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Autore: Hoel    23/05/2020    5 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
Capitoli:
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Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 13.11.2021

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Capitolo Tredicesimo, parte 2

Confiteor

(Onora il Padre …)

 

 

 

 

 

Visitatori e ambasciatori a Venezia spesso annotavano, sbalorditi e scandalizzati, la balzana sintonia tra patrizi, cittadini e popolo, laddove non sussisteva alcun aspetto della vita quotidiana né alcun divertimento, in cui i cosiddetti “inferiori” non condividessero coi loro “superiori” e come quest’ultimi non esigessero alcun rispetto esteriore dai primi. Una convivenza pacifica regolata dalle scrupolose leggi e lo spazio risicato rispetto alla popolazione. Strabuzzavano gli occhi, i foresti, scorgendo magari in beccheria tra il popolino e i servi un senatore contrattare col bécher il prezzo della carne, magari il medesimo nobiluomo con cui a Palazzo Ducale avevano discusso con olimpica flemma di delicate questioni diplomatiche.

Sicché i servitori ai patrizi, nell’intimità del palazzo, fungevano anche da amici, confidenti, occasionali amanti (purché non lo si denunciasse ai Signori di Notte), balie, compagni di giochi, santoli e figliocci. Custodi quindi dei segreti dei padroni e spesso loro complici, non ci si stupiva se i Signori di Notte e la Quarantia Criminal puntassero immediatamente su di loro onde estrarre confessioni e testimonianze utili alle loro indagini. Tutt’al più li incoraggiavano con lauti compensi, come quelli di condividere metà delle multe o espropri, ad esempio, quando denunciavano i loro padroni per cospirazione, frode, fornicazione, violazione delle leggi suntuarie, sodomia e gioco d’azzardo.

Hironimo, similmente a tanti suoi coetanei, era appunto cresciuto in questo equilibrio, giostrandosi tra il piano nobile di Ca’ Miani e l’affollato Campo San Vidal; tra il portego arioso e raffinatamente ammobiliato e il marasma fumoso delle cucine; tra le fragranze d’incenso e sandalo dei brucia-profumi di bronzo e gli odori di cipolle e noce moscata delle pentole; tra la colta compagnia di Madre e quella grezza di Orsolina.

Costei era stata allevata dalla seconda moglie del nonno sier Lucha, per arginare la mancanza di figli suoi. Nata, ufficialmente, da un marinaio chioggiotto morto in mare, in realtà a Ca’ Miani non era sfuggito come la ragazza assomigliasse in maniera inquietante al padrone. Tuttavia, i servi avevano sempre taciuto a riguardo e non confermarono mai niente all’interessata in questione, prima fra tutti la sua stessa madre.

Orsolina, anima semplice, s’era dimostrata una compagna devotissima alla sua benefattrice e tale lealtà trovò premio quando, rimasta senza la sua padrona, invece d’esser scalzata da Eudokia, la fantesca di madona Leonora, quest’ultima se l’affiancò nel governo di casa giacché “voi conoscete anche l’ultima sua pietra”.  A sancire tale muliebre alleanza, suo figlio Menego aveva sposato la candiota.

A chi dunque se non all’anziana Orsolina poteva Hironimo porre quelle domande, che neanche i suoi onorati parenti e fratelli osavano rispondere senza tergiversare, arrossire e tartagliare?

“Com’era madona Andriana, la prima moglie di Padre? In che rapporti erano?”

L’anziana massera levò lo sguardo dall’elaborata brocca di vetro che stava lavando con grande attenzione, nel frattanto che Zanetta e Ufemia o finivano d’asciugare le coppe di vetro con decorazione in doratura e smalto o lucidavano i piatti d’argento da parata. Pur non estraendo la balla d’oro alla Barbarella, Madre aveva ugualmente desiderato organizzare una festicciola per Hironimo, tirandolo su di morale e scherzando che avrebbe avuto la vita intera a starsene chiuso a Palazzo Ducale.

“Madona Andriana, patron Momolo?”, ripeté confusa la donna. Il ragazzo annuì. “Perché?”

Il ventenne fece spallucce, accarezzando distrattamente Baffo il gatto che, ristoratosi dai suoi vagabondaggi notturni, si strusciava ora tra i suoi stinchi, ronronnando. “Così? Non ne parli mai” e invero assieme ai fratelli Marco Antonio ed Emilia, morti prima ancora che Hironimo potesse conoscerli, la prima moglie di Padre corrispondeva al fantasma di Ca’ Miani, una presenza talmente passeggera e presto dimenticata, da non aver lasciato alcun’impressione duratura al punto che la sua sorellastra Crestina era considerata all’unanimità più figlia della seconda padrona, che della prima. 

Orsolina si leccò le labbra, riprendendo il suo lavoro interrotto. “Una rosa graziosissima dal fascino delicato che piace agli uomini, dai modi cortesi e imperscrutabile come un’icona greca”, esordì la massera, rievocando quei lontani ricordi di trentasett’anni addietro, quando sier Anzolo aveva condotto la giovane sposa a Ca’ Miani dopo i festeggiamenti nuziali. “Parlava poco col Patron e trascorreva la maggior parte del tempo o in camera sua o in altana e sempre in compagnia delle cugine, cognate e amiche, sicché si poteva dire andasse molto d’accordo con la nostra famiglia. Molto elegante nel vestire al limite della vanità, sempre sfoggiava abiti ed acconciature alla moda, ognora pronta a farsi ammirare alle feste di precetto e alle cene dogali. All’incoronazione a Principe Serenissimo del suo barba Nicolò Trum e a Dogaresa della sua amia Aliodea Morexini, ella sfilò in Bucintoro nel corteo di quest’ultima e pareva una stella nel firmamento, biancovestita di raso e splendente di diamanti e filamenti di perle. Se non m’inganno, teneva la treccia legata a mo’ di crocchia da una sottilissima rete di fili d’argento, la quale luccicava alla luce del sole. Fu l’ultima volta che la si vide in pubblico, prima di … voi lo sapete.”

Hironimo storse la bocca, il cuore stretto da un’infida vena d’astio a chiunque osasse sciorinarsi in lodi sull’altrui muliebre beltà, che non fosse quella di Madre. “Erano felici? Padre l’amava?”

Quella vecchia volpe d’Orsolina captò immediatamente la sua malcelata asprezza. “L’amava per la famiglia che rappresentava. I Trum si erano rivelati un aiuto impagabile per noi, ottimi soci negli affari e in generale brave persone, anche se un po’ eccentrici. Naturale, che si combinasse un matrimonio per rafforzare la mutuae”, lo rassicurò e con fare cospiratore, aggiunse: “Io penso che madona Andriana non avesse mai dimenticato il vostro barba, il sior Marco.”

“Dunque è vero, ch’erano fidanzati e che Padre la sposò per onorare la promessa?”, strabuzzò incredulo gli occhi il giovanotto: effettivamente, un matrimonio sì importante e vantaggioso avrebbe avuto più senso per il primogenito che per il secondogenito, specie se la fanciulla in questione si trovava in perfetta età da marito ancora quando il suo barba Marco era in vita.

“No, ciance da pettegola! Ma che madona Andriana avesse sospirato per il bel Marco, quello sì che è vero, come tutte le ragazze della contrada per quello. An, l’aveste conosciuto! Un … come si chiama, quell’idolo pagano che tanto va di moda adesso? Quello sempre in bocca ai poeti?”

“Apollo?”

“Ecco, bravo, un Apollo. An, non come il vostro barba Batista da ragazzo -  oh, bone Jesu, che gran bel pezzo di figliolo! Con quegli occhi nerissimi e impertinenti,  m’avesse dato appuntamento in casoto dopo la caccia … L’avrai spolpato io che manco più camminava dritto, altro che quelle frigide cortigiane …”, si perse per la calle Orsolina, uno sguardo di beata malizia sul volto e Hironimo si mordicchiò il labbro inferiore, trattenendo a stento una risata. 

“Eh-ehm, dicevamo. Il vostro barba Marco coniugava – si dice così? – bellezza con nobiltà d’animo, di fatti stringeva amicizie con grande facilità e sapeva ben conservarle. Tutti lo tenevano in gran stima. Quando rideva, avevate il sole dinanzi e non si poteva rimanergli indifferente, vi contagiava con la sua allegria. Voi, patron Momolo, me lo ricordate moltissimo. Vostro padre, il Patron, l’adorava così come adorava l’altro suo fratello più giovane, sior Vorzilio, e più della morte del Vecchio Patron, lo devastarono quelle dei fratelli. Povero, povero sior Vorzilio, non aveva neppure vent'anni … La Vecchia Patrona, pur non sua madre di sangue, divenne mezza matta dal dolore, poiché l’aveva allevato quand’era pressoché un puttino … Vostro padre dovette intercedere presso Missier il Doxe per eseguire le ultime volontà del vostro barba Marco, non concedendogli l’autorizzazione di costruire un altare alla Madonna nella nostra chiesa di San Vidal”, tacque, tirando su col naso. Hironimo le coprì la mano con la sua e l’anziana donna lo ringraziò con un tremulo sorriso.

Sbattendo via con le ciglia le lacrime traditrici, Orsolina si schiarì la gola e proseguì:  “Il sior Marco aveva iniziato bene la carriera, specie nello Stato da Mar e chissà cosa sarebbe divenuto se la malattia non l’avesse stroncato così giovane, a neppure trent’anni. Il sior Lucha vostro nonno, poi, l’aveva educato bene, nutriva grandi aspettative su di lui, contrariamente ai figli minori cui poco badava. Non so neanche perché il Patron abbia battezzato vostro padre Anzolo, non mi ricordo nessuno in famiglia con un nome simile … Ah sì!, perché suo santolo fu il mastro tessitore [1] … E manco Vorzilio lo so, forse perché al Vecchio Padrone piaceva leggere poesia? Bah  …  Erano diversi come il giorno dalla notte, il sior Marco e il Patron, uno pareva un cavaliere e l’altro un corsaro berbero. Eppure, vostro padre era tutt’altro che stupido o ignorante, faceva le ore piccole nello studio a leggere tomi e tomi di diosacché. Solo, le letture – come si dicono? Galanti? Cortesi? – lo annoiavano, le trovava frivole e fini a se stesse;  sapeste che battibecchi con la Vecchia Patrona, le sue amie e le sue zermane Contarini e Loredan! Alla prima critica sul comportamento di quel cavaliere francese o inglese – Lanza-lotto? – lo scannavano vivo, dandogli del turco, del bifolco, dello spirito gretto e materialista! Come se a ‘sto mondo si avesse bisogno d’ulteriori incentivi a commettere adulterio! Che poi, se è Lanza-lotto e Ginepra, va tutto bene, è grande amore; se sono io, son gran puttana! E se lo fa mio marito, è un uomo morto”, roteò l’indice in aria Orsolina, più infiammata del fu Savonarola sul pulpito.

“D’altronde, dico io, cosa vuoi? Cosa pretendi da quel povero figliolo, se lo mandi ad undici anni in galea? Cosa t’aspetti ch’impari? La galanteria? Le poesie d’amore? Il bonjù monsù?”, imitò la domestica con grottesca abilità il modo affettato dei foresti francesi, appoggiando le mani sul ambedue i fianchi e dondolandosi a mo’ d’odalisca ottomana. La cucina si riempì immediatamente del trillo allegro di risate femminili e anche Hironimo s’unì a loro. “Disciplina, obbedienza, la bestemmia e la sodomia, ecco che s’impara in mare. Manco mal che quest’ultima il Patron l’ha scampata …”

“Padre bestemmiava?! Non l’ho mai sentito!”

