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Autore: Adeia Di Elferas    27/05/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Ma siamo sicuri che sia ancora viva?” chiese, con un velo di ansia, Lorenzo, mentre il suo delatore, una volta di più, stava già annuendo e assicurando che le ultime notizie la davano per viva, anche se nelle mani del Borja.

Quel 16 gennaio a Firenze non si parlava d'altro che della caduta della Tigre di Forlì. Tutti i membri della Signoria ricordavano molto bene il giorno in cui quel diavolo fatto a donna si era presentato al palazzo e aveva picchiato il pugno sul tavolino del Gonfaloniere. Tutti ricordavano anche l'impegno spasmodico del Medici affinché Firenze le si schierasse contro.

Saperla infine vinta, schiava del figlio del papa, aveva avuto un effetto strano, sui fiorentini. Anche se la logica avrebbe voluto vederli festeggiare – dato che, comunque, loro erano alleati dei francesi e quindi anche del papa – il sentimento più diffuso era l'incertezza.

Era un po' come se, in fondo, nessuno si fosse aspettato che la Sforza avrebbe davvero perso la sua battaglia.

“Che diamine...” borbottò il Popolano, incrociando le braccia sul petto e abbandonandosi contro lo schienale della poltroncina: “Finché non ne sappiamo di più, non posso far nulla...”

“Che intenderesti fare, perché?” la voce di Semiramide arrivò distante, come se, invece di essere sulla porta del salone, la donna fosse a miglia e miglia di distanza.

Il Medici fece un cenno secco al portavoce che gli aveva riferito gli ultimi dettagli, e questi se ne andò in fretta, lasciando soli marito e moglie.

“Da come mi parli, immagino tu sappia già tutto.” commentò a voce bassa l'uomo, scrutando l'Appiani con gli occhi tondi e pensosi.

Quel giorno la sua consorte indossava un abito scuro, semplice. Volendo essere pignoli, avrebbe quasi potuto essere un abito da lutto. Il contrasto con la pelle chiara, però, la faceva rilucere e metteva in risalto il suo volto che, con il tempo, si era fatto altero e distaccato, molto diverso da quello dolce e timido di quando era ragazza.

“Ne ho sentito parlare in città.” ammise la donna, che, in effetti, aveva ricevuto la notizia della presa della rocca di Forlì subito dopo essere uscita da San Lorenzo, mentre andava a comprare stoffe: “Dicono che il figlio del papa l'abbia fatta prigioniera.”

Lorenzo lasciò la poltroncina e sollevando un sopracciglio, le chiese: “E la cosa ti fa piacere?”

“Che intendi?” domandò lei di rimando.

“Tu muori dalla voglia di vedere il mio progetto fallire, no? Se la Sforza fosse rimasta uccisa in battaglia, suo figlio sarebbe diventato orfano e io sarei stato il suo tutore per diritto.” le spiegò lui, avvicinandosi un po', ma restando a debita distanza: “E invece quella cagna ha trovato il modo di spennare un altro pollo!”

“Che intendi dire?” questa volta l'Appiani davvero non voleva credere al ragionamento contorto del marito, eppure, quando si apprestò a spiegarle il suo pensiero, il Popolano le tolse ogni dubbio.

“Intendo dire che di certo si è fatta catturare sperando di irretire il Duca Valentino. Vedrai, vedrai se non mi sbaglio...” Lorenzo annuiva tra sé, preda di una sorta di frenesia che Semiramide non comprendeva e che trovava spaventosa: “Lo sedurrà e quando lasceranno Forlì, lui farà tutto quello che lei vorrà. In fondo, se è riuscita a far fesso mio fratello, perché non dovrebbe riuscirci con quel burattino?”

“Quell'uomo l'ha fatta prigioniera.” gli ricordò l'Appiani, che, al mercato, aveva sentito dire cose orrende su quello che si stava facendo alla Leonessa di Romagna.

