Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 13.11.2021
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Capitolo
Tredicesimo, parte 2
Confiteor
(Onora
il Padre …)
Visitatori
e ambasciatori a Venezia spesso annotavano, sbalorditi
e scandalizzati, la balzana sintonia tra patrizi, cittadini e popolo,
laddove
non sussisteva alcun aspetto della vita quotidiana né alcun
divertimento, in
cui i cosiddetti “inferiori” non condividessero coi
loro “superiori” e come
quest’ultimi non esigessero alcun rispetto esteriore dai
primi. Una convivenza
pacifica regolata dalle scrupolose leggi e lo spazio risicato rispetto
alla
popolazione. Strabuzzavano gli occhi, i foresti, scorgendo magari in
beccheria
tra il popolino e i servi un senatore contrattare col bécher
il prezzo della
carne, magari il medesimo nobiluomo con cui a Palazzo Ducale avevano
discusso
con olimpica flemma di delicate questioni diplomatiche.
Sicché
i servitori ai patrizi, nell’intimità del palazzo,
fungevano anche da amici, confidenti, occasionali amanti
(purché non lo si
denunciasse ai Signori di Notte), balie, compagni di giochi, santoli e
figliocci. Custodi quindi dei segreti dei padroni e spesso loro
complici, non ci
si stupiva se i Signori di Notte e la Quarantia Criminal puntassero
immediatamente su di loro onde estrarre confessioni e testimonianze
utili alle
loro indagini. Tutt’al più li incoraggiavano con
lauti compensi, come quelli di
condividere metà delle multe o espropri, ad esempio, quando
denunciavano i loro
padroni per cospirazione, frode, fornicazione, violazione delle leggi
suntuarie, sodomia e gioco d’azzardo.
Hironimo,
similmente a tanti suoi coetanei, era appunto cresciuto
in questo equilibrio, giostrandosi tra il piano nobile di Ca’
Miani e
l’affollato Campo San Vidal; tra il portego arioso e
raffinatamente ammobiliato
e il marasma fumoso delle cucine; tra le fragranze d’incenso
e sandalo dei
brucia-profumi di bronzo e gli odori di cipolle e noce moscata delle
pentole;
tra la colta compagnia di Madre e quella grezza di Orsolina.
Costei
era stata allevata dalla seconda moglie del nonno sier
Lucha, per arginare la mancanza di figli suoi. Nata,
ufficialmente, da un
marinaio chioggiotto morto in mare, in realtà a
Ca’ Miani non era sfuggito come
la ragazza assomigliasse in maniera inquietante al padrone. Tuttavia, i
servi
avevano sempre taciuto a riguardo e non confermarono mai niente
all’interessata
in questione, prima fra tutti la sua stessa madre.
Orsolina,
anima semplice, s’era dimostrata una compagna
devotissima alla sua benefattrice e tale lealtà
trovò premio quando, rimasta
senza la sua padrona, invece d’esser scalzata da Eudokia, la
fantesca di madona
Leonora, quest’ultima se l’affiancò nel
governo di casa giacché “voi
conoscete anche l’ultima sua pietra”. A
sancire tale muliebre
alleanza, suo figlio Menego aveva sposato la candiota.
A chi
dunque se non all’anziana Orsolina poteva Hironimo porre
quelle domande, che neanche i suoi onorati parenti e fratelli osavano
rispondere senza tergiversare, arrossire e tartagliare?
“Com’era
madona Andriana, la prima moglie di Padre? In che
rapporti erano?”
L’anziana
massera levò lo sguardo dall’elaborata brocca di
vetro
che stava lavando con grande attenzione, nel frattanto che Zanetta e
Ufemia o
finivano d’asciugare le coppe di vetro con decorazione in
doratura e smalto o
lucidavano i piatti d’argento da parata. Pur non estraendo la
balla d’oro alla
Barbarella, Madre aveva ugualmente desiderato organizzare una
festicciola per
Hironimo, tirandolo su di morale e scherzando che avrebbe avuto la vita
intera a starsene chiuso a Palazzo Ducale.
“Madona
Andriana, patron Momolo?”, ripeté confusa la
donna. Il
ragazzo annuì. “Perché?”
Il
ventenne fece spallucce, accarezzando distrattamente Baffo il
gatto che, ristoratosi dai suoi vagabondaggi notturni, si strusciava
ora tra i
suoi stinchi, ronronnando. “Così? Non ne parli
mai” e invero assieme ai
fratelli Marco Antonio ed Emilia, morti prima ancora che Hironimo
potesse
conoscerli, la prima moglie di Padre corrispondeva al fantasma di
Ca’ Miani,
una presenza talmente passeggera e presto dimenticata, da non aver
lasciato
alcun’impressione duratura al punto che la sua sorellastra
Crestina era
considerata all’unanimità più figlia
della seconda padrona, che della
prima.
Orsolina
si leccò le labbra, riprendendo il suo lavoro interrotto.
“Una rosa graziosissima dal fascino delicato che piace agli
uomini, dai modi
cortesi e imperscrutabile come un’icona greca”,
esordì la massera, rievocando
quei lontani ricordi di trentasett’anni addietro, quando sier
Anzolo aveva
condotto la giovane sposa a Ca’ Miani dopo i festeggiamenti
nuziali. “Parlava
poco col Patron e trascorreva la maggior parte del tempo o in camera
sua o in
altana e sempre in compagnia delle cugine, cognate e amiche,
sicché si poteva
dire andasse molto d’accordo con la nostra famiglia. Molto
elegante nel vestire
al limite della vanità, sempre sfoggiava abiti ed
acconciature alla moda,
ognora pronta a farsi ammirare alle feste di precetto e alle cene
dogali.
All’incoronazione a Principe Serenissimo del suo barba
Nicolò Trum e a Dogaresa
della sua amia Aliodea Morexini, ella sfilò in Bucintoro nel
corteo di
quest’ultima e pareva una stella nel firmamento,
biancovestita di raso e
splendente di diamanti e filamenti di perle. Se non
m’inganno, teneva la
treccia legata a mo’ di crocchia da una sottilissima rete di
fili d’argento, la
quale luccicava alla luce del sole. Fu l’ultima volta che la
si vide in
pubblico, prima di … voi lo sapete.”
Hironimo
storse la bocca, il cuore stretto da un’infida vena
d’astio a chiunque osasse sciorinarsi in lodi
sull’altrui muliebre beltà, che
non fosse quella di Madre. “Erano felici? Padre
l’amava?”
Quella
vecchia volpe d’Orsolina captò immediatamente la
sua
malcelata asprezza. “L’amava per la famiglia che
rappresentava. I Trum si erano
rivelati un aiuto impagabile per noi, ottimi soci negli affari e in
generale
brave persone, anche se un po’ eccentrici. Naturale, che si
combinasse un
matrimonio per rafforzare la mutuae”, lo rassicurò
e con fare cospiratore,
aggiunse: “Io penso che madona Andriana non avesse mai
dimenticato il vostro
barba, il sior Marco.”
“Dunque
è vero, ch’erano fidanzati e che Padre la
sposò per
onorare la promessa?”, strabuzzò incredulo gli
occhi il giovanotto:
effettivamente, un matrimonio sì importante e vantaggioso
avrebbe avuto più
senso per il primogenito che per il secondogenito, specie se la
fanciulla in
questione si trovava in perfetta età da marito ancora quando
il suo barba Marco
era in vita.
“No,
ciance da pettegola! Ma che madona Andriana avesse sospirato
per il bel Marco, quello sì che è vero, come
tutte le ragazze della contrada
per quello. An, l’aveste conosciuto! Un … come si
chiama, quell’idolo pagano
che tanto va di moda adesso? Quello sempre in bocca ai poeti?”
“Apollo?”
“Ecco,
bravo, un Apollo. An, non come il vostro barba Batista da
ragazzo - oh, bone Jesu, che gran bel pezzo di
figliolo! Con quegli
occhi nerissimi e impertinenti, m’avesse
dato appuntamento in casoto
dopo la caccia … L’avrai spolpato io che manco
più camminava dritto, altro che
quelle frigide cortigiane …”, si perse per la
calle Orsolina, uno sguardo di beata
malizia sul volto e Hironimo si mordicchiò il labbro
inferiore, trattenendo a
stento una risata.
“Eh-ehm,
dicevamo. Il vostro barba Marco coniugava – si dice
così?
– bellezza con nobiltà d’animo, di fatti
stringeva amicizie con grande facilità
e sapeva ben conservarle. Tutti lo tenevano in gran stima. Quando
rideva,
avevate il sole dinanzi e non si poteva rimanergli indifferente, vi
contagiava
con la sua allegria. Voi, patron Momolo, me lo ricordate moltissimo.
Vostro
padre, il Patron, l’adorava così come adorava
l’altro suo fratello più giovane,
sior Vorzilio, e più della morte del Vecchio Patron, lo
devastarono quelle dei
fratelli. Povero, povero sior Vorzilio, non aveva neppure vent'anni
… La
Vecchia Patrona, pur non sua madre di sangue, divenne mezza matta dal
dolore,
poiché l’aveva allevato quand’era
pressoché un puttino … Vostro padre dovette
intercedere presso Missier il Doxe per eseguire le ultime
volontà del vostro
barba Marco, non concedendogli l’autorizzazione di costruire
un altare alla
Madonna nella nostra chiesa di San Vidal”, tacque, tirando su
col naso.
Hironimo le coprì la mano con la sua e l’anziana
donna lo ringraziò con un
tremulo sorriso.
Sbattendo
via con le ciglia le lacrime traditrici, Orsolina si
schiarì la gola e
proseguì: “Il sior Marco aveva
iniziato bene la
carriera, specie nello Stato da Mar e chissà cosa sarebbe
divenuto se la
malattia non l’avesse stroncato così giovane, a
neppure trent’anni. Il sior
Lucha vostro nonno, poi, l’aveva educato bene, nutriva grandi
aspettative su di
lui, contrariamente ai figli minori cui poco badava. Non so neanche
perché il
Patron abbia battezzato vostro padre Anzolo,
non mi ricordo nessuno
in famiglia con un nome simile … Ah sì!,
perché suo santolo fu il mastro
tessitore [1] … E manco Vorzilio lo
so, forse
perché al Vecchio Padrone piaceva leggere poesia?
Bah … Erano diversi
come il giorno dalla notte, il sior
Marco e il Patron, uno pareva un cavaliere e l’altro un
corsaro berbero.
Eppure, vostro padre era tutt’altro che stupido o ignorante,
faceva le ore
piccole nello studio a leggere tomi e tomi di diosacché.
Solo, le letture –
come si dicono? Galanti? Cortesi? – lo annoiavano, le trovava
frivole e fini a
se stesse; sapeste che battibecchi con la Vecchia
Patrona, le sue
amie e le sue zermane Contarini e Loredan! Alla prima critica sul
comportamento
di quel cavaliere francese o inglese – Lanza-lotto?
– lo scannavano vivo,
dandogli del turco, del bifolco, dello spirito gretto e materialista!
Come se a
‘sto mondo si avesse bisogno d’ulteriori incentivi
a commettere adulterio! Che
poi, se è Lanza-lotto e Ginepra, va tutto bene, è
grande amore; se sono io, son
gran puttana! E se lo fa mio marito, è un uomo
morto”, roteò l’indice in aria
Orsolina, più infiammata del fu Savonarola sul pulpito.
“D’altronde,
dico io, cosa vuoi? Cosa pretendi da quel povero
figliolo, se lo mandi ad undici anni in galea? Cosa t’aspetti
ch’impari? La
galanteria? Le poesie d’amore? Il bonjù
monsù?”, imitò la domestica
con grottesca abilità il modo affettato dei foresti
francesi, appoggiando le
mani sul ambedue i fianchi e dondolandosi a mo’
d’odalisca ottomana. La cucina
si riempì immediatamente del trillo allegro di risate
femminili e anche
Hironimo s’unì a loro. “Disciplina,
obbedienza, la bestemmia e la sodomia, ecco
che s’impara in mare. Manco mal che quest’ultima il
Patron l’ha scampata …”
“Padre
bestemmiava?! Non l’ho mai sentito!”
“Come
se non peggio d’un turco prima di sposarsi con la Patrona.
