Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: NanaK    31/05/2020    1 recensioni
Non c'era nulla di molto valoroso in lei, ma la storia non viene sempre raccontata dagli eroi.
Genere: Avventura, Erotico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Armin Arlart, Eren Jaeger, Levi Ackerman, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo settimo
 
 
Quando si svegliò la prima cosa che sentì fu la sete intollerabile che le seccava la gola. Mosse appena la testa e vide una caraffa e un bicchiere sul comodino accanto a lei: d’istinto si sollevò per raggiungerli, ma una fitta intensa la stordì e non riuscì a trattenere un gemito flebile. Pian piano, divenne più consapevole della fasciatura rigida intorno al costato e del dolore costante al fianco. Insieme a quelle sensazioni arrivarono i ricordi degli ultimi avvenimenti.
«Ce ne hai messo di tempo».
Una voce stranamente familiare la distrasse e si accorse di Levi seduto su una poltroncina che leggeva placidamente un libro. Lei sbattè le palpebre ancora pesanti e lo fissò come se non fosse reale.
«È un sogno?» disse debolmente e con tono arrochito.
Lui la scrutò, soppesando la sua risposta, e chiuse il libro.
«Perché dovrebbe?».
Tallulah si guardò attorno e capì di essere in una stanza dell’infermeria. Poi tornò a piantare gli occhi su di lui, persino spostare lo sguardo le faceva girare la testa. Levi si alzò e fece il giro del letto.
«Perché tu sei qui» rispose a fatica, osservandolo versarle dell’acqua. Lui tacque e le porse il bicchiere, guardandola bere avidamente.
«Piano» la ammonì annoiato, afferrandole un polso per rallentarla.
«...Ancora» lo pregò lei, la sete non si era placata.
«Tra dieci minuti» sentenziò Levi e mise il bicchiere lontano, guadagnandosi un’occhiata stizzita. Poi Tallulah si accorse che trascinava leggermente una gamba mentre tornava a sedersi e dimenticò l’irritazione in un lampo.
«Che... ti è successo?» gli chiese allarmata, riprendendo pian piano la voce.
«Sei tu quella su un letto d’ospedale» rispose Levi, scrollando le spalle.
«Zoppichi»
«Non è importante»
«Perché?»
«Perché non mi impedirà di soffocarti se non la smetti».
Paradossalmente, Tallulah sorrise debolmente «Hai di nuovo eluso la domanda».
Levi tenne a bada l’istinto di strapparle via quel sorriso. Il palese interesse che ogni volta quella ragazzina mostrava verso di lui lo irritava sempre di più.
«Vado ad avvisare qualcuno che ti sei svegliata»
«No!» esclamò lei sollevandosi inconsciamente per poi sciogliersi in una smorfia dolorante «Resta ancora un po', ti prego».
Levi fissò il suo sguardo supplicante.
«...Solo se stai buona» rispose infastidito, non riuscendo a non accontentarla, non quando era così debole e malmessa. Era la seconda volta che entrava in quella stanza: la prima l’aveva guardata dormire per qualche minuto, in piedi, senza sapere perché le sue gambe lo avevano condotto lì. La seconda volta non se lo era nemmeno chiesto e si era portato dietro un libro; in ogni caso non era riuscito a leggere senza distrarsi e aveva osservato più di una volta quel volto spento e malandato, così fuori luogo su di lei.
«Mi racconti cosa è successo? Non ricordo granché» gli chiese, seguendolo con lo sguardo mentre andava verso la finestra.
«La missione è fallita»  
«Quale missione?».
Tallulah on sapeva nulla dei piani del Comandante Erwin, era arrivata quando tutto volgeva già al termine e anche dopo era troppo debole per essere lucida.