Ora, forse le voci erano esagerate, perché tutto ciò che passava di bocca in bocca tendeva a ingigantirsi, ma di certo la Contessa Sforza non stava passando dei giorni piacevoli, tra le grinfie del Borja.

“Prigioniera...” sbuffò l'uomo: “Credi quello che vuoi tu. So solo che se fosse morta, sarebbe stato meglio per tutti.”

“Parli tanto – rimbeccò Semiramide, sistemandosi meglio lo sciallino scurissimo che aveva sulle spalle – ma non sai nemmeno dove sia il bambino. Di chi ti faresti tutore, sentiamo, se non mettessi nemmeno le mani sul piccolo?”

“Ma chi se ne importa del bambino...” fece lui, voltandole le spalle e appoggiando una mano al bordo del camino: “Mi basterebbe una nomina sulla carta...”

Imponendosi di non prenderlo a male parole, la moglie lasciò cadere il discorso, e chiese: “Sai dov'è Pierfrancesco? Volevo dirgli una cosa...”

“No, non so dove sia. E nemmeno mi interessa.” il modo lapidario in cui il Medici aveva parlato fece desistere l'Appiani.

Andando verso l'uscita, la donna si voltò solo un istante verso il marito e sibilò: “Un tempo ti sarebbe importato, di tuo figlio. Adesso, invece, ti interessano solo i soldi. Solo ed esclusivamente i soldi. Forse non ti interessa nemmeno più di Firenze.”

Lorenzo glielo lasciò dire, restando voltato, e poi attese che se ne andasse. Rimasto solo, si portò una mano alla bocca dello stomaco. Aveva l'inferno all'altezza dello sterno. Il bruciore costante che provava si acuiva ogni volta in cui arrivava ad alzare i toni con sua moglie, cosa che, ormai, capitava sistematicamente.

Non aveva più nemmeno degli svaghi. Non leggeva più, non cavalcava praticamente mai e non giaceva neanche con Semiramide. Non aveva amanti, non gli erano mai interessate le altre donne. Il vino lo stancava subito e peggiorava il suo mal di stomaco. Non trovava più gioia nel cibo, e stava dimagrendo, ma senza guadagnarne in tonicità, anzi. Trovava penoso pensare ai figli, specie a Pierfrancesco che, con l'inizio dell'adolescenza, si era fatto molto diverso da come sembrava da bambino, diventando per il Popolano qualcosa di semplicemente ingestibile.

Non gli piaceva più guardare il cielo azzurro oltre la finestra, né ascoltare il rumore della pioggia quando scrosciava sulla via Larga in piena notte. Non apprezzava più il profumo degli olii che la sua donna usava per lavarsi, né il tepore degli abiti asciutti e puliti quando tornava a casa dopo essere stato sorpreso da un'acquazzone.

Non gli importava più di niente. Riusciva a pensare solo alla sua vendetta privata.

Gli piangeva il cuore ad ammetterlo, ma aveva ragione sua moglie: non gli interessava quasi più nemmeno Firenze...

 

Cesare stava per tornare nella stanza in cui teneva segregata la Tigre, quando uno dei suoi uomini lo fermò e gli disse che una staffetta l'attendeva.

L'uomo fece una smorfia e, chiedendo che venisse portato nella sua stanza del cibo – per una sola persona, specificò – e una brocca di vino, decise di vedere subito il messaggero.

L'uomo arrivava da Fossombrone e portava con sé una luttuosa notizia. Lo informò che suo cugino, il Cardinale Juan Borja, che era stato lì a Forlì non molto tempo prima, era stato male per qualche giorno, colpito da una forte tosse, ed era spirato due giorni prima.

Il Valentino prese la notizia senza fare una piega, tanto che la staffetta ebbe quasi la sensazione che non si trattasse di una nuova inattesa per lui. Tuttavia lo ringraziò e gli diede qualche moneta per ripagarlo del suo viaggio, e questo bastò al messaggero per scordare tutto il resto.