“Come se non peggio d’un turco prima di sposarsi con la Patrona. Il suoi poveri barba si strappavano i capelli all’udirlo, invece il Vecchio Patron scrollava le spalle, turco anche lui. Mi rincresce sentire che codesto viziaccio, estirpato dal padre sia ricresciuto nei figli”, commentò la massera, scoccando una lunga ed esauriente occhiata ad Hironimo che, imporporandosi offeso, si difese subito:

“Io non bestemmio! Mi cimento in sporchissime imprecazioni e insulti, lo ammetto, ma mai bestemmio, ché le sberle del sior Nane-Checo mi son bastate. E’ Carlino, quel turco adottato, che ingiuria e maledice San Piero [2] e Luchin talvolta quand’è in collera nera, per poi pentirsi immediatamente. Il Marchetto si sciorina in ontissime poesie da bordello, però non l’ho mai sentito tirar giù né santi né madonne.” Prese fiato, aspirando aria rumorosamente. “Ma dimmi, quando conobbe Padre mia Madre?”

“Dunque … la questione è un po’ complessa. Sier Donado Michiel, il figliastro della vostra siora nonna, s'era ammogliato con madona Cecilia Trum e sempre una zermana di vostra madre aveva sposato sier Zuanne Trum, fratello di madona Cecilia e ambedue zermani di madona Andriana. Ora non dico che i vostri genitori si vedessero tutti i giorni, vostro padre è sempre stato molto intraprendente e fino ai venticinque anni aveva viaggiato andata e ritorno in Levante, tuttavia ci furono occasioni in cui sì, ebbero modo di frequentarsi, giusto per sapere uno dell’esistenza dell’altra. Inoltre, madona Andriana e la Patrona, sfruttando il legame condiviso con la moglie di sier Zuanne, erano nel frattanto divenute amiche ed ecco che madona Andriana invitava vostra madre al suo matrimonio.”

“Quindi già all’epoca un poco si conoscevano?” e al cenno affermativo della fantesca. “Che impressione le fece?”

“An, non molto favorevole suppongo: quando si sposò con madona Andriana, vostro padre aveva appena terminato una serie di lutti, uno dietro l’altro: i vostri barba Vorzilio e Marco, il vostro nonno il Vecchio Padrone e ultimo il suo barba, il sior Nicolò, proprio poco prima dello sponsalicio, al che, considerati i cattivi auspici, avremmo tutti dovuto comprendere molte cose su questo matrimonio. Furono anni duri per lui, patron Momolo, doversi assumere la responsabilità di Cha’ Miani in sì poco tempo. Pertanto, non c’era da stupirsi se si comportava da re dei selvatici e con quella barba lunga pareva un saraceno del Cayro. Buon pro per la sua nomina ad avvocato degli Uffici a Rialto, un po’ meno per noi tarmati da processi anche in famiglia. Se il Patron s’addolcì, fu grazie alla presenza di vostra madre. Con la prima moglie si dimostrava rispettoso e cortese, guai però a contrariarlo.”

Insomma, come si comportava con tutti e ciononostante, la massera aveva ragione: pur finendo magari di borbottare rancoroso nel suo studio, Padre non esercitava alcun’influenza né autorità sull’operato di Madre, la quale se faceva quel che diceva lui era perché conveniva con la sua idea, non perché glielo fosse stato comandato. “Come ci riuscì Madre?”, l’incalzò dunque. “Nel senso, come riuscì a …”, non voleva usare sedurre, troppo scandaloso associato a lei, “… ad attirare la sua attenzione? Cos’aveva di diverso?”

“Vostra madre si comportò l’esatto contrario di madona Andriana, cioè ascoltava vostro Padre e s’interessava al suo mondo. Anche agli uomini piace, mica soltanto alle donne. La Patrona adesso la vedete come una nobildonna distinta, piena di grazia e dignità, ma da ragazzina, oh!, sapeste che scimmietta curiosa, una chiacchierina, il tormento delle suore del convento dove aveva studiato fino a quindici anni! Tutto l’incuriosiva e che risate quando tampinava con infinite domande vostro padre, pareva un levriere che tallonava la volpe. Mi ricordo che quando madona Andriana e il Patron ritornarono da Ravena, dov’era stato camerlengo …”

 

“An, Leonetta! Sapessi che viaggio da Ravena fin qua! Per poco, ho creduto di soffocare in quell’imbarcazione mezza-marcia, stipata più delle bestie da macello in galea!”

Ad orecchie profane il tono di Andriana poteva suonare giocoso, eppure Leonora ben aveva captato la venuzza di fastidio sotto l’ingannevole buonumore, forse dovuta alla gravidanza della giovane donna. Il volto pallido, tirato e lievemente sudaticcio tradiva o l’inizio di una febbriciattola o la fine di un gran mal di mare. Al che, conoscendo bene gli svantaggi di contraddire una persona già di suo alterata, la Morexini tacque e annuì, cosa che invece non fece Anzolo Miani il quale, strabuzzando gli occhi sorpreso da tal inaspettato brio nella consorte, replicò con altrettanta vivacità:

“Ma che dite? L’imbarcazione era sana e spaziosa, il vento tranquillo e regolare e non abbiamo avuto né tempesta né bonaccia.”

La maschera di gaiezza scomparve dal volto d’Andriana, indurendosi in una di pietra. “An sì? Siete stato così tanto tempo in mare, che si potrebbe dire che perfino una zattera potrebbe risultarvi comoda! Un mariner ho sposato, non un patrizio!”

Gli angoli della bocca dell’uomo s’incurvarono all’ingiù, subito sulla difensiva. “Per essere veneziana, disprezzate troppo il tramite della fortuna di vostro padre, dei vostri barba e anche di vostro marito” chiarì aspro, mentre allungava il collo in direzione di Leonora, seduta dietro il suo ricamo. La Trum aveva invitato a casa sua l’amica per raccontarle il soggiorno a Ravenna, nonché la notizia della sua prossima maternità, ma nella fretta s’era scordata d’informare il marito, il quale, attirato dal concitato cicalare nelle stanze della moglie, vi s’era subito recato onde indagare. “Non m’avete ancora presentato la vostra … conoscente?”, s’informò lentamente, sospettoso.

Andriana emise un ibrido tra uno sbuffo e una risata, s’alzò dal suo posto e, pigliata l’amica per il polso la costrinse in piedi e quasi gliela spinse sotto il naso. “Vi ricordate di Leonora Morexini? La figlia di madona Ysabeta, la zia della moglie del mio povero zerman Zuanne nonché maregna di sier Donado, il marito della mia zermana Cecilia. Vi siete già incontrati al battesimo del piccolo Lucha [3], ai tempi ancora del nostro fidanzamento!”, gli ricordò velenosa. "E ovviamente al nostro matrimonio, ma forse eravate allora troppo distratto ..."

Anzolo deviò lo sguardo dalla moglie per non tradirle la sua crescente stizza; piuttosto, preferì squadrare Leonora da capo a piedi con la medesima pignola oculatezza di un mercante, che valuta la qualità di una stoffa o di una spezia. Confrontò mentalmente le forme piene e mature di Leonora, così morbide e promettenti fertilità, a quelle acerbe e spigolose di quella ragazzina sempre seminascosta dietro la madre, che ogni tanto, di sguincio aveva notato senza però mai rivolgerle la parola. E non si poté dire che la fanciulla non ricambiò tale meticoloso studio, ugualmente intrigata da questo marito di cui la sua amica si lagnava in continuazione e di cui, personalmente, poco si ricordava. A suo modo scoprì al contrario garbarle: pur castigato da quel perenne cipiglio, lei scorgeva in quel viso serissimo occhi molti buoni. Si rilassò immediatamente, sorridendogli ed esibendosi in quei vezzosetti inchini imparati in convento.

“Vi vedo molto cresciuta dall’ultima volta”, mormorò l’uomo, leggermente spaesato senza saper bene perché. “Siete divenuta una donnina, ormai …”

“Sì, a furia di secchiate d'acqua in testa!”, scherzò Leonora e prima che Anzolo potesse replicare, Andriana gli raccontò: “Leonetta m’ha sempre tenuto molto compagnia, sin da piccole, mentre voi eravate a giocare al corsaro in Levante.”

“Corsaro? Giocare?”, ripeté suo marito, strisciando irritato la parola.

Non avrebbe dovuto impicciarsi, Leonora ne era consapevole, ma al contempo non desiderava finire arrostita tra quei due fuochi incrociati.

E la città com’era, sier Anzolo? Come sono i Ravenati? Fa più caldo o più freddo che a Veniexia? Ma è vero che lì c’è la malaria? Non vi sarete ammalato, spero! Avete visto i mosaici a Sen Vidal? A Sant’Apollinare? Sono belli come quelli a Sen Marcho e a Torzelo o di più? Aneta, carissima, suvvia, persuadete vostro marito a raccontarci tutto!”

“A che pro, Leonetta? Mio marito non va in chiesa se non per pregare: di sicuro non avrà ammirato al di là del suo naso.”

“Vi sbagliate, ho molto apprezzato le chiese e i loro mosaici, così come ho visitato il mausoleo di Galla Placidia e i due Battisteri. Eravate con me, ve lo siete già scordato?”

“An, non vi facevo così osservatore. E che opinione v’hanno lasciato, sior marito?”

“Non saprei. La stessa impressione di chiunque veda un Cristo senza barba, più femmina che uomo e le pudenda ben in mostra ai fedeli!” [4]

Andriana spalancò la bocca, scandalizzata, aggrottando tuttavia la fronte in un muto rimprovero, mentre Leonora si copriva la bocca con la mano, soffocando un risolino, le orecchie tuttavia cremisi. “Eretici sul serio!”, commentò ilare e gli angoli della bocca di Anzolo accennarono ad un timido sorriso. “Per cortesia, raccontateci la vicenda di Galla Placidia, sono sicura che a Ravena avrete imparato maggiori dettagli su di lei. Aneta è così parca di dettagli nelle sue narrazioni!”

“Leonetta, non vorrete ora che mio marito ci tedi con una lezione di storia?”

“Tediarci? Come? Una principessa, figlia di un imperatore, rapita durante il sacco di Roma da un re barbaro, di cui da ostaggio ne diviene la sua regina! Neanche i vostri novellatori o poeti riuscirebbero ad inventarsi di meglio!”

“Non confondete, amica mia, la politica con l’amore!”

“Suvvia, crudele, concedetemi di sognare un poco! Inoltre, se non erro, siete voi e non io quella che legge troppi romanzi, novelle e sonetti!”

“E voi troppo pochi! La cara Leonetta, sior marito”, ignorò Andriana le giocose proteste della ragazza, “temo sia l’unica a non aver mai gradito le imprese di un Galvano, un Percivalle o un Lancillotto. Ma oh!, come s’infiamma nel leggere le imprese degli Scipioni, di Cesare, di Germanico … Soprattutto di Germanico …”, aggiunse maliziosa, scoccandole un’occhiata obliqua.

Leonora arrossì violentemente. “Oh, Aneta, per favore non fatemi passare per una rustica beota agli occhi di vostro marito; adesso penserà che disprezzo la cultura!”

“Non trovo assolutamente rustica né superficiale una persona, che trae beneficio dalle vicende di personaggi reali piuttosto che fittizi.”

Captando l’espressione interdetta d’Andriana da quella stilettata, la giovane Morexini subito corse ai ripari, afferrando a mo’ di sostegno il braccio dell’amica. “Noi povere donne possediamo ben pochi svaghi, sier Anzolo; fortunatamente gli scrittori e i poeti, ogni tanto mossi a pietà per noi, ci dilettano con le loro creazioni. Basta non confonderle con la realtà, per il resto sono spiriti dell’immaginazione, innocui”, la difese, sfruttando l’accurato uso delle parole appreso indirettamente dai suoi fratelli.

A sua volta conscio di aver esagerato a rimproverare così la moglie dinanzi all’amica, anche Anzolo cangiò celere discorso: “Così voi prediligete Germanico?”

