Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: justquintessentiallymeita    08/06/2020    0 recensioni
Quando l’organizzazione criminale internazionale, TITAN, ruba con successo un arsenale di missili con i loro codici di lancio criptati, scatta il Codice Blu. Tocca all'agente Levi Ackerman, una spia superiore alle altre, e alla ricercatrice Hanji Zoe, una delle prime autorità nell'organizzazione, a fermare questa catastrofe globale sul nascere.
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Lei abbassò i suoi occhiali, sbattendo eccessivamente i suoi occhi castani. «Questo vuol dire che ho-» alzò un sopracciglio. «una licenza scientifica?»
«No. Ma ho la licenza di uccidere. Non farmi venire voglia di usarla.»

{Levihan | Hanji Zoe/Levi Ackerman | Accenni ad altri pairing |Traduzione | Spy Thriller AU!}
Genere: Azione, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hanji Zoe, Levi Ackerman, Un po' tutti
Note: AU, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 3

Originale

 
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just_quintessentially_me è un'autrice straniera e a gestire questo account è la persona che traduce le sue storie con il consenso dell'autrice originale, come ho scritto nelle bio. La storia originale quindi appartiene a lei mentre i personaggi ad Hajime Isayama. Come ben sapete l’inglese ha delle strutture diverse dall’italiano quindi la traduzione non è letterale, anche se cercherò di rimanere il più fedele possibile al testo. Sono solo una traduttrice amatoriale e se qualcosa non vi convince, ditemelo pure. Ci vediamo nelle note sotto! Buona lettura.

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«Potresti definitivamente dire così.» borbottò Hanji, la sua voce era colma di stupore. Inclinò il collo, adocchiando il lampadario sospeso sopra di loro.
La busta con le loro prenotazioni penzolava dalle sue mani. Lui, passandole davanti, gliela strappò dalla sua presa.
Il tavolo della reception era scolpito in chiaro marmo, come il pavimento della hall. Un tappeto scarlatto portava al bancone e al sorridente receptionist che stava in silenzio dietro tale mobile.
Levi colpì leggermente il bancone con la busta. «Abbiamo già prenotato.»
L’uomo dietro alla reception, una farsa composta da fin troppo gel per capelli e acqua di colonia, sorrise. «Buon giorno, signore.» Posò gli occhi su Levi, poi sui documenti, e finalmente sul luminoso schermo del suo computer. «Sì, avete prenotato una delle nostre executive suites.» Strizzò gli occhi e schiacciò dei pulsanti sulla tastiera. «Due letti e un bagno.»
Allora avevano prenotato una sola stanza per loro. Levi si guardò dietro le spalle.
Hanji, con il collo ancora piegato, si avvicinò al bancone lentamente.
Lui non era così contento di condividere la camera, ma doveva ammettere che il team di Hanji aveva scelto intelligentemente di prenotarne una al posto di due. Durante missioni come quella, i partner erano più vulnerabili quando erano separati, a prescindere dalle loro personali abilità. Se qualcosa fosse andato storto, il più delle volte sarebbe successo quando uno dei due era da solo.  Anche dormire divisi sarebbe stato pericoloso, nel caso un particolarmente abile nemico fosse stato nelle vicinanze.
Le valigie di Hanji furono deposte vicino al bancone con un tonfo.
Non appena lei si mise di fianco a lui, Levi parlò. «Condivideremo la stanza.»
«Okay.» Sbatté le palpebre lei, non scomponendosi.
Il receptionist si schiarì la gola. «Ecco le vostre chiavi.» Due carte luccicanti furono fatte trascinare sul bancone.
Levi le mise entrambe in tasca.
Lo sguardo del receptionist cadde sulla montagna di valige ai piedi di Hanji. «Puoi lasciare qui le tue borse. Manderò un fattorino a-»
Le mani di Hanji serrarono la presa sulle maniglie delle valige, facendo diventare le nocche delle mani bianche.
Levi poteva solo immaginare gli inestimabili gadget che era riuscita a mettere all’interno di esse. Quando il receptionist si mosse per chiamare il fattorino, Levi intimò con una voce tagliente. «Ci pensiamo noi.»