Il Borja, che doveva rispondere a una lettera del Duca di Ferrara, che gli chiedeva conto dei dettagli più importanti della cattura della Sforza e della presa della rocca, salì le scale con passo pesante, ripensando ancora alle parole con cui gli era stata comunicata la morte del cugino.

“Egli è tristemente mancato a noi.” aveva detto la staffetta.

'Tristemente mancato – pensò, con una punta di crudele ironia Cesare – alla faccia sua, che quando era qui non sapeva far altro che ridere e mangiare...'.

Arrivato in stanza, trovò la porta aperta, perché un servo era ancora intento a sistemare il pranzo che lui stesso aveva ordinato.

Il Valentino ebbe il sospetto di aver interrotto un dialogo, nel momento in cui era entrato. Non tanto per l'espressione di Caterina, granitica e imperturbabile come sempre, quanto per quella del domestico, che invece era rossa e spaventata.

“Vattene.” ordinò di malagrazia il Duca, sedendosi poi alla scrivania su cui era stato apparecchiato.

Caterina non diceva nulla, come sempre. Era un po' meno scomoda di prima, però. Aveva ottenuto la concessione di allentare un po' le corde che la tenevano legata al letto, e quindi poteva muovere un po' le braccia. Malgrado ciò, la sua situazione restava insopportabile.

“Hai fame?” le chiese il Borja, sollevando un cosciotto di pollo arrostito a puntino.

La Leonessa avrebbe voluto dire di no, con tutte le sue forze, ma i giorni di digiuno, che ormai erano circa quattro, si facevano sentire e il suo stomaco rispose per lei.

Mentre sdegnosamente la donna guardava altrove, dalla sua pancia si alzò un brontolio che la diceva molto lunga su quanto desiderasse quel pollo.

“Bene.” ghignò il Valentino, addentando la carne: “Così magari accetterai i miei baci, dopo, sentendo il sapore di questo pollo sulle mie labbra...”

Caterina non reagì. Avrebbe voluto piangere, ma aveva giurato a se stessa di non farlo più. Fosse anche morta di fame, non avrebbe implorato la carità del suo aguzzino.

“Devo scrivere una lettera.” annunciò il Borja: “Quindi non distrarmi.”

Voltandole le spalle – permettendosi di farlo solo perché dallo specchietto che stava sulla scrivania poteva scorgerne gli eventuali movimenti – l'uomo prese il necessario per scrivere e cominciò la sua missiva per l'Este, iniziandola con un artificioso: 'Illustrissime Princeps et Excellentissime Domina tanquam pater honorandissime.'.

Per più di una riga lo lusingò, ringraziandolo per la gioia con cui aveva accolto la notizia della sua vittoria. Passò a un breve riassunto di come avesse preso Ravaldino – tacendo, ovviamente, tutti i momenti di difficoltà incontrati – e si premurò di specificare quanti fossero stati i morti forlivesi, tralasciando la cifra dei caduti francesi. Decise di abbreviare anche i tempi. In fondo, pensò, Ercole Este non doveva per forza sapere tutti i veri dettagli...

'La domenica poi veniente – scrisse infatti – che fu ali xii per battaglia solamente de meza hora vincemma la Rocha, la Citadella e l'altra terza parte chiamata el paradiso cum occisione de circa quatrocento de quilli da entro che deffendendosi perirono, et pigliammo Madonna Catherina Sforza cum dui soi fratelli conti, Ioanne da Casale et altri principali in bono numero.'

Indeciso se citare o meno anche un'altra questione, alla fine il Borja si disse che era meglio fingersi con tutti molto affranti, per la perdita di un parente, per cui intinse di nuovo la penna nell'inchiostro e riprese a scrivere: 'Et perche per la intrinseca affectione porto ad vostra Illustrissima Signoria et quella de qualunque mio prospeto et adverso caso partecipe io fo anchora intendere come in questa matino ho havuto lo adviso dela morte del Reverendissimo Cardinale Borgia mio frate passate de questa vita in Urbino, dove catharro sopravenutoli, lo agravò andando da qui ad Roma in pressa chiamato da la Santità del Nostro Signore, son certo la Vostra Excellentia reputara haverce damno generalmente per lo interesse ha in tutte le mie cose, et spetialmente per che lui concurreva cum mecho in amare observare quella cordialmente alaquale mi recomando.'. Aggiunse data e luogo e firmò.

