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Autore: Estel_naMar    31/05/2020    16 recensioni
Ti racconterò una storia. Parla di tutto quello che due persone possono essere, ma che non saranno mai. Parla di un frangente, di un “per sempre” cristallizzato nel tempo, parla di affinità.
Io sono Anna, ma le persone sono solite chiamarmi Annie. Non so perché lo facciano, io ho sempre preferito il nome interno poiché “Annie” mi pare denoti una dolcezza che non sento come mia, ma che, evidentemente, gli altri vedono in me. Ecco, questa storia parla un po’ di me e un po’ di Max. Parla di quando, con lui, seppur presa da un entusiasmo che non avrei mai creduto possibile, ho scelto di non impegnarmi in alcun modo e, alla fine, l’ho perso di vista. Ma parla anche della bellezza della potenzialità che ci ha caratterizzati, la quale mai smetterà di darci speranza verso il futuro.

✠ Storia vincitrice del contest "Attraverso i tuoi occhi (II edizione)" indetto da Milla4 sul forum di EFP
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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✠ Storia partecipante al contest "Attraverso i tuoi occhi (II edizione)" indetto da Milla4 sul forum di EFP
✠ Storia partecipante a "Il contest autobiografico" indetto da Ile_W sul forum di EFP 




ANNIE e MAX

 

 

 

 

A R.,

per la nostra circoscritta e infinita bellezza,

per la marea di possibilità che non abbiamo colto,

ma che ricordiamo comunque con affetto e felicità.

 

 

 

            Ti racconterò una storia. Parla di tutto quello che due persone possono essere, ma che non saranno mai. Parla di un frangente, di un “per sempre” cristallizzato nel tempo, parla di affinità.

Io sono Anna, ma le persone sono solite chiamarmi Annie. Non so perché lo facciano, io ho sempre preferito il nome interno poiché “Annie” mi pare denoti una dolcezza che non sento come mia, ma che, evidentemente, gli altri vedono in me. In ogni caso, mi sono così abituata a sentire le persone riferirsi a me in quel modo che ormai non posso fare a meno di voltarmi. Ecco, questa storia parla un po’ di me e un po’ di Max. Parla di quando, con lui, seppur presa da un entusiasmo che non avrei mai creduto possibile, ho scelto di non impegnarmi in alcun modo e, alla fine, l’ho perso di vista. Ma parla anche della bellezza della potenzialità che ci ha caratterizzati, la quale mai smetterà di darci speranza verso il futuro.

 

Un giorno Cassandra, una delle amiche più esuberanti della mia cerchia, mi comunicò di aver dato il mio numero a un certo Massimiliano, affermando qualcosa tipo “Annie, voi sareste perfetti insieme”. Risi con diffidenza a quella dichiarazione e quando mi domandò se volessi anche io il suo, le risposi semplicemente di no. Non seppi mai se lei lo avesse informato del fatto che da un punto di vista logistico io non avrei potuto scrivergli, ma ricordo che per un pomeriggio intero mi domandai perché Cassandra avesse pensato proprio a me e, per evitare di giungere a una qualsiasi conclusione affrettata, cercai di frenare il desiderio di andare su facebook alla ricerca di quel ragazzo. 

 

Poi, ad un certo punto, sullo schermo del mio telefono apparve una notifica da un numero non salvato: «Ciao, io sono Max. Mi ha dato il tuo numero Cassandra, credo ti abbia avvertita», pulito, sobrio, neutro… comprensibile. 

Mi venne spontaneo soffermarmi sull’immagine profilo: una foto in bianco e nero, gli occhiali dalla montatura spessa, dei riccioli corti e scuri e la barba, un sacco di barba. Carino

Gli risposi presentandomi dopo non troppo tempo: in fondo ero abbastanza curiosa di conoscerlo e stetti al suo gioco quando prese a pormi tutte quelle domande che si pongono quando di fronte si ha qualcuno di completamente sconosciuto: poche questioni per riuscire a raccogliere quante più informazioni possibili, nella consapevolezza che quelle risposte erano in realtà solo polvere rispetto a tutto ciò che avremmo potuto scoprire l’uno dell’altra. 

 

Mi era simpatico, col suo fare espansivo e ironico, e mi veniva da sorridere al suo (neanche troppo) velato tentativo di farmi esporre maggiormente, ma questo non sarebbe accaduto e un po’ mi dispiaceva per lui. Ciò nonostante, ero ben lieta di parlare di me e di vedere come in qualche modo sembravamo essere sulla stessa lunghezza d’onda in quanto a interessi e idee – sebbene nella mia testa non riuscissi a ignorare il fatto che anche lui fosse uno studente fuori sede come ero io e la città nella quale abitava fosse Roma.

 

«Ti va di vederci uno di questi giorni? Io starò in città ancora una settimana, poi devo tornare a Roma, però mi piacerebbe molto», cosa avrei dovuto dirgli? Perché desideravo ardentemente rispondere di sì, ma se poi si fosse aspettato qualcosa di diverso da me? E se invece mi fosse effettivamente piaciuto? 

«Non lo so, non mi dispiacerebbe», non era come esclamare con entusiasmo che sarebbe stata una cosa che avrei fatto molto volentieri, ma quella risposta mi sembrò il giusto compromesso, «Questa settimana, però, ho sempre un sacco di impegni: tra università, riunioni, lo sport, non saprei proprio quando»

 

Un’idiota, sempre stata. Perché dovevo sempre farmi prendere da quell’ansia inspiegabile che mi faceva sempre restare vaga? Mi maledii un poco mentalmente di fronte all’ipocrisia con cui davo sempre degli ottimi consigli ai miei amici senza mai riuscire a seguirli in prima persona. Ognuno è artefice dei propri mali, d’altronde, no?

«Così, de botto: stasera? Hai da fare?», mi stupii di me stessa nel non disdegnare quell’insistenza, purtroppo per lui le mie non erano scuse e di impegni ne avevo davvero.

«Sto andando a giocare un’amichevole in trasferta, proprio adesso. Non so per che ora tornerò, ma, per esperienza, presumo rincaserò a notte inoltrata», quante volte avrei potuto dargli buca prima che mi mandasse a cagare? 

 

 

 

 

I due giorni successivi li passai col telefono a portata di mano, pronta a rispondere ad ogni suo messaggio, trepidando euforicamente nell’attesa che me ne arrivasse uno. Era una sensazione strana: per la prima volta da molto tempo mi sentivo sinceramente coinvolta. Questo mi terrificava all’inverosimile. 

Feci pressione affinché potessimo parlare di musica e un “cavolo!” si fece largo nella mia mente: avevamo gusti musicali simili, troppo simili. Prevedibile, forse. Eppure, l’importanza che quell’elemento che era il rock aveva per noi era quasi performante rispetto alle nostre persone. Mi ricordò Jacopo, un ragazzo che conoscevo quando ero più giovane: entrambi avevano avuto questa prima adolescenza incentrata sul metal. Il mio amico aveva provato in tutti i modi a farmi ascoltare e apprezzare le perle del genere, io purtroppo non riuscivo ad andare oltre il progressive-rock. 