“Siorsì.”

“Quali aspetti, se posso chiedere, vi hanno di lui colpito?”

“L’amore per la famiglia; l’amore per la Patria; la sua natura benevola e generosa; la sua determinazione nella battaglia. Tutte caratteristiche che di certo avranno ispirato i protagonisti dei poemi e novelle cavalleresche da noi tanto amate”, reiterò quell’ultimo concetto in modo da tamponare quella sottile ma palese nota di biasimo dell’uomo circa le letture della moglie. “Dimostra che se è esistito un Germanico, un Galvano non può nascere totalmente dalla fantasia.”

“Ma ha Galvano accanto a sé un’Agrippina Maggiore che lo sostiene e lo consiglia, che lo segue all’accampamento, che incoraggia lui e i suoi soldati anche nei momenti più bui e disperati; una donna con cui condivide sia i disagi e le ansie sia il trionfo della sua impresa? Non credo. O è un’evanescente dama-trofeo-angelo per cui langue d’amore per nulla avere in cambio se non uno sguardo, o un’adultera seduttrice che lo disonora più che elevarlo. In ambedue i casi, una palla al piede. Per questo, il cavaliere alla fine rimane sempre solo, poiché alla fine la donna lo intralcia, deviandolo con la sua natura sostanzialmente viziosa, quando non angelicata, ma in quel caso non può trattarsi di un essere umano di carne e sangue.”

Le due giovani donne tacquero, il capo chino ma dialogando cogli occhi, quale miglior risposta dare. Al che, Leonora, armatasi di coraggio e non avendo nulla da perdere, sorridendo furbescamente azzardò: “Appunto questo, sier Anzolo, la nostra illustre conterranea Crestina da Pisan [5] rimproverava ai suoi colleghi: “Sembrano tutti parlare con la stessa bocca, tutti d'accordo nella medesima conclusione, che il comportamento delle donne è incline ad ogni tipo di vizio.” Vedete, come noi donne per prime biasimiamo codesti vaneggiamenti di poeta se eccessivamente immaginosi? Se nella loro fantasia appariamo sfuggenti, capricciose e sfacciate, nella realtà siamo savie, discrete e prudenti - più delle Agrippine che delle Ginevre. Ora, però, non perdiamoci in calle con questi discorsi a noi non congeniali e invece dilettateci con la storia di Galla Placidia che ci avete promesso …”

 

 Similmente agli infaticabili mulini trevigiani, il cervello d’Hironimo girava in piena confusione, incapace di conciliare le immagini evocate, di Padre e Madre come li conosceva lui -  composti, sicuri di sé, fieri – a come li aveva invece conosciuti Orsolina, la quale aveva spiato la gustosa scenetta, ovver un serioso giovane uomo stanco dal lungo incarico fuori sede e una fanciulla iperattiva, che gli dava il tormento con infinite domande e lo impegolava in lunghe conversazioni. Il ventenne concluse che tal comportamento gli ricordava il suo; ripensandoci bene, anche lui da piccolo non voleva staccarsi da Padre al suo rientro dagli uffici, aggrappandosi alla manica della toga e tirandogliela piccato quando non soddisfaceva esaurientemente la sua infinita curiosità o peggio, quando Hironimo si accorgeva come Padre stesse fingendo di ascoltarlo, mentre lo rendeva partecipe dei suoi ragionamenti.  

“E non s’infastidiva?”, arcuò dubbioso il sopracciglio, memore dei stizziti rimproveri di Padre all’ennesimo strattone.

L’anziana donna ridacchiò sorniona. “A parole! Ma gli occhi raccontavano ben altro …”, arricciò maliziosa la bocca, al che lo stomaco d’Hironimo s’attorcigliò dolorosamente su se stesso, paventando scenari disonesti dietro le ragioni di quel secondo matrimonio. Afferrandole le mani rugose, inquisì ansioso:

“Orsolina, sii sincera, in quegli anni Padre e Madre furono mai … ?”

“Cospetto!”, s’inalberò la massera, sottraendo di malagrazia la mano e fulminando il giovane con lo sguardo, indignatissima da quella sconcia insinuazione. “Vostro padre pur coi suoi difetti rimaneva un uomo timorato di Dio e vostra madre la più onesta delle fanciulle!”, protesse a spada tratta i padroni. Sbuffando a guisa di toro, riprese un po’ più calma: “La Patrona peccava di grande ingenuità, questo sì, e se aveva dato simpatia e conversato col Patron più del lecito, fu perché lo considerava quasi un parente e dunque inoffensivo, come se codesti legami possano difendere una fanciulla dalle malizie degli uomini. Fu una fortuna per lei, che il Patron non appartenesse a quell’infame categoria che s’approfitta delle amicizie e delle parentele delle rispettive mogli per i loro sozzi comodi, vergognando così la malcapitata di turno, la sua famiglia, la legge, Veniexia e Domine Iddio stesso. Vostro padre, io so quante volte si batté il petto in mea culpa e le rigorose penitenze cui si sottoponeva per scappare alle lusinghe del malvagio demone asmodeo …  Però i suoi occhi s’illuminavano d’una luce speciale ogniqualvolta veniva in visita alla moglie la Leonetta”, e sorrise dolcemente, le dita sotto il mento e un’aria quasi sognante. “Orsola, Orsola cara, scendeva correndo trafelato in cucina, vien la Leonetta per la merenda, fai preparar quei dolcetti di fichi e noci che tanto le piacciono! Neanche da ragazzino lo vidi mai così contento. Ahimè, s’era beccato il mal del Lanza-lotto, solo all’inverso.”

Hironimo in tutta onestà, man mano che il racconto proseguiva, non sapeva più cosa pensare, basito. Aveva creduto Padre un uomo pio, severo, bacchettone e non un potenziale adultero a neppure due anni di matrimonio, con la moglie che ancora indossava le perle da novizza [6] “Non cedette mai? Proprio mai?”

“Lo spirito è forte, ma la carne è debole. Vostro padre pur non sfiorandola con un dito né palesandole i suoi pensieri, purtroppo non riuscì a non commettere una piccola imprudenza: regalò infatti a vostra madre una striscia di bel panno di lana inglese, da metter sul collo d’inverno quando l’umidità della nebbia diventa insopportabile. Il vostro barba Batista glielo scorse immediatamente e trascinatala in studio dai fratelli, la costrinse a rivelarle dove e come se lo fosse procurato. Estortale la verità, i vostri barba andarono su tutte le furie, manco il Patron gliel’avessero mangiata viva. Quand’invece la colpa ricadeva totalmente su di loro: invece di contar soldi o fare i Portoghesi, avessero tenuto più sott’occhio la sorellastra! Vermocane! Una scena indegna e con la povera madona Andriana in cima alle scale che ascoltava, grossa della vostra sorellastra, talmente bianca che dovetti accompagnarla in letto o mi moriva sul posto!”, gonfiò le guance Orsolina, nelle cui orecchie ancora rimbombava il furioso confronto tra i Morexini al gran completo e sier Anzolo nello studio di quest’ultimo, laddove egli protestava furibondo la sua innocenza all’accusa di stupro e adulterio ed esprimeva la sua sorpresa e delusione nel sapersi così poco stimato, se invero lo si credeva capace d’approfittarsi della candida innocenza di una fanciulla, per di più amica intima di sua moglie.

“La povera Patrona, cascando giù dalle nuvole, provò un’immensa vergogna per tale incresciosa situazione e scrisse numerose lettere a madona Andriana, in cui giurava sulla tenera memoria del fu suo padre il senatore sier Carlo "da Lisbona", come mai e poi mai si sarebbe impegolata in sì turpi negozi. Ci volle un bel po’ di tempo, prima che le due amiche si riconciliassero e comunque, da allora in avanti, le visite le faceva madona Andriana e non viceversa.”

Un punto ad Hironimo non tornava. “Come mai i miei barba acconsentirono alle loro nozze? Da quanto mi racconti, lo odiavano!”

“Suppongo che sotto-sotto non avessero mai creduto nell’innocenza del Patron e che quindi il loro corrispondesse al giusto modo di riparare al torto inflittoli. Razza di portoghesi impestati di veleno, dovettero sventolarli le lenzuola nuziali alla festa, per indurli a cambiare idea!”, agitò la massera il pugno nel vuoto, in testa sua però in faccia a ciascuno dei Morexini "da Lisbona". Strano comportamento,  cogitava il giovane Miani, ché Madre verso i suoi fratellastri esprimeva solo parole d’altissima stima e affetto.

“E la siora nonna? S’oppose? Fu d’accordo? Che fece?”

“Lei all’inizio m’era parsa un po’ delusa, forse sperava in una migliore alleanza per vostra madre. Poi però, s’acquietò e fu ben contenta che il Patron desse la mano alla figlia. Era una drittona, la vostra nonna, come tutte le donne ch’hanno avuto più d’un marito!”

“Perché allora mi dicono, che non furono felici nei primi anni di matrimonio?”

“Non avete compreso? Ambedue temevano d’aver fatto torto alla povera madona Andriana. Vostro padre pensava d’averne inconsciamente desiderato se non addirittura provocato la morte, mentre vostra madre d’aver tradito l’amica, inducendo il consorte in tentazione. Ché quando venne il tempo di risposarsi – il Patron rimaneva l’unico del ramo diretto e solo una figliola aveva  - dopo un’iniziale ritrosia e tentennamenti, egli altre non volle che la sua Leonetta e siccome i vostri barba si trovavano d’accordissimo la ottenne in gran fretta, a grand'insoddisfazione però di sier Batista, rispetto agli altri il più protettivo della sorellastra.”

Hironimo roteò gli occhi. “Sì, alla fine il barba m’ha confessato di quella rissa e di come da giovani lui e Padre si beccassero alla stregua di galline … E la storia della cortigiana?”

“Malelingue, padroncino, malelingue!”, esclamò ad alta voce Orsolina, acciocché sua figlia Zanetta e la nipote Ufemia l’udissero bene e abbassassero di colpevole verecondia il capo. “Vi racconto io ciò che accadde veramente. Dunque, il cugino del Patron, il sior Zuan Francesco, era giunto ad un’età in cui ai maschi il sangue scorre unicamente dabbasso e soltanto un pensiero fisso li circola nel cervello …”

“Illazioni!”

“Disse la gallina che fece l’uovo. Il vostro barba ritornava da una festicciola con degli amici, era se non m’inganno la settimana della Sensa. Abituato in casa a non bere vin schietto, immaginatevi in quali condizioni rincasò, imbriago spolpo, e appunto a sorreggerlo ci furono un suo amico e una cortigiana di lume. Il Patron in quel momento stava ritornando anch’egli da una cena a casa di sier Antonio Trum, il suo previo cognato, e vistosi il cugino in tali imbarazzanti condizioni, onde non svegliare l’intera Cha’ Miani coi suoi schiamazzi da ebbro decise di aiutarlo a salire nel suo appartamento. Dopodiché, augurò la buona notte all’amico di sior Zuan Francesco e congedò la cortigiana, pagandole il suo dovuto. E là si consumò la tragedia: vostra Madre, insonne, s’era destata per scendere in cucina e domandarmi qualche infuso e assistette sfortunatamente soltanto al pagamento, null’altro. Misinterpretando, non disse però nulla, ritornandosene in letto. Alle prime luci dell’alba, senza alcuna spiegazione, diede ordine a Symon di preparare la gondola e presa la Tina, con l’Eudokia ritornò nella casa paterna.”

Orsolina prese fiato, gli angoli della bocca piegati all’ingiù e un’espressione angosciosa sul volto. “Io ne ho passate tante, patron Momolo, ne ho assistite a tante di stranezze in ‘sta casa, ma … Voi non avrete mai idea di quanta paura ebbi il giorno seguente. Bone Jesu! Non ricevendo risposta, dopo aver bussato alla porta, il Patron m’ordinò preoccupato di aprila, temendo in un malore della moglie. Quando trovò la stanza vuota …”

Hironimo temeva già la reazione.

