Capitolo 30
L’ebrezza di una notte idillica
“Il sopravvivere senza aver rinunciato a nulla del
proprio mondo morale, a meno di potenti e diretti interventi della fortuna, non
è stato concesso che a pochissimi individui superiori, della stoffa dei martiri
e dei santi.”
Primo Levi
Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”
“E
ti do un altro consiglio, Sarah”, riprese Giuditta, più apprensiva, “vedi
quella?”
Con
un cenno della testa, le indicò una cameriera molto giovane dai capelli biondo
cenere e gli occhi smeraldini che, seduta al tavolo con le gambe accavallate,
conversava, sprizzando un inappropriato buonumore.
Sarah
notò ogni particolare, nonostante il velo di lacrime che le appannava gli occhi
e assentì con un lieve movimento del capo.
“Quella
sta con il sergente maggiore. Fa la spia su tutti. Fossi in te, starei attenta
a non farmi sorprendere da lei in situazioni come questa”, la mise in guardia
Giuditta.
Sarah
capì di dover essere più prudente, meno ingenua in futuro. Una volta andati via
i suoi compagni di baracca, probabilmente, non avrebbe potuto fidarsi più di
nessuno, neanche di se stessa. Infatti, si promise di non donare più la propria
anima alle ipocrite carezze di Hermann, di dargli il proprio corpo senza fare
con lui l’amore, pur sapendo che non avrebbe mantenuto la promessa.
Le
ombre della sera calarono su Fossoli come stormi di avvoltoi su quanti
ignoravano che quella sarebbe stata l’ultima notte in cui poter ancora poggiare
la testa su un cuscino e sperare in un futuro meno amaro. Nonostante sapesse
del trasferimento ad Auschwitz, anche Sarah non ne immaginava l’orrore e, prima
di recarsi nella stanza del tenente, diede le due fette di pane ad Agnese. Stavolta,
la bambina non chiese spiegazioni per quello che sarebbe stato l’ultimo pane
offertole con amore.
Tra
le baracche del campo, il vento e l’aria particolarmente fredda lasciavano
presagire una nevicata e, non appena varcò la soglia dell’edificio occupato dai
tedeschi, Sarah fu accarezzata in viso da una piacevole sensazione di calore,
mentre una dolorosa fitta di irrequietezza la colpiva nel petto. Sperò di
uscire al più presto da lì. Come le aveva già lui preannunciato la sera precedente,
Hermann non era ancora nella sua camera e, in attesa che arrivasse, iniziò a
camminare avanti e indietro per la stanza, poi a girare su se stessa fin quando,
stanca più mentalmente che fisicamente, non si fermò a fissare il letto,
indecisa se sedersi o meno. Infine, scelse la prima opzione. Agitata al
pensiero che la cameriera bionda l’avesse vista rubare le due fette di pane,
prese a tormentarsi le mani che teneva in grembo, poi si lasciò scivolare su di
un lato e, appoggiata la testa sul braccio, permise al suo animo e alle sue
palpebre di riposare, «solo un attimo», si disse. Quello che accadde dopo non
molto lo visse come un sogno, stordita dal tepore del sonno, inebetita dal
tocco delicato di una mano sul suo fianco che l’aveva ridestata e dal verde
limpido di due occhi riflessi nei suoi.
“Stai
gelando”, fece Hermann, a mezz’aria su di lei che, intanto, si era distesa al
suo tocco, “potevi metterti sotto la coperta.”
Sarah
non sembrò meravigliarsi di tale gentile e premurosa concessione e, mentre lui
cercava la sua mano per intrecciarvi le proprie dita, ribatté in un dolce
sussurro: “Ti stavo aspettando.”
E
fu Hermann a stupirsi, quando le dita di Sarah si incastrarono con decisione tra
le sue stringendogli la mano, prima che i loro corpi diventassero un intreccio
nudo di braccia e respiri, di gemiti e fianchi, di gambe e tremiti, di battiti
e sguardi.