Eppure, per me, come per Jacopo e come per Massimiliano, da quello che mi stava permettendo di notare, il rock… era brividi, era graffiante e ammaliante, destabilizzante per la profondità con cui musica e parole si univano, per la potenza con cui gridava al mondo, per la sicurezza attraverso la quale si infiltrava negli animi e poi non ne usciva più. 

 

Proprio in quel momento, in virtù dello stupido stereotipo nel quale credevo fermamente, volli osare un po’ di più. Lo sentivo necessario, perché nella mia testa sarebbe stato profondamente dissonante ascoltare tutta quella musica politica, di denuncia e opposizione, per poi avere un orientamento politico incoerente rispetto ai temi trattati. 

«Senza pensarci: destra o sinistra? Fai la tua scelta», ti prego di’ sinistra. Se mi avesse dato una risposta diversa allora cosa avrei potuto fare? Lo avrei giudicato per quello andando contro parte dei miei principi? Probabilmente sì, lo avrei fatto, ma nella consapevolezza che, qualora per lui l’argomento fosse stato importante – o non lo fosse stato affatto – allora in ogni caso avrei dovuto allontanarlo da me… perché per me era fondamentale anche solo per il vivere quotidiano. 

«Pff, domanda che non sussiste. Sinistra, ovvio», sentii gioia e sollievo, soprattutto per averne sottolineato l’ovvietà. Per me, infatti, avere una posizione politica ferma e ben definita implicava che essa avesse un peso non solo in ogni scelta e azione, ma anche nel modo attraverso cui leggere e interpretare il mondo: sapere che entrambi lo guardavamo con occhio affine era assolutamente confortante.

«Oh, meno male», scrissi soltanto: quello mi aveva appena confidato mi aveva scaldato il cuore, molto più di quanto mi sarei aspettata o molto più di quanto lui potesse credere. 

 

 

 

 

            Continuammo a parlare e parlare ancora, il tempo scorreva ad una velocità di cui neanche mi rendevo conto, sebbene fossi perfettamente consapevole che quello fosse un countdown verso la sua dipartita. Dal canto mio, però, nemmeno quella scadenza era sufficiente a farmi agire diversamente dal mio solito. Il fatto era molto semplice: avevo paura. Paura di non andare bene, di non essere abbastanza, pur sentendomi tale, paura che Max si aspettasse di trovarsi di fronte a una persona diversa da me e che questo mi mandasse in confusione, perché io non desideravo nulla se non essere apprezzata per quello che sono. 

 

Avevo sempre avuto la tendenza a comportarmi in quel modo così incoerente e scostante: a tratti presa da un’esuberanza e un coraggio imprevedibile, ma in fin dei conti sempre incapace di concludere le cose che iniziavo perché il timore di fallirle era troppo grande. Banale, certo, ma profondamente reale. Cassandra mi aveva anche scritto chiedendomi se mi fossi decisa ad incontrarlo: al mio “non lo so” rispose con un arrogante “Seriamente ne hai ancora il dubbio? Cosa devo fare con te?”. Niente, quella era la risposta: era una lotta con me stessa che potevo solo combattere da sola. 

 

«Mandami un audio, sono curioso di sentire il tuo accento, hai detto di essere toscana ed io amo l’accento toscano», quella richiesta mi stupì e spiazzò non poco. Davvero mi sta chiedendo un audio? Ma cosa dovrei dirti? L’impressione che ne ebbi è che il mio tergiversare lo avesse sdubbiato rispetto al mio essere. Mi fece ridere, ma allo stesso tempo non sapevo davvero di cosa parlare. Gli audio si chiedono di fronte a una persona sconosciuta? A ripensarci adesso, in effetti, mi pare molto meno strano di quello che pensai in quel momento: è probabile che avesse solo timore che fossi un fake e che volesse accertarsene o anche che fosse sincero e che volesse davvero sentire il mio accento – ormai venetizzato, ma questo lui non poteva saperlo. 

Di fronte alla mia titubanza, poi, me ne mandò uno lui: «Farò lo stesso con te, così anche tu sentirai la mia voce. Ciao, sono Max, piacere di sentirti. Dimmi tutto quello che vuoi, tutto quello che ti passa per la testa, mi accontenterò», dio, quanto sesso mi fa l’accento romano, quanto mi piace. Il suo non era da meno: la sua voce era profonda e divertente con tutta una serie di “b” sottolineate all’inverosimile. Mi riportò la mente all’infanzia e agli amici romani del mare.

 

Non potevo più negarglielo: «Ciao Max, sono Annie. Sono un po’ a disagio e in imbarazzo nel fare questa cosa. Non so cosa dirti, perché non so chi sei. Quindi improvviserò e trarrò ispirazione da quello che mi sta intorno, ergo, la mia stanza», ghiaccio spezzato… tra tutte le cose di cui potevo parlare, avevo davvero scelto la mia stanza… Il disagio era evidentemente molto: «Ho una camera piena di oggetti: deve rappresentarmi in tutto e per tutto. Dunque, sulla parete intorno a mio letto sono affissi una serie infinita di poster, delle iniziative che ho organizzato, quelle a cui ho partecipato, di qualche rivista fica, tipo de “L’Espresso” o dell’“Internazionale”. Ho appeso a dei chiodi uno spago a cui ho attaccato un sacco di foto della mia infanzia, soprattutto con i miei fratelli, che sono le mie persone preferite nel mondo, e un sacco di cartoline dei luoghi che ho visitato. Subito dopo ci sono un po’ di biglietti dei concerti a cui sono stata, come i Pearl Jam o i Foo Fighters, per dirne un paio. Ecco, poi vediamo… Devo proprio sembrarti un po’ scema, perdonami, ma non ho proprio fantasia, oltreché essere davvero tanto a disagio. Ah sì, poi c’è la cosa che preferisco: un poster in A1 di Star Wars – Il ritorno dello Jedi, in versione originale, che era la copertina di un libro-fumetto da collezione. È enorme e si impone su tutto, d’altronde non che la Forza possa fare qualcosa di diverso. E poi niente, ho la tv e la Play Station ed un sacco di giochi super emozionanti, con cui non voglio annoiarti»

 

Inviato. Devo essergli sembrata davvero ebete e nel mio esserlo davvero, però, avevo anche cercato di soffermarmi su tutto ciò che, per come Max mi si era presentato, ritenevo potessimo avere in comune o, almeno, potesse rendermi interessante ai suoi occhi… Almeno tanto quanto lui lo era ai miei. 