«Catturare il Gigante Femminile» mormorò Levi e per un attimo i volti dei suoi soldati presero il posto del suo riflesso sul vetro. Eppure, a quel punto doveva esserci abituato. Nella mente di Tallulah invece andava componendosi un puzzle, pezzo per pezzo. I suoi compagni, la battaglia, no, lo sterminio. Maria. Il ritorno. Chiuse gli occhi, affondando la nuca sul cuscino e una riga bagnata le solcò la guancia.  
«Quel gigante» si sforzò di parlare «Era diverso. Sembrava sapere molte cose, sembrava avere una coscienza».
Levi rimase ad ascoltare in un silenzio lugubre.
«È umano. Pare che sia come Eren e che riesca a trasformarsi».
Lo sguardo le divenne vitreo man mano che quell’informazione si conficcava nel suo cervello.
«Perché?» ringhiò dopo alcuni attimi con un tono aspro che l’uomo non le aveva mai sentito e che lo spinse a voltarsi appena verso di lei. «Perché una persona come me e te dovrebbe fare questo?».
«Se cominciassimo a chiederci il perché di tutte le ingiustizie ne avremmo fino alla fine del mondo» rispose pacatamente e Tallulah lo osservò in silenzio mentre una domanda le nacque spontanea. Quante doveva averne vissute per parlare a quel modo così intriso di pena? Stava per chiederglielo quando proprio in quel momento qualcuno entrò senza bussare: un’infermiera, seguita da Armin, Sasha e Mikasa. Levi, voltatosi al rumore, si accorse del cambiamento radicale sul volto di Tallulah e degli occhi che si illuminarono come se avesse appena ricevuto il regalo migliore del mondo.
«Lu, sei sveglia!»
«Finalmente!»
«Ciao ragazzi. Mi siete mancati come l’aria» disse Tallulah con un troppo, troppo dolce, e Levi dovette soffocare una smorfia. Di disgusto o di stizza, non lo sapeva.
Armin fu il primo ad accorgersi del Capitano alla finestra e si irrigidì nel saluto militare, chiedendosi internamente come mai fosse lì; le ragazze lo imitarono prontamente e lui fece loro un cenno con il capo.
«Armin... La tua testa» lo distrasse Tallulah che aveva allungato la mano verso la sua fronte.
«Sto bene, non preoccuparti» la rassicurò con un sorriso.
«Ragazzi, lasciatele un po' di spazio ok? Si è appena risvegliata».
L’infermiera le sorrise e si avvicinò per controllarle il polso e le fasciature.
«Come ti chiami?»
«Freya» rispose cordiale la donna gentile «È davvero un piacere conoscerti finalmente»
«Io sono Tallulah» sorrise lei «Anche se tutti mi chiamano un po' come vogliono»
«Tipo Lu» si intromise Sasha «O Lula»
«Anche Tallie» suggerì Armin e Freya ridacchiò.
«O Lulita» mormorò lei, la voce di Maria ancora nelle orecchie, spensierata e fresca. Come avrebbe fatto a superare anche quella morte?
«Quanto ho dormito?» chiese infine con un sospiro.
«Almeno diciassette ore» si lamentò Sasha «Sei svenuta mentre tornavamo alle mura, credo che i movimenti del carro fossero troppo bruschi».
«È stata una fortuna che non ti sia perforata un polmone» concluse Freya e Tallulah si rabbuiò, ma cercò di non darlo a vedere per non rattristarli.
Onestamente, non si sentiva fortunata ad essere viva.
«Non so come tu abbia fatto a raggiungerci» le disse l’amico biondo con sguardo impensierito.
«In giro si parla di te sai?» sorrise Sasha e Tallulah strabuzzò gli occhi.
«In che senso?»
«La sopravvissuta dell’ala destra che ha lottato con le unghie e con i denti per portare a termine la missione» esclamò l’amica accompagnandosi con ampi gesti.
Levi vide la ragazza fare una smorfia.