Il suoi poveri barba si strappavano i capelli all’udirlo,
invece il Vecchio
Patron scrollava le spalle, turco anche lui. Mi rincresce sentire che
codesto
viziaccio, estirpato dal padre sia ricresciuto nei figli”,
commentò la massera,
scoccando una lunga ed esauriente occhiata ad Hironimo che,
imporporandosi
offeso, si difese subito:
“Io
non bestemmio! Mi cimento in sporchissime imprecazioni e
insulti, lo ammetto, ma mai bestemmio, ché le sberle del
sior Nane-Checo mi son
bastate. E’ Carlino, quel turco adottato, che ingiuria e
maledice San Piero [2]
e Luchin talvolta quand’è in collera nera, per poi
pentirsi immediatamente. Il
Marchetto si sciorina in ontissime poesie da bordello, però
non l’ho mai
sentito tirar giù né santi né
madonne.” Prese fiato, aspirando aria
rumorosamente. “Ma dimmi, quando conobbe Padre mia
Madre?”
“Dunque
… la questione è un po’ complessa. Sier
Donado Michiel, il
figliastro della vostra siora nonna, s'era ammogliato con madona
Cecilia Trum e
sempre una zermana di vostra madre aveva sposato sier Zuanne Trum,
fratello di
madona Cecilia e ambedue zermani di madona Andriana. Ora non dico che i
vostri
genitori si vedessero tutti i giorni, vostro padre è sempre
stato molto
intraprendente e fino ai venticinque anni aveva viaggiato andata e
ritorno in
Levante, tuttavia ci furono occasioni in cui sì, ebbero modo
di frequentarsi,
giusto per sapere uno dell’esistenza dell’altra.
Inoltre, madona Andriana e la
Patrona, sfruttando il legame condiviso con la moglie di sier Zuanne,
erano nel
frattanto divenute amiche ed ecco che madona Andriana invitava vostra
madre al
suo matrimonio.”
“Quindi
già all’epoca un poco si conoscevano?” e
al cenno
affermativo della fantesca. “Che impressione le
fece?”
“An,
non molto favorevole suppongo: quando si sposò con madona
Andriana, vostro padre aveva appena terminato una serie di lutti, uno
dietro
l’altro: i vostri barba Vorzilio e Marco, il vostro nonno il
Vecchio Padrone e
ultimo il suo barba, il sior Nicolò, proprio poco prima
dello sponsalicio, al
che, considerati i cattivi auspici, avremmo tutti dovuto comprendere
molte cose
su questo matrimonio. Furono anni duri per lui, patron Momolo, doversi
assumere
la responsabilità di Cha’ Miani in sì
poco tempo. Pertanto, non c’era da
stupirsi se si comportava da re dei selvatici e con quella barba lunga
pareva
un saraceno del Cayro. Buon pro per la sua nomina ad avvocato degli
Uffici a
Rialto, un po’ meno per noi tarmati da processi anche in
famiglia. Se il Patron
s’addolcì, fu grazie alla presenza di vostra
madre. Con la prima moglie si
dimostrava rispettoso e cortese, guai però a
contrariarlo.”
Insomma,
come si comportava con tutti e ciononostante, la massera
aveva ragione: pur finendo magari di borbottare rancoroso nel suo
studio, Padre
non esercitava alcun’influenza né
autorità sull’operato di Madre, la quale se
faceva quel che diceva lui era perché conveniva con la sua
idea, non perché
glielo fosse stato comandato. “Come ci riuscì
Madre?”, l’incalzò dunque.
“Nel
senso, come riuscì a …”, non voleva
usare sedurre, troppo
scandaloso associato a lei, “… ad attirare la sua
attenzione? Cos’aveva di
diverso?”
“Vostra
madre si comportò l’esatto contrario di madona
Andriana,
cioè ascoltava vostro Padre e s’interessava al suo
mondo. Anche agli uomini
piace, mica soltanto alle donne. La Patrona adesso la vedete come una
nobildonna distinta, piena di grazia e dignità, ma da
ragazzina, oh!, sapeste
che scimmietta curiosa, una chiacchierina, il tormento delle suore del
convento
dove aveva studiato fino a quindici anni! Tutto l’incuriosiva
e che risate
quando tampinava con infinite domande vostro padre, pareva un levriere
che
tallonava la volpe. Mi ricordo che quando madona Andriana e il Patron
ritornarono da Ravena, dov’era stato camerlengo
…”
“An,
Leonetta! Sapessi che viaggio da Ravena fin qua! Per poco, ho
creduto di soffocare in quell’imbarcazione mezza-marcia,
stipata più delle
bestie da macello in galea!”
Ad
orecchie profane il tono di Andriana poteva suonare giocoso,
eppure Leonora ben aveva captato la venuzza di fastidio sotto
l’ingannevole
buonumore, forse dovuta alla gravidanza della giovane donna. Il volto
pallido,
tirato e lievemente sudaticcio tradiva o l’inizio di una
febbriciattola o la
fine di un gran mal di mare. Al che, conoscendo bene gli svantaggi di
contraddire una persona già di suo alterata, la Morexini
tacque e annuì, cosa
che invece non fece Anzolo Miani il quale, strabuzzando gli occhi
sorpreso da
tal inaspettato brio nella consorte, replicò con altrettanta
vivacità:
“Ma
che dite? L’imbarcazione era sana e spaziosa, il vento
tranquillo e regolare e non abbiamo avuto né tempesta
né bonaccia.”
La
maschera di gaiezza scomparve dal volto d’Andriana,
indurendosi
in una di pietra. “An sì? Siete stato
così tanto tempo in mare, che si potrebbe
dire che perfino una zattera potrebbe risultarvi comoda! Un mariner ho
sposato,
non un patrizio!”
Gli
angoli della bocca dell’uomo s’incurvarono
all’ingiù, subito
sulla difensiva. “Per essere veneziana, disprezzate troppo il
tramite della
fortuna di vostro padre, dei vostri barba e anche di vostro
marito” chiarì
aspro, mentre allungava il collo in direzione di Leonora, seduta dietro
il suo
ricamo. La Trum aveva invitato a casa sua l’amica per
raccontarle il soggiorno
a Ravenna, nonché la notizia della sua prossima
maternità, ma nella fretta
s’era scordata d’informare il marito, il quale,
attirato dal concitato cicalare
nelle stanze della moglie, vi s’era subito recato onde
indagare. “Non m’avete
ancora presentato la vostra … conoscente?”,
s’informò lentamente, sospettoso.
Andriana
emise un ibrido tra uno sbuffo e una risata,
s’alzò dal
suo posto e, pigliata l’amica per il polso la costrinse in
piedi e quasi gliela
spinse sotto il naso. “Vi ricordate di Leonora Morexini? La
figlia di madona
Ysabeta, la zia della moglie del mio povero zerman Zuanne nonché maregna di sier Donado, il marito della mia zermana Cecilia. Vi siete
già
incontrati al battesimo del piccolo Lucha [3], ai tempi ancora del
nostro
fidanzamento!”, gli ricordò velenosa. "E
ovviamente al nostro matrimonio,
ma forse eravate allora troppo distratto ..."
Anzolo
deviò lo sguardo dalla moglie per non tradirle la sua
crescente stizza; piuttosto, preferì squadrare Leonora da
capo a piedi con la
medesima pignola oculatezza di un mercante, che valuta la
qualità di una stoffa
o di una spezia. Confrontò mentalmente le forme piene e mature di Leonora, così morbide e promettenti fertilità, a quelle acerbe e spigolose di quella ragazzina sempre seminascosta dietro la madre, che ogni tanto, di sguincio aveva notato senza però mai rivolgerle la parola. E non si poté dire che la fanciulla non ricambiò tale meticoloso studio, ugualmente
intrigata da questo marito di cui la sua amica si lagnava in
continuazione e di
cui, personalmente, poco si ricordava. A suo modo scoprì al
contrario garbarle:
pur castigato da quel perenne cipiglio, lei scorgeva in quel viso
serissimo
occhi molti buoni. Si rilassò immediatamente, sorridendogli
ed esibendosi in
quei vezzosetti inchini imparati in convento.
“Vi
vedo molto cresciuta dall’ultima volta”,
mormorò l’uomo,
leggermente spaesato senza saper bene perché.
“Siete divenuta una donnina,
ormai …”
“Sì,
a furia di secchiate d'acqua in testa!”, scherzò
Leonora e
prima che Anzolo potesse replicare, Andriana gli raccontò:
“Leonetta m’ha
sempre tenuto molto compagnia, sin da piccole, mentre voi eravate a
giocare al
corsaro in Levante.”
“Corsaro?
Giocare?”, ripeté suo marito, strisciando irritato
la
parola.
Non
avrebbe dovuto impicciarsi, Leonora ne era consapevole, ma al
contempo non desiderava finire arrostita tra quei due fuochi incrociati.
“E
la città com’era, sier Anzolo? Come sono i
Ravenati? Fa più
caldo o più freddo che a Veniexia? Ma è vero che
lì c’è la malaria? Non vi
sarete ammalato, spero! Avete visto i mosaici a Sen Vidal? A
Sant’Apollinare?
Sono belli come quelli a Sen Marcho e a Torzelo o di più?
Aneta, carissima,
suvvia, persuadete vostro marito a raccontarci tutto!”
“A
che pro, Leonetta? Mio marito non va in chiesa se non per
pregare: di sicuro non avrà ammirato al di là del
suo naso.”
“Vi
sbagliate, ho molto apprezzato le chiese e i loro mosaici,
così come ho visitato il mausoleo di Galla Placidia e i due
Battisteri. Eravate
con me, ve lo siete già scordato?”
“An,
non vi facevo così osservatore. E che opinione
v’hanno
lasciato, sior marito?”
“Non
saprei. La stessa impressione di chiunque veda un Cristo
senza barba, più femmina che uomo e le pudenda ben in mostra
ai fedeli!” [4]
Andriana
spalancò la bocca, scandalizzata, aggrottando tuttavia la
fronte in un muto rimprovero, mentre Leonora si copriva la bocca con la
mano,
soffocando un risolino, le orecchie tuttavia cremisi.
“Eretici sul serio!”,
commentò ilare e gli angoli della bocca di Anzolo
accennarono ad un timido
sorriso. “Per cortesia, raccontateci la vicenda di Galla
Placidia, sono sicura
che a Ravena avrete imparato maggiori dettagli su di lei. Aneta
è così parca di
dettagli nelle sue narrazioni!”
“Leonetta,
non vorrete ora che mio marito ci tedi con una lezione
di storia?”
“Tediarci?
Come? Una principessa, figlia di un imperatore, rapita
durante il sacco di Roma da un re barbaro, di cui da ostaggio ne
diviene la sua
regina! Neanche i vostri novellatori o poeti riuscirebbero ad
inventarsi di
meglio!”
“Non
confondete, amica mia, la politica con l’amore!”
“Suvvia,
crudele, concedetemi di sognare un poco! Inoltre, se non
erro, siete voi e non io quella che legge troppi romanzi, novelle e
sonetti!”
“E
voi troppo pochi! La cara Leonetta, sior marito”,
ignorò
Andriana le giocose proteste della ragazza, “temo sia
l’unica a non aver mai
gradito le imprese di un Galvano, un Percivalle o un Lancillotto. Ma
oh!, come
s’infiamma nel leggere le imprese degli Scipioni, di Cesare,
di Germanico …
Soprattutto di Germanico …”, aggiunse maliziosa,
scoccandole un’occhiata
obliqua.
Leonora
arrossì violentemente. “Oh, Aneta, per favore non
fatemi
passare per una rustica beota agli occhi di vostro marito; adesso
penserà che
disprezzo la cultura!”
“Non
trovo assolutamente rustica né superficiale una persona, che
trae beneficio dalle vicende di personaggi reali piuttosto che
fittizi.”
Captando
l’espressione interdetta d’Andriana da quella
stilettata,
la giovane Morexini subito corse ai ripari, afferrando a mo’
di sostegno il
braccio dell’amica. “Noi povere donne possediamo
ben pochi svaghi, sier Anzolo;
fortunatamente gli scrittori e i poeti, ogni tanto mossi a
pietà per noi, ci
dilettano con le loro creazioni. Basta non confonderle con la
realtà, per il
resto sono spiriti dell’immaginazione, innocui”, la
difese, sfruttando
l’accurato uso delle parole appreso indirettamente dai suoi
fratelli.
A
sua volta conscio di aver esagerato a rimproverare così la
moglie dinanzi all’amica, anche Anzolo cangiò
celere discorso: “Così voi
prediligete Germanico?”
“Siorsì.”
