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Autore: Nina Ninetta    29/05/2020    9 recensioni
Una famosa scrittrice di romanzi gialli è in piena crisi poiché non riesce più a scrivere, sembra che nulla la ispiri, ma un viaggio improvviso e frettoloso su un treno diretto a Londra le farà conoscere nuove persone che si riveleranno perfette per il suo nuovo libro.
Quinta classificata al contest “A noi i personaggi, a voi la storia” indetto da elli2998 e Inchiostro_nel_Sangue sul forum di EFP”.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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N.B.
Questa storia partecipa al contest “A noi i personaggi a voi la storia”  indetto da elli2998 e Inchiostro_nel_Sangue sul forum di EFP”, per questo motivo i personaggi citati in questa storia non sono di mia invenzione.
 

 

Sul treno per Londra

 

 
Erano i primi anni ’90. Il Mondo sembrava muoversi sopra una polveriera: l’abbattimento del Muro di Berlino fu solo l’apripista di ciò che l’ultimo decennio del Millennio avrebbe affrontato. Mentre il Sud Africa eleggeva il suo primo presidente di colore e l’America sceglieva il democratico Bill Clinton, l’Italia era devastata dagli attentati della mafia. Intanto la Jugoslavia si disintegrava in tanti piccoli stati e la medesima sorte toccò all’Unione Sovietica.
In Inghilterra però la vita procedeva a gonfie vele: i britannici si stavano preparando ad affrontare al meglio gli anni ‘2000. In campo musicale, artistico, calcistico e politico si cominciavano a scoprire nuovi orizzonti, coinvolgendo l’entusiasmo dei giovani: il futuro di un Paese in continua crescita e mutazione. Moderno, tecnologico, aperto al cambiamento, anni che i media del tempo avrebbero battezzato “Cool Britannia”.
In questo scenario dinamico e positivo le stazioni erano gremite di gente stanca e insoddisfatta del proprio lavoro, della vita in generale. E i treni perennemente in ritardo. Ogni mattina, dalla stazione di Manchester Victoria, partivano centinaia di lavoratori, per lo più impiegati, diretti a Londra. Io ero solo una dei tanti: una donna che ormai aveva oltrepassato le sessanta primavere da qualche anno e che stava facendo i salti mortali per superare il cosiddetto blocco dello scrittore. Il mio editore mi stava col fiato sul collo, avevo delle scadenze e il dovere di rispettarle. Gli avevo detto che l’arte non segue delle regole precise, non è come lavorare in fabbrica. Lui mi consigliò uno psicoterapeuta, io di andare a farsi fottere. Provai l’esperienza di un viaggio all’estero, fui tentata di assumere droghe leggere, alla fine capii che l’espediente migliore era osservare. Osservare la gente, il loro modo di essere, ascoltare ciò che avevano da raccontare oppure no. Persone ordinarie, ognuno con la propria storia alle spalle.
Quella mattina di metà marzo ero seduta nel solito caffè della stazione, scrutavo chiunque passasse davanti alla vetrina. Uomini di mezza età in giacca e cravatta con una ventiquattrore, donne in tailleur grigi e capelli cotonati, simili a zucchero filato. Poi accadde qualcosa: vidi una donna, sulla trentina, aveva lunghe gambe avvolte da collant scuri e scarpe col tacco, il tailleur color fumo e una camicia di un rosa pallido. I capelli lisci e tagliati a caschetto emanavano un riflesso corvino e una frangia piatta le copriva la fronte; ai lobi indossava grandi cerchi color oro, così come la montatura degli occhiali dalla forma ondulata che le conferivano un’aria intellettuale; a tracolla teneva una piccola valigetta. Mi conquistò. Lasciai a metà il mio caffè nella tazza e uscii. La vidi dirigersi alla biglietteria e le fui subito dietro. Chiesi all’uomo oltre il vetro dove fosse diretta quella donna, lui volle sapere se fossi un investigatore privato o un serial killer. Allora gli dissi che volevo lo stesso biglietto per la città che aveva preso lei. La gente alle mie spalle cominciava a diventare intollerante per l’attesa, perciò il bigliettaio non poté non accontentarmi. Durante quel disguido non l’avevo persa un attimo di vista, per questo quando salì sul treno diretto a Londra la seguii. Aveva un’aria distinta quindi avevo immaginato che avesse comprato un biglietto per la prima classe, invece ne aveva preso uno per la seconda. La cercai tra i vari scompartimenti e alla fine la trovai in uno occupato solo da lei. Era seduta vicino alla porta, mi sarei aspettata di trovarla accanto al finestrino, allora ne approfittai e mi sedetti io lì, un posto dopo il suo. Ci guardammo - aveva occhi sottili di un verde intenso, come quello di un prato in primavera -, lei abbozzò un sorriso, io neanche quello. Brutta specie gli scrittori.
Osservai il panorama oltre lo spesso vetro: Manchester era una bella città, una patria di opportunità, ma il grigiore del cielo e le carcasse delle fabbriche all’orizzonte le avevano marchiato a fuoco la pessima reputazione di paese solamente industriale e dall’animo plumbeo.
Le porte del vagone si aprirono e un uomo si accomodò pesantemente di fronte alla donna alla mia sinistra. Lo scrutai di soppiatto, al di sopra dei miei occhiali in osso. Era un bell’uomo, con i capelli brizzolati, un po’ troppo lunghi per i miei gusti, ma ben acconciati. Sembrava stanco già di primo mattino, le rughe sulla fronte e le occhiaie intorno agli occhi castani ne erano la prova. Indossava pantaloni scuri e una giacca di pelle color cuoio chiusa fin sotto al mento. Mi diede l’impressione di non volersi mettere comodo, perciò pensai che dovesse scendere presto, ma mi sbagliavo: anche lui era diretto nella capitale.
Il fischio del capostazione giunse fino a noi, avvertimmo il classico strappo in avanti prima che il treno si mettesse in movimento, poi lentamente, ronfando e sbuffando, partì. Presi dalla borsa il libro che tenevo sempre dietro e che usavo per celarmi agli altri mentre li studiavo. Era uno dei peggiori racconti di Edgar Allan Poe.
 