“M’appiccicai al muro, desiderando fondermi con esso, non avevo neanche la forza di correre via tanto ero impietrita dal terrore. Vostro padre -  Dio mio! - vostro padre sembravano averlo posseduto tutti e sette i diavoli della Maddalena, ruggiva spaventoso ogni genere di profanità, ribaltando il materasso, volavano i bancali sui cassoni, rovesciava quest’ultimi, tirava giù qualsiasi cosa gli capitasse a tiro  … Irruppe poi in camera di Symon e lo prese per il collo, scuotendolo da sguarattargli il cervello fuori dalle orecchie, e minacciandolo d’affogarlo personalmente a Canal dell’Orfano gli intimò di rivelargli dove fossero fuggite moglie e figlia. Il poveraccio collaborò immediatamente e condusse il Patron a Cha’ Morexini e lì dovette usare ogni sua risorsa e abilità diplomatica per riportarsi a casa la Patrona, senza coinvolgere gli Avogadori Civili. Quattro giorni prima d’esser ricevuto a palazzo. Quattro. Povero Patron.”

 

“Non avrei mai immaginato un tiro del genere da parte vostra … In che modo v’offesi da essere da voi abbandonato così, senza una parola, una spiegazione, alla chiaria alla stregua dei ladri, con mia figlia, umiliandomi dinanzi a tutta Veniexia come l’ultimo dei cornuti?!”

“Siete voi che m’umiliate, siete voi che mi rendete cornuta, siete voi che m’offendete e ogni vostra disgrazia ve la siete attirata da solo, di man vostra!”

“Io? Che diavolo blateri, femmina testarda?”

“Avrei dovuto immaginarlo … I miei fratelli avevano ragione sul vostro conto: siete un malvagio, un perverso, un maledetto adultero, uno spergiuro, un senzadio, un satiro licenzioso ognora voglioso di coito, uno schifoso!”

“Frascona, a me così parlate?”

“A voi!”

“Perdio, mi credete uno dei vostri garzoni da pigliarvi codeste libertà?! Son vostro marito, chea vaca putana!”

“Ed io chi sono? La vostra serva? Qualcheduna che avete raccattato dalla fogna? Pensate forse che una nobildonna della mia sorte, figlioccia dell’Imperatriz, si lasci strapazzare da un pescivendolo qualsiasi come voi? Da uno delle Cha’ Nuove? Quando voi Miani ancora sventravate i pesci in Istria, noi Morexini eleggevamo il primo Doxe Paulo Luzio Anafesto! [7] Carogna cafona! Se i miei fratelli non m’avessero aperto gli occhi, chissà cosa ne avreste fatto di me? M’avreste certo condotta nell’angolo più remoto del vostro fontego e lì vergognatami, come magari faceste con altre donne!”

“Ma porco …”

“Non bestemmiate!”

“ … giuda! Ancora quella fottutissima storia?! Il vostri fratelli a furia di frequentare quei caga-alto dei Portoghesi, si sono imbevuti di tutte le loro stronzate sull’onore, sulla cavalleria, sull’alto lignaggio dei miei coglioni! Cervelli fritti!  Una banda di protervi, ecco cosa siete voi Morexini! Me ne cale un gran cazzo che la vostra famiglia abbia fondato la Signoria, che annoveri tra i suoi Doxi e Dogarese, Regine consorti d’Hongaria e Beati in Paradiso, in niente vi sono inferiore da meritarmi un tal trattamento da contadino! Vermocane! Ora siete mia moglie, non più la loro sorella, voi appartenete alla mia famiglia e non agite contro di me alle mie spalle! Voi a casa dei vostri fratelli (vadano a farsi squartare!) non ci tornate senza prima avermelo comunicato e men che meno con la mia Tina! Cul del cancaro, v’informo sempre dove vado e quando torno, si può dire lo stesso degli altri mariti qui a Veniexia? Quando volete uscire, ve l’ho mai proibito? Vi ho strapazzata? Vi ho chiusa a chiave nelle vostre stanze? V’impedisco di ricevere le vostre amiche e cognate? Quella becera di vostra madre? Ho rimandato indietro la vostra Eudokia? Vi rimprovero quando parlottate in portoghese coi vostri fratelli, poiché io non capisco una maledetta e rischio d’esser oggetto dei vostri lazzi? An, ingrata? … Tagliando corto, invece d’insultarmi, parlate schietto una buona volta: che v’ho fatto?”

“An, turco sfacciato! Anima di prava! Serpe biforcuta! Ipocrita d’un predicatore, con le tue ciance riusciresti a crocifiggere Cristo una seconda volta! Mi fate passare dalla parte del torto, adesso? Che m’avete fatto? Domandatelo a quella donnaccia di malaffare, a quella sporca peripatetica di cui vi portate indosso ancora il fetore e con cui, senza timore di Dio e della decenza, vi siete sfogato bestialmente sotto il mio naso! Attendevo il mattino per darvi una gran bella notizia, ma voi avete rovinato tutto! Vi detesto, non vi voglio più vedere! Manderò i miei fratelli dal Patriarca a far annullare le nozze! Il sol guardarvi mi fa sputar bile!”

“Che?! Quale sfogo? Quale meretrice? Non pigliatemi per … il … oh, cagasangue! Can fotuo impestà!”

“Vi ricordate ora, an?”

“E no, signora bella! No! Io non c’entro un cazzo in questo negozio, quella cortigiana l’ho pagata, verissimo, ma per la compagnia tenuta a mio cugino!”

“Puoah! Ed io ci credo! Guardate, leggetemi “oca giuliva” sulla fronte! Da ben sette miei fratelli ho udito codeste scuse! Ipocriti sepolcri imbiancati!”

“Per favore, adesso non mettetevi a piangere per una tal sciocchezza  …”

“Non piango!”

“Suvvia, ritornate a casa – dimentichiamo questa questione, va bene?”

“No! Lasciatemi in pace!”

“Cospetto! D’una … puttana sareste gelosa?”

“Mi pensate di pietra? Che non provi sentimenti? Che non sia fatta anch’io di carne e di sangue come voi? Certo che sono gelosa! Gelosissima! Anche voi m’appartenete, l’avete giurato davanti a Missier il Doxe e soprattutto a Domine Iddio ed io non … e non … oh …”

“Sancte Spiritu! Leonetta? … Leonetta! Su, aprite gli occhi … Leonetta, splendore, aprite questi benedetti vostri occhietti, non è né il luogo né il momento di scherzare … Olà, olà! Gente, aiuto, gente! Creature! La si sente male, madona si sente male! … ”

 

“A prova della sua buona fede, il Patron trascinò sior Zuan Francesco da vostra madre, acciocché udisse da lui la verità. E da allora, questo palazzo divenne più morigerato del Santuario di Monte Berico!”

“Lo perdonò? Anche se, onestamente, Padre non aveva commesso alcunché di male.”

“Certo, si riappacificarono, sebbene i primi giorni avessero seguitato a tenersi il broncio,  a dormire e a mangiare rigorosamente separati, neanche un bondì e un bonasera! Tuttavia, ogni screzio scomparve qualche settimana più tardi alla notizia della prima gravidanza della Patrona, così come ogni rimpianto e ogni accusa se li gettarono alle spalle. Si potrebbe affermare, che il Signore non li avesse accordato di concepire fino a quel momento, finché non avessero accettato il passato e abbracciato il futuro. Come diceva quel tizio fiorentino che tanto piace citare a voialtri?”

“Incipit vita nova?”

“Ecco.”

Silenzio.

Grattando la testa del gatto e imboccandolo di un pezzettino di prosciutto avanzato dalla colazione fredda, Hironimo azzardò la domanda più spinosa. “Orsolina … Madre amava Padre? Non lo sposò per obbligo o per compassione del suo amore? Davvero voleva l’annullamento dal Patriarca?”

“Patron Momolo, quando in collera la gente parla alla babalà e voi per primo dovreste saperlo, quando v’arrabbiate”, scosse benevola il capo la massera, quasi si stupisse di quella domanda così scontata. “Vostra madre amava moltissimo vostro padre; al contempo, non era il tipo di donna da piegarsi alla volontà di chicchessia. Infatti, doveva ricordare al sior Patron che lei non era uno dei suoi rematori od operai. Ignoro quanti degli altri patrizi usino farlo, ma i vostri genitori vi assicuro che ancora dormivano nello stesso letto, tranne quando il Patron stava alzato a lavorare fin tardi e siccome la Patrona faticava a riaddormentarsi, se destata, per non disturbarla si recava in camera sua.”

L’illuminazione. “Ecco perché non gli garbava che stessi ancora in stanza di Madre e voleva spostare il mio lettino in camera dei miei fratelli. Gli disturbavo le sporcherie!”

“Padroncino, non è da biasimare se accadono tra moglie e marito.”

Hironimo socchiuse gli occhi con forza, scacciando via dalla mente ogni immagine osé maliziosamente creatavisi, ché i figli, pur consci dei meccanismi della riproduzione umana, ugualmente credevano con fermo imbarazzo la loro procreazione tramite il pensiero, piuttosto di figurarsi i genitori impegnati in tali attività.

“Quindi l’amore di Madre cambiò Padre?”

“No, fu lui che volle cambiare per amor suo. Se l’iniziativa non vien dalla persona stessa, nessuno la può cambiare.”

 

***

 

 

Alla vigilia della sua partenza verso Castelnuovo di Quero, Hironimo s’era ritrovato a vagabondare senza meta per le calli semideserte di Venezia. Pur sopravvissuta due anni addietro al primo, tremendo scossone l’ombra opprimente della guerra pesava sulla città, in perpetua attesa di conoscere la sua sorte, se di vittoria o di sconfitta. Il maremoto e il conseguente crollo del Campanile di San Marco avevano poi inasprito quei presagi d’imminente sventura, controbilanciata dalla disperata tenacia di chi, tuttavia, non poteva né voleva arrendersi. All’ennesima richiesta dell’Imperatore Maximilian di ritornargli gli antichi feudi imperiali di Padova, Treviso e il Friuli, la Signoria aveva replicato che avrebbe preferito giocarsi il tutto per tutto con la guerra, piuttosto di cedergli di sua iniziativa anche una sola zolla di terra.

Duri ai banchi.

A tale convinzione s’aggrappava anche il giovane Miani, il cuore tuttavia pesante non tanto per il compito di grande responsabilità affidatogli; piuttosto, per la freddezza con cui Marco e Carlo lo trattavano a seguito del litigio al funerale di Crestina – il primo addirittura gli aveva tolto il saluto. Era conscio d’esser lui nel torto, nondimeno la tenace protervia del suo sangue Morexini gli impediva d’abbassarsi ad invocare perdono, scervellandosi invece in mille scuse e giustificazioni atte a placare la sua coscienza.

A che pro, se lo condannava alla solitudine? A che pro congedarsi pieni di stupidi rancori, quando l’indomani avrebbe potuto esser cibo per vermi? Questo rimpianto voleva lasciare in eredità alla sua famiglia? Questo magone?

Sarebbe morto anch’egli come Padre, all’improvviso, violentemente, senza una parola di conforto, di incoraggiamento, d’amore?

Nel suo avvilito deambulare, solo come non mai in vita sua, Hironimo si ritrovò inaspettatamente nella parte posteriore dell’abside di Santo Stefano, dinanzi alle arche di famiglia, in particolare a quella di sier Anzolo Miani.

S’irrigidì alla vista di sua madre madona Leonora lì attenderlo, serena, avvolta nel pesante paneselo vedovile. Poco distante, silenziosa e discreta, l’accompagnava Eudokia.

