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Autore: ismile4OneD    02/06/2020    0 recensioni
[dal testo]
Si passò il classico rossetto rosso sulle labbra, concedendosi qualche goccia del costosissimo profumo che preservava per le occasioni speciali. Era bella, e avrebbe tanto voluto che lui potesse essere lì per vederla. Quel vestito blu, comprato apposta per l'occasione, gli faceva un bel fisico; risaltava le sue forme curvilinee, evidenziandone i bellissimi fianchi.
Perfetta per un appuntamento perfetto.
Arrivò allo Stork Club con venti minuti d'anticipo, e prese posto al primo tavolino libero che gli capitò sotto tiro. La pista da ballo era lì, davanti ai suoi occhi, già mezza piena ma non ancora del tutto.
Ordinò qualcosa da bere, poi aspettò.
[One Shot] - [Angst] - [StevexPeggy] - [La storia riprende gli avvenimenti del primo film sul personaggio di Captain America]
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Peggy Carter, Steve Rogers
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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You Promised Me A Dance

Promesse


 

Disclaimer:
• I personaggi presenti in questa FanFiction non mi appartengono. I relativi diritti sono di proprietà della Disney\Marvel.


 

«Ti devo chiedere di rimandare quel ballo».

«Va bene» angoscia… paura… rassegnazione. Anche volendo non sarebbe mai riuscita a trovare un filo logico in mezzo a tutte quelle emozioni contrastanti. «Fra una settimana, sabato prossimo, allo Stork Club».

«Va bene».

Un sospiro, prima che il suo cuore si abbandonasse allo sconforto più grande che avesse mai provato. Non ci sarebbe stato nessun ballo, lo sapevano benissimo entrambi. «Alle venti in punto, non osare fare tardi, chiaro?»

«Ancora non ho imparato a ballare».

Sentiva la gola accartocciarsi su stessa, e dovette fare uno smorzo immane per cercare di cacciare indietro le lacrime amare. «Ti insegnerò io... Però devi venire». Promettilo, ti prego. Dovunque tu sia, promettimi che ci sarai.

«Chiederemo all’orchestra di suonare un lento. Ti dispiacerebbe-».

Silenzio.

Solo un’assordante quiete, mentre la persona dall’altra parte della cornetta non esisteva più.

Sparita. Morta.

Captain America, il suo Steve. Un ragazzo con ancora una vita davanti, e un futuro tutto da costruire. Dileguato nel nulla.

Tre minuti, quella chiamata era durata solo tre miseri minuti. Il tempo che gli era stato concesso per sentire la voce dell’uomo che amava per l’ultima volta, il giusto necessario affinché il suo cuore si spezzasse per sempre.

Era riuscita ad andare avanti con una forza che non pensava nemmeno di possedere, sollecitata dal solo fatto che molti innocenti erano stati risparmiati. Ma a che prezzo?

Si passò il classico rossetto rosso sulle labbra, concedendosi qualche goccia del costosissimo profumo che preservava per le occasioni speciali. Era bella, e avrebbe tanto voluto che lui potesse essere lì per vederla. Quel vestito blu, comprato apposta per l’occasione, gli faceva un bel fisico; risaltava le sue forme curvilinee, evidenziandone i bellissimi fianchi.

Perfetta per un appuntamento perfetto.

Arrivò allo Stork Club con venti minuti d’anticipo, e prese posto al primo tavolino libero che gli capitò sotto tiro. La pista da ballo era lì, davanti ai suoi occhi, già mezza piena ma non ancora del tutto.

Ordinò qualcosa da bere, poi aspettò.


 

***


 

Aveva faticato molto per ottenere il ruolo da ufficiale dell’esercito americano, più di quanto qualsiasi altro avrebbe dovuto fare al suo posto. Non a caso il primo consiglio che gli era stato dato, appena ottenuto il distintivo, fu soltanto uno: comportarti come un uomo. Come se quella fosse l’unica speranza che avesse per continuare ad andare avanti in quel mestiere.

Per questo, nel suo essere orgogliosamente donna, non permetteva a nessuno di mancargli di rispetto.