Il viaggio fino a Liverpool fu tranquillo. Finsi di leggere ma in verità osservavo gli altri due passeggeri da sopra le lenti. L’uomo infilò una mano nella tasca destra del giubbotto e ne tirò fuori dei fogli spiegazzati. Notai che non indossava la fede, così come la donna bruna.
In un mio racconto quei due sarebbero finiti insieme con un happy ending? Sicuramente si sarebbero attratti fisicamente, però un “vissero per sempre felici e contenti” faticai a immaginarmelo.
Gli scivolò uno dei fogli e lei prontamente lo recuperò da terra, era agile e snella. Diede uno sguardo furtivo a ciò che vi era riportato sopra, quindi glielo porse:
«Un compito di matematica pieno di errori. L’esaminato non deve essere una cima coi numeri» disse in tono simpatico.
«Gli studenti di oggi sono solo delle capre» rispose lui riprendendo il foglio, senza ringraziare.
«È un professore di matematica?» Continuò lei.
«Già».
Notai come l’uomo tendesse a tenere gli occhi bassi, mi chiesi se per imbarazzo o fastidio che gli si rivolgesse la parola.
Il treno cominciò a rallentare entrando nella stazione Lime Street di Liverpool. Ci fu un breve via vai di passeggeri, poi ripartimmo, prossima destinazione Londra.
«E lei di cosa si occupa?» La giovane donna si rivolse alla sottoscritta, che tenni gli occhi saldi sul libro. Proprio in quel momento le porte dello scompartimento si aprirono e una ragazza giovanissima, di circa 17 anni, ne fece capolino.
«Ciao!» Cantilenò e senza chiedere il permesso si accomodò di fronte a me, i grandi occhi azzurri si posarono sul panorama oltre il finestrino dal vetro sporco.
Cominciò a piovere.
La osservammo tutti e tre: la ragazzina giocherellava con una ciocca dei suoi lunghi e lisci capelli biondi; la pelle del viso era bianca e perfetta, tanto da ricordare quello di una bambola di porcellana. Accavallò le lunghe e magre gambe scoperte: l’abitino azzurro che indossava era troppo corto e troppo scollato per una alta almeno un metro e settanta. Ai piedi teneva scarpe basse, da passeggio. Canticchiava il motivetto della canzone che evidentemente stava ascoltando attraverso le cuffie del suo walkman. Muoveva la testa e il piede a ritmo. Notai la bella donna seduta al mio fianco lanciare un’occhiata complice al professore, sebbene quest’ultimo l’avesse notata non ricambiò, proseguendo con il suo lavoro di correzione.
La biondina fece scoppiare una bolla rosa che aveva fatto con il chewing gum che teneva in bocca, noi la fissammo tra l’infastidito e l’esterrefatto, poi riprese a canticchiare rumorosamente. Tornammo alle nostre faccende, i nostri pensieri, io con un occhio sempre rivolto verso di loro, poi all’improvviso la giovanissima ci fece sobbalzare, di nuovo.
«Nooo! Accidenti!» Prese a pugni il walkman. «Avete delle batterie? Le mie si sono scaricate».
«Purtroppo no» la donna bruna fu l’unica a risponderle.
«Che palle!» Esclamò in italiano. «Tu ce l’hai?» Continuò rivolgendosi direttamente al professore, il quale rispose con un secco no.
«E adesso che faccio? Uffà!» Guardò la pioggia. «Ma qui piove sempre?! Come ci fate a vivere?».
«Abitudine. Tu di dove sei?» Le chiese la donna. Il professore di matematica non partecipava alla conversazione, ma era attento.
«Sono italiana. Sono venuta qui per sfondare nel mondo dello spettacolo» spiegò entusiasta la bionda. «Infatti sto andando a Londra perché ho un provino. Speriamo che mi prendano!» Incrociò indice e medio guardando il soffitto, come per far arrivare quella preghiera lassù in alto.
«Vedrai che andrà bene. Provino per cosa?» Aggiunse la bruna con il caschetto.
«Boh! Per lo spettacolo» rispose l’italiana, aveva un forte accento maccheronico.
Per un po’ nessuno parlò, poi la ragazzina bionda ricominciò:
«E tu che lavoro fai?».
«Sono un mediatore familiare» disse la donna e pensai che sì, ne aveva l’aria.
«Un che?».
La bruna sorrise:
«Intervengo per evitare un divorzio, provando a far riconciliare i coniugi».
«O a dargli il colpo di grazia» intervenne il professore lasciando tutti di stucco.
«Prego?» La bruna pareva contrariata.
Lui abbozzò un sorrisetto cinico, aveva denti bianchi e perfetti.
«Il vostro lavoro serve solo a screditare l’uomo come marito e padre».
«Mi scusi, è evidente che lei non conosce nel dettaglio il nostro delicato compito».
«Oh, lo conosco eccome!».
«È divorziato suppongo».
«Si, ufficialmente da qualche giorno e grazie alla sua categoria di supporto potrò vedere mia figlia solo ogni quindici giorni e per due ore».
«Se il giudice ha ritenuto opportuno che lei vedesse così poco sua figlia è evidente che i dati in suo possesso lo hanno portato a ponderare questa scelta».
«Wow!» Esclamò la biondina. «Che paroloni difficili!».
«Dare della puttana adultera a mia moglie evidentemente ha urtato la sua sensibilità. Era una donna comunque».
«Chi? L’amante?» Chiese l’italiana con tanto d’occhi.
«No, il giudice…».
«Ah, ecco… Io comunque sono Alice. Alice White. Ma potete chiamarmi anche solo Ali» allungò la mano verso l’uomo, ma questo non gliela strinse, si limitò a dire di chiamarsi Jake Walker. La donna bruna invece ricambiò la stretta:
«Io sono Lora Smith. Piacere. Ho notato che hai un cognome britannico…».
«Mio nonno era un soldato americano che s’innamorò di nonna durante la guerra e alla fine è rimasto in Sicilia».
«È una bella storia, molto romantica» affermò Lora, Jake fece un verso di dissenso. Poi si voltarono a guardare nella mia direzione, in attesa che mi presentassi, però non alzai mai gli occhi dalle pagine scritte.
«Tu devi essere una Vergine» disse d’un tratto la donna bruna rivolgendosi al professor Walker, il quale aggrottò la fronte. Alice ridacchiò maliziosa. «Non fraintendetemi, intendo dire il tuo segno zodiacale deve essere quello della Vergine» specificò.
Il professor Walker la fissò con i suoi occhi caldi e profondi prima di annuire.
«Wow!» Esclamò Alice, sembrava realmente affascinata da quella donna. «E il mio? Indovina il mio!».
«Beh, tu sei una ragazza vivace, curiosa, effervescente. Sei sicuramente un segno di fuoco. Leone o Ariete».
«Leone, 8 agosto. Sei davvero brava! Ma come fai?».
La signorina Smith sorrise e il viso le si illuminò:
«Sono un’appassionata di Zodiaco. Conosco tutti i segni e le loro caratteristiche. Così so sempre chi ho di fronte e mi comporto di conseguenza. Mi è molto utile, soprattutto nel lavoro».
«Non avevo dubbi» disse sarcastico Jake.
«Lei invece non cambia mai il suo modo di essere, eh professor Walker?! Tocca sempre che siano gli altri a doversi adattare» controbatté Lora senza ricevere risposta.
«E tu che segno sei?» Chiese l’aspirante show girl.
«Sagittario» affermò la donna.
«E che tipo è il Sagittario?».
Lora Smith accennò un sorriso, quasi imbarazzata di parlare di sé stessa.
«Il Sagittario è un segno leale. Un ottimista, intraprendente e fedele nei rapporti. Ama viaggiare, ama la buona compagnia, ma adora anche starsene da solo a leggere un bel libro, magari bevendo un bicchiere di vino».
«E tu sei così?» Alice White, più che curiosa io l’avrei definita impicciona e invadente.
«Si, sono fatta così».
«E invece la Vergine com’è?».
Lora guardò Jake seduto proprio dinnanzi a lei, l’uomo alzò gli occhi per incrociare i suoi, ma li riabbassò subito.
«La Vergine è un segno di Terra. La sua forza è la concretezza, la stabilità. Sicuro di sé e delle proprie idee e nulla può fargli cambiare opinione. È testardo, a volte burbero, ama il silenzio e odia essere disturbato quando è impegnato.» Mentre parlava, Lora non distolse mai i suoi occhi verdissimi e luccicanti da Jake. «Ma è anche una persona dolce, sensibile, sa amare senza indugi o riserve. Dovrebbe solo imparare a fidarsi di più del prossimo e a esternare i suoi sentimenti senza timore di esserne ferito».
Per qualche secondo nessuno parlò, poi di nuovo fu Alice a interrompere il silenzio complimentandosi con Lora per ciò che sapeva.
 