«Sei un po’ nerd», sintetico e puntuale. Non so se lo avessi davvero affascinato, ma quello per me fu senz’ombra di dubbio un complimento, «Vuoi vedere su cosa ho lavorato negli ultimi mesi? Se lo vedi tu muori male, ti avverto», aggiunse poi, poco prima di inviarmi una foto del suo Stormtrooper versione lego e dei video. Stavo morendo male già da un po’.

 

Io nel frattempo gli avevo inviato la gigantografia della locandina di Episodio VI, uno dei più bei regali che le mie amiche mi avessero mai fatto. In un attimo di espansività, gli mandai un ulteriore audio: dovevo assolutamente prenderlo in giro, perché diceva tanto male e si lamentava del suo accento veneto, peccato che non fosse neanche lontanamente percepibile in quei trenta secondi di vocale che mi aveva inviato. 

Aprendo invece i video che mi aveva mandatomi, potei vederlo alle prese con la revisione della colonna sonora dell’allora nuovo episodio uscente di Star Wars: il mio cuore sussultò un poco a quella musica e alla consapevolezza di quanto mi stesse piacendo, lui. Chiusi gli occhi ascoltando la colonna sonora della mia infanzia e ignorai la preoccupazione che tanto mi affliggeva, lasciandomi l’opportunità di godere di quelle sensazioni irriproducibili. 

 

«Però, in tutto questo, preferisco Il Signore degli Anelli», uscii e rientrai nella chat un paio di volte, così: giusto per controllare che lo avesse scritto davvero. Ciò che provai di fronte a quelle parole è indescrivibile a parole. Ero tornata ad essere una quindicenne, totalmente in trance dinnanzi a una affermazione che di per sé non aveva peso, ma lo aveva per me, lo aveva per lui – e quindi lo aveva per entrambi noi, di questo sono sicura. Le farfalle… le farfalle mi erano mancate così tanto e, un po’ per caso, un po’ per complicità – quella che avevo con la mia amica Cassandra e quella che evidentemente avevo con lui –, erano tornate. Erano nel mio stomaco e le percepivo provocarmi degli spasmi incontrollabili… ed era bellissimo. 

«Ah, sì? Ora valuto il tuo livello di conoscenza in merito»

«Prego, signorina, vada»

Gli mandai la foto del tatuaggio sul mio polso e volevo credere che, qualora mi avesse dimostrato di conoscerne significato e provenienza, non fosse a causa di Wikipedia, ma piuttosto perché nella sua vita Il Signore degli Anelli era molto più che una trilogia di film. 

«Aspetta. Aspetta. Cazzo. Non vorrei sparare una stronzata. Dovrebbe essere un soprannome, no? Non è Granpasso?», conosceva la storia di Aragorn ed io, ormai (e incredibilmente), ero cotta. 

«Se l’hai cercato nel mondo dell’internet, però, non vale, eh!», scherzai, sebbene nella mia testa quella non fosse neanche un’eventualità possibile. 

 

«Figurati, sono troppo sicuro delle mie conoscenze per scadere così in basso. Cosa regala Galadriel a Gimli?»

«Pff, così scontato e semplice», era una domanda dalla risposta così facile, neanche c’era bisogno di aver letto il libro per rispondervi, «Una ciocca dei suoi fottutissimi capelli?»

«Allora, intanto ti calmi. Erano tre, mia cara. Ma lui gliene aveva chiesta una soltanto.»

«Dai, direi che possa tranquillamente rientrare tra le risposte corrette. Comunque, temo di perderlo questo gioco, anche se a lanciarlo sono stata io, quindi direi di chiuderlo qua, in parità.»

«Nîn o Chithaeglir lasto beth daer; Rimmo Nîn Bruinen dan in Ulaer!»

«Ribadisco: questa cosa finirà male. Ho un secondo tatuaggio con scritto “I Aear cân van na mar”», lo temevo davvero, ma il gioco non era soltanto quello inerente quella cosa che tanto amavamo, bensì quello riguardante i pezzi del mio cuore – e quindi l’ansia che mi attanagliava a causa del timore di vederlo in frantumi. 

«Cos’è: il mare ci chiama o qualcosa del genere giusto? Scusa, non lo rileggo da molto»

«Si, è letteralmente “il mare ci richiama sempre a casa”. È ciò che Elrond dice ad Arwen quando devono partire. E comunque sì, non è quel tipo di libro che si presta alla lettura “come passatempo”», in fondo niente mi rappresentava quanto quella frase. Il mare era casa, sia in senso letterale che figurato: un tassello fondamentale della mia esistenza che sempre e per sempre mi renderà ciò che sono. Avevo condiviso con lui una delle parti più importanti di me, adesso non mi restava che sperare che non la gettasse via. 

 

 

«TROVA DEL TEMPO PER ME»

 

 

            Sicuramente per lui era una richiesta semplice, ma a me disarmò. Avere la leggerezza, la sicurezza e la tranquillità di dirgli di sì era ciò che più auspicavo, eppure, al contempo, non volevo rovinare quello che la mia persona, in affinità con la sua, aveva creato. Era una magia ammaliante e preziosa e io non volevo che si fermasse o spezzasse… L’avrei fermata? 

Tergiversai di nuovo e gli raccontai di quando, da bambina, giocavo su una collinetta che avevamo rinominato Monte Fato, uno dei miei luoghi preferiti al mondo, tesoro della mia infanzia. Gli spiegai di quando mio padre mi accompagnava a scuola a piedi alle elementari ed era l’appuntamento più atteso della giornata, perché mi avrebbe raccontato le avventure della Compagnia permettendomi di leggere quel libro per la prima volta, pur senza leggerlo davvero. 

 

Continuammo a discutere de Il Signore degli Anelli ancora un poco, finché non fui così a mio agio e in preda al flusso di ricordi misto a eccitazione che gli aprii il mio cuore: «Io piango ogni volta. Senza vergogna o ritegno, per altro. Il discorso struggente di Sam in ricordo della contea, le aquile… come può una persona restare indifferente a cotanta meraviglia? Te lo dico io. È molto semplice: non può; ed è giusto così. Ma poi sono così invaghita e presa che ho visto infinite volte ciascuno dei dischi dedicati ai contenuti speciali, tanto per non averne mai abbastanza e interfacciarmi appieno con tutto ciò che riguarda quel mondo. Penserai che forse sono un po’ esagerata, ops», sono così esagerata da emozionarmi anche soltanto di fronte al rammento dell’emozione che so di provare guardandolo. 

 

«Aaah… Io… Io, pff… Attaccato al letto della camera a Roma ho l’anello, l’unico anello», quel sospiro. Quel sospiro ebbe la capacità di togliermi via ogni tipo di razionalità che mi trattenesse al mio essere sempre appigliata saldamente al terreno, elevandomi laddove solo le stelle sono abituate a stare. La sua voce si era fatta balbettante e impacciata, i suoi pensieri farfuglianti e sconnessi, in preda a delle sensazioni che, evidentemente, nemmeno lui riusciva a controllare. Dal canto mio, non potevo e non volevo rimanere indifferente: sentivo distintamente il bisogno di lasciarmi coinvolgere da quella sintonia che tanto ci stava legando.