«Ma che cazzata!» borbottò lei e subito dopo si coprì la bocca con una mano, gli occhi che saettarono su di lui. Se fossero stati soli forse si sarebbe lasciato scappare un sorriso compiaciuto nel sentire quel linguaggio scurrile sulle sue labbra. Quel pensiero, tuttavia, gli fece ricordare che anche lei fosse una sua sottoposta.  
«Hai fatto il tuo dovere» le disse invece con sguardo freddo il Capitano. Tallulah lo fissò e poi spostò lo sguardo sui suoi amici, a quel punto piuttosto imbarazzati. Lei lo capì e tentò di cambiare argomento: c’erano cose molto più importanti.
«Dovete aggiornarmi sulla situazione».
 
Per dieci giorni non si era potuta muovere. Dieci lunghissimi giorni, duecentoquaranta ore di agonia in cui da sveglia continuava a rimuginare sulle sue azioni, su ciò avrebbe potuto fare se solo fosse stata più capace e abile.
Più forte.
Di notte invece rivedeva il volto senza vita di Maria fissarla con occhi rapaci ed accusatori per poi trasformarsi in un visetto più minuto e pieno di lentiggini che piangeva e la chiamava. Si svegliava di soprassalto con il cuscino bagnato da un pianto inconscio e sudore freddo. Il suo corpo invece acquistava sempre più forza con il passare del tempo: mangiava con appetito e riusciva e sollevarsi con sempre maggiore facilità. Armin andava a trovarla quando poteva, in realtà molto raramente, e le leggeva dei libri, distraendola con i discorsi più improbabili che non avevano nulla a che fare con giganti, morti e strategie di difesa. Era stato uno shock per lei sapere dei suoi sospetti su Annie. Tallulah si fidava ciecamente dell’istinto dell’amico e fin dalla prima volta aveva preso le sue ipotesi come certezze: presa da un attacco di rabbia, aveva lanciato la tazza di camomilla contro il muro e aveva iniziato ad urlare di volerla picchiare a morte ed ucciderla con le sue mani. L’impotenza le bruciava le vene. Poi era scoppiata a piangere, davanti agli occhi dispiaciuti di Armin che da quel momento aveva smesso di parlare di ciò che si stava organizzando in quei giorni dicendo che prima doveva riprendersi.
«Non c’è bisogno che ti faccia agitare da questo adesso. Devi pensare a guarire»
«Non è giusto. Voglio essere pronta» ribatté, scalpitando sotto le lenzuola e odiando quel letto a cui era costretta.
«Non puoi fare niente adesso, Tallulah!» le disse con una decisione che la colpì troppo a fondo. Lei lo fissò con uno sguardo accusatore che Armin fu costretto ad incassare e che sapeva bene cosa volesse dire.
Hai usato le mie debolezze.
Per tutta la vita si era sempre sentita protetta dagli altri. Adesso, persino Armin le intimava di stare indietro e iniziò a provare uno strano risentimento.
«Vattene» gli intimò e i suoi occhi azzurri si allargarono.
«Vattene!» esclamò ancora, più forte, e lui si rabbuiò, lasciandola nel più completo silenzio. Le sole persone che vedeva erano le ragazze che si occupavano di lei e che non conoscevano affatto ciò che stava avvenendo tra i corridoi della legione esplorativa. Né Mikasa, né Sasha, né nessuno degli altri era più andato a trovarla.
Non si era mai sentita così sola.
L’undicesima notte era sveglia a guardare il soffitto quando decise di alzarsi.
