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Autore: _Lightning_    10/06/2020    7 recensioni
Si chiede se si possa elaborare una sintesi chimica, per dimenticare, per farsi scappare i ricordi dal cervello e lasciare dietro di loro una tavola intonsa e spoglia, pronta ad essere incisa di nuovo con lettere meno aguzze. Non lo sa. Sa risolvere problemi e nodi quantistici, ma la scienza delle emozioni gli è sempre stata troppo oscura per anche solo tentare di approcciarla. No, non sa quale sia la formula della dimenticanza. Non spetta a lui scoprirla, e di certo non ha nulla a che fare col perdono.
[post-Endgame // What If? // Stark&Barnes // Civil War fix-it // Introspettivo // PoV Tony // Capitolo 1/2]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: James ’Bucky’ Barnes, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'As if it never happened'
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PORTIA: And you must cut this flesh from off his breast
The law allows it, and the court awards it.

SHYLOCK: Most learned judge, a sentence!
[to Antonio] Come, prepare. 
[1]
 

Parte I – Ferro
 
 

C’è uno strano senso di spaesamento nello svegliarsi con la consapevolezza di aver salvato il mondo. L’universo, in realtà. Ma Tony, in questo caso specifico, sente di dover ridurre quell’impresa – forse per la prima volta in vita sua – e ridarle dimensione umana, la propria.

Quello che lo coglie ad ogni risveglio è più un senso di panico, in effetti. Un istante di angoscia nel riaprire gli occhi e pensare che forse quei cinque anni non sono ancora finiti; che sono sei, o sette, o venti e quello schiocco salvifico non è mai avvenuto. Che forse è ancora la mattina della missione e che sono destinati a fallire – di nuovo, ancora, in un circolo infinito. Hanno incasinato il tempo, e il tempo ha incasinato loro: è così che funziona, di solito. Ritorno al Futuro da manuale, ma senza siparietti comici.

E quindi sente il panico. Gli schiaccia le palpebre e al contempo le sbarra, giocando al tira e molla con lui alle soglie del sonno; creando macigni nei punti in cui si è sentito schiacciato così a lungo da dimenticarsi della loro esistenza. E adesso che sono scomparsi vorrebbe quasi percepirne di nuovo il peso per non sentirsi nudo e spoglio, per non aver paura di sentir inacidire quel senso di liberazione scoprendo che è stata fittizia.

Dura un singolo instante, ogni mattina: una patina di fantasmagorie che gli offusca la vista illudendolo di essere nel prima, che gli fa stridere il cervello con una scintilla di malsano sollievo scaturita da quel pensiero. Si sente tirare dall’interno, tra Tony Stark e Iron Man, e nessuna delle due parti è davvero giusta per lui, almeno non del tutto.

Poi arriva il dolore al braccio, alla gamba, al suo intero lato destro che sembra ancora una ricostruzione raffazzonata del suo corpo, impiantata a forza solo per non farlo collassare. È la sua pelle, è la sua carne; gli appartengono eppure scricchiolano come componenti di recupero infilati a forza nel macchinario sbagliato. Altri macigni, zavorre di sicurezza che gli mozzano il fiato ma gli ridanno ossigeno.

Le prove tangibili che lui è , e anche il resto del mondo.

Quella mattina il panico è un po’ più forte, gli pizzica più violento lungo gli arti e lo afferra alla gola nel rendersi conto di fissare un soffitto bianco e non le assi lignee del suo cottage sul lago. Annaspa su quel dettaglio fuori posto e la consueta ondata di terrore mattutino si schianta in sordina sul fondo della sua mente, soverchiata dallo smarrimento più concreto del risvegliarsi in un letto vuoto.

La sua mente si ripiega su se stessa e si fa tabula rasa – assume le sfumature azzurrognole di uno squarcio nel cielo pronto a risucchiarlo – per poi esplodere in sprazzi di ricordi lucidi.

Espira lentamente, assorbendoli e catalogandoli man mano. È al Complesso. Quello è il soffitto della sua stanza. Pepper e Morgan sono a New York, al sicuro. Oggi ha la prima riunione dei Vendicatori nelle vesti di Tony Stark, Consulente&Meccanico.