«Tipo come una presenza, un simbolo che vegli su di me ogni giorno. Ho tutti i cofanetti e quando sono usciti gli ultimi, con una versione del film ancor più lunga, ho preso pure quelli. E li ho guardati, un numero non calcolabile di volte. Ho letto tutto ciò che potevo leggere e sto cercando di terminare I Racconti Perduti. Difficile, eh, però: tanto materiale», si fermò: sono convinta ebbe il bisogno di aprire i polmoni e lasciarvi entrare quanta più aria possibile, cercando di calmare la frenesia del momento. O almeno, quello fu il bisogno che avvertii io. 

«Ti capisco. Ti capisco perfettamente, in un modo che non avrei neanche mai ritenuto possibile. E basta: mi hai proprio conquistato. Non posso aggiungere altro. Non so, ti vengo a fare la serenata sotto casa, mi metto a suonare il flauto, il mandolino, ti procuro dell’erba pipa… Dimmi cosa posso fare per riuscire a farmi concedere un poco del tuo tempo, te ne prego»

 

Quella richiesta mi lusingò, divertì e terrificò: sapevo che eravamo sulla stessa lunghezza d’onda. Quello che percepivo era così meraviglioso e raro: volevo coglierlo, dargli la possibilità di evolversi e migliorarsi ed essere bellissimo e irriproducibile, eppure la voce nella mia testa ancora risuonava in sottofondo ai miei pensieri: non rovinare tutto, An. Ma ragionandoci: cosa, di preciso, mi avrebbe fatto rovinare tutto? L’incontrarsi, come nella mia insicurezza temevo, o l’evitare di farlo? 

Mi aprii un poco, non potevo non farlo: «Quel sospiro iniziale… è tipo…», mi mancavano le parole e quell’audio senza conclusione fu inviato così, conscia che quella fosse la migliore rappresentazione di me stessa e di come mi stava facendo sentire.

«Ti è piaciuto eh? Era fatto più o meno consapevolmente», arrongantello, lo apprezzai, «Perché… boh, cioè… non potevo, non… Aaaah, scusa. Dai, Annie, dai…», risi di nuovo perché sapevo che quella sua reazione era in parte dovuta a me, in parte all’intesa a cui assieme, involontariamente, avevamo concesso vita. 

 

«Eh, io, come ti dicevo, non sono in grado di darti garanzie, purtroppo», avevo lasciato scorrere troppo, troppo tempo e quello che ci restava era ormai ben poco: maledetta me, il rimorso per l’intraprendenza che mai mi era stata familiare si stava facendo largo. Stupida, stupida, stupida

«Sai, cara, ho il presentimento che tu adesso abbia cambiato idea. Sai perché? Perché ti ho fatto vedere il mio lato un po’ nerd. E questa cosa ti è piaciuta. Altroché se ti è piaciuta, capito? Ti è piaciuta», arroganza, ancora e ancora, un’arroganza piacevole e simpatica che aveva avuto l’intuizione giusta. Non mi era solo piaciuta: mi aveva resa vulnerabile e fatto perdere il controllo, completamente affascinata dal suo modo di fare, dallo sguardo con cui osservava il mondo, dai suoi interessi così affini ai miei. Mi sentivo in una morsa, la più dolce e confortevole e immaginabile e non desideravo nulla se non incontrarlo per coronare quel legame che in così poco avevamo stabilito. 

 

«Boh, sì. Alla fine mi piacciono le persone nerd, le persone che ascoltano buona musica – o quella che ritengo tale – e sì: mi è piaciuto», non potevo negarlo, ho ritenuto opportuno mostrarmi, per la prima volta, sul suo stesso piano, presa da lui e frustrata dalle circostanze che giocavano in nostro sfavore, «Per il modo di parlare, per le tue idee politiche – che vogliono pur sempre dire molto su una persona –, per come hai messo in luce le tue emozioni… Buono per te, direi, no?», mi sentivo nuda senza esserlo davvero e al contempo lo ero come non lo ero stata mai. Avevo lasciato che le parole uscissero dalla mia bocca senza controllo e senza appigli, se le meritava, si meritava che anche io gli dimostrassi qualcosa perché se non lo avessi fatto, in quel caso e solo in quel caso, avrei davvero rovinato tutto.

 

 

 

            La giornata successiva fu alquanto colma di impegni, almeno per quanto riguardava me: avevo un colloquio con un professore, perché nel mio oberarmi di lavoro mi ero dimenticata di inviare uno dei due file che componevano parte del mio esame entro la scadenza fissata. Mi ero presentata là, supplicando comprensione mentre nella mia mente tiravo giù dal cielo tutti i santi che conoscevo. Anche Max aveva i suoi impegni, ma quando mi scrisse, nel primo pomeriggio, il mio cuore perse un battito. Mi sentivo davvero una quindicenne che teneva il telefono sotto controllo, che entrava sulla chat soltanto per vedere l’ultimo accesso o se avesse visualizzato la mia risposta. Non ero una quindicenne da dieci lunghi anni, ciò nonostante seppi apprezzare la spontaneità dei nostri gesti, la facilità con cui sentivo di poter affermare di provare qualcosa per lui. Un’infatuazione, certo, ma pur sempre qualcosa. 

 

Alle dieci di sera mi chiese a che punto fosse della mia importante riunione serale. Ebbene, il gruppo di amici con cui mi ero trovata per delineare più dettagliatamente le linee per il nostro festival aveva un unico e simpaticissimo difetto: nessuno di noi era provvisto del dono della sintesi. Le nostre riunioni duravano ore e io, facendo parte del direttivo, non potevo assolutamente andarmene prima del termine. 

«Eh, sono ancora qua: abbiamo chiaramente iniziato in ritardo ed io non ho neanche cenato dopo il mio allenamento. Non so quanto durerà e sto tipo malissimo: ho un martello al posto della testa, vorrei strapparmela di dosso», un trapano sarebbe stato più corretto. Non avevo mai sofferto di mal di testa, non ero abituata – ammesso che una persona possa mai abituarvisi –, ma quella sera, per la prima volta nella mia vita, capii quanto profondamente possa essere debilitante. Ero arrabbiata con me stessa, perché finalmente mi ero decisa, finalmente avevo messo un masso sopra l’insicurezza che mi tormentava e volevo, volevo, volevo con tutto il cuore incontrarlo, ma stavo tanto male. 

 

«Dai, ti porto io del moment, giuro, tutto pur di non farmi balzare di nuovo, domani parto…»

«Eheh, non credo di avere la forza nemmeno per fare due chiacchiere sui gradini di casa»

«Va bene», va bene… lo scrisse così e mi sentii infinitamente in colpa nei suoi confronti e affranta nei miei. Quante volte avrei potuto dargli buca prima che mi mandasse a cagare? Avevo la mia risposta, e di certo non potevo biasimarlo, era durato fin troppo dietro al mio essere altalenante.