Non riusciva a dormire più di un paio d’ore, all’inizio per il dolore alle ossa, poi per timore degli incubi, più terribili di quanto fosse abituata. Si sollevò con cautela spostando le coperte e lentamente mise giù le gambe. Prese una candela dal cassetto del comodino e sprecò due fiammiferi prima di riuscire ad accenderla. Avanzò con calma a piedi nudi fino alla porta ed abbassò la maniglia senza fare alcun rumore; poi, percorse il corridoio fino alla scalinata, reggendosi alla parete con la mano libera e scendendo uno scalino alla volta. Una volta sotto, trasse un sospiro di sollievo e sorrise. Poteva ritenersi quasi guarita. Si diresse verso le cucine e con una punta di tensione notò che erano illuminate: decise comunque di avvicinarsi ed arrivata sulla soglia la accolse uno sguardo irrigidito che probabilmente aveva già captato qualche suono sospetto. Levi rilassò le spalle non appena riconobbe il suo volto ed osservò la sua mise da notte troppo larga per lei e le occhiaie violacee.
«Le brutte abitudini non muoiono mai» disse sollevando un sopracciglio con una nota di rimprovero. Tallulah avanzò, riuscendo a sedersi sulla panca di legno di fronte a lui, non senza una smorfia indolenzita.
«Non riesco a dormire» rispose, a dispetto dello sguardo spossato che si soffermò sul liquido caldo che Levi teneva tra le mani. Davanti a lui, c’era un libro aperto.
«Perché sei scesa scalza? Fa schifo per terra» disse, ritornando a fissare le pagine.
«Non ci ho pensato» osservò con sincerità.
«Perché sei distratta» rispose calmo e Tallulah si chiese come potesse dirlo con tanta sicurezza. Si conoscevano appena. Si poggiò con i gomiti sul tavolo, il cuore che le batteva più veloce. Le sembrava diverso: il volto elegante era sempre serio, ma c’era qualcosa nella sua espressione che la rendeva più morbida, avrebbe osato dire rilassata. Continuò a pensarci, facendo scorrere lo sguardo sulla fronte ampia, il taglio degli occhi, la linea della mascella, cercando di capire come mai le sembrasse così diverso. Poi le venne in mente che tutte le volte in cui era riuscita ad avvicinarsi davvero a lui era stato durante i loro incontri notturni, come se il buio gli concedesse una spontaneità che di giorno si precludeva. La invase un’ondata di tenerezza e le venne voglia di toccargli la guancia sicuramente fredda.
«Non fissarmi, mocciosa» disse lui bruscamente, conscio degli occhi della ragazza piantati su di lui.
«Scusa» mormorò lei arrossendo e si voltò con la tempia sulle braccia, spostando lo sguardo fuori dalla finestra: solo in quel momento si accorse dello scroscio continuo della pioggia che batteva sui vetri.
«Ti piace?» gli chiese sovrappensiero, dimenticandosi di specificare che cosa. Eppure, Levi seguì il suo sguardo e non ci fu bisogno di altro.
«No», rispose semplicemente.
«Perché?». Le dita si curvarono appena contro la tazza.
È triste.
«Non sopporto il fango».
Sollevò la tazza lentamente e se la portò alle labbra senza soffiarci sopra, prendendo un sorso del tè nero che si era preparato poco prima.
Tallulah sorrise appena e si concentrò su quel suono torrenziale; lo trovò rassicurante, o forse era la presenza di Levi a farla sentire così serena. Un velo di bambagia le si diffuse nella mente e per un po' entrambi rimasero così, in silenzio, segretamente confortati l’uno dall’altra. Era particolarmente stanco Levi quella notte: proprio quando la sua gamba si era decisa a lasciargli un po' di pace l’insonnia aveva deciso di peggiorare. Avrebbe voluto che la sua mente smettesse di pensare, anche solo per qualche ora; avrebbe voluto smettere di sentire quel peso costante addosso che gli intorpidiva le membra ogni volta che non era sul campo di battaglia. Sollevò lo sguardo, gli sembrava impossibile che per venti minuti quella ragazzina non avesse aperto bocca, e infatti le vide ciondolare la testa in avanti un paio di volte. La sua espressione si ammorbidì e vuotò la tazza del tè, alzandosi per lavarla e rimetterla ordinatamente al suo posto. Poi si pulì le mani con uno straccio pulito e fece il giro del tavolo, avvicinandosi a lei, semiaddormentata: il viso serio e le labbra semiaperte, sembrava più adulta di quanto lo fosse da sveglia. Le prese un polso e se lo mise dietro al collo, piegandosi per afferrarle le gambe da sotto le ginocchia e tirarla su con estrema delicatezza. Nel dormiveglia si sentì sollevare e d’istinto si aggrappò a quel collo marmoreo, posandogli la testa sul petto e mormorando qualcosa di incomprensibile. Levi risalì lentamente le scale nel buio e rifece la strada da cui era venuta. Cosa avrebbe fatto una volta scesa, se lui non ci fosse stato? Se la immaginò seduta in mensa da sola, a pensare a chissà cosa, a guardare la pioggia, forse a piangere. La cosa gli diede fastidio, eppure la capiva: la solitudine era il vuoto più incolmabile nei loro momenti peggiori. Probabilmente sperava di incontrare qualcuno, magari proprio lui.