“Siamo stati un tutt’uno per nove mesi, amore mio, ti conosco come il mio cuore”, fu il suo saluto, mentre allungava la mano a mo’ di invito. Lesto, Hironimo l’afferrò, baciandola e stringendosela al petto. “Vieni, siedimi accanto.”

“Come sapevate di trovarmi qui?”

“Testone, non t’ho detto che ti conosco? Tre sono i posti in cui ti sei sempre nascosto, quando triste o arrabbiato: l’altana, che escludo poiché in casa è sorto il problema da cui vuoi fuggire; dal Marcolino Contarini, il quale è partito ieri per Padoa e quindi no; sotto l’arca di tuo padre rimane dunque il terzo e ultimo posto dove cercarti, sebbene tu mi abbia costretta ad una lunga attesa.”

Il giovane si morse colpevole il labbro inferiore, una fastidiosa voce che dall’angolo più remoto del suo cervello gli ricordava maligna come da anni facesse aspettare sua madre.

“Perdonate, non era mia intenzione incomodarvi …”, sussurrò, il capo chino sulla mano ossuta e affusolata di madona Leonora, della quale pur coperta dal guanto ne conosceva la morbidezza e, ahimè, le rughe e le vene sporgenti. Gli appariva così fragile tra le sue, pronta a frantumarsi al primo tocco incauto.

“Non sei mai un fastidio per me.”

Hironimo, indeciso se ridere sardonico o sbuffare avvilito, partorì dalla sua bocca un verso ingolato ch’era un ibrido tra i due. Come poteva nutrire nei suoi confronti tanto affetto e benignità, malgrado le sue imprudenze, disobbedienze e cattiverie? Quando lui per primo si odiava per averle compiute, quietando però la sua coscienza con doppia razione di esse? 

“Il Marchetto è ancora arrabbiato con me?”, cambiò in fretta discorso, per quanto ugualmente interessato ai sentimenti in cui versava suo fratello. Rispetto a quelli di Carlo, il suo rancore gli risultava il più insopportabile.

“Non dubitare che gli passerà. È un orgoglioso, come te, concedigli del tempo e vedrai che saprà perdonarti. Tu però devi compiere il primo passo”, lo rassicurò e al contempo lo spronò sua madre, liberando la mano dalle sue e passandogliela tra i folti e disordinati capelli, non avendo badato Hironimo neppure di pettinarseli tanto l’arrovellavano gli intimi suoi crucci.

“Forse non avrò del tempo”, asserì in un lungo sospiro, imperterrito nell’evitare lo sguardo di madona Leonora, la quale domandò confusa e turbata:

“Che intendi?”

“Domani parto per Castel Novo di Quer, siora Mare. Per quel che ne so, potrei morire entro il mese, entro la settimana, entro il giorno stesso. Nulla mi garantisce la sopravvivenza.”

“Dunque scusati stasera con lui. E anche col Carlino.”

Hironimo serrò caparbio le labbra, tormentandosi le dita guantate e premendo il pollice al centro del palmo della mano, quasi progettasse di forarlo in profane stigmate. La soluzione dell’anziana genitrice abbagliava nella sua disarmate semplicità e logica: sì, avrebbe potuto chieder perdono a Marco e a Carlo e riconciliarsi, trasferendosi alla fortezza sulla Piave in pace con se stesso. Ciò tuttavia comportava umiliarsi e riconoscere il proprio errore, invocando una grazia cui non gli spettava e non perché si sentisse indegno, bensì perché lui non aveva agito in fin dei conti male, aveva espresso soltanto la sua opinione e cioè che se tiravano indietro il culo dopo esserselo fatto per ottenere quella dannata castellania, decisamente non si poteva evitare d’appellarli vigliacchi. Perché biasimarlo, per avergli rinfacciato null’altro se non la verità?

Neanche avesse intuito quali pensieri s’agitassero nella mente del suo ultimogenito, madona Leonora gli raccontò un piccolo aneddoto: “Quando tuo padre, onde fermare le scorrerie degli Austriaci capitanati dal Duca d’Austria Sigismondo, raccolse le sue cernide e assieme alla compagnia del conte Guido de’ Rossi si mosse in pieno inverno verso il Passo di Celazzo, la sera antecedente la partenza …”

 La situazione invero non si presentava rosea per la Repubblica: sotto la guida di Gaudenzio di Matsch, l’esercito austriaco era partito da Trento per puntare a Rovereto, terra all’epoca veneziana e bagnata sulla sinistra dall’Adige, situata negli stretti delle Alpi. All’inizio le truppe marciane avevano virilmente resistito, comandante dal podestà sier Nicolò Priuli q. sier Zuanne e pertanto, a mo’ di vendetta, gli invasori avevano infierito nei villaggi circostanti, massacrando la popolazione e seminando il terrore. Allora la Serenissima, appresa la notizia, aveva nominato provveditori sier Piero Diedo, che in quel tempo ricopriva la carica di podestà di Verona, e sier Hironimo Marzelo. Contemporaneamente, Guido de’ Rossi e il figlio Filippo raggiungevano Feltre onde presidiarne i confini.

Sier Anzolo Miani, podestà e capitano di Feltre, non aveva perso tempo e prima ancora che arrivasse il condottiero, già s’era attivato a rinforzare la sua città, facendo abbondanti provvisioni in caso d’assedio sia di cibo sia di uomini, reclutando chiunque fosse in grado di tener in mano un’arma, impresa non facile giacché la peste dell’85 aveva falciato gran parte della popolazione. Tali provvedimenti non avevano tuttavia rassicurato i Feltrini, soprattutto udendo delle scorrerie di Sigmund von Habsburg nel Vicentino e Veronese e di come si stessero avvicinando pericolosamente al Passo di Celazzo, il quale avrebbe dato libero accesso al distretto. Al che il Miani aveva rotto ogni indugio e, convocato a palazzo domino Guido, gli aveva  delineato l’importanza d’anticipare le mosse del nemico.

“Vi basteranno 2,000 uomini? Gli Austriaci ...”, non riusciva Leonora a darsi pace, mentre osservava in un misto tra terrorizzato ed affascinato il ritmico ed ipnotico saliscendi della cote sul filo della lama.

“… sono bravi solo a rubare, uccidere i contadini in fuga e a prendersela con donne e bambini. E si vantano d’esser grand’uomini d’arme!”, terminò Anzolo la frase della moglie e dalla rabbia repressa le sue dita imposero maggior vigore al suo lavoro. “Delle femmine col cazzo, piuttosto, assaggeranno presto il ferro veneziano e a quel rotto-in-culo del Duca d’Austria altro non rimarrà, che succhiarsi il pollice in quella cloaca fetente della sua lercia tana di legno e paglia! Così imparerà, che noi non siamo puttane che si piegano a chi fa la voce grossa!”, le garantì sinistramente.

“Ugualmente, guerreggiare in pieno inverno …”

“Appunto. Poiché loro giudicano improbabile un nostro attacco, noi invece li sorprenderemo nel bel mezzo del loro svernamento, con le braghe in mano. Li ingaggeremo al Passo di Celazzo, così da bloccarli ogni ingresso nel feltrino. Il conte Guido de’ Rossi è una volpe, sa il fatto suo negli assalti a sorpresa e a muovere in fretta le sue squadre – non avranno neppure il tempo d’invocare la loro madre. L’importante è impedire agli Austriaci di spingersi ulteriormente nei nostri territori, nel frattanto che la Signoria mobiliti il conte Roberto Sanseverino col grosso dell’esercito. Leonetta mia, basta un solo, spietato assalto e come i topi che sanno della presenza del gatto, se ne staranno buoni e nascosti nella loro tana.”

“E se riuscissero a sconvolgervi i piani, ribaltando la situazione? Se a rimanere bloccati nel passo non fossero loro, bensì voi?”

“Le mie cernide sono preparate e abili, tutti locali, conoscono ogni sentiero più delle loro stesse mogli. Inoltre, il tempo s’è spezzato, le montagne fumano, segno che il vento sta girando e ci conosciamo molto bene, il vento ed io. Entro dopodomani dovrebbe scatenarsi una bufera, che disorienterà gli Austriaci e li bloccherà in Valsugana. Non prenderei mai questo rischio, lo sapete, se non avessi la certezza assoluta di vittoria.”

“La guerra è un negozio di cui non si ha alcuna certezza.”

“Vi … ti giuro che non mi farò ammazzare tanto facilmente.”

“Non puoi promettere ciò che solo Dio può disporre.”

“Alla Cui volontà mi sottometto. Leonetta, dovesse accadere il peggio … No, dimentica ciò che ho detto. Invece, ho dato disposizioni al Consiglio Cittadino di preparare la difesa. Ho anche inviato delle chiari istruzioni e i recenti movimenti degli Austriaci a sier Dardi Zustignan, podestà di Cividal di Belluno e al castellano di Castel Novo di Quer. Vorrei inoltre che tu ti recassi a Cividal coi bambini, dove sarete più al sicuro.”

“Se lo credi opportuno, manderò i piccini con mia madre a Cividal, ma resterò qui. Vero, non so niente del mestiere delle armi. Però so quanta fiducia i Feltrini abbiano riposto in noi, dopo la peste e le faide civili che solo attraverso molti sforzi sei riuscito a pacificare. Siamo divenuti i loro punti di riferimento. Dovessero vedere la moglie del loro Podestà e Capitano fuggire via, crederanno che la Signoria li stia abbandonando al loro destino e colti dalla paura, non esiteranno ad aprire le porte agli Austriaci. La mia famiglia ha sempre servito in prima fila la Repubblica, io non sarò da meno.”

Anzolo si voltò di scatto, i suoi occhi spalancatisi dal terrore al sol pensiero di sapere l’altra metà della sua anima in pericolo, alla mercé di quelle belve assassine. “I nostri figli hanno più bisogno di una madre, che una città di un simbolo. Pensa al Momolo, indifeso e ancora in fasce: lo condanneresti a crescere senza né padre né madre?”, tentò di dissuaderla, indicando l’ignaro figlioletto che dormiva nella sua calda culla il sonno dell’innocente.

La Morexini vi si portò accanto, quasi a mo’ di protezione, il suo sguardo però infuocato di grandissima determinazione.“Il Signore non li lascerà mai orfani: la nostra causa è giusta, e Lui ci darà la vittoria!”

Neanche l’avesse evocata, la bufera di neve invero arrestò la marcia degli Austriaci e diede la vittoria ai Veneziani, sicché la famiglia del podestà e i Feltrini non ebbero necessità di riparare a Cividal di Belluno.  Alle soglie della primavera, Guido de’ Rossi si trasferì con la sua cavalleria a Bassano per sventare ulteriori attacchi del Duca d’Austria e per ricongiungersi, a metà giugno, a suo suocero, il comandante generale Roberto Sanseverino, allo scopo di sferrare un contrattacco e liberare Rovereto, essendo questa caduta e il podestà Priuli finito prigione degli tedeschi e deportato in Austria. Nello stesso periodo, sier Zustignan Morexini raggiungeva Feltre in veste di provveditore

Nel frattanto, Anzolo, forte del successo della spedizione del Celazzo, di persona s’era recato a Cividal di Belluno e là aveva spronato il podestà sier Dardi Zustignan a far lega e a prepararsi a difendere assieme la Val Serpentina. Gli elencò i suoi dubbi sull’effettivo arrivo del Sanseverino in loro soccorso, giudicandolo sia troppo lento nelle trattative con la Signoria per la sua condotta sia più incline ad operare a sud, là dove le scorrerie nemiche rischiavano di farsi più frequenti. Sicché, rimasti da soli, i due podestà riuscirono a raccogliere uomini a sufficienza per occupare Grigno, luogo situato nello stretto della Valsugana, ben presidiato da genti austriache che diedero gagliarda battaglia, prima di soccombere ai Veneziani, i quali sottomisero il castello alle fiamme. Purtroppo tale buon esito non liberò la Valle dalla pressione del nemico: cogliendo impreparato il presidio lasciato a guardia del monte Celazzo, gli Alemanni non senza ingenti perdite lo espugnarono.

