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Autore: heliodor    04/06/2020    1 recensioni
Valya sogna di diventare una grande guerriera, ma è solo la figlia del fabbro.
Quando trova una spada magica, una delle leggendarie Lame Supreme, il suo destino è segnato per sempre.
La guerra contro l’arcistregone Malag e la sua orda è ormai alle porte e Valya ingaggerà un epico scontro con forze antiche e potenti per salvare il suo mondo, i suoi amici… e sé stessa.
Aggiunta la Mappa in cima al primo capitolo.
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cronache di Anaterra'
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Verso l'orizzonte

Valya strisciò sotto il lucernario, una finestra senza vetri e imposte dalla quale pioveva la luce dall’esterno. Sporgendosi poteva vedere il bancone dove erano allineati i ferri di suo padre, il forno dal quale proveniva una luce intensa e la mola che veniva azionata da un pedale e che era sempre rotta o cigolava quando veniva usata.
Suo padre era in piedi dietro al bancone senza rivolgere lo sguardo verso Chernin, che da quella posizione non riusciva a vedere.
Meglio, si disse Valya. Così nemmeno lui vedrà me.
“Sei venuto qui per minacciarmi?” chiese suo padre mentre gettava un’occhiata ai ferri.
“Minacciarti? No” fece Chernin sicuro. “Avvertirti? Sì. Simm, stai correndo un bel rischio. Non si scherza con i debiti e duemila monete sono una bella cifra.”
“Troverò quei soldi.”
“Come? Quante spade dovrai forgiare, quanti elmi riparare prima di avere quella somma? Io non vedo la fila alla tua forgia.”
Simm afferrò una tenaglia e sembrò saggiarne il peso nella mano destra. “In effetti è strano. Da un momento all’altro sono spariti quasi tutti i miei clienti, persino quelli abituali.”
“È un periodo di crisi” disse Chernin con voce incerta. “Sta capitando a tutti.”
“A tutti, sì. Ma non a te. I tuoi, di affari, vanno sempre bene.”
“Sono solo un uomo fortunato. E prudente.”
“E invece io sarei quello avventato?”
“Tu sei molte cose, Simm Keltel. Un guerriero, un eroe di guerra e un artista, ma non un uomo d’affari. Quello no.”
“Eroe? Non ho mai fatto niente di eroico nella mia vita.”
“Non fare il modesto, Simm. Tutti sanno di Mashiba e di come riuscisti a entrare nella fortezza, tu e i tuoi amici guerrieri neri, Amaril e Yandar e tutti gli altri. Siete leggende da queste parti.”
Simm appoggiò la pinza sul tavolo con calma e prese il martello. “Sono solo leggende, appunto. Dicerie che la gente mette in giro.”
“Krynt” fece Chernin rivolto al guerriero che lo accompagnava. “Tu eri presente a quella battaglia, no? Come andarono le cose?”
Suo padre alzò la testa di scatto. “Tu c’eri?”
Krynt borbottò qualcosa tra i denti. “Non ero proprio alla battaglia, ma arrivai a Mashiba due giorni dopo, quando gli incendi non si errano ancora spenti e i soldati continuavano a scavare corpi dalle macerie.”
“E che cosa vedesti?” lo incalzò Chernin.
“Centinaia di morti. Quasi tutti quelli che si trovavano nella fortezza. Mercenari al soldo di Vulkath l’infame e anche altri che si erano uniti alla rivolta.”
“Rinnegati” disse Chernin con veemenza. “Che ricevettero la loro giusta punizione. Le Quattro Stelle possono anche vantarsi di avere massacrato l’arcistregone, ma fu la conquista di Mashiba a spianare loro la strada. E quella vittoria fu tutto merito tuo, Simm Keltel.”
Simm soppesò il martello nella mano. “Non c’è nessun merito in una vittoria. Si combatte per uccidere e non venire uccisi.”
“Giusto” fece Chernin. “Questo è lo spirito di un vero guerriero.”
“O di un assassino.” Simm posò il martello. “Non ti venderò la forgia, Chernin. Per due motivi. Il primo è che sei già abbastanza ricco e non sapresti che fartene. Il secondo è che sei stato tu ad allontanare tutti i miei clienti.”
“Lo senti, Krynt? Vengo ad offrirgli il mio aiuto e lui mi ricompensa con delle false accuse.”
“Le mie accuse non sono false” disse Simm perentorio. “E se non te ne andrai ti batterò col piatto della mia spada e non potrai sederti per una Luna sui tuoi cuscini di seta e oro.”
“Mi minaccia anche” strepitò Chernin. “Tu non fai niente, Krynt? Ti pago per difendermi o per startene lì fermo senza muoverti? Hai una spada. Usala.”
Krynt emise un suono sommesso. “Mi paghi per difenderti dai briganti e dai criminali, non dalle minacce di un uomo che non vuole più combattere. Finché non estrae la spada e cerca di passarti da parte a parte non farò niente.”
“Sei saggio” disse Simm.
“Ho solo visto quello che hai fatto a Mashiba. La metà di quelle persone.” Esitò. “Ma tu lo sai meglio di me, Simm Keltel. Eri lì.”