Mi piaci.
Scosse appena la testa da quel ricordo ed entrò nella stanza in cui dormiva; avanzò verso il letto e si curvò, adagiandola sul materasso. Tuttavia, non appena lei sentì quelle braccia sfilare via dal suo corpo, ebbe un fremito e gli afferrò l’avambraccio e il collo della maglia bianca in un movimento così fluido da coglierlo di sorpresa e Levi si ritrovò a seguire il suo movimento che lo tirava giù.
«Non lasciarmi» gli sussurrò, a due centimetri dal suo volto; si era fermato, distratto da quel tono di voce e dall’odore pervasivo di quelle lenzuola, il suo, e lei aveva sollevato il viso, tanto da sfregare appena le labbra su quelle di lui. Levi smise di respirare e per un istante, un solo istante, l’istinto la vinse: la sua bocca si impresse maggiormente su quella di lei e le mani si chiusero su alcune ciocche di capelli. Durò un battito di ciglia, quel contatto svanì velocemente e Levi dovette soffocare un’imprecazione mentre si tirava indietro e scioglieva la presa della ragazza sotto di lui.
«Ti prego» ripeté lei, ad occhi chiusi.
Solo stanotte quella frase tentatrice rimbombò nella mente del soldato.
È sbagliato si obbligò a pensare, perentorio.
Poi inconsciamente si leccò le labbra e vi trovò ancora il suo sapore.
«Solo stanotte» sussurrò, stanco e sconfitto, e a lei parve bastare perché si rilassò sui cuscini. Lui avvicinò la poltrona al suo letto e la sentì mormorare qualcosa.
«Voglio conoscerle» biascicò Tallulah e Levi corrugò la fronte, senza capire.
«Le tue ingiustizie» soffiò lei e lui non ebbe parole per risponderle, improvvisamente preda di una sensazione strana e impalpabile. Le rimase accanto in silenzio, senza opporsi nemmeno quando Tallulah cercò la sua mano per infilarci le dita, fino a che non la sentì respirare profondamente, addormentata. Voleva approfittarne e andar via da lì, ma forse anche per lui quella notte la solitudine era intollerabile. Senza sapere bene come i suoi occhi si chiusero ed un sonno improvviso lo rapì contro il suo volere. Il giorno dopo, quando Tallulah si svegliò, la poltrona era vuota.  
 
«Il piano scatterà dopodomani nel distretto di Stohess, dovremo attraversarlo per raggiungere la residenza del re. Questa sarà la nostra ultima possibilità».