Ciò non aveva però scoraggiato Anzolo, tutt’altro: pieno del sacro fuoco guerresco che l’aveva animato durante la Guerra del Sale, riorganizzò in brevissimo tempo la difesa di Feltre e del distretto. Leonora lo vedeva sempre a cavallo, con l’armatura indosso a dirigere i lavori di rafforzamento alle mura, ai serbatoi idrici, sia alla luce del sole sia delle torce. Dormiva poco e vestito; mangiava in piedi;  scriveva molti dispacci e coordinava instancabile i rifornimenti cittadini, specie del frumento e delle biade, e questo con il dodicenne Lucha sempre accanto, giudicando esser giunto per lui il tempo d’imparare i fatti di guerra. Dal palazzo pretorio la Morexini seguiva con lo sguardo il figlio maggiore e il marito finché poteva, con una mano stringendo il lattante Momolo al seno e con l’altra accarezzandosi il ventre, là dove intuiva crescere un’altra creatura. Ogni sera, infatti, Anzolo veniva da lei affamato come se fosse stato l’ultimo suo istante in terra, ignorando gli ammonimenti della suocera madona Ysabeta che gli aveva suggerito prudenza per il recente parto della moglie, nonché la sua non più fresca età.

Ma che potevano farci? Leonora per prima non voleva negarsi a quei suoi ardenti abbracci, non quando cadaun giorno il suo consorte rischiava di non rincasare mai più.

L’era pertanto venuto un colpo, quando Anzolo le comunicò d’aver reclutato venticinque uomini, tra i più forti e coraggiosi della zona, per liberare il presidio occupato dagli Austriaci sul Celazzo: se la nobildonna aveva dubitato di duemila soldati guidati dall’eccellente conte Guido de’ Rossi, cosa sperava il Miani d’ottenere con un gruppetto sì sparuto?

“Antonio Bonmassaro di Fonzaso, oltre ad essere un valoroso capitano, è più esperto del territorio di qualsiasi altro condottiere, oserei perfino dire del medesimo signor Roberto. Non abbiamo i numeri, ma possiamo coglierli impreparati. D’altronde, anche tu avrai compreso come ormai il distretto dobbiamo difenderlo noialtri; non è improbabile che mandino il grosso delle truppe a riprendersi Rovereto. Questo significherà che il signor Roberto e il signor Guido partiranno dall’agro veronese o vicentino, al massimo da Bassano, comunque senza passare dalle nostre bande.”

La patrizia strinse inconsciamente il rosario tra le dita, quello stesso che recitava assieme alle altre donne feltrine davanti all’immagine miracolosa della Madonna di San Lorenzo. “Sarebbe un rischio da parte della Signoria, lasciare i nostri confini scoperti. E questo il signor Roberto lo sa bene, se non gliel’ha già spiegato suo genero”, mormorò apprensiva, gli occhi ancora pieni dei fuggitivi dai villaggi saccheggiati, riparati a Feltre coi soli stracci addosso e che lei, assieme alla figliastra Crestina, a sua madre, alle altre nobildonne locali e alle religiose, si prodigava a rivestire e sfamare, alloggiandoli nei conventi cittadini. “Se il Feltrino dovesse cadere, seguirà la Val Serpentina e poi … chi li fermerà dall’attaccare la Marca Trevisana? I nostri provveditori e condottieri non possono ignorarlo!”

“Conosco il signor Roberto: se potrà, invierà qualche contingente in nostro soccorso”, la tranquillizzò Anzolo e le si sedette accanto sul letto, circondandole le spalle. Strinse la bocca in una linea dura alla vista dei timidi fili d’argento imbiancarle appena appena le tempie, i quali ben si ricordava non possedere l’anno addietro. “Al contempo, non possiamo né aspettare i suoi comodi né crederlo onnipotente. Anche qui abbiamo genti valide e pronte a guerreggiare: forse il mondo non si ricorderà della nostra impresa, ma Dio e la popolazione sicuramente.”

“… allora, come quella volta che partì assieme al signor Guido, tuo padre mi domandò perdono e non in segno di perpetuo congedo, bensì per infondergli maggior vigore nella battaglia …”

Combatterò meglio, ricco della certezza del tuo amore, nient’altro che del tuo amore”, afferrò il Miani le manine della sposa tra le sue, baciandole le nocche.

Al che a Leonora comparve, dopo tanto tempo, la sua solita espressione birbante, che tanto aveva fatto innamorare il marito. Ricambiando il bacio, la Morexini non riuscì a trattenersi  dal domandargli, non senza una punta di malizia, dove avesse letto quella frase alla Rinaldo.

Anzolo divenne allora rosso in faccia ed esclamò: “Mojer, so bene quali sono i miei doveri verso te e la Signoria: ritornare vivo e vincitore, né più né meno!” 

“Ed è l’unica promessa di cui veramente m’importa!”, lo baciò sulla bocca Leonora, guidando le sue mani sul ventre. “Soprattutto a questa creatura, che scalpita di chiamarti padre!”

“Lo perdonai, poiché insisteva, e mi diede grande conforto; qualsiasi cosa fosse accaduta, non ci saremmo divisi in cattivi termini e brutti ricordi, sicuri invece del nostro reciproco affetto e fiducia.”

Contro ogni aspettativa, il presidio a Celazzo venne riconquistato ed il capitano Antonio Bonmassaro vi rimase a sua brava ed inviolata guardia fino alla fine del conflitto, a novembre. Ringalluzziti dalla vittoria, le locali truppe venete marciarono a Borgo di Valsugana e non soltanto impedirono l’ennesimo tentativo d’entrata da parte di Iorio di Innsbruck e dei suoi quattrocento fanti nel Feltrino, ma pure li costrinsero a ritirarsi nel castello, ponendo il tutto a ferro e fuoco per risarcimento dei mesi di guerra e ruberie.

A metà luglio, quasi a premio della lunga resistenza opposta al Duca d’Austria, arrivò un contingente inviato da Roberto Sanseverino per rinforzare gli aspri confini, scorrendo per la Valsugana ed il Tirolo, con uccisioni ed incendi, ed il terrore stavolta lo provarono le genti austriache, intanto che il comandante generale puntava alla liberazione di Rovereto.

“Ebbi tanta paura di non riabbracciare tuo padre, Momolo. Più ancora di quella volta di Frara: per questo non badai, almeno per quel periodo, ai suoi malumori ed escandescenze. Sapevo che non agiva per meschinità sua: semplicemente, aveva paura e la gente diviene cattiva, quand’ha paura.”

“Vorrei chiedere perdono al Marchetto e al Carlino. Solo che non ci riesco”, si giustificò in fretta Hironimo, interpretando quella rimembranza non come un esempio da imitare, bensì come l’ennesima critica. Padre del suo comportamento ne sarebbe rimasto assai deluso, definendolo infantile ed egoista, a lungo termine un dannoso parassita che erodeva il solido albero familiare. “Marchetto ha ragione: la mia collera congiura contro di me.”

Hironimo sarebbe diventato turco a sapere quale entità lo possedeva ogniqualvolta s’arrabbiava, cosa lo spingeva a reazioni verbalmente e, purtroppo, fisicamente aggressive, le quali intimorivano lui stesso in quanto incapace di controllarsi. Si sforzava di domare l’ira, però corrispondeva a trattenere un mostro, la poteva quasi gustare dietro i denti quando dallo stomaco essa gli risaliva in gola e si propagava a guisa di veleno in tutto il suo corpo fino agli occhi, che più non vedevano; alle orecchie, che più non ascoltavano e al cervello che in uno schiocco di dita cessava ogni freno umano per lasciar spazio alla bestia interna.

“La collera decisamente l’hai ereditata da tuo padre.”

Ecco, immediatamente il giovane Miani avvampò, sibilando astioso: “Solo i suoi difetti? Null’altro?”

Sboccato, impertinentaccio, comandino, irascibile, ostinato  - chiunque avesse conosciuto Anzolo Miani solo queste caratteristiche rivedeva nel suo ultimogenito. E il resto? Niente di suo padre era sopravvissuto in lui? Solo il peggio?

“Tuo padre non era perfetto”, replicò serafica madona Leonora.

“Grazie, n’ero già a conoscenza!”, fischiò beffardo Hironimo, scattando bruscamente in piedi e sfuggendo al tocco materno.

“Aspetta. Non era perfetto, però al contempo si sforzava di divenire il padre ideale per te e per i tuoi fratelli. Se falliva, bisogna imputarlo al modo in cui l’hanno a sua volta cresciuto. Tuo nonno infatti non gli aveva riservato tali riguardi, lui era il padre e il patron e tutti avevano da ballare alla sua musica o niente e, secondo me, tuo padre ne soffrì più di quanto avesse mai lasciato intendere. Con la sua matrigna non era mai riuscito a legare veramente, forse perché in lei non aveva trovato il supporto di cui necessitava. Di conseguenza, non avendo ricevuto un granché d’affetto, non possedeva delle solide basi per esprimerlo e donarlo a sua volta.”

“Si comportò ugualmente”, sentenziò rancoroso il giovane.

“Dici?”

Hironimo incrociò i suoi occhi nerissimi e furiosi con quelli altrettanto nerissimi e quieti della madre. “Si comportava da capitano di galea! No a questo, no a quello; critiche, rimbrotti, punizioni … Quando mai mi fece sentire amato? Apprezzato? Incoraggiato?”, si sfogò, arrivando ad un certo punto a girarsi di scatto adesso verso l’arca silenziosa del padre, quasi reclamasse anche il suo di ascolto. “Certi giorni mi sentivo talmente inutile, indegno …

“E sostenete che mi volesse bene? Non ribattete”, interruppe sul nascere la replica della madre, zittendola, “che così va il mondo, che è ciò che la società s’aspetta, che il “padre” deve solo provvedere a sfamare la famiglia e al massimo benedire i figli alla sera prima di coricarsi! A questo punto, che differenza c’è tra un “padre” e un contadino che dà da mangiare alle bestie o da bere alle piante? Non li nutrono? Non li crescono? Non li educano gli animali a compiere il loro mestiere? Cosa me ne faccio di un “padre” cui non posso confidare i miei pensieri, i miei dubbi, le mie angosce, i miei progetti senza provare ogni volta paura e vergogna del suo giudizio?”

“E tu credi che non soffrisse ad ogni critica, ad ogni rimbrotto, ad ogni punizione inflittati?”, gli rammentò madona Leonora, ascoltando con avvilita attenzione lo sfogo del figlio il quale, a siffatte parole, esplose:

“Quindi la colpa ritorna sempre a me!” e l’eco rimbombò per l’intero abside, anche Eudokia, nell’angolo più remoto, sussultò dalla sorpresa.

La nobildonna s’alzò, avvicinandosi al figlio e afferratagli la mano, gli rivelò con disarmante schiettezza: “Nessuno ti accusa di alcuna colpa. Semplicemente, tu ti comportavi come si comportava un qualsiasi bambino, né più né meno: disobbediente, impulsivo, scatenato, sbeffeggiavi ogni autorità, specialmente di chi ti voleva guidare. Anzolo, dal canto suo, si comportava da padre, un ruolo che purtroppo conduce a divenire il primo nemico del proprio figlio, se questo però lo può salvare da assai peggiori, di punizioni.” Notando il persistente scetticismo nel giovane, ella proseguì: “Momolo, tuo padre era ancora molto giovane, quando esiliarono sier Jacomo Foschari …”

“La conosco, quella storia”, roteò gli occhi Hironimo, snervato, battendo impaziente il piede per terra.