La voce metallica del capotreno ci comunicò che presto saremmo arrivati nella stazione londinese di Victoria, la nostra destinazione era ormai prossima.
Lora Smith aprì la valigetta che teneva sulle gambe e ne tirò fuori un piccolo foglietto rettangolare che porse a Jake. Quest’ultimo lo fissò, incerto e preso alla sprovvista.
«Lo prenda, la prego. È il mio biglietto da visita».
Lui non si mosse, fermo come una statua, mi chiesi se stesse respirando.
«Vede signor Walker, io credo nel destino e credo che se oggi siamo finiti sullo stesso treno, nello stesso vagone, è un segno, non può essere solo una coincidenza. Le cose non capitano per caso. Lei ha bisogno di una mano per riallacciare i rapporti con sua figlia e io posso aiutarla. Abbia fede nel destino, Jake, se non vuole averne in una sconosciuta».
Sentendosi chiamare per nome il professore finalmente alzò lo sguardo, impassibile, indecifrabile, ma accettò quel biglietto che gli veniva offerto, come si farebbe con una mano dopo essere inciampati.
La signorina Smith parve rilassarsi e riprendere a respirare.
«Lora, e la signora che segno è?» Fu l’ultima domanda di Alice, buttata lì quasi con apprensione per l’avvicinarsi della meta.
«Beh…» Lora mi studiò. «È una bella donna, forse sulla sessantina, molto ben vestita e quindi mi chiedo come mai abbia comprato un biglietto per la seconda classe e non per la prima. Indossa una parure di perle e un raffinato tailleur turchese con scarpe costose. Non ha detto una parola per tutto il tempo del viaggio, ha calzato i suoi occhiali di osso e finto di aver letto quel romanzo di Allan Poe… direi che sia una Bilancia. È così signora?».
Il treno si arrestò con un colpo secco. Mi alzai, riposi il libro nella borsa e tolsi gli occhiali.
«Mi chiamo Emily Green e sono dei Gemelli» furono le uniche parole che pronunciai. Uscendo dal vagone sentii nitide le parole del professore di matematica:
«Emily Green? Come la scrittrice di gialli?».
 