Il tono grave di Erwin Smith mise ad Armin più ansia di quanto già non avesse: se avessero fallito sarebbe stata loro tolta la custodia di Eren e bloccate le indagini che il corpo di ricerca stava effettuando. L’istinto gli gridava che le sue supposizioni erano corrette, che era proprio Annie il Gigante Femminile da catturare, ma temeva la reazione di Eren, così come aveva temuto quella di Tallulah. Un po' si somigliavano quei due, nel loro carattere così impulsivo e nel cuore un po' troppo grande, eppure non potevano essere così diversi. La sua amica non era ancora riuscita a sconfiggere la paura. La sua mente volò all’ultimo scambio avuto con la ragazza, allo sguardo ostile che gli aveva rivolto, e si sentì un verme: sapeva di non essere abbastanza forte da proteggerla fisicamente e aveva tentato di farlo dall’interno. La verità era che vederla in quello stato l’aveva sconvolto più di quanto pensasse e poteva ancora risentire il senso di nausea l’aveva devastato quando era moribonda sul carro. Armin aveva già perso la sua famiglia e in quel momento aveva realizzato che poteva perderla di nuovo, come un incubo che ritorna sempre e non lascia vivere.
Come quando aveva visto Eren morire.
A voce alta spiegò a tutti i presenti le motivazioni alla base delle sue ipotesi e per la prima volta si sentì utile: per la prima volta i suoi compagni lo guardavano con un’attenzione diversa, il suo Comandante stava riponendo molta fiducia in lui e iniziò a sentire un coraggio che non sapeva di avere. Finalmente si sentiva parte integrante di loro, lui che era sempre stato ostracizzato, debole e lasciato indietro. Fu per questo che si rese veramente conto del suo errore: proprio lui, che sapeva come ci si sentisse, l’aveva lasciata indietro. Nessuno poteva avanzare diritti e pretese in quel mondo assurdo in cui vivevano, né su sé stessi, men che meno sugli altri. Avevano giurato di mettere a rischio la vita; dovevano essere pronti anche a sacrificare ciò a cui tenevano di più al mondo o nessun passo poteva essere fatto lungo la via per la salvezza del genere umano. Quella riunione durò più del previsto, in quanto le reclute del 104º rimasero a parlare tra di loro di ciò che avrebbero affrontato.
«Io non riesco a crederci» disse Jean, con lo sguardo perso nel vuoto «Per quattro anni abbiamo vissuto praticamente insieme. E ci ha traditi»
«Non ne siamo ancora sicuri».
Eren era ancora restio a convincersi, forse più di tutti gli altri. 
«Se questo fosse vero, se Annie fosse sul serio...» la frase di Connie fu ben chiara anche senza che la continuasse.
«Vorrebbe dire che non potremo fidarci più di nessuno» concluse Mikasa con tono secco. Lei, al contrario, si sentiva ancora più arrabbiata al pensiero che una di loro avesse osato rapire Eren e provato a toglierglielo per sempre. Non le importava che fine facesse, le prudevano le mani per la voglia di mettere a punto i loro piani il prima possibile.
«Armin, tu avrai il compito più difficile, Annie è sempre stata schiva con chiunque. Come farai a convincerla a seguirti?»
«Non so se funzionerà, però credo che anche se capirà l’inganno, mi seguirà comunque. Sa che sarebbe la via migliore per arrivare ad Eren».
Jean sbuffò un sospiro e poi la sua espressione si fece risoluta «Faremo quello che dobbiamo. Costi quel che costi».
«Non sarà facile» borbottò Sasha «Siamo anche dimezzati...».
Il silenzio si fece un po' più pesante.
«Ehi, ma come sta Tallulah?» chiese allora Eren, ricordandosi in quel momento della ragazza.
«Si sta riprendendo, ma è impossibile che riesca a partecipare alla missione»
«È da un po' che non vado a trovarla» disse Sasha «Ci avevano detto di non agitarla troppo»
«Ormai dovrebbe essere in grado di muoversi» disse Mikasa, il cui sguardo cadde su Armin, stranamente in silenzio.
«Vedrete che presto tornerà a piantar grane. Ha la pelle troppo dura» borbottò Jean, prima di sbadigliare e annunciare che se ne sarebbe andato a letto. Ben presto tutti seguirono il suo esempio e la notte calò finalmente sulle loro menti provate.