“Quali
aspetti, se posso chiedere, vi hanno di lui colpito?”
“L’amore
per la famiglia; l’amore per la Patria; la sua natura
benevola e generosa; la sua determinazione nella battaglia. Tutte
caratteristiche che di certo avranno ispirato i protagonisti dei poemi
e
novelle cavalleresche da noi tanto amate”, reiterò
quell’ultimo concetto in
modo da tamponare quella sottile ma palese nota di biasimo
dell’uomo circa le
letture della moglie. “Dimostra che se è esistito
un Germanico, un Galvano non
può nascere totalmente dalla fantasia.”
“Ma
ha Galvano accanto a sé un’Agrippina Maggiore che
lo sostiene
e lo consiglia, che lo segue all’accampamento, che incoraggia
lui e i suoi
soldati anche nei momenti più bui e disperati; una donna con
cui condivide sia
i disagi e le ansie sia il trionfo della sua impresa? Non credo. O
è
un’evanescente dama-trofeo-angelo per cui langue
d’amore per nulla avere in
cambio se non uno sguardo, o un’adultera seduttrice che lo
disonora più che
elevarlo. In ambedue i casi, una palla al piede. Per questo, il
cavaliere alla
fine rimane sempre solo, poiché alla fine la donna lo
intralcia, deviandolo con
la sua natura sostanzialmente viziosa, quando non angelicata, ma in
quel caso
non può trattarsi di un essere umano di carne e
sangue.”
Le
due giovani donne tacquero, il capo chino ma dialogando cogli
occhi, quale miglior risposta dare. Al che, Leonora, armatasi di
coraggio e non
avendo nulla da perdere, sorridendo furbescamente azzardò:
“Appunto questo,
sier Anzolo, la nostra illustre conterranea Crestina da Pisan [5]
rimproverava
ai suoi colleghi: “Sembrano tutti parlare con la stessa
bocca, tutti d'accordo
nella medesima conclusione, che il comportamento delle donne
è incline ad ogni
tipo di vizio.” Vedete, come noi donne per prime biasimiamo
codesti
vaneggiamenti di poeta se eccessivamente immaginosi? Se nella loro
fantasia
appariamo sfuggenti, capricciose e sfacciate, nella realtà
siamo savie,
discrete e prudenti - più delle Agrippine che delle Ginevre.
Ora, però, non
perdiamoci in calle con questi discorsi a noi non congeniali e invece
dilettateci con la storia di Galla Placidia che ci avete promesso
…”
Similmente
agli infaticabili mulini trevigiani, il cervello
d’Hironimo girava in piena confusione, incapace di conciliare
le immagini
evocate, di Padre e Madre come li conosceva lui
- composti, sicuri
di sé, fieri – a come li aveva invece conosciuti
Orsolina, la quale aveva
spiato la gustosa scenetta, ovver un serioso giovane uomo stanco dal
lungo
incarico fuori sede e una fanciulla iperattiva, che gli dava il
tormento con
infinite domande e lo impegolava in lunghe conversazioni. Il ventenne
concluse
che tal comportamento gli ricordava il suo; ripensandoci bene, anche
lui da
piccolo non voleva staccarsi da Padre al suo rientro dagli uffici,
aggrappandosi
alla manica della toga e tirandogliela piccato quando non soddisfaceva
esaurientemente la sua infinita curiosità o peggio, quando
Hironimo si
accorgeva come Padre stesse fingendo di ascoltarlo, mentre lo rendeva
partecipe
dei suoi ragionamenti.
“E
non s’infastidiva?”, arcuò dubbioso il
sopracciglio, memore dei
stizziti rimproveri di Padre all’ennesimo strattone.
L’anziana
donna ridacchiò sorniona. “A parole! Ma gli occhi
raccontavano ben altro …”, arricciò
maliziosa la bocca, al che lo stomaco d’Hironimo
s’attorcigliò dolorosamente su se stesso,
paventando scenari disonesti dietro
le ragioni di quel secondo matrimonio. Afferrandole le mani rugose,
inquisì
ansioso:
“Orsolina,
sii sincera, in quegli anni Padre e Madre furono mai …
?”
“Cospetto!”,
s’inalberò la massera, sottraendo di malagrazia la
mano e fulminando il giovane con lo sguardo, indignatissima da quella
sconcia
insinuazione. “Vostro padre pur coi suoi difetti rimaneva un
uomo timorato di
Dio e vostra madre la più onesta delle
fanciulle!”, protesse a spada tratta i
padroni. Sbuffando a guisa di toro, riprese un po’
più calma: “La Patrona
peccava di grande ingenuità, questo sì, e se
aveva dato simpatia e conversato
col Patron più del lecito, fu perché lo
considerava quasi un parente e dunque
inoffensivo, come se codesti legami possano difendere una fanciulla
dalle
malizie degli uomini. Fu una fortuna per lei, che il Patron non
appartenesse a
quell’infame categoria che s’approfitta delle
amicizie e delle parentele delle
rispettive mogli per i loro sozzi comodi, vergognando così
la malcapitata di
turno, la sua famiglia, la legge, Veniexia e Domine Iddio stesso.
Vostro padre,
io so quante volte si batté il petto in mea culpa e le
rigorose penitenze cui
si sottoponeva per scappare alle lusinghe del malvagio demone asmodeo
… Però i suoi occhi
s’illuminavano d’una luce speciale ogniqualvolta
veniva in visita alla moglie la Leonetta”,
e sorrise dolcemente, le
dita sotto il mento e un’aria quasi sognante. “Orsola,
Orsola cara, scendeva
correndo trafelato in cucina, vien la Leonetta per la
merenda, fai
preparar quei dolcetti di fichi e noci che tanto le piacciono! Neanche
da ragazzino lo vidi mai così contento. Ahimè,
s’era beccato il mal del
Lanza-lotto, solo all’inverso.”
Hironimo
in tutta onestà, man mano che il racconto proseguiva, non
sapeva più cosa pensare, basito. Aveva creduto Padre un uomo
pio, severo,
bacchettone e non un potenziale adultero a neppure due anni di
matrimonio, con
la moglie che ancora indossava le perle da novizza [6] “Non
cedette mai?
Proprio mai?”
“Lo
spirito è forte, ma la carne è debole. Vostro
padre pur non
sfiorandola con un dito né palesandole i suoi pensieri,
purtroppo non riuscì a
non commettere una piccola imprudenza: regalò infatti a
vostra madre una
striscia di bel panno di lana inglese, da metter sul collo
d’inverno quando
l’umidità della nebbia diventa insopportabile. Il
vostro barba Batista glielo
scorse immediatamente e trascinatala in studio dai fratelli, la
costrinse a
rivelarle dove e come se lo fosse procurato. Estortale la
verità, i vostri
barba andarono su tutte le furie, manco il Patron
gliel’avessero mangiata viva.
Quand’invece la colpa ricadeva totalmente su di loro: invece
di contar soldi o
fare i Portoghesi, avessero tenuto più sott’occhio
la sorellastra! Vermocane!
Una scena indegna e con la povera madona Andriana in cima alle scale
che
ascoltava, grossa della vostra sorellastra, talmente bianca che dovetti
accompagnarla in letto o mi moriva sul posto!”,
gonfiò le guance Orsolina,
nelle cui orecchie ancora rimbombava il furioso confronto tra i
Morexini al
gran completo e sier Anzolo nello studio di quest’ultimo,
laddove egli
protestava furibondo la sua innocenza all’accusa di stupro e
adulterio ed
esprimeva la sua sorpresa e delusione nel sapersi così poco
stimato, se invero
lo si credeva capace d’approfittarsi della candida innocenza
di una fanciulla,
per di più amica intima di sua moglie.
“La
povera Patrona, cascando giù dalle nuvole, provò
un’immensa
vergogna per tale incresciosa situazione e scrisse numerose lettere a
madona
Andriana, in cui giurava sulla tenera memoria del fu suo padre
il senatore
sier Carlo "da Lisbona", come mai e poi mai si sarebbe impegolata in
sì turpi negozi. Ci volle un bel po’ di tempo,
prima che le due amiche si
riconciliassero e comunque, da allora in avanti, le visite le faceva
madona
Andriana e non viceversa.”
Un punto
ad Hironimo non tornava. “Come mai i miei barba
acconsentirono alle loro nozze? Da quanto mi racconti, lo
odiavano!”
“Suppongo
che sotto-sotto non avessero mai creduto nell’innocenza
del Patron e che quindi il loro corrispondesse al giusto modo di
riparare al
torto inflittoli. Razza di portoghesi impestati di veleno, dovettero
sventolarli le lenzuola nuziali alla festa, per indurli a cambiare
idea!”,
agitò la massera il pugno nel vuoto, in testa sua
però in faccia a ciascuno dei
Morexini "da Lisbona". Strano
comportamento, cogitava il
giovane Miani, ché Madre verso i suoi fratellastri esprimeva
solo parole
d’altissima stima e affetto.
“E
la siora nonna? S’oppose? Fu d’accordo? Che
fece?”
“Lei
all’inizio m’era parsa un po’ delusa,
forse sperava in una
migliore alleanza per vostra madre. Poi però,
s’acquietò e fu ben contenta che
il Patron desse la mano alla figlia. Era una drittona, la vostra nonna,
come
tutte le donne ch’hanno avuto più d’un
marito!”
“Perché
allora mi dicono, che non furono felici nei primi anni di
matrimonio?”
“Non
avete compreso? Ambedue temevano d’aver fatto torto alla
povera madona Andriana. Vostro padre pensava d’averne
inconsciamente desiderato
se non addirittura provocato la morte, mentre vostra madre
d’aver tradito
l’amica, inducendo il consorte in tentazione. Ché
quando venne il tempo di
risposarsi – il Patron rimaneva l’unico del ramo
diretto e solo una figliola
aveva - dopo un’iniziale ritrosia e
tentennamenti, egli altre non
volle che la sua Leonetta e siccome i vostri barba si trovavano
d’accordissimo
la ottenne in gran fretta, a grand'insoddisfazione però di
sier Batista,
rispetto agli altri il più protettivo della
sorellastra.”
Hironimo
roteò gli occhi. “Sì, alla fine il
barba m’ha confessato
di quella rissa e di come da giovani lui e Padre si beccassero alla
stregua di
galline … E la storia della cortigiana?”
“Malelingue,
padroncino, malelingue!”, esclamò ad alta voce
Orsolina, acciocché sua figlia Zanetta e la nipote Ufemia
l’udissero bene e
abbassassero di colpevole verecondia il capo. “Vi racconto io
ciò che accadde
veramente. Dunque, il cugino del Patron, il sior Zuan Francesco, era
giunto ad
un’età in cui ai maschi il sangue scorre
unicamente dabbasso e soltanto un
pensiero fisso li circola nel cervello …”
“Illazioni!”
“Disse
la gallina che fece l’uovo. Il vostro barba ritornava da
una festicciola con degli amici, era se non m’inganno la
settimana della Sensa.
Abituato in casa a non bere vin schietto, immaginatevi in quali
condizioni
rincasò, imbriago spolpo, e appunto a sorreggerlo ci furono
un suo amico e una
cortigiana di lume. Il Patron in quel momento stava ritornando
anch’egli da una
cena a casa di sier Antonio Trum, il suo previo cognato, e vistosi il
cugino in
tali imbarazzanti condizioni, onde non svegliare l’intera
Cha’ Miani coi suoi
schiamazzi da ebbro decise di aiutarlo a salire nel suo appartamento.
Dopodiché, augurò la buona notte
all’amico di sior Zuan Francesco e congedò la
cortigiana, pagandole il suo dovuto. E là si
consumò la tragedia: vostra Madre,
insonne, s’era destata per scendere in cucina e domandarmi
qualche infuso e
assistette sfortunatamente soltanto al pagamento, null’altro.
Misinterpretando,
non disse però nulla, ritornandosene in letto. Alle prime
luci dell’alba, senza
alcuna spiegazione, diede ordine a Symon di preparare la gondola e
presa la
Tina, con l’Eudokia ritornò nella casa
paterna.”
Orsolina
prese fiato, gli angoli della bocca piegati
all’ingiù e
un’espressione angosciosa sul volto. “Io ne ho
passate tante, patron Momolo, ne
ho assistite a tante di stranezze in ‘sta casa, ma
… Voi non avrete mai idea di
quanta paura ebbi il giorno seguente. Bone Jesu! Non ricevendo
risposta, dopo
aver bussato alla porta, il Patron m’ordinò
preoccupato di aprila, temendo in
un malore della moglie. Quando trovò la stanza vuota
…”
Hironimo
temeva già la reazione.