Dal modo in cui il Borja fece svolazzare la mano in aria, Caterina capì che fosse alla fine della lettera. Avrebbe dovuto tenere la lingua al suo posto, lo sapeva, ma di quando in quando il suo istinto, che di norma la portava ad attaccare, tornava a farsi sentire.

Così, non riuscendo a trattenersi, con tono di scherno, chiese, a voce alta: “Ma sai anche scrivere, allora? Non l'avrei mai immaginato! Credevo che il tuo santo padre avesse disposto che qualcuno svolgesse una simile difficile incombenza al tuo posto...”

“Fai meglio a stare zitta.” ribatté lui, irritato, senza voltarsi, ma aspettando che l'inchiostro si asciugasse, per ripiegare la missiva: “Ti ricordo che al mio matrimonio ho avuto il plauso della platea perché ho montato la mia nuova moglie per otto volte di fila. Tienilo a mente, quando fai la spiritosa, dato che questa notte dopo tre volte mi sembravi già a pezzi...”

“Facile fare il galletto con una ragazzina spaventata.” commentò la Sforza a denti stretti: “Mi piacerebbe capire che gusto c'è, a imporsi a quel modo su qualcuno che piange e si dispera, qualcuno che prova solo dolore quando...”

“Ti ho già detto di stare zitta.” fece il Valentino, alzandosi dalla scrivania e posandosi un dito sulle labbra: “Ti preferivo quando sembravi fatta di marmo. Apri ancora quella bocca e...”

“Minacciami pure. Non mi interessa.” lo interruppe lei: “Tanto ho capito che siamo ancora qui a Forlì solo perché hai paura di tornare a Roma da tuo padre. Che dirà il grande Alessandro, quando saprà che suo figlio non è nemmeno stato capace di trovare quello che l'aveva mandato a cercare?”

Quella domanda retorica fece scendere un velo sullo sguardo del Duca. La Tigre capì che quell'argomento lo toccava molto più sul vivo di tutto il resto. Per il proprio bene, decise di non insistere.

“Ostinati a prendermi per i fondelli a questo modo.” fece Cesare, le braccia conserte sul petto e gli occhi ricchi d'astio puntati su di lei: “Tanto alla fine sarai tu a perderci di più.”

“Perché non mi uccidi?” la domanda della Leonessa non era una provocazione.

Se lo stava chiedendo fin dalla notte in cui era stata presa. Si era data una spiegazione pensando alla storia dei figli non ancora trovati, ma ormai anche quello le sembrava solo un pretesto.

“Intanto, non ti sto dando da mangiare.” rispose il Borja: “E, se lo volessi, potrei anche non darti da bere, ma voglio che tu sia cosciente: non mi interessa usar violenza a qualcuno privo di sensi. Tu devi sentire tutto.”

Siccome la sua prigioniera non diceva nulla, ma si limitava a fissarlo in silenzio, gli occhi cerchiati sia per l'insonnia quasi totale, sia per la fame, il figlio del papa concluse.

“Voglio che sia tu a implorarmi di ucciderti. O che ti uccida con le tue mani.” mise in chiaro: “Là fuori c'è un covo di vipere. Se tu dovessi uscire di qui con le ossa tutte rotte o con la gola tagliata, mi accuserebbero di aver avuto così tanta paura di te, da averti ammazzata. Invece devono capire che le parti sono all'opposto: sarai tu ad avere così paura di me da finire per ucciderti.”

