva solo una grande preoccupazione.
L’americano, con un grande sforzo psicologico, cercò di uscire dalla catalessi in cui era entrato. Abbandonò i vestiti sul tavolo e si avvicinò al suo nuovo amico.
Samuel non aveva una gran fretta di sapere cosa facesse soffrire quella creatura, il fatto che provasse così tanto dolore non lo rendeva preparato a scoprirlo. Scoprire che si trattava proprio di uno di quei bambini che aveva intravisto giocare a cricket poco prima lo sconvolse. Aveva un braccio insanguinato, ma Karim sembrava più impegnato a tranquillizzare il piccolo, porgendogli qualche carezza tra i capelli sudati e sussurrandogli dolci parole in arabo.
Samuel si avvicinò a loro e si chinò ai piedi del letto su cui il ferito era stato adagiato. Per la prima volta lesse angoscia sul volto di Karim.
«Non ho farmaci per alleviare le sue sofferenze. Non ho…»
Il ragazzo colse una lacrima percorrere rapida la guancia leggermente ispida del medico. Si voltò verso la donna e la vide appoggiata allo stipite della porta - o quel che sembrava - in evidente stato di rassegnazione. Rivolgeva lo sguardo al cielo, stava sicuramente pregando il cielo che le concedesse un ultimo miracolo.
«Karim, chi è questo bambino?»
«È Hassan, il fratello di Maryam. Ha toccato una mina. Non so come aiutarlo»
L’uomo era disperato. Faceva tutto ciò che era in suo potere per calmarlo, ma non era sufficiente, era necessario un intervento medico urgente. Samuel posò una mano sulla spalla di Karim sperando di infondergli forza.
«Samuel, se non faccio qualcosa si dissanguerà. Non arriviamo in tempo all'ospedale da campo e quello di Kabul è inagibile»
«Karim, non puoi perdere lucidità, non ora che…aspetta»
Il giovane era rimasto talmente impressionato dalla tragedia che si stava consumando sotto i suoi occhi, che non aveva pensato al tentativo più sensato da fare in quei casi. Si slacciò con rapidità la cintura dei pantaloni, la fece scivolare tra i passanti e la porse al medico. Quest’ultimo non si decideva ad afferrarla.
«Lo so, perderà il braccio. Ma avrà salva la vita, se fermi l’emorragia»
Il viso di Karim era diventato una maschera di cera, la sua mano era tremante. Hassan non era un paziente qualunque, era un amico che stava diventando un'ennesima morte innocente di un genocidio evitabile.
Accettò la proposta di Samuel, ma sapeva che in ogni caso il futuro di quel bambino non sarebbe stato roseo.
Il ragazzo non rimase a guardare in quale modo il medico si sarebbe mosso con l’aiuto della cintura. Gli faceva male il petto, ormai stanco di assistere ai tremori e ai gemiti sofferenti di una piccola vittima.
Diede una decisa spinta al letto per alzarsi, con la speranza che le gambe lo reggessero ancora. Non incrociò lo sguardo delle persone presenti in quella stanza. Anelava solo di raccogliere un po’ d’aria, sentiva una strana pressione comprimergli i polmoni.
Poco distante da una schiera di case in pietra, c’era una vasca, anch’essa in pietra, stracolma d’acqua. Samuel non si pose alcuna domanda, non era acqua corrente, ma sembrava limpida, visto che rifletteva la sua immagine provata. Necessitava di sciacquarsi il viso accaldato dall’agitazione.
Si appoggiò al bordo di quel grande contenitore e scoppiò in lacrime. Le piccole gocce d'acqua sulle sue guance erano evaporate subito sotto il sole di metà pomeriggio e avevano lasciato il posto a scie salmastre, i cui segni erano più difficili da cancellare.
Se quella era la guerra, lui non era certo di riuscire ad assistervi. Aveva su di lui un impatto emotivo troppo violento.
Sfogò in quel pianto tutta la tristezza che il suo cuore serbava. La sua mente continuava solo a riproporre l’immagine di quel bambino riverso nella pozza del suo stesso sangue.
Perché lui e Karim non avevano avvisato quei ragazzini di allontanarsi da un luogo tanto pericoloso per giocare? Perché lui non li aveva avvertiti? Samuel li aveva notati, Karim probabilmente no, altrimenti li avrebbe salutati, non avrebbe proseguito la sua strada ignorandoli.
Temeva che quella fosse la norma laggiù, una triste realtà a cui avrebbe dovuto abituarsi, se voleva portare a termine il suo compito.