“M’appiccicai
al muro, desiderando fondermi con esso, non avevo
neanche la forza di correre via tanto ero impietrita dal terrore.
Vostro padre
- Dio mio! - vostro padre sembravano averlo
posseduto tutti e sette
i diavoli della Maddalena, ruggiva spaventoso ogni genere di
profanità,
ribaltando il materasso, volavano i bancali sui cassoni, rovesciava
quest’ultimi,
tirava giù qualsiasi cosa gli capitasse a
tiro … Irruppe poi in
camera di Symon e lo prese per il collo, scuotendolo da sguarattargli
il
cervello fuori dalle orecchie, e minacciandolo d’affogarlo
personalmente a
Canal dell’Orfano gli intimò di rivelargli dove
fossero fuggite moglie e
figlia. Il poveraccio collaborò immediatamente e condusse il
Patron a Cha’
Morexini e lì dovette usare ogni sua risorsa e
abilità diplomatica per
riportarsi a casa la Patrona, senza coinvolgere gli Avogadori Civili.
Quattro
giorni prima d’esser ricevuto a palazzo. Quattro. Povero
Patron.”
“Non
avrei mai immaginato un tiro del genere da parte vostra … In
che modo v’offesi da essere da voi abbandonato
così, senza una parola, una
spiegazione, alla chiaria alla stregua dei ladri, con mia figlia,
umiliandomi dinanzi a tutta Veniexia come l’ultimo dei
cornuti?!”
“Siete
voi che m’umiliate, siete voi che mi rendete cornuta, siete
voi che m’offendete e ogni vostra disgrazia ve la siete
attirata da solo, di
man vostra!”
“Io?
Che diavolo blateri, femmina testarda?”
“Avrei
dovuto immaginarlo … I miei fratelli avevano ragione sul
vostro conto: siete un malvagio, un perverso, un maledetto adultero,
uno
spergiuro, un senzadio, un satiro licenzioso ognora voglioso di coito,
uno
schifoso!”
“Frascona,
a me così parlate?”
“A
voi!”
“Perdio,
mi credete uno dei vostri garzoni da pigliarvi codeste
libertà?! Son vostro marito, chea vaca putana!”
“Ed
io chi sono? La vostra serva? Qualcheduna che avete raccattato
dalla fogna? Pensate forse che una nobildonna della mia sorte,
figlioccia
dell’Imperatriz, si lasci strapazzare da un pescivendolo
qualsiasi come voi? Da
uno delle Cha’ Nuove? Quando voi Miani ancora sventravate i
pesci in Istria,
noi Morexini eleggevamo il primo Doxe Paulo Luzio Anafesto! [7] Carogna
cafona!
Se i miei fratelli non m’avessero aperto gli occhi,
chissà cosa ne avreste
fatto di me? M’avreste certo condotta nell’angolo
più remoto del vostro fontego
e lì vergognatami, come magari faceste con altre
donne!”
“Ma
porco …”
“Non
bestemmiate!”
“
… giuda! Ancora quella fottutissima storia?! Il vostri
fratelli
a furia di frequentare quei caga-alto dei Portoghesi, si sono imbevuti
di tutte
le loro stronzate sull’onore, sulla cavalleria,
sull’alto lignaggio dei miei
coglioni! Cervelli fritti! Una banda di protervi,
ecco cosa siete
voi Morexini! Me ne cale un gran cazzo che la vostra famiglia abbia
fondato la
Signoria, che annoveri tra i suoi Doxi e Dogarese, Regine consorti
d’Hongaria e
Beati in Paradiso, in niente vi sono inferiore da meritarmi un tal
trattamento
da contadino! Vermocane! Ora siete mia moglie, non più la
loro sorella, voi
appartenete alla mia famiglia e non agite contro di me alle mie spalle!
Voi a
casa dei vostri fratelli (vadano a farsi squartare!) non ci tornate
senza prima
avermelo comunicato e men che meno con la mia Tina! Cul del cancaro,
v’informo
sempre dove vado e quando torno, si può dire lo stesso degli
altri mariti qui a
Veniexia? Quando volete uscire, ve l’ho mai proibito? Vi ho
strapazzata? Vi ho
chiusa a chiave nelle vostre stanze? V’impedisco di ricevere
le vostre amiche e
cognate? Quella becera di vostra madre? Ho rimandato indietro la vostra
Eudokia? Vi rimprovero quando parlottate in portoghese coi vostri
fratelli,
poiché io non capisco una maledetta e rischio
d’esser oggetto dei vostri lazzi?
An, ingrata? … Tagliando corto, invece
d’insultarmi, parlate schietto una buona
volta: che v’ho fatto?”
“An,
turco sfacciato! Anima di prava! Serpe biforcuta! Ipocrita
d’un predicatore, con le tue ciance riusciresti a
crocifiggere Cristo una
seconda volta! Mi fate passare dalla parte del torto, adesso? Che
m’avete
fatto? Domandatelo a quella donnaccia di malaffare, a quella sporca
peripatetica di cui vi portate indosso ancora il fetore e con cui,
senza timore
di Dio e della decenza, vi siete sfogato bestialmente sotto il mio
naso!
Attendevo il mattino per darvi una gran bella notizia, ma voi avete
rovinato
tutto! Vi detesto, non vi voglio più vedere!
Manderò i miei fratelli dal
Patriarca a far annullare le nozze! Il sol guardarvi mi fa sputar
bile!”
“Che?!
Quale sfogo? Quale meretrice? Non pigliatemi per … il
… oh,
cagasangue! Can fotuo impestà!”
“Vi
ricordate ora, an?”
“E
no, signora bella! No! Io non c’entro un cazzo in questo
negozio, quella cortigiana l’ho pagata, verissimo, ma per la
compagnia tenuta a
mio cugino!”
“Puoah!
Ed io ci credo! Guardate, leggetemi “oca giuliva”
sulla
fronte! Da ben sette miei fratelli ho udito codeste scuse! Ipocriti
sepolcri
imbiancati!”
“Per
favore, adesso non mettetevi a piangere per una tal
sciocchezza …”
“Non
piango!”
“Suvvia,
ritornate a casa – dimentichiamo questa questione, va
bene?”
“No!
Lasciatemi in pace!”
“Cospetto!
D’una … puttana sareste gelosa?”
“Mi
pensate di pietra? Che non provi sentimenti? Che non sia fatta
anch’io di carne e di sangue come voi? Certo che sono gelosa!
Gelosissima!
Anche voi m’appartenete, l’avete giurato davanti a
Missier il Doxe e
soprattutto a Domine Iddio ed io non … e non … oh
…”
“Sancte
Spiritu! Leonetta? … Leonetta! Su, aprite gli occhi
…
Leonetta, splendore, aprite questi benedetti vostri occhietti, non
è né il
luogo né il momento di scherzare …
Olà, olà! Gente, aiuto, gente! Creature! La
si sente male, madona si sente male! … ”
“A
prova della sua buona fede, il Patron trascinò sior Zuan
Francesco da vostra madre, acciocché udisse da lui la
verità. E da allora,
questo palazzo divenne più morigerato del Santuario di Monte
Berico!”
“Lo
perdonò? Anche se, onestamente, Padre non aveva commesso
alcunché di male.”
“Certo,
si riappacificarono, sebbene i primi giorni avessero
seguitato a tenersi il broncio, a dormire e a
mangiare rigorosamente
separati, neanche un bondì e un bonasera! Tuttavia, ogni
screzio scomparve
qualche settimana più tardi alla notizia della prima
gravidanza della Patrona,
così come ogni rimpianto e ogni accusa se li gettarono alle
spalle. Si potrebbe
affermare, che il Signore non li avesse accordato di concepire fino a
quel
momento, finché non avessero accettato il passato e
abbracciato il futuro. Come
diceva quel tizio fiorentino che tanto piace citare a
voialtri?”
“Incipit
vita nova?”
“Ecco.”
Silenzio.
Grattando
la testa del gatto e imboccandolo di un pezzettino di
prosciutto avanzato dalla colazione fredda, Hironimo azzardò
la domanda più
spinosa. “Orsolina … Madre amava Padre? Non lo
sposò per obbligo o per
compassione del suo amore? Davvero voleva l’annullamento dal
Patriarca?”
“Patron
Momolo, quando in collera la gente parla alla babalà e voi
per primo dovreste saperlo, quando v’arrabbiate”,
scosse benevola il capo la
massera, quasi si stupisse di quella domanda così scontata.
“Vostra madre amava
moltissimo vostro padre; al contempo, non era il tipo di donna da
piegarsi alla
volontà di chicchessia. Infatti, doveva ricordare al sior
Patron che lei non
era uno dei suoi rematori od operai. Ignoro quanti degli altri patrizi
usino
farlo, ma i vostri genitori vi assicuro che ancora dormivano nello
stesso
letto, tranne quando il Patron stava alzato a lavorare fin tardi e
siccome la
Patrona faticava a riaddormentarsi, se destata, per non disturbarla si
recava
in camera sua.”
L’illuminazione.
“Ecco perché non gli garbava che stessi ancora in
stanza di Madre e voleva spostare il mio lettino in camera dei miei
fratelli.
Gli disturbavo le sporcherie!”
“Padroncino,
non è da biasimare se accadono tra moglie e
marito.”
Hironimo
socchiuse gli occhi con forza, scacciando via dalla mente
ogni immagine osé maliziosamente creatavisi, ché
i figli, pur consci dei
meccanismi della riproduzione umana, ugualmente credevano con fermo
imbarazzo
la loro procreazione tramite il pensiero, piuttosto di figurarsi i
genitori
impegnati in tali attività.
“Quindi
l’amore di Madre cambiò Padre?”
“No,
fu lui che volle cambiare per amor suo. Se l’iniziativa non
vien dalla persona stessa, nessuno la può
cambiare.”
***
Alla
vigilia della sua partenza verso Castelnuovo di Quero,
Hironimo s’era ritrovato a vagabondare senza meta per le
calli semideserte di
Venezia. Pur sopravvissuta due anni addietro al primo, tremendo
scossone
l’ombra opprimente della guerra pesava sulla
città, in perpetua attesa di
conoscere la sua sorte, se di vittoria o di sconfitta. Il maremoto e il
conseguente crollo del Campanile di San Marco avevano poi inasprito
quei
presagi d’imminente sventura, controbilanciata dalla
disperata tenacia di chi, tuttavia,
non poteva né voleva arrendersi. All’ennesima
richiesta dell’Imperatore
Maximilian di ritornargli gli antichi feudi imperiali di Padova,
Treviso e il
Friuli, la Signoria aveva replicato che avrebbe preferito giocarsi il
tutto per
tutto con la guerra, piuttosto di cedergli di sua iniziativa anche una
sola
zolla di terra.
Duri ai
banchi.
A tale
convinzione s’aggrappava anche il giovane Miani, il cuore
tuttavia pesante non tanto per il compito di grande
responsabilità affidatogli;
piuttosto, per la freddezza con cui Marco e Carlo lo trattavano a
seguito del
litigio al funerale di Crestina – il primo addirittura gli
aveva tolto il
saluto. Era conscio d’esser lui nel torto, nondimeno la
tenace protervia del
suo sangue Morexini gli impediva d’abbassarsi ad invocare
perdono,
scervellandosi invece in mille scuse e giustificazioni atte a placare
la sua
coscienza.
A che
pro, se lo condannava alla solitudine? A che pro congedarsi
pieni di stupidi rancori, quando l’indomani avrebbe potuto
esser cibo per
vermi? Questo rimpianto voleva lasciare in eredità alla sua
famiglia? Questo
magone?
Sarebbe
morto anch’egli come Padre, all’improvviso,
violentemente,
senza una parola di conforto, di incoraggiamento, d’amore?
Nel suo
avvilito deambulare, solo come non mai in vita sua,
Hironimo si ritrovò inaspettatamente nella parte posteriore
dell’abside di
Santo Stefano, dinanzi alle arche di famiglia, in particolare a quella
di sier
Anzolo Miani.
S’irrigidì
alla vista di sua madre madona Leonora lì attenderlo,
serena, avvolta nel pesante paneselo vedovile. Poco distante,
silenziosa e
discreta, l’accompagnava Eudokia.