Dando le spalle all’uomo con gli occhi in quel momento sbarrati, prese dalle mani di Hanji il borsone pieno. Non appena lui si diresse verso l’ascensore, lei si affrettò dietro di lui, mentre le ruote della sua valigia scricchiolavano contro il marmo del pavimento.
«Grazie, Levi! Hai capito che quella lì stava diventando troppo pensante per me, eh?»
Lui aveva notato, infatti, che lei avrebbe quasi fatto cadere il borsone, ma decise di non menzionarlo. «Sei troppo lenta, quattrocchi. Vorrei arrivare alla nostra stanza prima di mezzogiorno.»
Stettero l’uno di fianco all’altro nell’ascensore, mentre dei “ding” enfatizzavano la loro veloce salita.
«Pensi che la nostra stanza sia carina tanto quanto la hall?»
«Probabilmente sì.»
E certamente lo era.
Delle spesse porte si aprirono, rivelando un’ampia stanza con una moquette bianca. Sfarzosi piumoni e tende rossi regalavano al luogo un tocco di regalità.
Con le borse dimenticate vicino alle porte, Hanji girò su se stessa, cadendo sul letto ridendo. Il suono della sua risata era leggero, spensierato. Lei strofinò le braccia e le gambe divaricate sulle coperte, come se fosse stata un bambino che faceva l’angelo sulla neve.
«Sei... mai stata in un hotel prima d’ora?»
Lei soffiò. «Certo, ma non in uno come questo!» Stiracchiando le braccia, si girò sdraiandosi sulla sua pancia. «Il dipartimento di ricerca dell’agenzia non viaggia molto. E se mai lo facciamo, non andiamo in posti del genere
Lui si fermò un attimo, cercando di risolvere l’intricata logica in quella sua frase. «Il tuo team ha prenotato qui.»
Lei sorrise. «Penso che loro stiano cercando di darmi la massima esperienza di spionaggio internazionale.»
Lui si strofinò le tempie. «Questo non è...»
Era vero, lui era stato in hotel come quello prima di allora – di solito quando era sotto copertura. Tuttavia più di una volta la Marriott faceva il suo lavoro.
Lui sospirò, lasciando la sua valigia ai piedi del letto di Hanji. «Tu e il tuo team dovreste lasciar perdere i film.»
Aprendo la cerniera della sua valigia, Levi iniziò a disfare accuratamente il bagaglio. Mentre mormorava a voce bassa, aprì l’armadio. Al suo interno c’erano già pronti dei liberi appendiabiti. Estraendo la sua prima camicia, la avvolse sulla sottile struttura dell’appendiabiti.
«Cosa stai facendo?»
Lui alzò lo sguardo dal paio di pantaloni che stava piegando e riponendo in un cassetto. «Sto mettendo a posto i vestiti. Cos’altro ti sembra io stia facendo altrimenti?»
Lei sbatté gli occhi. «Io credevo che la missione sarebbe dovuta durare un giorno. Forse due.»
Lui alzò le spalle, prendendo un’altra camicia. «Abbastanza tempo da far sì che i miei vestiti diventino spiegazzati.»
Hanji rise. «Maniaco della pulizia, questo è il motivo per il quale le stanze degli hotel forniscono un ferro da stiro.»
«Uso anche quello.» Non c’era alcuna possibilità che i suoi vestiti non accumulassero alcuna piega mentre erano riposti in valigia per un intero viaggio.
Alla fine lui estrasse un paio di luminose scarpe nere di riserva.
Hanji si sistemò gli occhiali, adocchiando l’armadio che era pieno per metà. «Come hai fatto a porre tutti quei vestiti in quella valigia?»
La sacca da viaggio, vuota, era rimasta ormai sgonfia sul letto. Sembrava addirittura più piccola in quel momento di quando era piena.
«È tutta una questione di appropriato uso dello spazio.»
«Dimentichiamoci delle abilità di Moblit nel fare le valige. La prossima volta mi aiuterai tu.»
«Non credo proprio.» disse lui, chiudendo il borsone.
~▼~

Mezz’ora dopo si ritrovarono circondati da due laptop, un tablet, e pile caotiche di progetti e note. O, più accuratamente, Hanji era quella circondata.