 
Tallulah fissò il suo riflesso sullo specchio e si rese conto che non si era mai guardata attentamente come in quel momento. Notò che forse aveva le guance un po' troppo piene, ma le piaceva la fossetta sulla destra; il labbro inferiore era leggermente più pieno di quello superiore, il taglio degli occhi quasi orientale e uno sguardo malinconico che probabilmente si portava sempre dietro. Ma sapeva che ciò che la caratterizzava davvero fossero i capelli ricci e folti che le cadevano sulle spalle come una cascata. Quando era piccola sua nonna glieli pettinava cantando una canzone per distrarla dal dolore di tutti i nodi districati e una volta finito lasciava che il vento li asciugasse mentre correva tra le vie della città. Abbassò lo sguardo sulle forbici posate lì accanto e le tremò leggermente la mano nel momento in cui si mosse per afferrarle, ma non cambiò idea, nemmeno quando la prima ciocca cadde silenziosa sul pavimento freddo. Si forzò a continuare e ad osservare i suoi boccoli cadere come le debolezze che desiderava sconfiggere, una per una, finché il collo non fu completamente scoperto. Era una strana sensazione: provò a scuotere il capo e sorrise alla leggerezza fresca che sentì sulla nuca. Le ciocche brune si arricciavano appena sotto l’orecchio e l’immagine allo specchio non le dispiacque tanto quanto pensava. Sarebbero ricresciuti più forti, proprio come sperava di crescere lei, tagliando i ponti con le sue paure. Sospirò guardando la matassa ai suoi piedi e si affrettò a pulire il pavimento, lo stomaco che iniziava a protestare per la fame. Si era svegliata presto per riuscire a scendere in tempo per la colazione, nel suo primo giorno di convalescenza sulle sue gambe, e si sentiva stranamente allegra, a dispetto dei giorni penosi che aveva passato.
«Buongiorno cara. Oh-».
L’infermiera aprì la porta, ma rimase sulla soglia a fissare interdetta la ragazza di cui si era presa cura fino ad allora.
«Ciao Freya» sorrise Tallulah. «Sono così terribile?».
Dopo il primo attimo di stupore la donna scosse la testa «No, affatto. Ti si vede meglio il viso».
Tallulah prese i vestiti puliti che Freya le porse e indossando di nuovo la sua divisa si sentì più sicura di sé, pronta ad affrontare gli sguardi che sicuramente si sarebbero posati su di lei.
«Mi raccomando, se ti rivedo qui ti concio io per le feste» le disse Freya e Tallulah rise, abbracciandola.
«Farò del mio meglio. Grazie di tutto».
Le era mancato il brusio tranquillo che trovò in mensa; si avviò verso la testa castana di Sasha e nessuno si accorse di lei fino a che non si sedette accanto a Jean, sulla panca di legno libera.
«...e poi mia madre disse se non mi porti subito quel-».
La storiella che Connie stava raccontando gli morì sulle labbra quando il suo sguardo cadde su di lei.
«Buongiorno ragazzi» disse Tallulah e assorbì le occhiate attonite dei presenti con leggera ansia.
«Sei tornata!»
«I tuoi capelli-»
«Come ti senti?»
«I capelli..!»
«Sembri un maschiaccio».
«Mi hanno dimessa oggi, sto molto meglio, ma non posso ancora allenarmi per un’altra settimana. Per quanto riguarda i capelli, non lo so, mi è solo venuta voglia di farlo. Stanno così male?»