“Siamo
stati un tutt’uno per nove mesi, amore mio, ti conosco come
il mio cuore”, fu il suo saluto, mentre allungava la mano a
mo’ di invito.
Lesto, Hironimo l’afferrò, baciandola e
stringendosela al petto. “Vieni,
siedimi accanto.”
“Come
sapevate di trovarmi qui?”
“Testone,
non t’ho detto che ti conosco? Tre sono i posti in cui
ti sei sempre nascosto, quando triste o arrabbiato: l’altana,
che escludo
poiché in casa è sorto il problema da cui vuoi
fuggire; dal Marcolino
Contarini, il quale è partito ieri per Padoa e quindi no;
sotto l’arca di tuo
padre rimane dunque il terzo e ultimo posto dove cercarti, sebbene tu
mi abbia
costretta ad una lunga attesa.”
Il
giovane si morse colpevole il labbro inferiore, una fastidiosa
voce che dall’angolo più remoto del suo cervello
gli ricordava maligna come da
anni facesse aspettare sua madre.
“Perdonate,
non era mia intenzione incomodarvi …”,
sussurrò, il
capo chino sulla mano ossuta e affusolata di madona Leonora, della
quale pur
coperta dal guanto ne conosceva la morbidezza e, ahimè, le
rughe e le vene
sporgenti. Gli appariva così fragile tra le sue, pronta a
frantumarsi al primo
tocco incauto.
“Non
sei mai un fastidio per me.”
Hironimo,
indeciso se ridere sardonico o sbuffare avvilito,
partorì dalla sua bocca un verso ingolato ch’era
un ibrido tra i due. Come
poteva nutrire nei suoi confronti tanto affetto e benignità,
malgrado le sue
imprudenze, disobbedienze e cattiverie? Quando lui per primo si odiava
per
averle compiute, quietando però la sua coscienza con doppia
razione di
esse?
“Il
Marchetto è ancora arrabbiato con me?”,
cambiò in fretta
discorso, per quanto ugualmente interessato ai sentimenti in cui
versava suo
fratello. Rispetto a quelli di Carlo, il suo rancore gli risultava il
più
insopportabile.
“Non
dubitare che gli passerà. È un orgoglioso, come
te,
concedigli del tempo e vedrai che saprà perdonarti. Tu
però devi compiere il
primo passo”, lo rassicurò e al contempo lo
spronò sua madre, liberando la mano
dalle sue e passandogliela tra i folti e disordinati capelli, non
avendo badato
Hironimo neppure di pettinarseli tanto l’arrovellavano gli
intimi suoi crucci.
“Forse
non avrò del tempo”,
asserì in un lungo
sospiro, imperterrito nell’evitare lo sguardo di madona
Leonora, la quale
domandò confusa e turbata:
“Che
intendi?”
“Domani
parto per Castel Novo di Quer, siora Mare. Per quel che ne
so, potrei morire entro il mese, entro la settimana, entro il giorno
stesso.
Nulla mi garantisce la sopravvivenza.”
“Dunque
scusati stasera con lui. E anche col Carlino.”
Hironimo
serrò caparbio le labbra, tormentandosi le dita guantate
e premendo il pollice al centro del palmo della mano, quasi progettasse
di
forarlo in profane stigmate. La soluzione dell’anziana
genitrice abbagliava
nella sua disarmate semplicità e logica: sì,
avrebbe potuto chieder perdono a
Marco e a Carlo e riconciliarsi, trasferendosi alla fortezza sulla
Piave in
pace con se stesso. Ciò tuttavia comportava umiliarsi e
riconoscere il proprio
errore, invocando una grazia cui non gli spettava e non
perché si sentisse
indegno, bensì perché lui non aveva agito in fin
dei conti male, aveva espresso
soltanto la sua opinione e cioè che se tiravano indietro il
culo dopo esserselo
fatto per ottenere quella dannata castellania, decisamente non si
poteva
evitare d’appellarli vigliacchi. Perché
biasimarlo, per avergli rinfacciato
null’altro se non la verità?
Neanche
avesse intuito quali pensieri s’agitassero nella mente del
suo ultimogenito, madona Leonora gli raccontò un piccolo
aneddoto: “Quando tuo
padre, onde fermare le scorrerie degli Austriaci capitanati dal Duca
d’Austria
Sigismondo, raccolse le sue cernide e assieme alla compagnia del conte
Guido
de’ Rossi si mosse in pieno inverno verso il Passo di
Celazzo, la sera
antecedente la partenza …”
La situazione invero
non si presentava rosea per la Repubblica: sotto la guida di Gaudenzio
di
Matsch, l’esercito austriaco era partito da Trento per
puntare a Rovereto,
terra all’epoca veneziana e bagnata sulla sinistra
dall’Adige, situata negli
stretti delle Alpi. All’inizio le truppe marciane avevano
virilmente resistito,
comandante dal podestà sier Nicolò Priuli q. sier Zuanne e
pertanto, a mo’ di vendetta, gli
invasori avevano infierito nei villaggi circostanti, massacrando la
popolazione
e seminando il terrore. Allora la Serenissima, appresa la notizia,
aveva
nominato provveditori sier Piero Diedo, che in quel tempo ricopriva la
carica
di podestà di Verona, e sier Hironimo Marzelo.
Contemporaneamente, Guido de’
Rossi e il figlio Filippo raggiungevano Feltre onde presidiarne i
confini.
Sier
Anzolo Miani, podestà e capitano di Feltre, non aveva perso
tempo e prima
ancora che arrivasse il condottiero, già s’era
attivato a rinforzare la sua
città, facendo abbondanti provvisioni in caso
d’assedio sia di cibo sia di
uomini, reclutando chiunque fosse in grado di tener in mano
un’arma, impresa
non facile giacché la peste dell’85 aveva falciato
gran parte della popolazione.
Tali provvedimenti non avevano tuttavia rassicurato i Feltrini,
soprattutto
udendo delle scorrerie di Sigmund von Habsburg nel Vicentino e Veronese
e di
come si stessero avvicinando pericolosamente al Passo di Celazzo, il
quale
avrebbe dato libero accesso al distretto. Al che il Miani aveva rotto
ogni
indugio e, convocato a palazzo domino Guido, gli aveva
delineato l’importanza d’anticipare le
mosse
del nemico.
“Vi
basteranno 2,000 uomini? Gli Austriaci ...”, non riusciva
Leonora a darsi pace, mentre osservava in un misto tra terrorizzato ed
affascinato il ritmico ed ipnotico saliscendi della cote sul filo della
lama.
“…
sono bravi solo a rubare, uccidere i contadini in fuga e a
prendersela con donne e bambini. E si vantano
d’esser grand’uomini d’arme!”,
terminò Anzolo la frase della moglie e dalla rabbia repressa
le sue dita
imposero maggior vigore al suo lavoro. “Delle femmine col
cazzo, piuttosto,
assaggeranno presto il ferro veneziano e a quel rotto-in-culo del Duca
d’Austria altro non rimarrà, che succhiarsi il
pollice in quella cloaca fetente
della sua lercia tana di legno e paglia! Così
imparerà, che noi non siamo
puttane che si piegano a chi fa la voce grossa!”, le
garantì sinistramente.
“Ugualmente,
guerreggiare in pieno inverno …”
“Appunto.
Poiché loro giudicano improbabile un nostro attacco, noi
invece li sorprenderemo nel bel mezzo del loro svernamento, con le
braghe in
mano. Li ingaggeremo al Passo di Celazzo, così da bloccarli
ogni ingresso nel
feltrino. Il conte Guido de’ Rossi è una
volpe, sa il fatto suo negli
assalti a sorpresa e a muovere in fretta le sue squadre – non
avranno neppure
il tempo d’invocare la loro madre. L’importante
è impedire agli Austriaci di
spingersi ulteriormente nei nostri territori, nel frattanto che la
Signoria mobiliti
il conte Roberto Sanseverino col grosso dell’esercito.
Leonetta mia, basta un
solo, spietato assalto e come i topi che sanno della presenza del
gatto, se ne
staranno buoni e nascosti nella loro tana.”
“E
se riuscissero a sconvolgervi i piani, ribaltando la
situazione? Se a rimanere bloccati nel passo non fossero loro,
bensì voi?”
“Le
mie cernide sono preparate e abili, tutti locali, conoscono
ogni sentiero più delle loro stesse mogli. Inoltre, il tempo
s’è spezzato, le
montagne fumano, segno che il vento sta girando e ci conosciamo molto
bene, il
vento ed io. Entro dopodomani dovrebbe scatenarsi una bufera, che
disorienterà
gli Austriaci e li bloccherà in Valsugana. Non prenderei mai
questo rischio, lo
sapete, se non avessi la certezza assoluta di vittoria.”
“La
guerra è un negozio di cui non si ha alcuna
certezza.”
“Vi
… ti giuro che non mi farò ammazzare tanto
facilmente.”
“Non
puoi promettere ciò che solo Dio può
disporre.”
“Alla
Cui volontà mi sottometto. Leonetta, dovesse accadere il
peggio … No, dimentica ciò che ho detto. Invece,
ho dato disposizioni al
Consiglio Cittadino di preparare la difesa. Ho anche inviato delle
chiari
istruzioni e i recenti movimenti degli Austriaci a sier Dardi
Zustignan,
podestà di Cividal di Belluno e al castellano di Castel Novo
di Quer. Vorrei
inoltre che tu ti recassi a Cividal coi bambini, dove sarete
più al sicuro.”
“Se
lo credi opportuno, manderò i piccini con mia madre a
Cividal,
ma resterò qui. Vero, non so niente del mestiere delle armi.
Però so quanta
fiducia i Feltrini abbiano riposto in noi, dopo la peste e le faide
civili che
solo attraverso molti sforzi sei riuscito a pacificare. Siamo divenuti
i loro
punti di riferimento. Dovessero vedere la moglie del loro
Podestà e Capitano
fuggire via, crederanno che la Signoria li stia abbandonando al loro
destino e
colti dalla paura, non esiteranno ad aprire le porte agli Austriaci. La
mia
famiglia ha sempre servito in prima fila la Repubblica, io non
sarò da meno.”
Anzolo
si voltò di scatto, i suoi occhi spalancatisi dal terrore
al sol pensiero di sapere l’altra metà della sua
anima in pericolo, alla mercé
di quelle belve assassine. “I nostri figli hanno
più bisogno di una madre, che
una città di un simbolo. Pensa al Momolo, indifeso e ancora
in fasce: lo
condanneresti a crescere senza né padre né
madre?”, tentò di dissuaderla,
indicando l’ignaro figlioletto che dormiva nella sua calda
culla il sonno
dell’innocente.
La
Morexini vi si portò accanto, quasi a mo’ di
protezione, il suo
sguardo però infuocato di grandissima
determinazione.“Il Signore non li lascerà
mai orfani: la nostra causa è giusta, e Lui ci
darà la vittoria!”
Neanche
l’avesse evocata, la bufera di neve invero arrestò
la
marcia degli Austriaci e diede la vittoria ai Veneziani,
sicché la famiglia del
podestà e i Feltrini non ebbero necessità di
riparare a Cividal di
Belluno. Alle
soglie della primavera,
Guido de’ Rossi si trasferì con la sua cavalleria
a Bassano per sventare ulteriori
attacchi del Duca d’Austria e per ricongiungersi, a
metà giugno, a suo suocero,
il comandante generale Roberto Sanseverino, allo scopo di sferrare un
contrattacco e liberare Rovereto, essendo questa caduta e il
podestà Priuli
finito prigione degli tedeschi e deportato in Austria. Nello stesso periodo, sier Zustignan Morexini raggiungeva Feltre in veste di provveditore
Nel
frattanto, Anzolo, forte del successo della spedizione del
Celazzo, di persona s’era recato a Cividal di Belluno e
là aveva spronato il
podestà sier Dardi Zustignan a far lega e a prepararsi a
difendere assieme la
Val Serpentina. Gli elencò i suoi dubbi
sull’effettivo arrivo del Sanseverino
in loro soccorso, giudicandolo sia troppo lento nelle trattative con la
Signoria per la sua condotta sia più incline ad operare a
sud, là dove le
scorrerie nemiche rischiavano di farsi più frequenti.
Sicché, rimasti da soli,
i due podestà riuscirono a raccogliere uomini a sufficienza
per occupare
Grigno, luogo situato nello stretto della Valsugana, ben presidiato da
genti austriache
che diedero gagliarda battaglia, prima di soccombere ai Veneziani, i
quali
sottomisero il castello alle fiamme. Purtroppo tale buon esito non
liberò la Valle
dalla pressione del nemico: cogliendo impreparato il presidio lasciato
a
guardia del monte Celazzo, gli Alemanni non senza ingenti perdite lo
espugnarono.