Levi era strategicamente appollaiato su una sedia, lontano dal letto di lei completamente reso un casino dalla stessa.
Con i capelli da poco legati e gli occhiali ben appoggiati sul dorso del naso, Hanji si piegò, mentre le sue gambe erano incrociate davanti a un ronzante laptop. Si morse il labbro mentre le sue dita smanettavano sulla tastiera. Lo schermo s’illuminò nel momento in cui aprì le cartelle.
Lui la guardava, pazientemente, mentre lei si spostava più indietro per squadrare il tablet che aveva lasciato acceso dietro di lei.
Nonostante lui fosse soprattutto un uomo d’azione, che si affidava di più all’istinto che a piani complessi, apprezzava la necessità d’imbarcarsi in una situazione delicata come quella con tutte le informazioni possibili e un piano a disposizione.
Sebbene lei fosse un disastro ambulante – lui notò in quel momento che Hanji era sobbalzata verso una nota, mentre afferrava una matita dal punto in cui l’aveva incastrata tra i suoi capelli – quella donna sapeva meglio di chiunque altro come ricavare delle informazioni. E più che quello, lei era abbastanza intelligente da applicare tali preziose notizie per formulare un piano quasi infallibile. Quella era la ragione per la quale a Erwin non piaceva solitamente farle rischiare la vita sul campo.
Con gli occhi che saltavano da uno schermo all’altro, lei morse la punta della sua matita.
«Abbiamo tutto ciò che ci serve per entrare e uscire fuori da lì?»
Lei annuì distrattamente, mentre sfogliava un raccoglitore. «Tutto e di più.» togliendo la matita dalla stretta dei suoi denti, appoggiò la punta con la gomma sui fogli posizionati sul suo grembo. «Un agente è morto per darci queste informazioni. L’avevo visto qualche volta nel dipartimento. Non lo conoscevo così bene, però.» Lei alzò gli occhi.
Lui si rilassò sulla sedia. Una morte sul campo non era un avvenimento insolito. Ogni agente era conscio dei rischi che correva quando intraprendeva una missione. Tuttavia ogni vita aveva un suo valore. La morte di un agente non avrebbe dovuto significare niente. «Allora è il nostro compito far sì che non sia morto in vano.»
Raddrizzandosi, lei prese un bel respiro. Lui poteva vedere la sua determinazione trasparire davanti ai suoi occhi.
«Ecco il piano.»
~▼~

«Ripeti un attimo, quale parte di questo schifoso piano richiede che io ti porti con me?»
Lei alzò la mano, zittendolo, mentre lo strumento tra le sue mani emetteva un ronzio. Lo schermo blu si illuminò, ed ecco che apparve l’immagine. Hackerare satelliti stranieri di solito era un lungo processo che richiedeva un concertato impegno. Almeno, è così per qualcuno che non era abbastanza fortunato da entrare in possesso dell’H2.0. Hanji si agitò, quasi saltellando per la sua felicità, mentre abbracciava il dispositivo tenendolo vicino al petto. L’aveva perfezionato la notte prima della partenza. E fino ad allora fungeva da portafortuna. Un completo attacco informatico in meno di quarantadue secondi – quella era la materia con cui erano fatti i sogni tecnologici.
Tenendolo con le mani a coppa sullo schermo, Hanji fu attenta ad attutirne il bagliore. Erano a un isolato di distanza dall’area da raggiungere, ma era sempre meglio prevenire che curare.
«Riesco a vedere in piani del complesso. Presto sarò capace di verificare se le informazioni riguardo ai turni di guardia siano attendibili. In tal caso, la nostra migliore occasione per entrare si presenterà...» Lei guardò il suo orologio. «tra circa quattro minuti.»
Con le braccia incrociate sul petto, Levi diede un’occhiata ai contorni della forma dell’edificio. «Posso vedere anch’io da qui.»
Lei guardò lo schermo. «Ma io posso farlo meglio. E inoltre con tutti i soldi che hanno accumulato, c’è una grande possibilità che la TITAN abbia qualche tecnologico asso nella manica. Questo è il motivo per il quale io sono qui con te.»
«Mi sono scontrato con più di un nemico tecnologicamente avanzato prima. Non sono il dinosauro* che tu credi che io sia.»