«No, mi piacciono» rispose Mikasa e Tallulah sorrise, cominciando a scambiare qualche parola con lei e Sasha. Una volta ristabilitasi la normalità, scoccò uno sguardo verso Armin, a due posti da lei. Non erano mai stati così tanto tempo senza parlarsi e la cosa stava iniziando a pesarle. Le mancava. Decise di provare a parlargli dopo colazione e si alzò a prendere delle gallette e del latte, preparati sul tavolo in fondo alla mensa. Era felice di riprendere la sua vita normale: stava riflettendo su quanto quelle piccole cose quotidiane fossero importanti per loro, quando qualcuno la urtò con la spalla e per poco non si versò addosso la bevanda calda. Alzò il viso nello stesso momento in cui Levi si voltò verso di lei e per un attimo gli occhi di entrambi si allargarono leggermente, stupiti. Lui scivolò con gli occhi sul collo nudo e sulla mano che lei sollevò inconsapevolmente quasi a volersi nascondere. Tallulah invece ricordò un sogno, un sogno lontano e confuso, fatto di braccia forti, di labbra morbide e un profumo di menta e cuoio, fresco e avvolgente come una coperta. Lo sguardo le cadde sulla sua bocca e sentì la pelle d’oca formarsi dietro la nuca.
«Guarda dove vai, mocciosa» le disse Levi, tirandosi indietro bruscamente e uscendo dalla sala, portandosi dietro il suo caffè.
Sì, l’aveva sicuramente sognato.
Non riuscì a rispondergli, sia perché non ne ebbe il tempo, sia perché il cuore le martellava nelle orecchie come un tamburo tribale.  
 
Levi sorseggiò il liquido bruno mentre camminava verso l’ufficio di Erwin, perfettamente conscio dell’ombra fastidiosa che lo seguiva poco dietro.
«Non riesci a startene tranquilla almeno di prima mattina?» borbottò.
Hanje lo raggiunse con un sorriso che non prometteva nulla di buono.
«È successo qualcosa» annusò l’aria «Lo sento»
«Un Mike ci basta e avanza»
«Non fare il prezioso. Scommetto che l’hai violata».
Un flash molto dettagliato di una violazione gli attraversò la mente e dovette trattenersi dal ringhiare.
«Perché non riservi le tue porcherie ai giganti?»
«Loro non si possono mica riprodurre» esclamò lei raggiante e Levi roteò gli occhi, con un tch digrignato tra i denti.
Quel discorso venne bruscamente interrotto una volta arrivati da Erwin per una riunione d’urgenza: li aveva convocati la sera prima per affinare tutti i dettagli di ogni piano da applicare a seconda di cosa sarebbe accaduto. Era fondamentale per loro giocare d’anticipo, nonostante fosse impresa ardua prevedere ogni possibile futuro in un contesto di cui conoscevano poco e niente. Perciò quando ebbe difficoltà a concentrarsi a causa di quel flash ancora ben vivo nella sua testa, maledisse Hanje ed il modo in cui sembrava capire sempre tutto di lui. La verità era che Levi non sapeva bene cosa pensare di sé stesso dopo ciò che era accaduto: un vago senso di colpa mescolato ad una ben più grande frustrazione aleggiavano sulla consapevolezza di quanto quella mocciosa lo stesse mettendo alla prova. Di natura, Levi non era una persona paziente: la vita l’aveva costretto a sviluppare questa dote e aveva forgiato il suo carattere veemente in modo da affrontare a sangue freddo qualsiasi dolore, evento, battaglia. In fondo, gli piaceva osservare con calma i suoi avversari, modellare la rabbia a suo piacimento e indirizzarla nei fendenti che sferrava nelle carni. Quello era il suo sfogo.
In questo caso però, di sfoghi non poteva permettersene: non era tipo da mentire a sé stesso, a quel punto era dolorosamente conscio della pericolosa attrazione che sentiva verso quella ragazzina tanto quanto era sicuro della cotta che lei aveva per lui. Gli sarebbe bastato allungare una mano per prendersela e questa certezza lo allettava più di qualsiasi immagine lasciva. Ma quanto giusto sarebbe stato contaminare la sua freschezza così giovane?

 
I'm only human after all

 
   
 
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