«A parte tutto, comunque, le circostanze in cui ci siamo incontrati non sono delle migliori. Tu che torni a Padova negli stessi periodi in cui di solito io torno a casa; adesso che siamo invece insieme, ma io sono oberata dagli impegni… Non siamo proprio le persone più fortunate del mondo», di nuovo lasciai spazio alla razionalità: in fondo era l’unico modo che conoscevo per non logorarmi troppo per quella costrizione a cui dovevamo sottostare. Il punto, però, era proprio nel fatto che non necessariamente dovesse andare in quel modo. Potevo pur sempre accettare la sua proposta e incontrarmi con una delle più interessanti persone che avessi mai conosciuto.

 

«Potrei anche dirti: “vieni qua sotto casa”, giusto per fare un po’ di chiacchiere, ma nella consapevolezza che sarebbero davvero soltanto quelle e che non ti chiederò di salire. In più, sappi che se tocco il letto muoio: sono arrivata a stare così male che non riesco nemmeno più a fumare, praticamente», gli scrissi quando finalmente avemmo finito, mentre mi stavo dirigendo verso casa. Avevo fatto la mia mossa, avevo messo le mani avanti – dato che fare sesso in quel momento sarebbe stata veramente l’ultima delle cose che avrei fisiologicamente potuto compiere –, ma mi ero mostrata. La palla era tornata al centro, la nostra partita era ancora aperta e non potevo lasciare che si chiudesse ad opera mia, non senza aver tentato qualche schema in più.

«Non fumerò, prometto che non fumo»

«Non fumerai? Non sarebbe un problema, non preoccuparti… Il moment quanto mi uccide lo stomaco se lo prendo senza aver mangiato prima?»

«Non troppo dai, il giusto»

«Ottimo, guarda te a che punto sono arrivata. Mi salvi dal mal di testa, quando potrei semplicemente dormire, pff… cosa non si fa»

«Dai, suvvia, smetti di lamentarti: fra poco potrai godere di una compagnia a dir poco fantastica»

«Eh, se non mi addormento prima»

«Non ci provare. Salgo in bici e faccio i chilometri per te»

«Uhm… i chilometri, non prendermi in giro»

«Sono ben tre»

«Pensa, la stessa distanza che mi separa ogni mattina dalla facoltà»

«Ah, peccato, pensavo fosse la distanza che avevi messo tra te e il tuo letto. A cui, ribadisco, non ti devi avvicinare nemmeno per sbaglio»

«Tranquillo, mi sono messa nella posizione più scomoda del mondo, sdraiata sul pavimento. Non sarebbe possibile addormentarmi»

«Beh, io nel dubbio sto volando lì. Giuro. Tra l’altro, se tu potessi offrirmi una felpa al mio arrivo sarebbe stratosferico, ché ormai sono partito e mi son reso conto che si è fatto freschino e ho solo una t-shirt»

Acconsentii alla sua richiesta, poi posai il telefono di fianco a me, lasciando libero di pedalare nella mia direzione. 

 

Me ne stetti sdraiata con la schiena poggiata sul mio telo orientale arancione che avevo deciso di usare come tappeto – la mia stanza era molto ampia e senza quello sul pavimento sembrava terribilmente vuota – e le gambe tirate su lungo la parete. Me ne stetti in quel modo per almeno un quarto d’ora, contemplando il soffitto, cercando di non lasciarmi pervadere da un’eccessiva agitazione, tentando invano di razionalizzare e calmare la felicità che mi stava invadendo con totale nonchalance, al fine di non rischiare di rimanere delusa, qualora quell’incontro non fosse andato come speravo. 

 

Osservai la mia stanza e, negli stessi dettagli che avevo nominato a Max quando mi chiese di sentire la mia voce, trovai sicurezza e tranquillità. Presi, per solo un singolo frangente, in considerazione l’idea di alzarmi e ripassarmi il trucco e mettermi qualcosa di più carino addosso, ma scelsi di aprire la telecamera interna del telefono e guardare la mia faccia. Ritenni potesse rientrare nell’accettabile anche fissandola attraverso l’obiettivo scarsissimo del mio telefono ormai vecchio e decisi che darmi una sistemata non fosse di certo una delle mie priorità. Piacergli o meno non sarebbe sicuramente dipeso dal quantitativo di trucco con cui decoravo il mio viso; in più gli avevo detto che volevo dormire, infigarmi non avrebbe avuto alcun senso. 

 

Finalmente mi scrisse di scendere. Mi erano rimaste solo due felpe pulite: quella che avevo tenuto con me nel corso dell’intera giornata e la mia preferita. Gli diedi la seconda ed io mi tenni la prima, non sarebbe stato carino dargli quella usata nelle precedenti dodici ore, dai. Mi chiusi la porta di casa alle spalle e scesi le scale. Prima di aprire il portone del palazzo per raggiungerlo in cortile feci un profondo sospiro: e dai, Annie, sii un po’ più sciolta

 

 

 

            Cercai di non squadrarlo troppo mentre mi accingevo ad aprirgli il cancelletto e mostrargli dove posare la sua bici, alla fine però cedetti e lo scrutai completamente, da capo a piedi. I suoi capelli erano molto più ricciolosi e neri di quanto si vedesse in quella foto… quanto mi piacciono i riccioli sui ragazzi, e una barba folta, ma non eccessivamente lunga. Potei scorgere sul suo naso degli occhiali differenti da quelli che portava nell’immagine whatsapp, li aveva comprati alla fine, gli stavano bene. Non era troppo più alto di me, indossava una maglietta a mezze maniche nera di un festival, un paio di pantaloncini corti e le Vans ai piedi. Mi piaceva, mi piaceva davvero. Probabilmente mi sarebbe piaciuto indipendentemente dal suo aspetto, probabilmente mi era piaciuto così tanto per la persona che presumevo fosse che tutto il resto non avrebbe avuto alcun tipo di rilevanza. 

 

«Tieni. È la mia preferita, un grande onere e onore, sappilo», asserii porgendogli la mia felpa bordeaux e aprendo, poi, il mio porta-tabacco. Lui, di rimando, la prese e la indossò e mi rivolse uno sguardo doppiamente stupito: credo non si aspettasse né che gli dessi una qualsiasi cosa a cui tenevo, visto quanto poco ci conoscevamo, né che fumassi. 

«Grazie, non hai davvero idea di quanto tu mi stia salvando. Sono tipo… un polaretto! Maledetto settembre, quando di giorno ci sono ancora venticinque gradi e la sera cala fino a quindici! Come fa una persona a saper vivere? Mah», risi a quell’affermazione: la condividevo in pieno, poi si abbassò e si sedette di fianco a me sul gradino, «Non hai idea di come mi sento adesso. Sono arrivato qua velocissimo. È davvero stranissimo. Non riesco a descriverlo a parole. Senti», prese la mia mano e la mise sul petto, così da riuscire a farmi sentire la sua tachicardia. 