Ciò
non aveva però scoraggiato Anzolo, tutt’altro:
pieno del sacro
fuoco guerresco che l’aveva animato durante la Guerra del
Sale, riorganizzò in
brevissimo tempo la difesa di Feltre e del distretto. Leonora lo vedeva
sempre
a cavallo, con l’armatura indosso a dirigere i lavori di
rafforzamento alle
mura, ai serbatoi idrici, sia alla luce del sole sia delle torce.
Dormiva poco
e vestito; mangiava in piedi; scriveva
molti dispacci e coordinava instancabile i rifornimenti cittadini,
specie del
frumento e delle biade, e questo con il dodicenne Lucha sempre accanto,
giudicando
esser giunto per lui il tempo d’imparare i fatti di guerra.
Dal palazzo
pretorio la Morexini seguiva con lo sguardo il figlio maggiore e il
marito
finché poteva, con una mano stringendo il lattante Momolo al
seno e con l’altra
accarezzandosi il ventre, là dove intuiva crescere
un’altra creatura. Ogni
sera, infatti, Anzolo veniva da lei affamato come se fosse stato
l’ultimo suo
istante in terra, ignorando gli ammonimenti della suocera madona
Ysabeta che
gli aveva suggerito prudenza per il recente parto della moglie,
nonché la sua
non più fresca età.
Ma
che potevano farci? Leonora per prima non voleva negarsi a quei
suoi ardenti abbracci, non quando cadaun giorno il suo consorte
rischiava di
non rincasare mai più.
L’era
pertanto venuto un colpo, quando Anzolo le comunicò
d’aver
reclutato venticinque uomini, tra i più forti e coraggiosi
della zona, per
liberare il presidio occupato dagli Austriaci sul Celazzo: se la
nobildonna
aveva dubitato di duemila soldati guidati dall’eccellente
conte Guido de’
Rossi, cosa sperava il Miani d’ottenere con un gruppetto
sì sparuto?
“Antonio
Bonmassaro di Fonzaso, oltre ad essere un valoroso
capitano, è più esperto del territorio di
qualsiasi altro condottiere, oserei
perfino dire del medesimo signor Roberto. Non abbiamo i numeri, ma
possiamo
coglierli impreparati. D’altronde, anche tu avrai compreso
come ormai il
distretto dobbiamo difenderlo noialtri; non è improbabile
che mandino il grosso
delle truppe a riprendersi Rovereto. Questo significherà che
il signor Roberto
e il signor Guido partiranno dall’agro veronese o vicentino,
al massimo da
Bassano, comunque senza passare dalle nostre bande.”
La
patrizia strinse inconsciamente il rosario tra le dita, quello
stesso che recitava assieme alle altre donne feltrine davanti
all’immagine
miracolosa della Madonna di San Lorenzo. “Sarebbe un rischio
da parte della
Signoria, lasciare i nostri confini scoperti. E questo il signor
Roberto lo sa
bene, se non gliel’ha già spiegato suo
genero”, mormorò apprensiva, gli occhi
ancora pieni dei fuggitivi dai villaggi saccheggiati, riparati a Feltre
coi
soli stracci addosso e che lei, assieme alla figliastra Crestina, a sua
madre, alle
altre nobildonne locali e alle religiose, si prodigava a rivestire e
sfamare,
alloggiandoli nei conventi cittadini. “Se il Feltrino dovesse
cadere, seguirà
la Val Serpentina e poi … chi li fermerà
dall’attaccare la Marca Trevisana? I
nostri provveditori e condottieri non possono ignorarlo!”
“Conosco
il signor Roberto: se potrà, invierà qualche
contingente
in nostro soccorso”, la tranquillizzò Anzolo e le
si sedette accanto sul letto,
circondandole le spalle. Strinse la bocca in una linea dura alla vista
dei
timidi fili d’argento imbiancarle appena appena le tempie, i
quali ben si
ricordava non possedere l’anno addietro. “Al
contempo, non possiamo né
aspettare i suoi comodi né crederlo onnipotente. Anche qui
abbiamo genti valide
e pronte a guerreggiare: forse il mondo non si ricorderà
della nostra impresa,
ma Dio e la popolazione sicuramente.”
“…
allora, come quella volta che partì assieme al signor Guido,
tuo padre mi domandò perdono e non in segno di perpetuo
congedo, bensì per
infondergli maggior vigore nella battaglia …”
“Combatterò
meglio, ricco della certezza del tuo amore,
nient’altro che del tuo amore”,
afferrò il Miani le manine della sposa tra le sue,
baciandole le nocche.
Al che a
Leonora comparve, dopo tanto tempo, la sua solita espressione birbante,
che
tanto aveva fatto innamorare il marito. Ricambiando il bacio, la
Morexini non riuscì
a trattenersi dal
domandargli, non senza
una punta di malizia, dove avesse letto quella frase alla Rinaldo.
Anzolo divenne
allora rosso in faccia ed esclamò: “Mojer,
so bene quali sono i miei doveri verso te e la Signoria: ritornare vivo
e
vincitore, né più né meno!”
“Ed è l’unica
promessa di cui veramente m’importa!”, lo
baciò sulla bocca Leonora, guidando
le sue mani sul ventre. “Soprattutto a questa creatura, che
scalpita di
chiamarti padre!”
“Lo
perdonai, poiché insisteva, e mi diede grande conforto;
qualsiasi cosa fosse accaduta, non ci saremmo divisi in cattivi termini
e
brutti ricordi, sicuri invece del nostro reciproco affetto e
fiducia.”
Contro
ogni aspettativa, il presidio a Celazzo venne riconquistato ed il
capitano Antonio
Bonmassaro vi rimase a sua brava ed inviolata guardia fino alla fine
del
conflitto, a novembre. Ringalluzziti dalla vittoria, le locali truppe
venete
marciarono a Borgo di Valsugana e non soltanto impedirono
l’ennesimo tentativo
d’entrata da parte di Iorio di Innsbruck e dei suoi
quattrocento fanti nel Feltrino,
ma pure li costrinsero a ritirarsi nel castello, ponendo il tutto a
ferro e
fuoco per risarcimento dei mesi di guerra e ruberie.
A metà
luglio, quasi a premio della lunga resistenza opposta al Duca
d’Austria, arrivò
un contingente inviato da Roberto Sanseverino per rinforzare gli aspri
confini,
scorrendo per la Valsugana ed il Tirolo, con uccisioni ed incendi, ed
il
terrore stavolta lo provarono le genti austriache, intanto che il
comandante
generale puntava alla liberazione di Rovereto.
“Ebbi
tanta paura di non riabbracciare tuo padre, Momolo. Più
ancora di quella volta di Frara: per questo non badai, almeno per quel
periodo,
ai suoi malumori ed escandescenze. Sapevo che non agiva per
meschinità sua:
semplicemente, aveva paura e la gente diviene cattiva,
quand’ha paura.”
“Vorrei
chiedere perdono al Marchetto e al Carlino. Solo che non
ci riesco”, si giustificò in fretta Hironimo,
interpretando quella rimembranza
non come un esempio da imitare, bensì come
l’ennesima critica. Padre del suo
comportamento ne sarebbe rimasto assai deluso, definendolo infantile ed
egoista, a lungo termine un dannoso parassita che erodeva il solido
albero
familiare. “Marchetto ha ragione: la mia collera congiura
contro di me.”
Hironimo
sarebbe diventato turco a sapere quale entità lo
possedeva ogniqualvolta s’arrabbiava, cosa lo spingeva a
reazioni verbalmente
e, purtroppo, fisicamente aggressive, le quali intimorivano lui stesso
in
quanto incapace di controllarsi. Si sforzava di domare l’ira,
però
corrispondeva a trattenere un mostro, la poteva quasi gustare dietro i
denti
quando dallo stomaco essa gli risaliva in gola e si propagava a guisa
di veleno
in tutto il suo corpo fino agli occhi, che più non vedevano;
alle orecchie, che
più non ascoltavano e al cervello che in uno schiocco di
dita cessava ogni
freno umano per lasciar spazio alla bestia interna.
“La
collera decisamente l’hai ereditata da tuo padre.”
Ecco,
immediatamente il giovane Miani avvampò, sibilando astioso:
“Solo i suoi difetti? Null’altro?”
Sboccato,
impertinentaccio, comandino, irascibile,
ostinato - chiunque avesse conosciuto Anzolo Miani
solo queste
caratteristiche rivedeva nel suo ultimogenito. E il resto? Niente di
suo padre
era sopravvissuto in lui? Solo il peggio?
“Tuo
padre non era perfetto”, replicò serafica madona
Leonora.
“Grazie,
n’ero già a conoscenza!”,
fischiò beffardo Hironimo,
scattando bruscamente in piedi e sfuggendo al tocco materno.
“Aspetta.
Non era perfetto, però al contempo si sforzava di
divenire il padre ideale per te e per i tuoi fratelli. Se falliva,
bisogna
imputarlo al modo in cui l’hanno a sua volta cresciuto. Tuo
nonno infatti non
gli aveva riservato tali riguardi, lui era il padre e il patron e tutti
avevano
da ballare alla sua musica o niente e, secondo me, tuo padre ne
soffrì più di
quanto avesse mai lasciato intendere. Con la sua matrigna non era mai
riuscito
a legare veramente, forse perché in lei non aveva trovato il
supporto di cui
necessitava. Di conseguenza, non avendo ricevuto un granché
d’affetto, non
possedeva delle solide basi per esprimerlo e donarlo a sua
volta.”
“Si
comportò ugualmente”, sentenziò
rancoroso il giovane.
“Dici?”
Hironimo
incrociò i suoi occhi nerissimi e furiosi con quelli
altrettanto nerissimi e quieti della madre. “Si comportava da
capitano di
galea! No a questo, no a quello; critiche, rimbrotti, punizioni
… Quando mai mi
fece sentire amato? Apprezzato? Incoraggiato?”, si
sfogò, arrivando ad un certo
punto a girarsi di scatto adesso verso l’arca silenziosa del
padre, quasi
reclamasse anche il suo di ascolto. “Certi giorni mi sentivo
talmente inutile,
indegno …
“E
sostenete che mi volesse bene? Non ribattete”, interruppe sul
nascere la replica della madre, zittendola, “che
così va il mondo, che è ciò
che la società s’aspetta, che il
“padre” deve solo provvedere a sfamare la
famiglia e al massimo benedire i figli alla sera prima di coricarsi! A
questo
punto, che differenza c’è tra un
“padre” e un contadino che dà da
mangiare alle
bestie o da bere alle piante? Non li nutrono? Non li crescono? Non li
educano
gli animali a compiere il loro mestiere? Cosa me ne faccio di un
“padre” cui
non posso confidare i miei pensieri, i miei dubbi, le mie angosce, i
miei
progetti senza provare ogni volta paura e vergogna del suo
giudizio?”
“E
tu credi che non soffrisse ad ogni critica, ad ogni rimbrotto,
ad ogni punizione inflittati?”, gli rammentò
madona Leonora, ascoltando con
avvilita attenzione lo sfogo del figlio il quale, a siffatte parole,
esplose:
“Quindi
la colpa ritorna sempre a me!” e l’eco
rimbombò per
l’intero abside, anche Eudokia, nell’angolo
più remoto, sussultò dalla
sorpresa.
La
nobildonna s’alzò, avvicinandosi al figlio e
afferratagli la
mano, gli rivelò con disarmante schiettezza:
“Nessuno ti accusa di alcuna
colpa. Semplicemente, tu ti comportavi come si comportava un qualsiasi
bambino,
né più né meno: disobbediente,
impulsivo, scatenato, sbeffeggiavi ogni
autorità, specialmente di chi ti voleva guidare. Anzolo, dal
canto suo, si
comportava da padre, un ruolo che purtroppo conduce a divenire il primo
nemico
del proprio figlio, se questo però lo può salvare
da assai peggiori, di
punizioni.” Notando il persistente scetticismo nel giovane,
ella proseguì:
“Momolo, tuo padre era ancora molto giovane, quando
esiliarono sier Jacomo
Foschari …”
“La
conosco, quella storia”, roteò gli occhi Hironimo,
snervato, battendo
impaziente il piede per terra.