Madona Leonora non si lasciò scoraggiare dal brusco commento. “Dunque saprai anche, come aprirono le porte acciocché il Doxe suo padre, sier Francesco Foschari, potesse ben udire le urla del figlio mentre lo sottoponevano ai tratti di corda. Trenta tratti di corda finché questi impazzì dal dolore.”

Al giovane Miani andò di traverso la saliva, il collo pizzicato da brividi freddi. Attraverso la carica di Lucha, giudice della Quarantia Criminal, era a conoscenza delle pratiche d’interrogatorio, nonché di come a Palazzo Ducale le urla inumane dei torturati si mescolassero ai dibattiti nelle sale e ai gemiti dei pazienti dei cavadenti sotto i portici. Supponeva, considerata l’imperturbabilità di suo fratello dinanzi a tale prassi, che col tempo ci si abituasse, se non si provasse addirittura fastidio per quei rumori molesti, ch’interrompevano le assemblee oppure rallentavano il corso dell’inchiesta.

Come avrebbero reagito però Lucha, se sospeso con le braccia dietro la schiena legate ad una corda, invece di un tizio qualsiasi si fosse trovato uno dei suoi fratelli? Se a gridare dai più insondabili recessi dell’anima fosse stato il sangue del suo stesso sangue? Avrebbe mantenuto la flemma? Si sarebbe allontanato sconvolto? Si sarebbe strappato di dosso gli occhi?

O sarebbe corso a tagliare quella tremenda corda, pur conscio dei rischi cui incorreva?

C’era da impazzire al solo pensiero di quell’eventualità. In quale modo era riuscito Sua Serenità a resistere? L’unico figlio rimastogli, poi!

“Il suo barba Nicolò, che aveva avuto un ruolo attivo in questi processi, glielo ricordava spesso, quando tuo padre s’incaponiva e gli remava contro: Finirete come il Jacomo Foschari! Solo, in esilio, senza la consolazione di vostra madre, la vergogna della vostra famiglia e di Veniexia intera!, lo minacciava”, proseguì madona Leonora ed Hironimo comprendeva adesso il motivo per cui quel nome compariva spesso sulla bocca del biscugino Zuan Francesco, quando da piccolo lo rimbeccava per le sue malefatte. “Ma di quel triste affare a tuo padre non rimase impressa la tortura di per sé -  no, la violenza dall’alba dei tempi coabita nell’animo umano -  bensì il fatto che Missier il Doxe non fece nulla, non mosse un dito per salvare il figlio, anzi, lo esortò il giorno della condanna all’esilio di sottomettersi docilmente alla legge e d’accettare stoicamente il suo destino.” [8] L’anziana nobildonna invitò Hironimo a sedersi, portandosi la mano stretta tra le sue sul grembo. “Tuo padre mi confessò, un giorno mentre aspettavo il Luchin, che se fosse stato egli Missier il Doxe non sarebbe rimasto lì inerme, che se non poteva contestare la legge che almeno lo si lasciasse uccidere il figlio di sua propria mano, così da risparmiargli il supplizio della tortura. Egli pertanto vi voleva indirizzare sulla buona strada, crescervi nel timore di Dio e della legge acciocché non giungesse mai il giorno, in cui si fosse trovato lui sullo scranno e voi dietro quella porta ad urlare sotto i ferri della tortura.”

Un castigo peggiore non poteva sussistere al mondo per un genitore, d’assistere impotente all’agonia della sua creatura, le mani legate.

Quest’aspetto Hironimo non l’aveva mai considerato.

“Vi voleva proteggere. Da voi stessi e dagli altri.”

 

“Dorme?”

“Sì, l’Orsolina lo sta vegliando. Tutto quel piangere l’ha stancato, è crollato in letto.”

Anzolo fissò il libro dei conti, mordendosi l’interno della guancia, le dita unte d’inchiostro che rigiravano nervose la penna. Si era attardato nello studio, la candela ormai consunta e l’unico rumore proveniente dalla finestra semichiusa era l’assonnato sciabordio delle onde del sottostante rio San Vidal. Una notte tranquilla per un anno così turbolento per la Serenissima e per l’Italia intera.

“Non mi fossi accorto di quella focaccina, avrebbe pianto molto di più”, sentenziò gravemente, riprendendo il lavoro interrotto dal discreto arrivo della moglie nella sua sancta sanctoroum. Quand’ecco, resosi conto di come stesse sbagliando le somme più elementari, il Miani increspò le labbra e, sparso del polverino, chiuse il pesante tomo. “Davvero ha pianto così tanto?”, s’informò apprensivo.

Leonora si portò accanto a lui. “Quella tua scenata l’ha spaventato a morte. Dovresti atteggiarti in maniera più delicata con lui.”

Con lui il mondo non sarà delicato”, ribatté Anzolo, tormentando la penna. “Inoltre, non capisco perché ogniqualvolta lo rimproveri, reagisce neanche lo trascinassi al martirio … insomma, né Luchin, né Carlino, né Marchetto s’esibivano in tali momarie!”

“Ma il Momolo non è né il Luchin né il Carlino né il Marchetto. È se stesso, è unico e dovresti trattarlo come tale, non come la copia dei suoi fratelli.”

“Perché non mi ascolta mai? Perché questa sua continua e ostinata disobbedienza? Dov’ho sbagliato con lui?”, le chiese angosciato il marito, passandosi una mano sulla fronte e poi sugli occhi. “Perché non comprende che non provo alcun gusto ad atteggiarmi a Missier Grando con lui, che … che se non indurisce il suo cuore crescendo scambieranno la sua bontà per stupidità, approfittandosene sfacciatamente? E se questa sua sensibilità d’animo lo conducesse a finire nei guai, ad impegolarsi con la legge? Se … se la si scambiasse per altra natura più vergognosa, non degna degli uomini?”, batté il senatore il pugno sulla scrivania di quercia venata d’oro, accalorandosi. “Non può permettersi alcuna debolezza, non in questa vasca di squali dove viviamo! Quelli come nostro figlio li trangugiano e poi ne sputano gli ossi; con questo in mente ti pare ch’io possa dormire sonni tranquilli? Che possa soprassedere?”

Leonora non replicò nulla, limitandosi ad appoggiargli la mano sulla spalla. Immediatamente, Anzolo gliel’afferrò.

 

“Lo dimostrava malissimo, però si preoccupava per voi. Da giovane, quand’esercitava l’avvocatura, talvolta gli capitavano dei casi … delicati, in cui molti piccini venivano costretti ai torti dei più turpi.”

 

“Quando ho visto Momolo, tornare a casa, da solo, con quella focaccina in mano, ho rivisto in lui quel bambino. Dopo un’eternità, l’ho rivisto.”

“Quale bambino?”

“Quanti anni aveva? Dieci? Otto? Stava … stava attendendo che i servi giungessero per prelevarlo da scuola, quando quell’otre di sterco, quel figlio-del-diavolo l’avvicinò, regalandogli una fritola: ti porto a casa io, dammi la manina … Quel che gli hanno fatto … i danni … come urlò quando i medici lo esaminarono, come pianse quando l’interrogai, di vergogna e pena e mi pregava di non chiedergli altro, che voleva la sua mamma e che voleva morire. Quale bambino ad otto anni invoca la morte? Fui così grato della sentenza dei Dieci … così grato e non per il compenso … Mio Dio, per un istante ho temuto che lo stesso fosse accaduto a Momolo … Perché si ostina a non dirmi il nome? … Se quel becco fottuto avesse osato toccarlo, anche solo sfiorarmelo … Non ci sarebbe arrivato vivo dai Dieci … Oh, no! L’avrei squartato vivo, quel cancaro, l’avrai squartato vivo a mani nude e mangiato finché di lui non sarebbe rimasto niente!”

 

“Perché allora non lo palesò mai, non ce lo disse chiaro e tondo?”, esigette di sapere Hironimo, le orecchie che gli bruciavano per la diversa chiave di lettura di quell’episodio, che lui aveva all’epoca percepito come una grande e immeritata ingiustizia. Si diede dello stupido, di non essersi mai fermato a capire le motivazioni dietro il rimprovero di Padre, così come di tutti gli altri.

Madona Leonora levò gli occhi verso l’arca del marito, un’espressione malinconica sul volto scarno. “Suppongo perché gli fosse stato insegnato come la bontà e la sensibilità d’animo appartengano ai deboli; quando invece essi, uniti alla Grazia dello Spirito Santo, rendono invincibili e tetragono a qualsiasi avversità.”

“Nel Regno di Saturno, forse”, confutò scettico Hironimo. “Quando vinceremo questi porci balordi, non sarà per benevolenza e magnanimità; sarà perché siamo stati più feroci e astuti di loro. Padre aveva ragione ed io un deficiente ad oppormi: a questo mondo, chi segue la via della moralità viene destinato a null’altro se non alla derisione e ad essere calpestato, a trovarsi i piedi in testa. Ho ben appreso questa lezione.”

“Ti sei molto indurito di cuore, questo sì”, commentò tristemente sua madre.

Portandosi sotto all’arca di Padre, il giovane Miani si pose in punta di piedi per sfiorarla. “Mi distinguerò in questa guerra, Madre”, le promise con ferma convinzione, voltandosi, gli occhi luccicanti di febbrile ardore. “Duratura seges– duraturo frutto, [9] non era questo il motto di Padre? Vincerò gloriosamente e cancellerò ogni infamia dal nostro nome, il quale non sarà più associato ad un presunto suicidio, bensì a nobili imprese; lo renderò immortale e conosciuto fino all’ultimo angolo della Terra, dove verrà pronunciato con la più alta devozione! Così avverrà, Madre, ve lo giuro: da delusione ad ultimo, diverrò l’orgoglio e il primo e sarà questa la mia espiazione e il mio ringraziamento nei confronti di Padre, per tutti i suoi sforzi. Dimostrerò al mondo intero che lui non ha perso il suo tempo con me!”

Madona Leonora l’ascoltava in silenzio, il volto una sfinge indecifrabile.

 

***

 

 Chi era Padre?

L’unico, assieme a Madre, che l’aveva amato incondizionatamente, contro i propri interessi, anche a costo di ricevere in cambio rancore da parte sua.

I suoi fratelli gli volevano bene, però avevano anche la loro vita cui badare, le loro nuove famiglie da sostenere e proteggere. Hironimo corrispondeva per loro ad un sovrappiù.  

Mentre Padre e Madre, ovunque egli fosse andato, qualsiasi cosa avesse fatto, qualsiasi scelta avesse compiuto, sarebbero stati lì per lui, granitici sostegni. Un privilegio che non molti genitori concedevano ai propri figli, Hironimo in retrospettiva lo vedeva ora chiaramente nelle dinamiche familiari dei suoi amici, i quali si credevano liberi ma in realtà ben piegati al giogo parentale.

In fin dei conti, Padre non aveva mai ostacolato le sue inclinazioni – a parte il tentativo d’allattare i cuginetti – l’aveva sempre lasciato sperimentare e anzi, anche se non tralasciava alcun’esplicita impressione a riguardo, adesso Hironimo si ricordava con folgorante nitidezza l’interesse nei suoi occhi quando lui condivideva le sue opinioni, le sue scoperte, il risultato dei suoi personali apprendimenti – come diceva l’Orsolina, era ruvido ma non insensibile.

Solo, questa libertà concessagli doveva camminare mano nella mano con la consapevolezza della responsabilità delle proprie azioni – ciò cui Hironimo desiderava sfuggire e ciò che Padre invece s’ostinava d’insegnargli.