“Allora, per me, possiamo restare chiusi in questa stanza anche mille anni. Non mi tolgo la vita per farti un favore, stai tranquillo.” rimbeccò la donna, avvertendo, però, una fiammata di disperazione incendiarle l'anima.

“Fai come ti pare, villana che non sei altro.” sbuffò lui, sollevando una mano: “Ma chiediti solo questo: vale davvero la pena – fece, sfilandosi in fretta le braghe e raggiungendola in un lampo a letto – passare mille anni a questo modo?”

Per fortuna, il Valentino se la sbrigò in fretta, quella volta. L'odore di pollo arrosto che arrivava dalle sue labbra schiuse, mentre respirava veloce contro il collo di lei dava quasi il voltastomaco alla Tigre, altro che farle venire fame, come aveva creduto lui.

Mentre l'uomo si rivestiva in fretta, con la schiena sudata e i capelli scompigliati, le disse: “Sai, ho pensato di farti fare un vestito. Finché stai a letto, mi vai benissimo nuda così, ma...”

Caterina, che stava ancora cercando di farsi scivolare via la sensazione di sporcizia che si sentiva addosso ogni volta in cui il suo aguzzino si imponeva su di lei a quel modo, si accigliò, ma non fece domande.

“Una bella camora di raso nero.” proseguì il ventiquattrenne: “Che te ne pare? Manderò qualcuno a prenderti le misure.”

“Perché nero..?” chiese, con un filo di voce, la donna.

“Be'...” sorrise il Valentino, finendo di rivestirsi: “Non vorrai certo venir sepolta con un abito rosso, come la sgualdrina che sei... Almeno da morta, fingiti una pia donna.”

A quel punto, la Leonessa non accennò a ribattere più, e il Duca di Valentinois prese la lettera da spedire all'Este, e uscì dalla stanza. Si imbatté in una serva e la pregò di andare a togliere i resti del pranzo e di ripulire un po' sia la stanza sia la Sforza.

“Dopo il lauto pasto che abbiamo consumato insieme – spiegò, con un'espressione che inquietò molto la serva – va rigovernata sia lei sia la camera, dato che ho intenzione di far venire qui dei sarti... Ah! Questa Tigre... Come ho già detto: Caterina Sforza ha difeso assai meglio la sua rocca che non la sua virtù!”

La domestica annuì, non sapendo come reagire a quell'ultima esternazione, e si inchinò. Quando entrò in camera trovò sulla scrivania i resti del pollo e sul letto, con gli occhi vitrei e il volto cereo, Caterina. La Tigre era così diversa, rispetto a com'era di solito, che la ragazza quasi si spaventò: da che era arrivata prigioniera al palazzo dei Numai, non l'aveva ancora vista da vicino.

Non riuscendo a trovare il coraggio di parlarle, l'aiutò a lavarsi un po', provando pena per lei e per quello che, era evidente, il Borja le aveva fatto poco prima. Fece movimenti dolci, si mosse con lentezza e calma, come se stesse maneggiando qualcosa di prezioso.

Non era stata la prima a trattare la Sforza a quel modo, ed ella gliene era infinitamente grata. Quei momenti erano gli unici, in quei giorni di limbo, in cui aveva ancora l'impressione che a qualcuno importasse di lei.

Arrischiando più di quel che temeva di poter chiedere, la Leonessa, una volta risistemata a letto, chiese alla serva, indicando con un cenno del capo il piatto abbandonato dal Valentino: “C'è ancora qualcosa attaccato a quegli ossi?”

La domestica controllò e annuì: “Un poco di cartilagine, la pelle e qualche pezzetto di grasso.”

“Portamelo.” ordinò Caterina.

Mangiò tutto, arrivando quasi a rosicchiare le ossa. Non le importava nemmeno pensare che fino a poco prima le labbra dei suo carnefice si erano posate nei punti in cui ora lei infieriva coi denti. Non era molto, ma bastò a placare il senso di tremendo vuoto che aveva nello stomaco.