«Reclute attenti!» disse, concisa e autoritaria come sempre, mentre una fitta schiera di uomini in elmetto e tuta mimetica la fissavano senza proferire parola. Saranno stati in cinque, massimo sei. Tutti soldati che, da lì a poco, sarebbe stati addestrati per andare sul campo di battaglia. Uomini che si erano lasciati alle spalle luoghi, affetti. Tutto questo in nome della grande causa. «Signori, io sono l’agente Carter. Supervisiono le operazioni di questa divisione».

Con passo lento e composto passò in rassegna ognuno di quei volti, attenta a cogliere ogni minimo particolare; erano facce pulite, delle tele bianche che presto sarebbero rimaste segnate dal rosso della guerra. Probabilmente, nessuno di loro sapeva realmente cosa stasse facendo. Provò una sorta di tenerezza nei loro confronti, come tutte le volte in cui era costretta a ripetere quella procedura, ma non lo diede a vedere.

Poi arrivò alle sue orecchie una frase spiacevole. «Cosa ci fa qui una principessina? Pensavo che fossimo nell’esercito degli Stati Uniti».

Impassibilità, come ogni generale che era appena stato mancato di rispetto. «Come ti chiami soldato?» proferì, con fare tranquillo e controllato.

«Gilmore Hodge, vostra maestà».

«Un passo avanti, Hodge» a quelle parole il soldato girò leggermente il viso verso i compagni, sfoggiando un sorriso beffardo carico di divertimento. Lo stesso che, entrando nel campo visivo dell’agente Carter, fu investito in pieno da un pugno talmente violento da farlo cadere sulle sue stesse gambe.

Intervenne immediatamente il burbero colonnello Chester Phillips, che dopo aver fatto i giusti convenevoli, si soffermò a fissare scettico e nauseato la figura di uno dei componenti del piccolo gruppo. Come un vecchio gatto malandato alla vista di un moscerino.

Ovviamente, l’agente Carter sapeva già tutto sul suo conto.

Steve Rogers era un ragazzo gracile e rachitico, bastava gettargli una sola occhiata per capire quanto fosse inadatto a quel ruolo, che – stando alle parole del Dr. Abraham Erskine, l’illustre scienziato di fama mondiale e creatore del famoso “siero del supersoldato” - aveva fatto di tutto per trovarsi dove si trovava in quell’esatto momento. Non poteva di certo sapere in che situazione si fosse cacciato, e quanto tutta quella storia potesse rivelarsi più grande di quanto in realtà si aspettasse.

Lei stessa era molto dubbiosa al riguardo, e non avrebbe scommesso un solo penny sulla riuscita di quella - folle - missione. Chiunque avrebbe pensato la stessa cosa.

Faticava a capire perché Erskine avesse scelto proprio lui, quando in quella stessa base erano presenti dei soggetti che si sarebbero rivelati sicuramente più consoni a ricoprire un ruolo di tale portata. Non riusciva nemmeno ad immaginare la sopravvivenza di quel soldato, di Rogers, che stando a cosa gli suggeriva il suo istinto non sarebbe riuscito a sopravvivere neanche nelle più idilliache visioni.

«Perché proprio lui? Perché questo giovane?» si ritrovò a chiedere qualche giorno prima, mentre sfogliava con fare attento il fascicolo con tutte le informazioni su Steven Grant Rogers. Ogni informazione presente su quelle carte non faceva altro che confermare quello che pensavano un po’ tutti: è inadatto.

In tutta risposta il colonnello Phillips si accese un sigaro aiutandosi con un fiammifero, mentre abbandonava i luridi stivali incrostati di fango sulla scrivania disordinata. «Quel folle di uno scienziato pensa che sia il soggetto perfetto. Giustizia e altruismo. È tutto quello che il vecchio mi ha detto. Purtroppo… sua l’invenzione, sua la scelta. C’è poco di cui discutere, agente».

Giustizia.

Altruismo.