“Avrei volentieri fatto a meno di esserci.”
Chernin emise una specie di ringhio. “Perderai la forgia. e anche tua figlia. Farò in modo che tu venga rinchiuso in una lurida prigione e in quanto a quella ragazzina, finirà in mezzo a una strada. Conosco persone che…”
“Portalo via” disse Simm rivolgendosi a Krynt. “O ti costringerò a usare quella spada. E non sarà piacevole per nessuno dei due.”
“È meglio fare come dice” disse Krynt.
“Tornerò, Keltel” sbraitò Chernin, la voce che si affievoliva mentre si allontanava. “E porterò le guardie con me, non questo mezzo mercenario.”
“Attento a come parli” disse Krynt col solito tono pacato.
Valya decise di aver sentito abbastanza.
Tornò sui suoi passi e balzò giù dalla scala, uscendo di corsa dalla casa per fare il giro e rientrare dalla forgia.
Suo padre era tornato alla mola, dove stava affilando una spada in una cascata di scintille. “Quanto hai sentito di quello che ci siamo detti?”
“Abbastanza” rispose. “Non devi vendere a Chernin. Lui e i suoi figli si danno un sacco di arie e sembrano i padroni della città. L’altro giorno il più grande, Rezan…”
“Valya.”
Lei si azzittì.
“Non devi più andare in città. Per nessun motivo. Hai capito?”
“Tu” iniziò a dire.
“È importante” disse suo padre.
Valya ingoiò a vuoto. “Devi davvero così tante monete?”
“Non sono affari che ti riguardano.”
“Potrei aiutarti.”
“No” rispose lui perentorio. “Il tuo aiuto non mi serve. Adesso vai. Non hai qualcosa da fare?”
Valya non voleva arrendersi. Raccolse il coraggio e disse: “E se andassimo via? Se sparissimo senza dire a nessuno dove andiamo?”
Simm alzò la testa di scatto, gli occhi che luccicavano nel bagliore della forgia, lo sguardo accigliato. “Fuggire via senza pagare i nostri debiti? Come dei ladri?” ringhiò. “È questo che ti ho insegnato, piccola ladra ingrata e bugiarda?”
Valya scosse la testa, gli occhi che le pizzicavano.
“Vattene” gridò suo padre. “Fuori di qui prima che mi arrabbi davvero.”
Valya corse via.
 

Raggiunse il muretto che delimitava la strada, superò il tratto che era crollato due anni prima per le piogge arrampicandosi fino in cima e poi lasciandosi scivolare dall’altra parte. Balzò sull’erba alta e solo allora si fermò, il fiato corto per la corsa e gli occhi che le bruciavano.
Strinse i pugni e diede un calcio a una pietra facendola volare verso il muretto crollato.
“Maledetto Chernin” gridò rivolta alla valle sottostante dove si intravedeva uno scorcio di Cambolt, con le casette dal tetto spiovente. Da quella distanza i pochi passanti per strada sembravano delle formiche. “Maledetto villaggio. Maledetta forgia.”
Raccolse un’altra pietra e la lanciò con tutta la forza che aveva. “Maledetti. Maledetti. Maledetti” gridò fino a che non le uscì solo un rantolo soffocato.
Sedette con la schiena appoggiata al muretto, le gambe raccolte contro il petto e gli occhi serrati. Nel buio e nel silenzio poteva illudersi di non essere mai stata lì, ma di trovarsi altrove.
Nel castello dove Margry Mallor, prima donna della storia, veniva nominata cavaliere da re Jeras di Valonde. O al fianco di Bellir, guardandogli le spalle mentre lui sfidava a duello l’arcistregone Malag. Ed era lei a brandire la spada che trafiggeva Elizar Tancaster, l’usurpatore di Malinor, guadagnandosi i complimenti di Lelenia Dundlar, la strega guerriera.
Le immagini delle loro armi danzarono davanti ai suoi occhi. La spada forgiata dagli elfi che Bellir brandiva con sguardo fiero luccicava sotto i raggi del sole. L’elsa tempestata di pietre preziose della spada di Margry risplendeva e la testa di drago che faceva da pomello alla lama di Lelenia, dono del principe delle terre d’oriente per averli liberati dalla minaccia dei draghi rinati, vorticarono mescolandosi tra loro.
Desiderò con tutte le sue forze essere altrove.
Forse se lo desidero davvero, si disse, accadrà.
Valya spalancò gli occhi.
Quelle splendide immagini erano sparite e al loro posto c’era il consueto panorama.
Sospirò affranta.
Bellir, Margry e Lelenia avevano le loro splendide armi. E lei doveva accontentarsi della spada di legno costruita da quell’idiota di Hagen.
Asciugò le lacrime col dorso della mano e raddrizzò la schiena, immaginandosi di ergersi al di sopra del villaggio disteso nella valle, come un gigante delle leggende.