“Grazie.” soffiò: “Adesso fai sparire tutto. Se capisse, saresti morta.”

La ragazza sgranò gli occhi. Non si era resa conto di quanto avesse rischiato, facendo così. Annuì, si scusò e corse subito fuori dalla camera, ben intenta a scampare alla vista del Duca. Prese una scaletta di servizio e in pochi istanti fu nelle cucine. Non mostrò il piatto nemmeno alle cuoche, per paura che qualcuna notasse il modo selvaggio in cui gli ossi erano stati spolpati, dando subito tutto ai cani.

'Che Dio ci protegga da quel Borja – pensò tra sé, mentre i mastini di casa Numai facevano la festa a quel che restava del pollo – se può affamare a tal punto una Contessa, che potrà fare di noi?'.

 

“Volevo esserne assolutamente sicuro, prima di riferirvelo.” stava dicendo, a voce bassa, Francesco Fortunati.

Alessandra Scali si tamponava in silenzio gli occhi. Sapere che la rocca di Ravaldino era stata presa le aveva subito fatto credere di essere vedova. La precisazione subitanea del piovano, però, l'aveva rincuorata – sebbene solo in parte – perché Michele era prigioniero e non morto, così come Caterina Sforza.

Nel salottino erano radunati tutti i figli della Tigre che erano ospiti in quel palazzo. Avevano ascoltato la notizia senza fare commenti, quasi senza reagire. Era qualcosa che si aspettavano, ma, per un motivo o per l'altro, tutti e quattro erano stati certi che quando avessero saputo che Ravaldino era stata presa, avrebbero saputo di aver perso anche la madre.

E invece Fortunati sembrava sicurissimo del fatto suo: la Leonessa era nelle mani del Borja e i francesi stavano facendo pressioni per riaverla. Su quest'ultimo punto era stato cauto, ma sosteneva che anche in Firenze si vociferasse di quella spaccatura tra i comandanti al soldo di re Luigi XII, e la chiave forse stava nel fatto che, sempre secondo chi aveva riportato per primo la notizia, la Contessa si era dichiarata prigioniera dei francesi, e non del Valentino.

Non appena il piovano ebbe finito di spiegare quanto accaduto, finalmente tra i presenti ci furono le prime reazioni.

Sforzino aveva giunto le mani e, socchiudendo gli occhi, si era messo subito a pregare. Pregava affinché la madre sopravvivesse al peggio, pregava affinché il Duca di Valentinois la liberasse e, infine, pregava affinché riuscissero a riportarla tra loro, al sicuro, a Firenze.

Galeazzo, invece, sembrava pietrificato. Nella rigidità dei suoi quattordici anni di educazione militaresca, non voleva piangere, e, in una certa misura, non voleva nemmeno accettare il fatto che sua madre fosse stata fatta prigioniera e non avesse trovato la fine gloriosa che aveva sperato sul campo di battaglia. Ovviamente era felice di saperla viva, ma parimenti era cosciente di quanto la Tigre avesse temuto quella possibilità: venir fatta prigioniera era un'opzione che la donna aveva sempre scartato, una beffa tra le beffe, la peggiore delle morti in vita. E invece, chissà come e perché, era ciò che le era capitato.

Ottaviano si era subito accigliato, cominciando a ragionare sul da farsi. L'immobilità a cui era costretto, da quando era a casa della Scali, lo aveva già portato più volte a chiedersi come fare, per sfruttare anche a proprio favore un'eventuale prigionia della madre. Sapeva che la Leonessa era scaltra e senza troppi scrupoli. Probabilmente stava già avviluppando il Borja nelle sue spire e presto l'avrebbe avuto in mano propria.

“La porteranno a Roma?” chiese, mentre tutti gli altri erano ancora in silenzio.

“Non saprei...” rispose cauto Fortunati: “Può darsi.”