Ha uno spasmo involontario che lo sprona a portarsi una mano al centro del petto, in un gesto del tutto futile ma ancora stabilizzante, anche se i suoi polpastrelli segnati da ustioni percepiscono solo a tratti la stoffa della maglietta. Sotto di essa, il cordoncino rotondo e appena in rilievo della cicatrice. Non ci fa quasi mai caso, ormai, ma oggi sembra più accentuata: gli sembra di percepire anche quella orizzontale che lo attraversa. Lascia il palmo pressato contro lo sterno e inspira a fondo, fino ad avvertire un lieve indolenzimento e una flebile protesta da parte di quel paio di costole rimaste più fragili dalla Siberia.

Rilascia di scatto il fiato e si issa a sedere sulla sponda del letto, con un movimento brusco che non dovrebbe concedersi e che gli infiamma il lato destro del corpo. Strizza gli occhi, con una parte del volto che si tende più rigidamente assieme alle sue espressioni, e le nuove ferite si confondono con le vecchie, a ricordargli che è qui per davvero, ma anche altrove, in luoghi freddi in cui non si è sentito per anni.

E lui ha una riunione, oggi, ma non solo. Vecchi fantasmi emergono dalle crepe nel cemento gelato, come sbuffi di ghiaccio sfiorati dal fuoco vivo. Non gli serve un’armatura per affrontarli, ma la vorrebbe.


 
§

 
Il caffè mattutino è un imperativo al quale non può rinunciare proprio oggi, non con troppi pensieri alle calcagna che vorrebbe seminare almeno momentaneamente con una buona dose di caffeina. Entrare in sala comune e dirigersi alla zona cucina è quindi un’azione scontata che compie quasi in automatico, con la testa offuscata da cupi arzigogoli mentali.

Il sibilo dei tutori che gli sostengono la gamba e il braccio accompagna i suoi passi e movimenti, segnalando acusticamente ogni picco di dolore e fastidio che trapela oltre la dose di palliativi. È lieto di aver dismesso le bende, almeno, e che si rimasto solo un ampio cerotto morbido a cingergli il lato del collo, dove le ustioni sono ancora sensibili. Pensa che la dottoressa Cho avesse in mente anche la sensibilità altrui, quando gli ha consigliato di non toglierlo, ma cerca di scacciare il pensiero per evitare che vada ad alimentare il turbine di quelli che già gli svolazzano in testa.

Entra zoppicando nell’angolo cucina, gettando un’occhiata distratta al salone: registra di sfuggita la presenza di Barton sul divano, di spalle, con la testa che fa capolino dalla spalliera – e tarda a riconoscerlo nel vederlo col vecchio tagli di capelli militaresco. Lancia un “’giorno” svogliato in quella direzione mentre cerca con gli occhi il barattolo del caffè che, chissà per quale motivo cosmico, ognuno ripone in un posto diverso dopo il suo utilizzo. Forse lo fanno apposta per dargli noia, conclude, quando infine lo individua seminascosto dietro la fruttiera.

«Se volete limitare il mio consumo di caffè, dovete impegnarvi di più, pivelli,» annuncia ad alta voce, svitando il barattolo e inalando a pieni polmoni la fragranza scura e aromatica della miscela divina non decaffeinata – finalmente. «Pepper può darvi qualche dritta utile, nel caso ci teniate così tanto alla mia salute,» conclude, riempiendo il filtro con una dose eccessiva di caffè, per poi incastrarlo nella macchina con la sinistra, incontrando qualche difficoltà di coordinazione.

Il silenzio che arriva da parte di Barton lo lascia interdetto: si sarebbe aspettato perlomeno qualche grugnito seccato in risposta, o magari una battuta secca, sagace e irritante delle sue. Volta il capo, chiedendosi se per caso non si sia defilato già da un po’, lasciandolo a blaterare da solo; si paralizza però a metà del gesto, senza poter evitare che gli si sgranino appena le pupille nell’incontrare quelle che ha puntate addosso.

Non è decisamente Barton, quello. Il cuore gli bussa alle costole nel riconoscerlo, sbatacchiando nella sua gabbia ossea mentre il respiro lo tradisce: Barnes lo sta fissando altrettanto interdetto, con l’aria di chi si vede puntare un fucile contro – o di chi lo punta contro un bersaglio inaspettato.

Il silenzio che si tende tra loro viene riempito dal ruggito della macchinetta del caffè, e Tony si riscuote appena in tempo per piazzare la tazza a raccogliere la bevanda, approfittando della distrazione per sfuggire gli occhi ghiacciati che ha davanti.