“Andrò via da qui” disse sollevando il pugno chiuso come se volesse minacciare Cambolt e i suoi abitanti. “Non sarò la serva di nessuno. Troverò una spada degna di me e compirò imprese memorabili. Mi senti, Cambolt?” Guardò più lontano, verso l’orizzonte dove si alzavano montagne dai fianchi grigi e affilati. “Mi senti Talmist? Mi senti, Grande Continente? Io sono Valya Keltel e un giorno conoscerete il mio nome.”
 
La forgia era spenta e le ombre si stavano allungando. La vecchia Deyra, la donna più anziana del villaggio, amava radunare attorno a sé i bambini e raccontare loro storie del terrore, come quella di Malvina la Maga Nera o della perduta Telothien, la città di cristallo e ferro che sorgeva nel lontano meridione, la dimora ancestrale dei primi uomini apparsi nel mondo conosciuto. Quella che le piaceva di meno era la leggenda delle Ombre. Secondo Deyra, una volta all’anno le ombre degli alberi prendevano vita e cercavano di afferrare le caviglie delle ragazze che si attardavano per la strada.
“Se le vedete allungarsi verso di voi c’è un motivo” amava dire riducendo la voce a un sussurro roco. A quel punto tutti i bambini si chinavano verso di lei, gli occhi spalancati e il fiato che si faceva corto. “Le Ombre sono fredde e bramano il calore dei giovani corpi. Se le vedete allungarsi verso di voi, correte o vi prenderanno, trascinandovi nel cuore dei boschi, dove gli elfi cattivi danzano attorno al fuoco prima di divorare i cuori delle persone malvagie.”
A quel punto uno degli adulti allontanava i bambini ormai terrorizzati e li rimandava alle loro case, dove avrebbero sognato di elfi danzatori e ombre che ti afferravano.
Valya scosse la testa e puntò dritta verso la casa. La porta era aperta e scivolò all’interno cercando di non fare rumore.
Suo padre sedeva sulla panca sgangherata sotto la finestra, lo sguardo rivolto verso l’esterno. Valya cercò di non fare rumore mentre procedeva oltre.
“Una volta ho rubato del pane da una cesta” disse senza staccare gli occhi dall’esterno.
Valya si immobilizzò.
“Non avevo molti anni più di te, forse un paio di meno, non ricordo” proseguì lui. “Non ne avevo davvero bisogno. Mio padre era un mercenario, lo vedevo poco ma quando tornava a casa tra una campagna e l’altra sul continente antico, portava abbastanza soldi per farci vivere bene fino alla volta successiva. Rubai quel pane perché volevo dimostrare ai miei amici di avere abbastanza coraggio da farlo. Era lì e lo presi, senza pensarci sopra. Qualcuno mi vide e mi riconobbe e qualcun altro lo disse a mio padre. Io pensavo di impressionarlo con la mia audacia. Speravo che mi avrebbe portato con sé in una delle sue campagne. Quando tornai a casa, un paio di giorni dopo quel furtarello, lo trovai seduto sulla sua sedia preferita, lo sguardo torvo. Capii subito che era arrabbiato. No, arrabbiato non è la parola giusta. Mio padre era adirato.” Emise una mezza risata. “Adirato è una parola che imparai quel giorno. Mi afferrò per il colletto e mi sollevò. Già allora ero alto e grosso e lo superavo di una mezza spanna, ma lui mi alzò senza alcuno sforzo. Era un guerriero nero, in battaglia indossava un’armatura che pesava il doppio di me. Per lui non doveva essere un grosso sforzo. ‘Se ti azzardi di nuovo a rubare’ mi disse. ‘Lo verrò a sapere e ti taglierò entrambe le mani.’ Mi rimise a terra e mi diede un pugno. Uno solo, ma mi fece volare per la stanza. Quel giorno persi due denti. ‘Noi Keltel non prendiamo le cose senza pagare’ mi disse prima di ripartire. Non tornò mai più. Alcuni anni dopo venni a sapere che la sua compagnia era stata sorpresa in mare da una tempesta e la sua nave era affondata.” Scosse la testa.
“Mi dispiace” disse Valya. “Volevo solo esserti d’aiuto.”
“Quando mi servirà il tuo aiuto te lo chiederò. Ora mangia qualcosa e poi vai a dormire.”
Valya proseguì verso la cucina, ma non ci entrò. Invece si diresse nella stanza che suo padre aveva ricavato per lei dopo che era diventata troppo grande per dormire con lui in quella principale.
Valya la trovava fredda, ma almeno aveva un po’ di spazio per sé. Adocchiò il giaciglio che la mattina aveva coperto con le pelli e vi si gettò sopra.
Girata sulla schiena, fissò il soffitto.
“Duemila monete” sussurrò nel buio.
Dove posso trovarle? Si chiese. Cosa può valere tanti soldi? C’è qualcosa in questa casa che valga tanto?
Stava per addormentarsi quando ricordò del baule nella soffitta. Il baule che suo padre aveva trascinato e sollevato da solo dopo che erano arrivati a Cambolt anni prima e che da quel giorno non aveva mai aperto davanti a lei.
Il baule, si disse prima di scivolare nel sonno. Domani ci darò un’occhiata.

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