Lo fissai per un brevissimo momento negli occhi, costringendomi a non sgranarli di fronte a quel gesto che non mi aspettavo, o alla sua dichiarazione, restando sdubbiata rispetto al modo in cui avrei dovuto interpretare ciò che mi aveva detto o la velocità del suo battito. 

Mi sentivo strana anche io, ed il mio cuore non batteva più lentamente del suo, eppure, io, sulla bici non ci ero salita.

 

«Che pensi?», cavolo, si vedeva allora la mia agitazione. 

«Non lo so. In che senso che penso? Che penso di cosa?»

«Che pensi in questo preciso istante, di me, della situazione, di tutto», mi toccai con la mano il petto muovendo velocemente le pupille su tutto ciò che si apriva dinnanzi a me: non ero pronta a sostenere una domanda così diretta. 

Deviai il discorso sorridendo e voltandomi verso di lui: «Alla fine hai fatto cambiare subito la montatura, giusto? Mi piacciono questi nuovi occhiali»

«Oh, primo scoglio superato. Sei la prima persona, a parte mia madre, che mi vede in questa veste. E l’opinione della mamma non conta davvero in ceri casi, ti pare?», risi confortata per il fatto che avesse colto il mio disagio e non avesse voluto insistere sulla precedente questione, sebbene questo mi diede la tranquillità di potervici tornare senza essere forzata a farlo.

«Li trovo un’ottima scelta, ti stanno bene. E comunque non sei l’unico a stare in quella situazione, sai?», lo informai facendo un cenno col suo capo in direzione del suo petto. Sentivo le mie guance scaldarsi; lui osservò le mie mani: avevo di nuovo preso a fare quella cosa ossessiva di togliermi e rimettermi l’anello. Cambiò argomento: aveva colto tutto e io, di fronte a quella comprensione, desideravo soltanto abbracciarlo. 

 

 

 

            Guardai il mio orologio: erano circa le due di notte. Il tempo stava volando: bramavo di avere il dono di stopparlo e rendere quella notte eterna. L’indomani sarebbe tornato a Roma, non ci restava niente… era stata colpa del mio tergiversare. Era tardi per pensarci. 

«Sai, non prendertela, ma è proprio divertente l’espressione che si forma sulla tua faccia quando ridi così», affermò, poi, strizzandomi la guancia con le dita. 

Automaticamente aprii la bocca fintamente contrariata: «Sai, da piccola ero costantemente circondata da persone che quando mi conoscevano si ritrovavano davanti una bambina col viso paffuto e queste guance immense: una calamita per tutte quelle mani. Ma vedi, il fatto è che… La mia pelle non è elastica, tipo… Non lo è affatto», gli spiegai mostrandogli come pure sulla mano non si riuscisse a prendere, «Eppure, le persone non parevano capirlo e continuavano a stringerle. Le odio tutte. Però tu lo hai fatto con delicatezza, apprezzabile», gli sorrisi infine, lui mosse il suo braccio abbassando sguardo e volto verso il basso come a confermare quanto fosse un gentiluomo, scossi la testa ridendo ancora.

 

Subito dopo Max si alzò di scatto e mi si parò di fronte: d’istinto mi ritrassi all’indietro tra le mie spalle, rilassandomi nuovamente nel momento in cui lui prese le mie mani: «Ti prego, ti prego: hai voglia di farmi un massaggio? Tipo qua tra spalle e collo, che ci ho preso vento venendo in qua… me lo devi»

Lo scrutai con fare sospetto e scelsi di acconsentire se e solo se lui avesse contraccambiato. Accettò, così gli permisi di sedersi tra le mie gambe: «Dimmi se qualcosa non ti torna, se premo troppo o troppo poco e dove ti fa male più precisamente», gli dissi prendendo poi a massaggiargli il trapezio.

«Va benissimo, è la cosa più rilassante del mondo»

 

Rimanemmo in quella posizione per una decina di minuti e sentii man a mano le sue spalle rilassarsi sotto il tocco delle mie mani: anni passati dal fisioterapista dovevano aver portato a qualcosa! 

Presi a percorrergli i riccioli con le dita, con movimenti circolari, perfettamente conscia del fatto che quel gesto che stavo compiendo fosse al contempo rilassante ed eccitante. Si appoggiò con la testa al mio petto, i suoi occhi erano socchiusi. Sorrisi osservandolo pacato tra le mie braccia mentre appoggiava i suoi gomiti sulle mie ginocchia, ma quando lasciò cadere le sue mani sulle mie gambe imitando i cerchi che io stavo facendo con le mie dita, sentii un brivido e, pur senza volerlo davvero, sentii l’impulso di spostarmi indietro per sfuggire al suo tocco. Mi fermai. 

 

«Cosa ti spaventa?», mi domandò continuando a sfiorarmi il polpaccio

 

Mi spostai sul gradino superiore e allontanai da lui, che si girò a guardarmi: «Io non… Non so. Quello che sento, probabilmente. Mi spaventa il fatto che non mi senta pronta a questo tipo di sensazioni… eppure sono qui»

«Sappi che non ho la benché minima intenzione di fare una qualsiasi cosa che possa metterti a disagio. Solo… è un bel momento questo, no? Non averne timore», mi fissò ancora, con la cosa dell’occhio, «Dai, scambiamoci. Ti restituisco il favore», di fronte alla maestria con la quale aveva gestito il mio comportamento indecifrabile, volli soltanto lanciarmi verso di lui, aggrapparmi alle sue labbra e alla sua persona, dare vita e luce alle sensazioni che sentivo forti e distinte, ma, invece, semplicemente non mi mossi. 

 

«Per farti fare un massaggio minimamente decente, mia cara, dovrai stare molto più dritta e rilassata rispetto a come sei adesso, sappilo», a quell’affermazione mise una mano sulla mia schiena, in mezzo alle scapole e con l’altra mi raddrizzò: con la sua guida spostai le spalle verso di lui stendendo la schiena. 

«Ora devi lasciarti stare tra le mie mani. Se rimani sostenuta rischio soltanto di provocarti ulteriore dolore, pallavolista rotta», allora anche lui sapeva di cosa stesse parlando. Ubbidii, come mi ero ritrovata a fare innumerevoli volte in situazioni analoghe.

 

«Ok, amico. Sia mai di peggiorare la situazione del mi corpo, che è già abbastanza a puttane»

Allora e solo allora, scelsi di lasciarmi completamente andare tra le sue braccia; mi prese un elastico dal polso e mi fece una mollissima crocchietta con i capelli. A seconda dei punti in cui il suo tocco si spingeva mi contraevo e irrigidivo, per poi forzarmi nuovamente a evitare di farlo.