Giunti
al culmine di quel fervido desiderio sospinto dal ritmo di gesti armonici e
delicati che si alternavano a movimenti più decisi e concitati, Hermann fissò
lo sguardo negli occhi di Sarah, socchiusi e lucidi di piacere e, affinché la
sua coscienza nazista non facesse in tempo a prevalere sulle sue emozioni, si
affrettò a dirle: “Resta con me questa notte”, fece una pausa e, dandole libero
arbitrio, le restituì la dignità di essere umano e di donna, “se vuoi.”
E
fu, forse, questo il momento in cui Sarah si innamorò. Senza esitare, gli
scostò lievemente una ciocca di capelli dalla fronte imperlata di sudore e non
vide più i tratti malvagi del nazista, ma soltanto il viso di un bel giovane
uomo. Gli rispose sorridendogli per la prima volta e, con lo stesso lieve
sorriso, compiaciuto e rassicurato, si addormentò tra le sue braccia.
22 febbraio 1944
~ Giorno della partenza per Auschwitz[1] ~
Le
ombre della notte non si erano ancora diramate del tutto che, attraverso le
timide luci del crepuscolo mattutino che tentavano di penetrare dalla finestra,
Sarah lo vide di spalle, completamente nudo. Si era svegliata, sentendolo
scivolare via dalla sua schiena e dalle lenzuola, ma fingeva di dormire ancora
per godersi i postumi dell’ebrezza dei sensi e delle emozioni provata quella
notte e per contemplare adesso la visione offertala all’alba di pelle cerea e
muscoli scolpiti, di un corpo perfetto e atletico paragonabile a quello di una
statua greca. Con il volto seminascosto da un lembo della morbida coperta, lo
guardò mentre allungava le braccia verso l’alto per stiracchiarsi i muscoli
dorsali e, iniziando dai trapezi, ne seguì la contrazione verso il basso fino a
posare audacemente lo sguardo sul suo fondoschiena. Hermann emise un sospiro e
abbassò le braccia rilassandosi, mentre lei chiuse gli occhi e si tirò la
coperta sulla testa, imbarazzata di fronte a quelle forme che aveva conosciuto
soltanto al tatto e per quel fremito che l’aveva attraversata nel vedere per la
prima volta un uomo nudo.
Si
alzò dal letto soltanto quando lo sentì uscire dalla stanza e chiudere
lentamente la porta dietro di sé. Sarah aveva teso l’orecchio dallo scorrere dell’acqua,
mentre lui iniziava a lavarsi, al fruscio dei suoi movimenti nel vestirsi che
divenne rumore quando calzò i pesanti stivali e agganciò il cinturone del
fodero attorno alla vita. Non era più l’imbarazzo a trattenerla a occhi chiusi
sotto le lenzuola, ma la paura di dover affrontare il suo possibile
cambiamento, uno sguardo, una parola o un gesto che l’avrebbe catapultata di
nuovo nella dura realtà. Fuori da quel letto, Hermann era il comandante del
campo e lei la prigioniera ebrea e nessuna fantasia avrebbe potuto smussare gli
spigoli del mondo reale. Sul comodino dal suo lato del letto, vide un sacchetto
di biscotti alle mele, il compenso e l’offesa per una notte che aveva creduto
idillica. Protendere la mano sarebbe stato il primo passo verso il ritorno
nell’incubo della realtà.
“Io donna, io persona
avvilita come un oggetto,
come bambola da letto.
Io non voglio essere schiava
e neppure esser padrona,
voglio essere soltanto
una donna, una persona.”
Mia Martini, Io donna, io persona
[1]Nel
convoglio diretto verso Auschwitz, tra i 650 deportati, viaggiava anche Primo
Levi che ha rievocato la sua breve esperienza a Fossoli nelle prime pagine del
famoso libro Se questo è un uomo e nella poesia Tramonto a Fossoli.