In quelle terre non aveva un rifugio in cui stare, ma non avrebbe chiesto al suo buon amico altri sacrifici. In poche ore aveva provato sulla propria pelle le condizioni di miseria in cui viveva quella popolazione.
Come riusciva Christian a prendere parte a quella guerra, pur conoscendo l’inferno che spettava alla gente che viveva nel mezzo di una terra di fuoco? Si rammentò di non essere troppo ingenuo, condividere un viaggio di mezza giornata non consentiva di conoscere una persona, per quello non bastava una vita intera e suo padre ne era la prova inconfutabile.
«Si abbeverano gli animali lì dentro»
Una voce improvvisa alle spalle di Samuel lo fece trasalire. Si era voltato, ma non aveva perso il contatto fisico con la nuda roccia.
Era quella giovane afghana, Maryam. Gli era lontana qualche metro, la sua voce risuonava ovattata a causa del velo che le incorniciava il volto e le copriva la bocca, eppure dal tono al ragazzo parve che avesse accennato un sorriso sulle labbra.
In quelle vesti Samuel non riusciva nemmeno ad attribuirle un’età, c’era la possibilità che non fosse neppure maggiorenne o forse lo era appena diventata.
«Conosci la mia lingua?»
«È stato Karim ad insegnarmi l’americano. Sai, non tutti gli americani sono buoni come te ed è utile capire cosa dicono. Hai salvato mio fratello, te ne sono grata»
Non aveva salvato proprio nessuno. Quel bambino sarebbe rimasto segnato a vita per colpa di una stupida mina antiuomo. Forse gli aveva addirittura regalato un’esistenza piena di sofferenze e difficoltà.
«So a cosa stai pensando, americano. Qui però è un po’ diverso rispetto al mondo da cui vieni tu. Per noi anche un alito di vita è prezioso. È speranza e sono certa che lo pensi anche Hassan. Hai risparmiato un altro grave lutto alla mia famiglia. Come posso sdebitarmi?»
Avrebbe voluto offrire lui qualcosa a loro e non certo il contrario, ma aveva le mani legate contro una guerra più grande di chiunque. Erano ingiustizie inaccettabili le differenze tra Occidente e Oriente, le condizioni di vita che quel popolo doveva sopportare erano inumane. Avrebbe desiderato più potere per aiutarli, migliorare anche solo un decimo delle loro vite.
Recuperò un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e si asciugò gli occhi e le guance bagnate da un misto di acqua dolce e salata. Quell'iniziativa gli diede modo di prendere tempo davanti alla ragazza, non sapeva cosa dirle.
«Samuel. È vero che ti sposi?»
Il ragazzo fece solo un lieve cenno per affermare e nulla di più. Non era dell'umore giusto per ostentare entusiasmo al pensiero del suo matrimonio imminente.
«Lo dico a mio padre, così puoi stare con noi. È il minimo che possiamo fare per te. Se sei già promesso, non avrà qualcosa da obiettare. Ti chiedo solo di rispettare le nostre regole. Mio padre è molto rigido e non transige»
La giovane stava tornando sui suoi passi, forse per parlare subito con il mullà[5].
«Maryam. Grazie»
Samuel non si era mai fermato a pensare quanto un sorriso potesse essere importante nell’interazione tra esseri umani, indipendentemente dalla cultura a cui essi appartenessero. Almeno fino a quel momento, in cui a sorridere furono solo gli occhi di Maryam, ma era sicuro che rispecchiassero la sua anima.
 

Buongiorno, cari lettori e care lettrici!

Ci tengo a sottolineare che tutti i dettagli di questo e dei capitoli precedenti sono frutto di ricerche, note comprese (spero possano aiutarvi ad entrare meglio nel clima del territorio). Spero inoltre di essere stata il più attinente possibile alla realtà, anche se cruda, me ne rendo conto, ma in fondo la mia intenzione iniziale era proprio quella di descrivere quel mondo.
 
Ringrazio davvero di cuore tutti coloro che mi seguo e un ringraziamento speciale va a coloro che mi supportano dedicandomi tempo e parole incoraggianti. 💜
 
Alla prossima!
Un abbraccio a tutti voi,
Vale

 

[1] Generoso, buono d’animo.
[2] Uno degli sport più amati in Afghanistan.
[3] Capo di abbigliamento tradizionale, ampia camicia lunga fino alle ginocchia.
[4] Velo che copre l’intero corpo della donna, compreso il volto, lasciando scoperti solo gli occhi.
[5] Uomo di religione musulmana esperto di teologia islamica.
   
 
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