“Allora, quando sarà a Roma, potrà parlare con il papa. Potrebbe cercare un accordo e...” la voce morì nella gola del Riario perché Bernardino, immobile come una statua fino a quel momento, gli era volato addosso gridando parole poco comprensibili, nello stretto dialetto forlivese che aveva imparato in anni di vagabondaggio tra le vie più malfamate della città.

Galeazzo, intervenuto all'istante per dividerli, tenne il fratellino fermo, afferrandogli i polsi e gli chiese: “Ma che ti prende?”

“Nostra madre è stata fatta prigioniera, e lui non riesce a pensare ad altro che a se stesso!” gridò, alludendo, chiaramente, a Ottaviano.

Questi, sentendosi smascherato, si finse offeso e, sollevando platealmente il mento, ribatté: “Io non resto qui a farmi insultare da un bambino di nove anni.” e, detto ciò, lasciò il salottino.

“Sei un selvaggio!” tuonò Alessandra, i nervi troppo scossi per colpa delle novità di quel giorno per riuscire a moderare i toni: “Aggredisci uno dei tuoi fratelli di nuovo, e ti mando alle Murate con tua sorella!”

Bernardino avrebbe voluto dire che era d'accordo, che sarebbe andato anche subito, ma Galeazzo gli tappò la bocca con una mano e disse: “Se non c'è altro, porto mio fratello in stanza. È molto provato e...”

La Scali gli fece cenno di andare pure e così rimase solo Sforzino. Avendo una maggior intesa con questo Riario che con tutti gli altri messi assieme, Alessandra lo lasciò restare.

Con Francesco cominciarono a parlare dei possibili scenari che si aprivano da quel momento in poi e, solo dopo un paio d'ore, Sforzino ebbe il coraggio di chiedere: “Mia sorella Bianca lo sa già?”

Fortunati scosse il capo: “Andrò a dirglielo presto.” promise.

“Andate oggi, vi prego.” insistette il ragazzino: “Lei deve saperlo tanto quanto noi. Per il momento è quella che ha sacrificato più di tutti la propria libertà, pur di rispettare il volere di nostra madre.”

Il piovano sospirò e poi, dandogli tacitamente ragione, concluse: “Allora appena lascerò questa casa, andrò alle Murate. È vero: conosco Madonna Bianca e so che restare chiusa in un convento per lei è un grosso sacrificio. Merita da parte mia almeno la solerzia di tenerla informata.”

 

Stava scendendo la sera e Bianca, con al collo Giovannino, stava guardando di nascosto il giardiniere che si occupava dell'orto del convento. Cornelia era con suor Ubbidienza, che aveva insistito tantissimo per tenerla con sé qualche ora. Il legame che aveva sviluppato con quella bambina era così forte che, a volte, la Riario si sentiva quasi di troppo.

Così aveva preso il fratellino e, facendo dei corridoi che le suore non usavano quasi mai, si era messa alla finestra che dava sul cortile interno. Il ragazzo che stava osservando era arrivato da poco, e lei era pronta a scommettere che fosse appena stato nella cella di qualche monaca.

Stava lavorando alacremente, come se dovesse recuperare in fretta il tempo perso, e aveva il camicione bianco infilato solo in parte nelle brache, tanto che se ne vedeva il bordo scivolare fuori dall'orlo del giubbone.

Mentre ancora lo guardava, fantasticando su di lui e sulla sua storia, Bianca sentì la voce di Suor Elena chiamarla.

“Arrivo.” disse subito, abbandonando senza indugi il suo momentaneo passatempo.

La badessa, scura in volto, la pregò di seguirla. La Riario ebbe subito un sinistro presentimento. Fu subito convinta che la donna volesse comunicarle della morte della madre.

Giovannino, sensibile come sempre, avvertì l'inquietudine della sorella e cominciò a mostrarsi insofferente al modo in cui lei lo teneva stretto tra le braccia. Bianca fece finta di nulla, seguitando a tenerlo vicino a sé. In quel momento, il fratellino era l'unica cosa che la collegasse fisicamente a sua madre: non poteva allontanarvisi.