Madona
Leonora non si lasciò scoraggiare dal brusco commento.
“Dunque saprai anche, come aprirono le porte
acciocché il Doxe suo padre, sier
Francesco Foschari, potesse ben udire le urla del figlio mentre lo
sottoponevano
ai tratti di corda. Trenta tratti
di corda finché questi
impazzì dal dolore.”
Al
giovane Miani andò di traverso la saliva, il collo pizzicato
da
brividi freddi. Attraverso la carica di Lucha, giudice della Quarantia
Criminal, era a conoscenza delle pratiche d’interrogatorio,
nonché di come a
Palazzo Ducale le urla inumane dei torturati si mescolassero ai
dibattiti nelle
sale e ai gemiti dei pazienti dei cavadenti sotto i portici. Supponeva,
considerata l’imperturbabilità di suo fratello
dinanzi a tale prassi, che col
tempo ci si abituasse, se non si provasse addirittura fastidio per quei
rumori
molesti, ch’interrompevano le assemblee oppure rallentavano
il corso
dell’inchiesta.
Come
avrebbero reagito però Lucha, se sospeso con le braccia
dietro la schiena legate ad una corda, invece di un tizio qualsiasi si
fosse
trovato uno dei suoi fratelli? Se a gridare dai più
insondabili recessi
dell’anima fosse stato il sangue del suo stesso sangue?
Avrebbe mantenuto la
flemma? Si sarebbe allontanato sconvolto? Si sarebbe strappato di dosso
gli
occhi?
O sarebbe
corso a tagliare quella tremenda corda, pur conscio dei
rischi cui incorreva?
C’era
da impazzire al solo pensiero di
quell’eventualità. In quale
modo era riuscito Sua Serenità a resistere?
L’unico figlio rimastogli, poi!
“Il
suo barba Nicolò, che aveva avuto un ruolo attivo in questi
processi, glielo ricordava spesso, quando tuo padre
s’incaponiva e gli remava
contro: Finirete come il Jacomo Foschari! Solo, in
esilio, senza la
consolazione di vostra madre, la vergogna della vostra famiglia e di
Veniexia
intera!, lo minacciava”, proseguì madona
Leonora ed Hironimo comprendeva
adesso il motivo per cui quel nome compariva spesso sulla bocca del
biscugino
Zuan Francesco, quando da piccolo lo rimbeccava per le sue malefatte.
“Ma di
quel triste affare a tuo padre non rimase impressa la tortura di per
sé
- no, la violenza dall’alba dei tempi
coabita nell’animo umano
- bensì il fatto che Missier il Doxe non
fece nulla, non mosse un
dito per salvare il figlio, anzi, lo esortò il giorno della
condanna all’esilio
di sottomettersi docilmente alla legge e d’accettare
stoicamente il suo
destino.” [8] L’anziana nobildonna
invitò Hironimo a sedersi, portandosi la
mano stretta tra le sue sul grembo. “Tuo padre mi
confessò, un giorno mentre
aspettavo il Luchin, che se fosse stato egli Missier il Doxe non
sarebbe
rimasto lì inerme, che se non poteva contestare la legge che
almeno lo si
lasciasse uccidere il figlio di sua propria mano, così da
risparmiargli il
supplizio della tortura. Egli pertanto vi voleva indirizzare sulla
buona
strada, crescervi nel timore di Dio e della legge acciocché
non giungesse mai
il giorno, in cui si fosse trovato lui sullo scranno e voi dietro
quella porta
ad urlare sotto i ferri della tortura.”
Un
castigo peggiore non poteva sussistere al mondo per un
genitore, d’assistere impotente all’agonia della
sua creatura, le mani legate.
Quest’aspetto
Hironimo non l’aveva mai considerato.
“Vi
voleva proteggere. Da voi stessi e dagli altri.”
“Dorme?”
“Sì,
l’Orsolina lo sta vegliando. Tutto quel piangere
l’ha
stancato, è crollato in letto.”
Anzolo
fissò il libro dei conti, mordendosi l’interno
della
guancia, le dita unte d’inchiostro che rigiravano nervose la
penna. Si era
attardato nello studio, la candela ormai consunta e l’unico
rumore proveniente
dalla finestra semichiusa era l’assonnato sciabordio delle
onde del sottostante
rio San Vidal. Una notte tranquilla per un anno così
turbolento per la
Serenissima e per l’Italia intera.
“Non
mi fossi accorto di quella focaccina, avrebbe pianto molto di
più”, sentenziò gravemente, riprendendo
il lavoro interrotto dal discreto
arrivo della moglie nella sua sancta sanctoroum. Quand’ecco,
resosi conto di
come stesse sbagliando le somme più elementari, il Miani
increspò le labbra e,
sparso del polverino, chiuse il pesante tomo. “Davvero ha
pianto così tanto?”,
s’informò apprensivo.
Leonora
si portò accanto a lui. “Quella tua scenata
l’ha
spaventato a morte. Dovresti atteggiarti in maniera più
delicata con lui.”
“Con lui il mondo non
sarà delicato”, ribatté Anzolo,
tormentando la penna. “Inoltre, non capisco perché
ogniqualvolta lo rimproveri,
reagisce neanche lo trascinassi al martirio … insomma,
né Luchin, né Carlino,
né Marchetto s’esibivano in tali
momarie!”
“Ma
il Momolo non è né il Luchin né il
Carlino né il Marchetto. È
se stesso, è unico e dovresti trattarlo come tale, non come
la copia dei suoi
fratelli.”
“Perché
non mi ascolta mai? Perché questa sua continua e ostinata
disobbedienza? Dov’ho sbagliato con lui?”, le
chiese angosciato il marito,
passandosi una mano sulla fronte e poi sugli occhi.
“Perché non comprende che
non provo alcun gusto ad atteggiarmi a Missier Grando con lui, che
… che se non
indurisce il suo cuore crescendo scambieranno la sua bontà
per stupidità,
approfittandosene sfacciatamente? E se questa sua
sensibilità d’animo lo
conducesse a finire nei guai, ad impegolarsi con la legge? Se
… se la si
scambiasse per altra natura più vergognosa, non degna degli
uomini?”, batté il
senatore il pugno sulla scrivania di quercia venata d’oro,
accalorandosi. “Non
può permettersi alcuna debolezza, non in questa vasca di
squali dove viviamo!
Quelli come nostro figlio li trangugiano e poi ne sputano gli ossi; con
questo
in mente ti pare ch’io possa dormire sonni tranquilli? Che
possa soprassedere?”
Leonora
non replicò nulla, limitandosi ad appoggiargli la mano
sulla spalla. Immediatamente, Anzolo gliel’afferrò.
“Lo
dimostrava malissimo, però si preoccupava per voi. Da
giovane,
quand’esercitava l’avvocatura, talvolta gli
capitavano dei casi … delicati, in
cui molti piccini venivano costretti ai torti dei più
turpi.”
“Quando
ho visto Momolo, tornare a casa, da solo, con quella
focaccina in mano, ho rivisto in lui quel bambino. Dopo
un’eternità, l’ho
rivisto.”
“Quale
bambino?”
“Quanti
anni aveva? Dieci? Otto? Stava … stava attendendo che i
servi giungessero per prelevarlo da scuola, quando quell’otre
di sterco, quel
figlio-del-diavolo l’avvicinò, regalandogli una
fritola: ti porto a casa io,
dammi la manina … Quel che gli hanno fatto … i
danni … come urlò quando i
medici lo esaminarono, come pianse quando l’interrogai, di
vergogna e pena e mi
pregava di non chiedergli altro, che voleva la sua mamma e che voleva
morire.
Quale bambino ad otto anni invoca la morte? Fui così grato
della sentenza dei
Dieci … così grato e non per il compenso
… Mio Dio, per un istante ho temuto
che lo stesso fosse accaduto a Momolo … Perché si
ostina a non dirmi il nome? …
Se quel becco fottuto avesse osato toccarlo, anche solo sfiorarmelo
… Non ci
sarebbe arrivato vivo dai Dieci … Oh, no! L’avrei
squartato vivo, quel cancaro,
l’avrai squartato vivo a mani nude e mangiato
finché di lui non sarebbe rimasto
niente!”
“Perché
allora non lo palesò mai, non ce lo disse chiaro e
tondo?”, esigette di sapere Hironimo, le orecchie che gli
bruciavano per la
diversa chiave di lettura di quell’episodio, che lui aveva
all’epoca percepito
come una grande e immeritata ingiustizia. Si diede dello stupido, di
non
essersi mai fermato a capire le motivazioni dietro il rimprovero di
Padre, così
come di tutti gli altri.
Madona
Leonora levò gli occhi verso l’arca del marito,
un’espressione malinconica sul volto scarno.
“Suppongo perché gli fosse stato
insegnato come la bontà e la sensibilità
d’animo appartengano ai deboli; quando
invece essi, uniti alla Grazia dello Spirito Santo, rendono invincibili
e
tetragono a qualsiasi avversità.”
“Nel
Regno di Saturno, forse”, confutò scettico
Hironimo. “Quando
vinceremo questi porci balordi, non sarà per benevolenza e
magnanimità; sarà
perché siamo stati più feroci e astuti di loro.
Padre aveva ragione ed io un
deficiente ad oppormi: a questo mondo, chi segue la via della
moralità viene
destinato a null’altro se non alla derisione e ad essere
calpestato, a trovarsi
i piedi in testa. Ho ben appreso questa lezione.”
“Ti
sei molto indurito di cuore, questo sì”,
commentò tristemente
sua madre.
Portandosi
sotto all’arca di Padre, il giovane Miani si pose in
punta di piedi per sfiorarla. “Mi distinguerò in
questa guerra, Madre”, le
promise con ferma convinzione, voltandosi, gli occhi luccicanti di
febbrile
ardore. “Duratura seges– duraturo
frutto, [9] non era questo il
motto di Padre? Vincerò gloriosamente e
cancellerò ogni infamia dal nostro
nome, il quale non sarà più associato ad un
presunto suicidio, bensì a nobili
imprese; lo renderò immortale e conosciuto fino
all’ultimo angolo della Terra,
dove verrà pronunciato con la più alta devozione!
Così avverrà, Madre, ve lo
giuro: da delusione ad ultimo, diverrò l’orgoglio
e il primo e sarà questa la
mia espiazione e il mio ringraziamento nei confronti di Padre, per
tutti i suoi
sforzi. Dimostrerò al mondo intero che lui non ha perso il
suo tempo con me!”
Madona
Leonora l’ascoltava in silenzio, il volto una sfinge
indecifrabile.
***
Chi
era Padre?
L’unico,
assieme a Madre, che l’aveva amato incondizionatamente,
contro i propri interessi, anche a costo di ricevere in cambio rancore
da parte
sua.
I suoi
fratelli gli volevano bene, però avevano anche la loro vita
cui badare, le loro nuove famiglie da sostenere e proteggere. Hironimo
corrispondeva per loro ad un sovrappiù.
Mentre
Padre e Madre, ovunque egli fosse andato, qualsiasi cosa
avesse fatto, qualsiasi scelta avesse compiuto, sarebbero stati
lì per lui,
granitici sostegni. Un privilegio che non molti genitori concedevano ai
propri
figli, Hironimo in retrospettiva lo vedeva ora chiaramente nelle
dinamiche
familiari dei suoi amici, i quali si credevano liberi ma in
realtà ben piegati
al giogo parentale.
In fin
dei conti, Padre non aveva mai ostacolato le sue
inclinazioni – a parte il tentativo d’allattare i
cuginetti – l’aveva sempre
lasciato sperimentare e anzi, anche se non tralasciava
alcun’esplicita
impressione a riguardo, adesso Hironimo si ricordava con folgorante
nitidezza
l’interesse nei suoi occhi quando lui condivideva le sue
opinioni, le sue
scoperte, il risultato dei suoi personali apprendimenti –
come diceva
l’Orsolina, era ruvido ma non insensibile.
Solo,
questa libertà concessagli doveva camminare mano nella mano
con la consapevolezza della responsabilità delle proprie
azioni – ciò cui
Hironimo desiderava sfuggire e ciò che Padre invece
s’ostinava d’insegnargli.