«Il destino di alcune nazioni dipende dalla nostra conquista di questi codici. Se c’è anche la più piccola possibilità che la mia presenza ci renda più probabile il successo della missione, è un mio compito stare qui.»
«Perché non lasci che le tue sopracciglia crescano e diventi Erwin ormai. Inizi a parlare come lui.»
Lei rise, tenendo gli occhi fissati sullo schermo. «Penso che il mondo abbia bisogno di un solo Erwin Smith.»
«Concordo con te a riguardo**.» Una pausa. «Sembra che si stiano preparando a cambiare il turno. Lo vedi?»
Lei lo guardò di traverso. Piccole macchie infrarossi danzavano sullo schermo squadrato. «Sì, si stanno muovendo.»
Levi si alzò. Sbirciando dietro l’angolo, alzò l’orlo della sua giacca, tastando il suo petto con una mano. Nascosta appena sotto il tessuto del suo giaccone, c’era un’elegante, splendente arma appesa alla fondina attaccata sulla sua spalla. Delle cinghie nere la tenevano allacciata a quel lato del suo petto.
«Avrò anch’io una pistola?»
Lui la guardò dietro. «Hai mai fatto un addestramento con delle armi da fuoco?»
«No.»
«Allora non avrai una pistola.»
Lei mise il broncio.
«Solo,» esitò lui, controllando nuovamente i confini dell’edificio. «stammi vicino. È il momento di muoverci.»
Uno sprint, due recinti sormontati, e una snodata*** strisciata sotto un insieme di cespugli dopo, erano dentro.
Hanji ansimò. Inginocchiandosi, tirò fuori un dispositivo dalla tasca della sua veste. Pure il VFD era stato un lungo progetto. Ma dopo averlo testato per mesi, lei era più che sicura che avrebbe svolto il suo compito bene quanto si aspettava. Sopra il rettangolare strumento, s’illuminò una luce verde. «Ogni segnale video prima attivo dovrebbe essersi interrotto. Dovremmo riuscire ad addentrarci all’interno senza che alcuna telecamera ci filmi.»
Occupato a guardare uno dei più grandi cespugli, Levi grugnì in risposta.
Lei rimise il VFD dentro la tasca, dandogli un colpetto con la mano. «Grazie, Hanji.» borbottò lei a bassa voce, imitando quella di lui. «È una bella cosa che tu abbia passato tanto tempo e messo tanto impegno nel perfezionare questi gadget.» lei stessa rispose, con un tono normale. «Oh, grazie, Levi. È sempre bello essere apprezzati.»
Raddrizzandosi, lui la tirò per la manica. «Sta zitta e muoviti.»
Mentre correva sull’erba, adocchiava l’H2.0. Fino a quel momento tutto andava bene. I puntini più vicini erano ben lontani da loro.
Lei aveva appena girato l’angolo, quando lui le prese il braccio, fermandola.
«È qui.»
Rimettendo a posto i suoi occhiali, Hanji guardò in alto. Ed eccolo lì, il tubo di scarico che lei aveva creduto fosse un ideale (per non dire silenzioso) mezzo per raggiungere il tetto. Anche se, adocchiandolo ora, esso sembrava piccolo e la sua parete era particolarmente liscia.
Levi mise le sue mani attorno al cilindrico pezzo di metallo e tenne un piede fortemente ancorato al muro. «Andrò prima io, tu controlla il tetto. Arrampicati dietro di me. Cerca di non finire col culo per terra.»
«Non finirò...» Hanji analizzò il tubo, che copriva in altezza più piani. Lei deglutì. «col culo per terra.»
Levi si stava già arrampicando. Con entrambe le mani attorno al tubo e i piedi attaccati fermamente alla parete lui si elevava con piccoli salti.
Lei non riusciva a decidere se lui assomigliasse di più a una rana o a una scimmia. Ma suppose che non importava. Ci stava riuscendo. In poco tempo aveva scalato la parete con un impressionante ritmo.
Allungando il passo verso la parete, lei piegò le mani. «Okay, Hanji. Non sei una super spia come il tipo là sopra, ma hai fatto anche tu l’allenamento di base. Tutti quelle flessioni che Mike ti ha obbligato a fare daranno finalmente i loro frutti.»