Non sapeva più a cosa pensare o a chi credere. Tutto ciò che riuscì capire, con il passare delle settimane, era che in qualche modo la sua titubanza iniziale per il soldato Rogers si stava mutando sempre di più in una vera e propria forma di rispetto; quel ragazzo poteva anche essere il più inadatto dal punto di vista fisico, ma nei fatti era il migliore di tutta la sua sezione speciale.

Lavorava duro, giorno e notte, molto più di quanto facessero gli altri. Senza mai lamentarsi o fermarsi al minimo ostacolo. Forse era per questo che lei, Peggy Carter, lo stava prendendo così tanto a cuore: rivedeva se stessa nelle gesta di quello sfortunato ragazzo. Dopotutto, un malato d’asma che non osava proferire lamentele dopo il ventesimo giro di campo era ai suoi occhi una persona di tutto rispetto.

La sua ammirazione arrivò a consolidarsi definitivamente quando quel folle di Phillips lanciò – in una prova di coraggio – una finta granata ai piedi del gruppo di soldati.

In un attimo un cumulo di polvere e terra si sollevò sotto ai passi rapidi e scattanti degli uomini, che in pochissimi secondi avevano già trovato tutti quanti un punto in cui ripararsi.

Tutti eccetto uno.

Steve si era letteralmente buttato a peso morto sull’arnese, intimando i compagni di scappare. Lui, con il suo metro e sessanta d’altezza e un mucchio d’ossa a tenerlo in piedi.

«Via, indietro!» urlò, mentre si appallottolava su se stesso intrecciando le minute braccia scheletriche. Un minuscolo fagottino di minimo quaranta chili con un coraggio ben più grande di uomini grossi e forzuti.

Peggy era rimasta ammaliata.

Era il motivo per cui, a bordo dei quell’auto, mentre scortava il soldato prescelto al laboratorio dove sarebbe presto diventato una cavia scientifica, si chiese se fosse giusto. E mentre passavano in rassegna i sobborghi di Brooklyn, gli stessi dove Steve Roger era nato a cresciuto – e si era anche fatto pestare, molte e molte volte, stando ai suoi racconti – non riusciva a scrollarsi di dosso il pensiero disturbante di star portando qualcuno a morte certa.

Per quanto cercasse di non rimuginarci sopra, era sicurissima che lui non ce l’avrebbe fatta, e questo non riusciva a darle pace.

«Se incominci a scappare non ti fermi più. Li affronti, ti ribelli, devi andare avanti lo steso… no?» rispose alla sua domanda di poco prima, quando con fare distratto gli chiese se avesse mai pensato di scappare via.

«Io sono bene come ci si sente» stava guardando oltre il sedile del conducente, verso la strada che si stagliava al di là della superficie in vetro del parabrezza. Mancava sempre mene ad arrivare. «Quando ti chiudono tutte le porte in faccia».

Era ancora assorta nei suoi pensieri, quando Steve iniziò a farfugliare qualcosa. «Non capisco perché ci si voglia arruolare nell’esercito quando si ha una bella pupa… o una bella, una donna, un’agente, non una pupa. Lei è bellissima, ma… ».

Per la prima volta da quando avevano messo piede a bordo di quella vettura, lei lo guardò, confusa e stupita allo stesso tempo. «Non sai proprio come si parla a una donna, vero?»

Lui abbozzò un sorriso. «Non c’è la fila per ballare con un uomo a cui pesterebbero i piedi» un’unica risposta che comunicava più di quanto mille parole avrebbero saputo fare.

«Avrai pur ballato».

«Chiedere a qualcuna di ballare era sempre tremendo, e poi era meglio aspettare».

«Aspettare cosa?»

«La compagna giusta».

E stavolta fu lei a sorridere, nel più naturale e sincero dei modi.

Sorriso che, arrivati nel laboratorio segreto celato dietro gli scaffali di una vecchia libreria, morì sul colpo. Sentiva la tensione scorrerle nelle vene, mista ad un senso di preoccupazione che gli stava rivoltando lo stomaco da cima a fondo. Si sentiva come una madre in ansia per il proprio figlio, e questo non aveva assolutamente senso. Lo sapeva bene.