«Non so che tipo di impressioni avresti di me se solo tu potessi vedere la mia faccia in questo momento», ironizzai un po’, consapevole delle espressioni che probabilmente si stavano creando sul mio volto.

«Perché?»

«Oh, beh… perché credo sia oscillando tra l’”oh mio dio, ora mi addormento da quanto sto bene” e tutta una serie di smorfie facciali legate alla sofferenza»

«Oh, no! Ma tu fammelo presente se premo troppo e ti faccio male!», rallentò il tocco, non esattamente l’effetto che desideravo.

«No, figurati, cioè: è un tipo di dolore che mi fa stare bene. Continua tipo all’infinito, tipo in eterno, tipo sempre, te ne prego! Sono drogata di massaggi!», rise di fronte alla mia incapacità di nascondere quanto quella situazione rappresentasse una delle cose che più mi rilassavano nella vita. 

 

Man a mano che procedeva lo sentivo avvicinarsi sempre più a me e, dal canto mio, mi imposi sul mio istinto lasciandolo fare. Eravamo a solo pochi centimetri di distanza, avevo l’impressione che in quel singolo momento fossimo una persona sola. Eravamo terribilmente e spaventosamente vicini, stavo sfiorando la pace dei sensi con mano, non avrei potuto allontanarmi più, non dopo aver assaporato quella sensazione in prima persona. 

Mi sfilò l’elastico dai capelli e presto terminò il suo massaggio, iniziando però a trillare i miei capelli proprio come io avevo fatto con lui. Dei brividi mi percorsero la schiena facendomi scrollare le spalle. Incrociai le braccia portando le mani intorno al collo, strusciando lievemente su quello e la clavicola, quasi a cercare di liberarmi della pelle d’oca che mi si era creata addosso. 

Ero assuefatta al punto da non poter nulla se non lasciare la mia testa cadere all’indietro fino ad appoggiarla al suo petto, incredibilmente vicina al suo mento. 

 

Il silenzio che parlava tra noi valeva più di mille parole poiché ogni cosa che fosse potuta uscire dalle nostre labbra sarebbe stata inadatta, di troppo e profondamente incapace di descrivere ciò che in quel momento stavamo condividendo. Rimanemmo così, nel silenzio dei nostri flebili sospiri a cullarci di un sogno che, sono sicura, avevamo in comune, mentre il tempo scorreva impercettibile e infermabile, dritto verso il termine del nostro incontro. 

«Domani devo tornare a Roma», quella frase gli uscì soffocata, quasi come se non volesse riportare nessuno dei due alla realtà. Ma la realtà era lì e, per quanto volessimo, non potevamo ignorarla; poi continuò: «Non voglio invadere i tuoi spazi, li rispetterei, qualora non volessi rispondermi, ma… Perché non hai accettato subito di vedermi? Di cosa avevi paura?»

 

Ancora un colpo al mio cuore, un colpo lancinante, dovuto alla rabbia che provavo di fronte alla mia insicurezza, sempre così profondamente invadente: «Di cosa, chiedi? Di tutto, ovviamente. Avevo solo il timore di non piacerti, ho sempre il timore di non piacere», e il timore che fosse lui a non piacere a me. Che ci trovassimo inadatti l’un l’altra, che la magia che ci aveva legati svanisse nel nulla, senza avvertirci o prepararci alla dolorosa constatazione, finendo per andare dritta nell’angolo remoto delle nostre memorie, laddove si trovano tutte quelle persone incontrate nel corso di un’intera vita, persone che non sono state abbastanza utili o memorabili, che non ci servono, che ci siamo dimenticati di aver conosciuto. È forse poco, questo?

«Ma tu hai una gigantografia di Star Wars, ascolti la musica che piace anche a me, sei di sinistra – fermamente convinta, tra l’altro – e ti fai guidare dal maestro Tolkien nella vita… Potevi essere anche un porcellino d’india incapace di proferire parola: ormai mi avevi già catturato»

 

Ormai mi avevi già catturato. Sentii la pelle fremere, il battito farsi lento e abituarsi pian piano a quella consapevolezza che riguardava lui, ma riguardava anche me. 

«Beh, e “questo” a te non ha spaventato da morire?», gli chiesi guardano nel vuoto fronte ai miei occhi, stupendomi io stessa per l’onesta che senza alcun tipo di controllo era uscita dalla mia bocca.

«Assolutamente, ma solo perché so della mia imminente partenza», quella risposta non fu rassicurante o confortante: confermava i miei timori e le mie ansie; confermava la consapevolezza che mi stavo lasciando prendere da qualcosa in un modo che andava ben oltre le mie capacità di condizionamento e dominio. 

 

Non mi restava nulla, allora, se non cedervi totalmente e abbracciare quell’ignoto che tanto mi sgomentava: allungai il braccio all’indietro, riprendendo a toccargli i capelli con la mano. Lui me la prese e la portò sulla guancia, me la baciò con una delicatezza inaudita e automaticamente io la riportai nella sicurezza del mio corpo, quasi a proteggerla. Mi strinse a sé e lo sentii inalare il profumo che emanavano i miei capelli, un misto tra mandorla e cocco. Mi chiese maggiori informazioni a riguardo: alla mia domanda indagatoria rispose che voleva avere l’opportunità di ricordarlo. Desiderai avere il coraggio di commuovermi dinnanzi a quella (non) banale considerazione.

 

 

 

            Erano quasi le cinque del mattino, ormai. Ancora non riuscivo a capacitarmi dell’infinità di minuti in cui eravamo rimasti così vicini e distanti al contempo. Semplicemente non riuscivo più a sciogliermi da quell’abbraccio. 

Max continuava a rimandare, in un modo pure piuttosto esplicito, la nostra separazione, continuando a sproloquiare di quel “più e meno” di cui non fregava niente a nessuno dei due. Io volli non essere ancora la persona coi piedi per terra che invece sono e, infatti, non seppi frenarmi: «Non ti tratterrò più a lungo di così. Vedo che vuoi restare, ma sai di non poterlo fare. Quindi smetti di sparare una cagata dietro l’altra per continuare a stare qua a ridere e scherzare», lui mi lanciò uno sguardo indispettito: me lo meritavo tutto, «Dai, non sto dicendo che non vorrei che tu restassi, ma solo che mi hai informata del fatto di dover andare a lavoro appena giunto a Roma e del disagio di affrontare i viaggi con Trenitalia con la morte addosso!». 

 

Non trovai comprensione nei suoi occhi. Neanche io desideravo porre fine a quell’incontro così tanto agognato, ma il mondo ci era ostile e noi potevamo ben poco. 

«Magari il tempo di un’ultima cicca? D’altronde la cicca della buonanotte è d’obbligo, ti pare?!», gli proposi.