Nel frattempo che aspettavo il treno successivo per tornare a casa a Manchester, trovai posto in un caffè appena fuori dalla stazione. Come al solito mi accomodai accanto alla finestra per osservare la gente al di là del vetro, anche se quel breve viaggio mi aveva dato l’ispirazione sufficiente per il mio prossimo romanzo. Avevo già chiaro in mente i ruoli che avrebbero potuto ricoprire quei tre: Lora Smith la bella vedova della vittima; Jake Walker l’affascinate e tenebroso detective incaricato delle indagini; Alice White la giovane aspirante giornalista ficcanaso.
Mentre rimuginavo su tutto ciò, notai proprio il professore di matematica sostare davanti al cestino dell’immondizia. In mano teneva qualcosa, lo fissava incerto sul da farsi. Sebbene non riuscissi a distinguere chiaramente l’oggetto della sua attenzione, non mi fu difficile immaginare che fosse il biglietto da visita di Lora.
L’avrebbe gettato via?
 
“Non farlo” mi ritrovai a sperare. “Non farlo, Jake. Abbi fede nel destino”.
 
Jake Walker alzò la testa come se avesse sentito le mie parole, si portò la mano con il biglietto nella tasca del giubbotto e s’incamminò, mimetizzandosi tra la folla.
Sorrisi bevendo il caffè.
Forse, alla fine, Jake e Lora avrebbero avuto il loro happy ending: c’era ancora speranza per chi credeva nelle stelle.
 
 


Fine

 
 
  
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