Che nascere in un mondo di privilegiati non equivaleva a rendere lecito l’illecito, bensì a dare l’esempio e a scontare gli errori con doppio rigore. Che appartenere ad una posizione di potere non si limitava ad impartire ordini ai subordinati, ma di essere il loro scudo, il loro punto di riferimento nel momento del bisogno, assumendosi e giustificando il peso del loro fallimento. In porto, non è il rematore che viene processato per la mala gestione della galea o per una sconfitta: è il patron che viene condannato, riecheggiarono in Hironimo le parole di Padre, definite e precise come non mai dopo anni di silenzio. Il rematore dirà: che scelta avevo io? Mi è stato dato un ordine e quello io ho eseguito. Ma il patron potrà affermare lo stesso? No, gli diranno i Cai dei X, noi ti abbiamo dato ogni potere di decidere, di comandare, di disporre degli uomini come meglio potevi. Non ti mancava nulla. Ora però tu ci devi rispondere del tuo operato, non i tuoi inferiori. Può il servo ordinare alcunché al padrone? Paga dunque il prezzo del tuo privilegio.

Alla fine, ogni persona interrogata dal giovane Miani, pur descrivendolo in maniera differente, conveniva sul fatto che suo padre non si tirasse mai indietro dinanzi a qualsiasi sfida e alle sue conseguenze, i meriti e le colpe. Convenivano su come egli non desse mai per scontato la sua appartenenza al patriziato, come non considerasse la nobiltà una distinzione sociale bensì un titolo da guadagnarsi onestamente attraverso la mercatura, l’esercizio di una carica pubblica, un servizio pubblico. La devozione.

Convenivano tutti come Padre sì disprezzasse le melensaggini e l’esaltazioni eroiche dei poemi e romanzi cavallereschi, eppure narravano di come egli non esitasse a combattere in prima fila e ad ergersi a scudo umano per i suoi compagni; convenivano tutti come pur non declamando in latino ciceroniano, Padre praticasse nel concreto le tanto osannate ma assai poco praticate virtù romane: clementia, dignitas, firmitas, frugalitas, honestas, industria, severitas, pietas, prudentia, fides, iustitia, … Per lui non corrispondevano ad una sterile moda da sfoggiare onde stupire i suoi ospiti della sua cultura, per lui era un modo di vivere e da tramandare ai suoi figli, la sua eredità viva.

Padre aveva voluto che Hironimo in queste virtù si fortificasse, fedeli alleate per affrontare il mondo ostile fuori le rassicuranti mura domestiche. Che lo aiutassero a sopravvivere e a prosperare. I suoi metodi saranno stati goffi – come pretendere d’insegnare amore se non lo si è mai ricevuto? – però impregnati di grande sincerità e devozione paterna. Perché sapeva che la clessidra girava inesorabile per lui, che un giorno sarebbe arrivato il tempo di presentarsi a discutere con San Pietro, impedendogli quindi di proteggere all’infinito suo figlio, la sua famiglia.

Quale utilità ricavava altrimenti del suo affanno?

Hironimo capiva, ora, la sofferenza nel guidare un figlio per ricevere in cambio amore ma anche odio. Era facile per lui viziare i suoi nipoti Anzolo, Crestina e Gasparo, giocare al barba amorevole ma educarli, oh! Da scuotere le fondamenta di casa rimbombavano severissime le paternali di suo fratello Marco ai figli, seguite poi da grandi e avviliti sospiri in privato, quando Zanzi e Ina correvano piangenti in camera loro. Anche Padre, dopo averlo punito, sospirava così tristemente?

In quella stasi notturna, alla luce traballante della lucerna nella tenda di Mercurio Bua,  si compì uno strano fenomeno: per un istante, in bilico nel dormiveglia, Hironimo ebbe la sensazione di ritrovarsi nel suo corpo decenne, spaparanzato sul suo lettino accanto a Madre. Avvertì una presenza sopra di lui, un tocco di dita ruvide e timide sulla fronte, scostando via i ricci ribelli. Un bisbiglio – non aver mai paura, sei nato per lottare – e poi, la dolce pressione di un bacio sulla testa e il profumo di Padre, salato come il mare, che lo avvolgeva, cullandolo nei migliori sogni.

Le dita di Hironimo corsero di riflesso sulla sua fronte, tastando incredule, i suoi polmoni pieni di quell’aroma a lui tanto caro.

“Padre, voi sapete quanto vi ami e vi rispetti, dell’immensa gratitudine ch’io nutro per voi per avermi messo al mondo, cresciuto ed educato, facendomi buon veneziano e …”, recitò a mente la formula enunciata dalla sua sorellastra Crestina al momento del congedo dalla casa paterna. Solamente buon cristiano non riuscì pronunciare, sentendosi altrimenti ipocrita. “Padre mio, se v’ho offeso, se v’ho deluso, se mi son comportato indegnamente verso di voi, vi scongiuro, in nome di … in nome di … Mater, di perdonarmi ogni mancanza nei vostri confronti e di benedirmi in questa nuova parte della mia vita.”

Hironimo proferì il tutto a cuore aperto, lacrimante. Eppure, dopo quindici anni, percepiva trattarsi di lacrime di gioia, di chiusura.

Sotto certi aspetti, quel gran bischero di Mercurio Bua aveva ragione: Padre era suo padre. Non era il fratello di Marco e Vorzilio Miani o il figlio dei suoi nonni. Né l’amico di sier Antonio Trum né il cognato/rivale del barba Batista. Né il capitano della Miana. Né tantomeno il marito di Madre. Era tutto questo, ma per lui era suo padre, neppure quello dei suoi fratelli, il suo.

Perché per il bene di Hironimo, egli agiva; per il suo bene aveva diretto le sue energie, i suoi pensieri, anche se per approcciarsi a lui usava il metodo meno consono.

Perfettamente imperfetto, ma era suo padre.

I cui insegnamenti, se Hironimo si fosse deciso a seguirli, l’avrebbero accompagnato per tutta la vita.

Altrimenti, sul serio, sarebbe stato come se per lui Anzolo Miani non fosse mai esistito.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

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Ed eccoci qui alla fine de “Alla ricerca del padre perduto”. La seconda parte del quarto comandamento “… onora la madre”, non sarà così lunga, promesso! Avrete capito che il Nostro ci tiene tantissimo a lei!

In ogni modo, potrà sembrare che non sia accaduto niente, invece sì, c’è stato fatto un passo fondamentale in avanti per il Nostro. Le bellezze delle salite …

Vorrei ribadire, che le riflessioni in questo capitolo su famiglia e genitori non sono dogmi universali, quindi niente flagellazione della povera Hoel se non si è d’accordo.

Certamente i ruoli dei genitori all’epoca  - come fin quasi 50-60 anni fa  - erano ben definiti, molto più rigidi rispetto ad oggi, però leggendo i carteggi di alcuni patrizi veneziani dell’epoca, ho trovato esempi di padri molto affettuosi e presenti, in contrasto al generale sentire di padre autoritario e distante. Pertanto, credo fosse a seconda della personalità dell’interessato e al suo livello di sensibilità.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima (con la narrazione “regolare” XD) Un ringraziamento a Semperinfelix (che m’ha aiutata nella revisione).

 

Un po’ di noticine:

 

[1] un’usanza curiosa del patriziato della Serenissima, che nella scelta dei padrini per il battesimo non si limitava a scegliere solo tra parenti stretti e i membri di famiglie cittadine, ma anche tra il popolo e i loro stessi servitori. Di conseguenza, il numero di padrini era assai notevole – si stabilì  fino a 6 dopo una serie di eccessi (150 in un sol battesimo) contrariamente ad oggigiorno che sono al massimo due.

[2] probabilmente era la sua imprecazione preferita. Narra il Sanudo, che come nel 1514 Carlo Miani, ripresa l’attività forense, durante un processo in Quarantia Criminal contro un Lampugnano, accusato d’aver ordinato l’assassinio di un figlio di Domenico Marin Becichemi, s’era lasciato sfuggire una bestemmia – “maledeto sia San Piero” -  forse frustrato dall’impasse in cui era caduta l’udienza. Ovviamente la cosa suscitò un grandissimo sdegno e il Miani venne condannato a pagare una multa o di 25 lire o di servire un mese a Padova.

Considerati gli usuali provvedimenti per i bestemmiatori (taglio della mano e d’un pezzetto di lingua) gli andò di lusso! Secondo noi, Carlo Miani durante il suo processo si giustificò astutamente dicendo che per “San Piero” intendeva non il santo bensì il Vaticano. Oppure, siccome Della Rovere bestemmiava sempre San Pietro, appellandosi all’infallibilità papale, se il Papa lo faceva allora va bene. Oppure, essendo ancora la guerra in corso ed essendosi il Miani distintosi a Brescia e a Bergamo, forse la Quarantia non vedeva il vantaggio nello sprecare così un valente militare, tanto nell’esercito bestemmiavano tutti. Chissà.

[3] Di questo Luca Tron figlio di Giovanni Tron e nipote del Doge Nicolò non si trova alcun altro riscontro, se non nell’albero genealogico del Cappellari, ragion per cui sospettiamo esser morto fanciullo, prima ancora della Balla d’Oro.

[4] quello che Angelo Miani sta descrivendo è il “Battesimo di Cristo” nel Battistero degli Ariani a Ravenna.

[5] Crestina da Pisan= Cristina da Pizzano o Christine de Pizan, è una scrittrice e poetessa vissuta a cavallo tra il XIV e il XV secolo, nata a Venezia e poi trasferitasi in Francia con la famiglia presso la corte di Carlo V di Valois. Il suo componimento più celebre è “La Città delle Dame”, una risposta ai suoi colleghi Boccaccio e Jean de Meung le cui produzioni letterarie considerava ingiuste e denigratrici nei confronti delle donne. Oltre ad esercitare da laica la professione di scrittrice, di Cristina va notato che in molte sue poesie viene toccato il tema della prematura perdita del marito Etienne de Castel, di cui era molto innamorata.

[6] durante i primi due anni di matrimonio alla novella sposa (novizza, che vuol dire anche fidanzata) veniva concesso d’indossare una collana d’oro e/o una di perle grosse, nonché di vestire più sontuosamente del solito, così da segnalare il suo nuovo status sociale di donna maritata.

[7] Paulo Luzio Anafesto = Paolo Lucio Anafesto, primo Doge di Venezia, al governo dal 697-717. I Morosini furono una delle dodici famiglie veneziane che lo elessero, da qui l’aggettivo “apostolico” a Ca’ Vecchie. Oggidì gli storici dubitano della storicità di Anafesto, ma all’epoca di questo racconto sicuramente per Leonora Morosini e con lei tutta Venezia corrispondeva all’indiscussa realtà. Quanto ai Miani, pur vantandosi di discendere dalla gens Emilia, in realtà erano dei navigatori-commercianti provenienti dall’Istria, i quali si trasferirono a Venezia verso la fine del X secolo.

[8] Narra il Sanudo: et quando ‘l andò (il Doge Francesco Foscari nella camera dove avevano portato il figlio per congedarsi dalla famiglia), li parlò molto costantemente, che pareva non fosse suo figlio licet fosse unico figlio. Et lui disse: “Messier padre, vi prego procurate per mi che torni a caxa mia.” Il Doxe disse: “Jacomo (Jacopo) va ed obedisci a quello vol la Tera, et non zerchar più oltra.” Ma ben si disse che il Doxe, tornato a Palazo, stramortì, et detto sier Jacomo fo mandato al suo confin alla Cania.

[9] duratura seges = “Frutto duraturo”. Questo motto fu scolpito nella targa commemorativa in marmo sulla fontana lombardesca a Feltre, sopra di cui è posto un fascio di piante di miglio con un nastro volante. Poiché il miglio compare nello stemma dei Miani, non sappiamo se questa frase fosse il loro motto oppure semplicemente l’incipit del contenuti della targa. Finché non riusciremo a trovare fonti precise a riguardo, per non sbagliare ci limiteremo a dire che si trattava del motto personale di Angelo Miani.



 

 

 

  
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