Afferrando saldamente il tubo, ancorò una lunga gamba al muro. Piegando le ginocchia, si spinse verso l’alto. Facendo una smorfia, pose una mano sopra il punto dove c’era l’altra. Il tubo era sorprendentemente freddo al tatto.
Il corpo piegato in una strana angolatura (lei dedusse che la sua forma più smilza non era così predisposta all’arrampicata rispetto al corpo più compatto di Levi), lei lentamente spinse di nuovo e si mosse verso l’alto.
Quando le sue dita s’incurvarono finalmente sul bordo del muro, lei sorrise, trionfante. Durante il periodo in cui lei si era accovacciata sopra quel bordo, Levi era piegato su un quadrato condotto di ventilazione.
Lui guardò in alto. «È questo?»
Chiudendo gli occhi, lei consultò le note che aveva memorizzato nelle ore precedenti. Loro si erano arrampicati sulla facciata che guardava verso ovest. Sul lato a nord dell’edificio c’era una porta, protetta da una password e la cui stanza era sorvegliata attentamente. Nella parte a sud del tetto c’era un condotto di ventilazione che arieggiava gli uffici al secondo piano. A est c’era un simile condotto, ossia quello davanti a loro, che ventilava il laboratorio e i magazzini.
Lei aprì gli occhi. «È questo.»
Lui annuì. Estraendo un oggetto dalla tasca interna della sua giacca, fece un passo indietro. Premette un pulsante e il tetto fu illuminato da una luce rossa. Con una mano ferma diresse il flusso del laser attorno ai bordi del condotto d’aerazione. La luce si spense, e usando l’altra mano, immerse le dita negli spiragli della grata di metallo, afferrandola prima che potesse sferragliare all’interno del condotto.
Inginocchiandosi di fianco a lui, Hanji gli strappò lo strumento cilindrico dalla sua presa.
«Un ER7.» girò il compatto laser con la mano. «Questo modello è di anni fa. Avresti potuto dirmelo, ti avrei dato un ER11.»
Guardandola in malo modo, l’uomo riprese l’oggetto. «Mi piace questo. È facile da usare e fa il suo lavoro.» Detto questo ficcò lo strumento di nuovo all’interno della tasca.
«Oddio, tu sei un dinosauro con la tecnologia.»
Lui premé una mano sulla schiena della donna. «Entra nel condotto, quattrocchi.»
Alzando le sue mani in segno di resa, si precipitò sul bordo. Prima di caderci dentro, lo salutò. «Certo, Ackersaurus-rex.»
«Chiudi quella bocca.»
Lei cadde immersa nel buio. Atterrò, con il metallo risonante, arrotolandosi sulle punte dei piedi. Un attenuato rumore sordo dietro di lei le fece capire che Levi l’aveva seguita.
Dopo che lei ebbe rigirato l’anello che adornava il suo indice, il passaggio fu illuminato da una tenue luce.
Levi avanzò dietro di lei. «L’hai messa al minimo?»
«Sì.»
«Bene. Ora muoviti e gattona. Abbiamo... quanti? Sei metri da percorrere?»
Lei posizionò fermamente i palmi sul metallo freddo, facendo i calcoli a mente. «Cinque metri e sessanta centimetri.»
Una mano premette il tacco delle sue scarpe. «Va.»
Mentre procedevano all’interno del condotto, ogni suono era amplificato. Pure i respiri di Hanji sembravano esageratamente rumorosi. Mordendosi le labbra, iniziò a inspirare lentamente dal naso.
Mentre gattonava, Hanji contava le grate che scorrevano sotto di loro. Erano quasi arrivati a destinazione, quando lei lo vide. Era un debole bagliore di luce nell’offuscato tunnel.
«Levi.» il nome fu un sibilo emanato dalla voce della donna. «Fermo. Non muoverti.»
Lui s’immobilizzò istantaneamente. «Che succede?»
«Qualcosa-» lei strizzò gli occhi, cercando di notarlo di nuovo. «c’è qualcosa nel condotto. Laggiù.»
«Si sta muovendo?»
«Sì.»