Che
nascere in un mondo di privilegiati non equivaleva a rendere
lecito l’illecito, bensì a dare
l’esempio e a scontare gli errori con doppio
rigore. Che appartenere ad una posizione di potere non si limitava ad
impartire
ordini ai subordinati, ma di essere il loro scudo, il loro punto di
riferimento
nel momento del bisogno, assumendosi e giustificando il peso del loro
fallimento. In
porto, non è il rematore che viene processato per la mala
gestione della galea
o per una sconfitta: è il patron che viene
condannato, riecheggiarono
in Hironimo le parole di Padre, definite e precise come non mai dopo
anni di
silenzio. Il rematore dirà: che scelta
avevo io? Mi è stato dato un
ordine e quello io ho eseguito. Ma il patron potrà affermare
lo stesso? No, gli
diranno i Cai dei X, noi ti abbiamo dato ogni potere di decidere, di
comandare,
di disporre degli uomini come meglio potevi. Non ti mancava nulla. Ora
però tu
ci devi rispondere del tuo operato, non i tuoi inferiori.
Può il servo ordinare
alcunché al padrone? Paga dunque il prezzo del tuo
privilegio.
Alla
fine, ogni persona interrogata dal giovane Miani, pur
descrivendolo in maniera differente, conveniva sul fatto che suo padre
non si
tirasse mai indietro dinanzi a qualsiasi sfida e alle sue conseguenze,
i meriti
e le colpe. Convenivano su come egli non desse mai per scontato la sua
appartenenza al patriziato, come non considerasse la nobiltà
una distinzione
sociale bensì un titolo da guadagnarsi onestamente
attraverso la mercatura,
l’esercizio di una carica pubblica, un servizio pubblico. La
devozione.
Convenivano
tutti come Padre sì disprezzasse le melensaggini e
l’esaltazioni eroiche dei poemi e romanzi cavallereschi,
eppure narravano di
come egli non esitasse a combattere in prima fila e ad ergersi a scudo
umano
per i suoi compagni; convenivano tutti come pur non declamando in
latino
ciceroniano, Padre praticasse nel concreto le tanto osannate ma assai
poco
praticate virtù romane: clementia, dignitas, firmitas,
frugalitas, honestas,
industria, severitas, pietas, prudentia, fides, iustitia, …
Per lui non
corrispondevano ad una sterile moda da
sfoggiare onde stupire
i suoi ospiti della sua cultura, per lui era un modo di
vivere
e da tramandare ai suoi figli, la sua eredità viva.
Padre
aveva voluto che Hironimo in queste virtù si fortificasse,
fedeli alleate per affrontare il mondo ostile fuori le rassicuranti
mura
domestiche. Che lo aiutassero a sopravvivere e a prosperare. I
suoi metodi
saranno stati goffi – come pretendere d’insegnare
amore se non lo si è mai
ricevuto? – però impregnati di grande
sincerità e devozione paterna. Perché
sapeva che la clessidra girava inesorabile per lui, che un giorno
sarebbe
arrivato il tempo di presentarsi a discutere con San Pietro,
impedendogli
quindi di proteggere all’infinito suo figlio, la sua famiglia.
Quale
utilità ricavava altrimenti del suo affanno?
Hironimo
capiva, ora, la sofferenza nel guidare un figlio per
ricevere in cambio amore ma anche odio. Era facile per lui viziare i
suoi
nipoti Anzolo, Crestina e Gasparo, giocare al barba amorevole ma
educarli, oh!
Da scuotere le fondamenta di casa rimbombavano severissime le paternali
di suo
fratello Marco ai figli, seguite poi da grandi e avviliti sospiri in
privato,
quando Zanzi e Ina correvano piangenti in camera loro. Anche Padre,
dopo averlo
punito, sospirava così tristemente?
In quella
stasi notturna, alla luce traballante della lucerna nella
tenda di Mercurio Bua, si compì uno
strano fenomeno: per un istante,
in bilico nel dormiveglia, Hironimo ebbe la sensazione di ritrovarsi
nel suo
corpo decenne, spaparanzato sul suo lettino accanto a Madre.
Avvertì una
presenza sopra di lui, un tocco di dita ruvide e timide sulla fronte,
scostando
via i ricci ribelli. Un bisbiglio – non
aver mai paura, sei nato per
lottare – e poi, la dolce pressione di un
bacio sulla testa e il
profumo di Padre, salato come il mare, che lo avvolgeva, cullandolo nei
migliori
sogni.
Le dita
di Hironimo corsero di riflesso sulla sua fronte, tastando
incredule, i suoi polmoni pieni di quell’aroma a lui tanto
caro.
“Padre,
voi sapete quanto vi ami e vi rispetti, dell’immensa
gratitudine ch’io nutro per voi per avermi messo al mondo,
cresciuto ed
educato, facendomi buon veneziano e …”,
recitò a mente la formula enunciata
dalla sua sorellastra Crestina al momento del congedo dalla casa
paterna.
Solamente buon cristiano non
riuscì pronunciare, sentendosi
altrimenti ipocrita. “Padre mio, se v’ho offeso, se
v’ho deluso, se mi son
comportato indegnamente verso di voi, vi scongiuro, in nome di
… in nome di
… Mater, di perdonarmi ogni
mancanza nei vostri confronti e di
benedirmi in questa nuova parte della mia vita.”
Hironimo
proferì il tutto a cuore aperto, lacrimante. Eppure, dopo
quindici anni, percepiva trattarsi di lacrime di gioia, di chiusura.
Sotto
certi aspetti, quel gran bischero di Mercurio Bua aveva
ragione: Padre era suo padre. Non era il fratello di Marco e Vorzilio
Miani o
il figlio dei suoi nonni. Né l’amico di sier
Antonio Trum né il cognato/rivale
del barba Batista. Né il capitano della Miana.
Né tantomeno il
marito di Madre. Era tutto questo, ma per lui era suo padre, neppure
quello dei
suoi fratelli, il suo.
Perché
per il bene di Hironimo, egli agiva; per il suo bene aveva
diretto le sue energie, i suoi pensieri, anche se per approcciarsi a
lui usava
il metodo meno consono.
Perfettamente
imperfetto, ma era suo padre.
I cui
insegnamenti, se Hironimo si fosse deciso a seguirli,
l’avrebbero accompagnato per tutta la vita.
Altrimenti,
sul serio, sarebbe stato come se per lui Anzolo Miani
non fosse mai esistito.
Continua
…
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Ed eccoci
qui alla fine de “Alla ricerca del padre perduto”.
La
seconda parte del quarto comandamento “… onora la
madre”, non sarà così lunga,
promesso! Avrete capito che il Nostro ci tiene tantissimo a lei!
In ogni
modo, potrà sembrare che non sia accaduto niente, invece
sì, c’è stato fatto un passo
fondamentale in avanti per il Nostro. Le bellezze
delle salite …
Vorrei
ribadire, che le riflessioni in questo capitolo su famiglia
e genitori non sono dogmi universali, quindi niente flagellazione della
povera
Hoel se non si è d’accordo.
Certamente
i ruoli dei genitori all’epoca - come fin
quasi 50-60 anni fa - erano ben definiti, molto
più rigidi rispetto
ad oggi, però leggendo i carteggi di alcuni patrizi
veneziani dell’epoca, ho
trovato esempi di padri molto affettuosi e presenti, in contrasto al
generale
sentire di padre autoritario e distante. Pertanto, credo fosse a
seconda della
personalità dell’interessato e al suo livello di
sensibilità.
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima (con la
narrazione “regolare” XD) Un ringraziamento a Semperinfelix (che
m’ha aiutata nella revisione).
Un
po’ di noticine:
[1] un’usanza curiosa del
patriziato della
Serenissima, che nella scelta dei padrini per il battesimo non si
limitava a
scegliere solo tra parenti stretti e i membri di famiglie cittadine, ma
anche
tra il popolo e i loro stessi servitori. Di conseguenza, il numero di
padrini
era assai notevole – si
stabilì fino a 6 dopo una serie di
eccessi
(150 in un sol battesimo) contrariamente ad oggigiorno che sono al
massimo due.
[2] probabilmente era la sua imprecazione
preferita. Narra il Sanudo, che come nel 1514 Carlo Miani, ripresa
l’attività
forense, durante un processo in Quarantia Criminal contro un
Lampugnano, accusato
d’aver ordinato l’assassinio di un figlio di
Domenico Marin Becichemi, s’era
lasciato sfuggire una bestemmia – “maledeto sia San
Piero” - forse
frustrato dall’impasse in cui era caduta l’udienza.
Ovviamente la cosa suscitò
un grandissimo sdegno e il Miani venne condannato a pagare una multa o
di 25
lire o di servire un mese a Padova.
Considerati
gli usuali provvedimenti per i bestemmiatori (taglio
della mano e d’un pezzetto di lingua) gli andò di
lusso! Secondo noi, Carlo
Miani durante il suo processo si giustificò astutamente
dicendo che per “San
Piero” intendeva non il santo bensì il Vaticano.
Oppure, siccome Della Rovere
bestemmiava sempre San Pietro, appellandosi
all’infallibilità papale, se il
Papa lo faceva allora va bene. Oppure, essendo ancora la guerra in
corso ed
essendosi il Miani distintosi a Brescia e a Bergamo, forse la Quarantia
non
vedeva il vantaggio nello sprecare così un valente militare,
tanto
nell’esercito bestemmiavano tutti. Chissà.
[3] Di questo Luca Tron figlio di Giovanni Tron e
nipote del Doge Nicolò non si trova alcun altro riscontro,
se non nell’albero
genealogico del Cappellari, ragion per cui sospettiamo esser morto
fanciullo,
prima ancora della Balla d’Oro.
[4] quello che Angelo Miani sta descrivendo
è il
“Battesimo di Cristo” nel Battistero degli Ariani a
Ravenna.
[5]
Crestina da Pisan= Cristina
da Pizzano o Christine de
Pizan, è una scrittrice e poetessa vissuta a cavallo tra il
XIV e il XV secolo,
nata a Venezia e poi trasferitasi in Francia con la famiglia presso la
corte di
Carlo V di Valois. Il suo componimento più celebre
è “La Città delle Dame”, una
risposta ai suoi colleghi Boccaccio e Jean de Meung le cui produzioni
letterarie considerava ingiuste e denigratrici nei confronti delle
donne. Oltre
ad esercitare da laica la professione di scrittrice, di Cristina va
notato che
in molte sue poesie viene toccato il tema della prematura perdita del
marito
Etienne de Castel, di cui era molto innamorata.
[6] durante i primi due anni di matrimonio
alla novella sposa (novizza, che vuol dire anche fidanzata) veniva
concesso
d’indossare una collana d’oro e/o una di perle
grosse, nonché di vestire più
sontuosamente del solito, così da segnalare il suo nuovo
status sociale di
donna maritata.
[7]
Paulo Luzio Anafesto =
Paolo Lucio Anafesto, primo Doge di
Venezia, al governo dal 697-717. I Morosini furono una delle dodici
famiglie
veneziane che lo elessero, da qui l’aggettivo
“apostolico” a Ca’ Vecchie.
Oggidì gli storici dubitano della storicità di
Anafesto, ma all’epoca di questo
racconto sicuramente per Leonora Morosini e con lei tutta Venezia
corrispondeva
all’indiscussa realtà. Quanto ai Miani, pur
vantandosi di discendere dalla gens
Emilia, in realtà erano dei navigatori-commercianti
provenienti dall’Istria, i
quali si trasferirono a Venezia verso la fine del X secolo.
[8] Narra il Sanudo: et quando
‘l andò (il
Doge Francesco Foscari nella camera dove avevano portato il figlio per
congedarsi dalla famiglia), li parlò molto
costantemente, che pareva
non fosse suo figlio licet fosse unico figlio. Et lui disse:
“Messier padre, vi
prego procurate per mi che torni a caxa mia.” Il Doxe disse:
“Jacomo (Jacopo) va
ed obedisci a quello vol la Tera, et non zerchar
più oltra.” Ma ben si
disse che il Doxe, tornato a Palazo, stramortì, et detto
sier Jacomo fo mandato
al suo confin alla Cania.
[9] duratura seges =
“Frutto
duraturo”. Questo motto fu scolpito nella targa commemorativa
in marmo sulla
fontana lombardesca a Feltre, sopra di cui è posto un fascio
di piante di
miglio con un nastro volante. Poiché il miglio compare nello
stemma dei Miani,
non sappiamo se questa frase fosse il loro motto oppure semplicemente
l’incipit
del contenuti della targa. Finché non riusciremo a trovare
fonti precise a
riguardo, per non sbagliare ci limiteremo a dire che si trattava del
motto
personale di Angelo Miani.