Lui mi sorrise ed annuì: «Ovvio, la cicca della buonanotte non si nega a nessuno, sarebbe proprio maleducato da parte mia e io non vorrei mai esser considerato tale»

 

Inalando il fumo, l’unico argomento di cui riuscimmo a discutere era il “domani” che ci attendeva, un domani imminente e imprevedibile in cui a entrambi sarebbe piaciuto inserire un “noi”, ma senza che nessuno dei due avesse davvero il potere di farlo. 

Dieci lunghi minuti fatti di sguardi e parole dal tocco dolce e tenero che ci accompagnarono fino al momento della separazione. L’orologio scoccò e il tempo che avevamo a disposizione giunse irrimediabilmente al termine. Lo avevamo impiegato nel migliore dei modi, non c’era qualcosa che avremmo potuto svolgere meglio, chissà, se quello che avevamo creato sarebbe stato sufficiente. 

«Max… è stato davvero un piacere»

«Giuro che mi farò perdonare per la mia partenza di domani»

«E io per non aver acconsentito a vederti una settimana fa, quando me lo avevi domandato per la prima volta, ma ormai è inutile dispiacersene», lo abbracciai e strinsi a me, perché mi sentivo di farlo, perché volevo annusare il suo odore e percepire il calore della sua pelle, stamparmi quella sensazione nella mente ed evitare di disperderla nei meandri dei ricordi perduti. 

 

Si staccò da me e chiusi gli occhi vedendo le sue labbra avvicinarsi alla mia fronte, avvicinarsi e segnarmi per sempre. Gli accarezzai la guancia coperta da quella barba che tanto mi piaceva e lo guardai dritta negli occhi, ormai non più intimorita da ciò che lui avrebbe potuto scorgere nei miei. Sentii tangibile e netta la tensione sessuale e fisica creata dalla nostra affinità emotiva, ma nessuno dei due ebbe l’intraprendenza di cogliere quell’attimo e coronarlo nel bacio che ci meritavamo. Lo abbiamo lasciato dissolversi e disperdersi intorno a noi, un sorriso amaro e malinconico mi si formò sul volto a quella presa di coscienza nei cui confronti non potevo nulla. 

 

Mi strinse ancora una volta la guancia tra le dita con una delicatezza surreale e rise un po’ guardandomi fare una piccola smorfia, raccolse il suo tabacco, recuperò la sua bici e uscì dal cancelletto. 

«Ciao», cercai di dirgli, ma la mia bocca non emise alcun suono. Mi sentivo svuotata, dopo aver provato tutte quelle scombussolanti e inaspettate emozioni. 

Mi fece un cenno con la mano, si voltò e pian piano sparì dalla mia vista. Spesso mi è capitato di domandarmi cosa sarebbe potuto accadere se in quel momento lo avessi chiamato e mi fossi accertata di un prossimo incontro, ma non lo feci e quell’incontro non esistette mai.

 

 

 

            Sono passati due anni da quella sera. Alle volte apro l’armadio alla ricerca della mia felpa preferita e solo dopo mi torna alla mente che quella felpa ormai non è altro che un dolce e lontano ricordo. Avevo dato per scontato che qualcosa accadesse, che pur senza fare niente le forze del mondo si sarebbero mosse in nostro favore, pur avendo, io, la consapevolezza che non è così che funziona, che ci vuole impegno e dedizione: un qualcosa che a me era sempre mancato molto. 

 

In un pomeriggio ed una notte eravamo riusciti ad innalzarci al di sopra delle stelle e dell’universo, in un gioco di luci e chimica e elettricità intoccabile e irriproducibile che unicamente in quelle ore aveva trovato concretezza e significato.

Ci siamo persi, noi due… Persi in noi stessi, negli altri, nell’altro. Potevamo permetterci di avere ogni cosa ed abbiamo scelto il niente, perché in fondo solo quello ci avrebbe permesso di avere tutto. 

 

Abbiamo scorto le potenzialità che la vita offre nel caso in cui si abbia il coraggio di aprire un occhio e poi l’altro e compiere un passo, un gesto, pronunciare una parola. A volte mi domando quanto più avremmo potuto impararci, nella certezza infondata che anche Max si sia trovato a pensare lo stesso, ma tutto ciò che avevamo appreso era sufficiente a farmi ritenere che quella perfezione che eravamo stati capaci di raggiungere non avremmo potuto ritrovarla in nient’altro. Era lì, in quegli attimi circoscritti, nei tocchi, nell’imbarazzo, nel coraggio di sfiorarci e avvinare i nostri cuori anche solo per quel poco tempo. 

Max era stato la mia speranza per la vita: colui e ciò che mi aveva aperto alla consapevolezza della bellezza e delle possibilità. Non siamo stati niente, ma siamo stati tutto e in virtù quel “per sempre” inscalfibile avevo finalmente iniziato a muovermi e vivere con una fiducia e una speranza rinnovata.

 

E allora continuiamo ad esser lì, consapevoli di poter contare sempre sul ricordo di quelle sensazioni creatrici di un amore e una passione nei confronti delle sfaccettature della vita che mi muove tutt’oggi. Continuiamo ad esser lì, a fluttuare nel marasma delle eventualità che non abbiamo percorso, delle scelte che non abbiamo compiuto, a metà tra il rimpianto delle occasioni perdute e la speranza di quelle che così facendo abbiamo potuto accogliere. 

E là, in quella trepidezza, ci siamo dispiegati e placati e abbiamo trovato la nostra serenità.

 

 

 





LOOK AT ME!

Ebbene, per qualche congiunzione astrale, mi sono nuovamente trovata a parlare di Max e Annie.

Stavolta li trovate al di fuori della raccolta e col punto di vista di lei, non troppo distante da quello di lui.

Spoiler: il loro incontro è un mix tra qualche incontro avvenuto a me in prima persona, focalizzandomi poi su uno in particolare. Tutti i pensieri di Annie erano i miei – ed anche alcuni di quelli di Max (quelli del suo pov, nella raccolta).

Razionalmente, le mie deduzioni e la sicurezza con cui affermo che sono certa che alcuni dei miei pensieri siano stati condivisi anche dall’altra persona non hanno ragione di esistere.

Eppure, la forza di quegli attimi era talmente tanto potente che so che non potrebbe essere altrimenti.

 

Mi ha fatto piacere avere l’opportunità di mettere da parte Abigail – attraverso i cui occhi avevano preso forma i pensieri di Max – per lasciare spazio unicamente ai miei e ai dubbi che da sempre mi accompagnano e che tanto spesso mi regalano opportunità memorabili.

Di questo ringrazio Ile_W e milla4, per i cui contest mi sono ritrovata a scrivere questa cosa.

Tra i due testi, per quanto affini, continuo a preferire il primo, però ci si accontenta, dai.

 

Sempre lieta a chiunque abbia voglia di passare di qua,

Bongi

 

   
 
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