Eppure non poté fare a meno di stringere i pugni quando il personale di servizio iniziò a preparare il soldato Roger. Lei stava assistendo al tutto dall’alto, naturalmente, da una cabina in vetro posizionata sul livello superiore della grande stanza metallica, ma era come se fosse coinvolta in prima linea; tanta era la preoccupazione che provava.

Ce la farà, si ripeteva.

Deve farcela.

«Somministrazione siero, pronti a cominciare. Cinque… quattro… tre… due… uno».

La macchina su cui venne intubato Steve si attivò, e a lei sembrò quasi di perdere un battito in contemporanea al fatto che lui fosse ormai completamente al suo interno. Un rumore assordate, poi la luce.

Più aumentavano la potenza di quell’arnese, più il bagliore emanato da esso si ampliava, e con lui le urla sofferenti di Steve.

Non riuscì più a rimanere con le mani in mano, sconvolta e tremante pregò il Dr. Erskine di spegnere quella cosa. «Lo sta uccidendo!» e in quell’urlo c’era una supplica, una richiesta disperata che nessuno a parte lei sarebbe stato in grado di cogliere.

«Non lo fate. Posso farcela!» urlò il diretto interessato, contrario all’idea di non portare a termine il lavoro ormai iniziato.

Esplosioni. Suoni di macchinari elettrici ormai ridotti a un rottame. E uno Steven Rogers come mai l’aveva visto nessuno: il siero l’aveva reso incredibilmente alto e muscoloso, l’uomo più grosso e possente che avesse mai visto in tutta la sua vita. Non sembrava neanche vero.

E cosa più incredibile di tutte… ce l’aveva fatta.

L’agente Carter tornò a respirare, e dovette fare appello ogni briciola di buona volontà per non cedere all’impulso di saltargli addosso per abbracciarlo. Si limitò a nascondere la sua gioia agli occhi indiscreti degli altri presenti, ma dentro di se fremeva di sollievo.

Quel giorno, all’interno di quel laboratorio segreto nei pressi di Brooklyn, era nato il primo vero supereroe americano. L’uomo che, senza ancora saperlo, era destinato a diventare una leggenda di cui avrebbero parlato per anni e anni… alimentando il suo mito oltre qualsiasi misura: Captain America.

E l’agente Carter capì di amarlo. Si rese conto di provare un sentimento fortissimo per quell’uomo... prima in un modo, adesso in un altro, ma con gli stessi occhi gentili che l’avevano sempre contraddistinto. Il suo Steve Roger, che superava di gran lunga la stessa figura del capitano.

Una sera si era addirittura messo in tiro, sfoggiando l’abito rosso più bello del suo interno guardaroba, per il solo gusto di avere gli occhi del suo innamorato puntati addosso per tutta la sera. Lui era il primo in assoluto che la facesse sentire una donna, che gli facesse dire “vale pena fari belle una volta ogni tanto”.

E, ovviamente, questo successe. Gli occhi del capitano non si erano staccati nemmeno per un secondo dal suo corpo, anzi, con una sfacciataggine di cui non era a conoscenza neanche lui si soffermarono più del dovuto su tutti quei particolari che sotto la divisa da ufficiale non aveva mai avuto modo di notare in lei. Il cuore di Peggy esultava dalla gioia.

Perché quello era il suo uomo, se lo sentiva. Era quello giusto.

«Balliamo, qui, in questo momento. Ne ho voglia».

«Non adesso» soffiò, regalandogli uno di quei sorrisi che erano in grado di scaldarla.

«Quando?»

«Quando tutto questo sarà finito, te lo prometto».

«Allora vedi di salvare il mondo il prima possibile, capitano».

 

Spazio autore:

Finalmente sono riuscito a pubblicare qualcosa su Peggy e Cap, e ne sono felicissimo! Nonostante sia abitato a scrivere Long, tutto sommato è divertente dedicarsi a qualcosa di più piccolo e leggero una volta ogni tanto.

Come al solito,
fatemi sapere cosa ne pensate. Ogni commento è gradito.
xoxo. <3

   
 
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