Una volta nello studio della badessa, questa si sedette dietro la scrivania. Giunse le mani, quasi volesse pregare e poi guardò in modo tagliente la ragazza.

“Messer Fortunati è stato qui da poco.” l'avvisò, con aria grave: “Mi ha riferito che la rocca di vostra madre è stata presa. Vostra madre è stata fatta prigioniera.”

La Riario sentì la terra mancarle sotto i piedi. Per un attimo non colse il senso di quelle parole, ma, quando capì che la madre, in un modo o nell'altro, era ancora viva, sentì il cuore esploderle di gioia.

“Dunque c'è speranza!” esclamò.

Suor Elena sollevò un sopracciglio e poi disse, con un filo di voce: “Non è morta, questo ve lo concedo. Ma pare che il Valentino si stia rifacendo su di lei come su una preda di guerra. Messer Fortunati non voleva che ve lo dicessi, ma io so che siete una donna esperta del mondo e mi sentirei meschina e ipocrita a tenermi certe cose per me.”

Bianca capì quello che intendeva dire. L'espressione di giubilo si tramutò subito in una maschera cupa. Giovannino, che ora le si stringeva come un naufrago a uno scoglio, sembrava a sua volta preoccupato.

“Il figlio del papa le ha usato violenza?” chiese, esplicitamente, la ragazza.

“Non possiamo escluderlo.” ammise la badessa: “Va dicendo in giro che la Tigre di Forlì ha difeso assai meglio la sua rocca che non la sua virtù.”

La giovane sentì la gola seccarsi. Con la storia personale che aveva sua madre, poteva solo lontanamente immaginare che significasse per lei una nuova violenza. Si asciugò in fretta una lacrima e poi si schiarì la voce.

“Cosa facciamo adesso?” chiese.

“Aspettiamo.” rispose Suor Elena: “Ma il mio consiglio è che stiate ancora più attenti, sia voi sia i vostri fratelli. Se il figlio del papa dovesse capire che siete qui, e facesse in modo di farvi arrestare, Dio solo sa cosa vi farebbe. Specie a voi, che siete una donna e, dicono, che somigliate così tanto a vostra madre.”

Bianca annuì. Si sentiva ripiombare nel panico che l'aveva attanagliata nei giorni che avevano preceduto la sua partenza da Forlì. Si sentiva minacciata, benché fosse in un edificio che somigliava più a una fortezza che non a un monastero.

“Vi ringrazio per la vostra franchezza.” disse, chinando il capo: “Adesso vorrei ritirarmi in cella, se posso.”
Suor Elena glielo concesse e, mentre la vedeva avvicinarsi alla porta, le suggerì: “Il nostro manovale, quello che cura l'orto, è un ragazzo fidato. Tuttavia, se vi interessasse davvero, gradirei che prima di prendere, chiedeste a me. In fondo, sono a capo di questo monastero.”

Bianca parve quasi spaventata, come se avesse paura che la donna potesse leggerle nella mente.

“Sono la badessa delle Murate da tempo – precisò lei, intuendo bene i pensieri della sua giovane protetta – e queste monache sono come mie figlie. Per proteggerle, devo conoscere tutti i loro segreti. Finché sarete qui, voi, per me, non fate differenza.”

“Siete una donna saggia.” convenne la Riario e, con un ultimo breve inchino, stringendo a sé Giovannino, lasciò lo studio e tornò nella sua cella, aspettando, paziente, che Suor Ubbidienza le riportasse anche Cornelia.

Più tardi, con il fratellino da un lato e la nipote dall'altro, in un lettuccio stretto come quello di una martire, Bianca prese sonno a fatica, ma, nel calore dei due bambini, provò la sensazione viva di avere ancora una famiglia vicino. Non sarebbe stato facile, ma alla fine, ne era certa, sarebbero tornati tutti a vivere. Tutti quanti, non ne aveva più dubbi.

 
   
 
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