Ed eccolo di nuovo. Un bagliore di luce in fondo, alla loro sinistra. Lampeggiando, la luce fu verde, poi diventò rossa. Le si rivoltò lo stomaco. Sapeva cosa fosse.
Balzando indietro, lei colpì Levi. Mentre lui grugniva, lei metteva le mani dietro la schiena, immergendole febbrilmente all’interno della tasca. «Una cimice, Levi. Hanno una cimice.»
Una cimice era un piccolo drone specializzato per la ricognizione – con un ritocco. I suoi sensori di movimento, per quanto limitati in raggio, erano spaventosamente accurati. Poteva essere programmato affinché rilasciasse gas tossico o proiettili paralizzanti quando i suoi sensori percepivano il minimo movimento.
Le mani dell’uomo s’irrigidirono, le sue dita s’immersero nella schiena di lei. «Merda.» Lei sentì il respiro del suo compagno, tagliente, come una freccia scagliata contro il suo orecchio. «Hai un-»
«Sì.» le goffe mani estrassero il dispositivo simile a un telecomando. Lei poteva sentire ora un ronzio metallico mentre la luce lampeggiante si avvicinava. Ponendo l’oggetto davanti al petto, lei digitò un codice irrequietamente. Il ronzio persisteva. «Non muoverti.»
«Tu ti stai muovendo.» La sua voce era calma. Se non fosse stato per la sua stretta presa alla maglietta di lei, Hanji avrebbe creduto che lui fosse tranquillo.
«Non posso fare altrimenti.» “Ci sono quasi”. Spingendo la lingua tra le labbra, lei digitò la rimanente parte del codice numerico.
La lampeggiante luce divenne rossa. Un acuto “bip” si fece sentire, riecheggiando tra le mura di metallo.
«Hanji-»
«Aspetta.» “Invio. Invio. Invio.” Il suo pollice premette il tasto, ponendo termine al comando.
La luce lampeggiò, fortemente rossa. Il “bip” raggiunse il suo picco di volume.
Lei fu strattonata, il che la fece ritrarre. Il collo scattò in avanti, le mancò il respiro.
Poi, il silenzio.
Con il petto ansimante, lei adocchiò il soffitto metallico del condotto. Levi era appoggiato per metà sotto di lei. Una mano rimaneva sulla schiena della donna, il punto usato per spingerla indietro. L’altra teneva la sua pistola allentata. Un dito era sul grilletto, l’arma era alzata, sul punto di sparare al drone.
Hanji, faticando, si rialzò.
La pistola si abbassò.
Le lampeggianti luci del drone erano state spente. Non più in volo, rimaneva steso sul pavimento del condotto, muto.
Rimettendo l’arma dentro il fodero, Levi disse una parolaccia sottovoce. La sua spalla era affilata nel punto in cui premeva sulla schiena della donna.
Lei passò una mano sul telecomando. Era riuscita ad annullare i controlli della cimice e a zittirla. «Giusto in tempo.» Lei sospirò, inclinandosi all’indietro.
Delle mani la spinsero verso l’alto. «Togliti.»
Cadendo sulle sue ginocchia, lo guardò accigliata in risposta. «Tu sei quello che mi ha fatto arretrare in primis.» Dopo aver sistemato il telecomando nella tasca, lei cominciò a gattonare. «Non che io non apprezzi il gesto. Chiaramente stavi cercando di salvarmi il culo da qualunque cosa sarebbe potuta uscire da quel drone.»
Lui non rispose.
Lei diede un’occhiata verso il basso mentre girava attorno al drone in miniatura. In parte voleva prenderlo e portarselo a dietro. Anche quando le sue mani fremettero, pronte ad afferrarlo, lei premette le sue ginocchia sul pavimento del condotto e procedette. Per quanto lei lo volesse, non c’era un modo efficace per portarlo con sé. Lei non desiderava correre il rischio che la cimice avesse un malfunzionamento ed emettesse qualunque sostanza che aveva al suo interno durante la loro fuga. La missione in questione aveva la priorità.
«Come riferimento futuro però, sparare a una cimice non è un metodo infallibile per disattivarla. La metà delle volte funziona. Ma c’è la stessa probabilità che la cimice rilasci qualunque tossico materiale sia contenuto al suo interno.»
Levi grugnì. «Lo terrò a mente.»
Passarono sopra a un’altra apertura del condotto. E poi, arrivarono a destinazione. Mentre lei usava il suo H2.0 per scansionare la stanza alla ricerca di cimici – o peggio –, Levi prese il suo laser preistorico e iniziò a usarlo sulla grata.
Mentre sorreggeva una mano su di essa, lui la guardò.
Lei annuì. «Campo libero.»
Tirando su l’apertura del condotto, la spia si lasciò cadere.
Tenendosi attaccata al ripiano, lei si abbassò dopo di lui.
Nel momento in cui lei si fece cadere e i suoi piedi iniziarono a picchiettare leggermente sul pavimento, Levi si diresse vero la cassaforte. Lontana un piede da loro, essa sembrava essere stata realizzata in duro metallo. Era incastonata nel muro.
Accovacciandosi di fronte a essa, Levi si sporse verso la manopola. Le sue dita avevano a malapena sfiorato la sporgenza rotonda, quando la spessa porta si aprì. Il compatto spazio all’interno era vuoto.
Appoggiandosi sulle sue ginocchia, Levi si allungò, probabilmente per controllare se ci fosse al di sotto un comparto nascosto. Quando ritornò alla posizione iniziale, il suo viso era cupo.
Le braccia di Hanji penzolavano, molli, ai lati del suo corpo. «Non è qui?»
Lui si leccò le labbra. I suoi occhi sfrecciarono attorno alla piccola stanza. Mai così cautamente come allora, lui si sporse verso la sua giacca.
Nel frattempo, anche lei si era avvicinata alla cassaforte. «Com’è possibile?»
L’informazione proveniva da una fonte affidabile. Non era possibile che fosse falsa.
Un allarme risuonò.
Lei si girò. Sopra la porta delle luci rosse e bianche iniziarono a lampeggiare.
«Ehi, quattrocchi, è il momento di andare.» Con la pistola in mano, Levi fronteggiò la porta.
 

Note sulla traduzione:
 
*Dinosaur è letteralmente la parola del testo originale. Considerato che è usata anche dopo, sembra sia uno slang/modo di dire per indicare una persona che non è tecnologicamente al passo con i tempi.
** “Won’t argue with you there” significa letteralmente “non discuterò con te a riguardo”, ma una tale traduzione non avrebbe riportato, secondo me, il fatto che Levi fosse praticamente d’accordo con Hanji. L’ho tradotta quindi molto liberamente.
***army, questa era strana. Molto strana. Credo che in questo caso con “army” si volesse dire in maniera divertente un “bracciosamente”, cioè, una gattonata con molte bracciate. Ma ovviamente non potevo tradurre in tale modo, quindi ho optato per “snodato”.
Ultimo appunto: non ho assolutamente idea se i nomi della maggior parte dei dispositivi usati dai personaggi nella fanfiction siano veri. Colpa mia che inizio a tradurre una fic di spionaggio senza essere una vera esperta nel genere. Ho deciso di lasciare i loro nomi originali, eccezione fatta per bug, sebbene la traduzione della stessa, ossia cimice, mi lascia tutt’ora perplessa. Spero sia giusta.
 
Note della traduttrice:
 
Finalmente, sì, finalmente. Il terzo capitolo... un vero parto. Soprattutto la parte finale, la cui traduzione mi lascia completamente insoddisfatta, ma spero sia comunque corretta. Almeno ci ho messo meno di un anno? Ahah. Ah. Magra consolazione, lo so. Non continuerò a dire i perché di questi miei ritardi, sappiate però che non ho intenzione di abbandonare questa traduzione. Solo, gli aggiornamenti non saranno frequenti, ma sicuramente cercherò di portare almeno un capitolo ogni due mesi. Ci proverò! Su EFP c’è bisogno di più Levihan di sicuro.
Intanto la storia si fa molto più intrigante, yep! Oh, il rapporto Levihan è ancora freddo, ma non vi preoccupate, pian piano questo cambierà.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Grazie per aver letto fino a qui! Se avete qualunque cosa da dire riguardo alla traduzione, alla storia – che non è mia, ma dell’autrice originale, come già ribadito –, scrivetelo in un commento.
A presto! (Si spera).
Annabeth.
   
 
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