«Vedo che il nostro Robin Hood non è stato l’unico a fare un salto dal parrucchiere per la metamorfosi da gangster di strada a cittadino perbene,» bofonchia senza curarsi di alzare troppo la voce, conscio che il super-udito dell’altro gli verrà comunque in aiuto a dispetto del frastuono.

«Già, ho seguito il suo esempio,» taglia corto lui, in tono piatto.

Lo capta con la coda dell’occhio nell’atto di passarsi la mano metallica tra i folti capelli ora tagliati a spazzola. È un’eco lontana di quelle foto di guerra sbiadite che ha intravisto di tanto in tanto. Nei musei o documentari, di solito, ma qualche volta in casa propria, custodite in album poco sfogliati. Deglutisce a forza saliva fredda, puntellando i pugni contro il piano della cucina mentre incita quell’apparecchio infernale a darsi una mossa, così da poter raccattare il proprio caffè e defilarsi in laboratorio fino all’inizio della riunione.

Gli fa male tutto, dalla punta degli alluci alla sommità dello scalpo, come se lo stessero tirando con delle tenaglie.

Trattiene un sospiro in gola, sentendo pulsare il lato ferito per la tensione improvvisa. Progettava di fare colazione in grande, dopo un mese di dieta ferrea; magari stravaccarsi per un po’ sulla sua poltrona-relax inutilizzata da anni e sfruttare FRIDAY per impicciarsi degli affari del Complesso, recuperando i tre mesi di blackout ancora lacunosi che si ritrova a dover gestire. Il tutto è evidentemente andato a monte, adesso.

Ha freddo, come in Siberia. La temperatura sembra essere precipitata di dieci gradi nel giro di un battito di ciglia, e non capisce se sia il suo corpo mezzo disfatto a dare i numeri, o se sia la presenza di Barnes a lasciar trapelare un’orma lontana della tundra russa.

Si mostra comunque disinvolto. È bravo a dissimulare: dopotutto l’ha fatto per una vita intera. Però dall’altra parte della stanza c’è comunque una spia e assassino provetto dell’HYDRA, quindi dubita di poterlo ingannare più di tanto. Spia e basta, si corregge mentalmente, a forza, quasi svitando il bullone che regge quel concetto con un veemente colpo di chiave inglese. L’assassino è l’altro, quello rimasto nella capsula criogenica in Wakanda.

Si spera. Lo spera. Si sorprende a farlo, e il cuore scuote di nuovo le proprie sbarre, quasi risentito.

Afferra rapido la tazza con la destra, senza pensare, e quasi se la rovescia addosso quando gli cedono le dita troppo molli.

«Porca putt–» sibila, quando il liquido bollente gli cola sulle piaghe non del tutto guarite, e sente una stilla di lacrime che gli vela gli occhi a quel fiotto di dolore lancinante.

Molla di colpo la tazza, trattenendo altre imprecazioni, e caccia d’istinto la mano sotto al getto freddo del lavandino trovando un tremante sollievo sotto ai flutti, incurante di bagnare il tutore.

«Stark?»

Si irrigidisce, sentendo ogni muscolo farsi di titanio, quasi gli si fosse saldata addosso l’armatura. Non si volta, concentrandosi sullo scorrere dell’acqua sui crepacci e rilievi della propria pelle martoriata – una superficie marziana brulla e inospitale, con scie nerastre a solcargli tendini e venature che si intersecano alle vene vere e proprie in un ricamo irregolare che gli ricorda fin troppo vividamente il palladio.

«A quanto pare, la maggior parte degli infortuni è frutto di incidenti domestici,» ribatte, tentando di allentare i nodi che gli strangolano la voce. «Nel mio caso, però, si aggiunge pure un incidente cosmico pregresso… maledizione,» soffia via in chiusura senza volerlo, quando sente la ferita che riprende a pulsare come un organo a sé stante non appena chiude il getto. «Comincio a pensare che avere un arto di metallo non sarebbe così male, al posto di questo patchwork di pelle e carne.»

C’è un singolo battito di silenzio in cui l’aria pare addensarsi, plumbea di nubi, e Tony aspetta il tuono. Non sa nemmeno dire perché abbia sferrato quel fendente gratuito permettendo all’elettricità di caricarsi. O meglio, è naturalmente portato a scagliare frecciatine contro tutti, senza fare distinzioni – ma quella, più che una frecciatina, è un vero e proprio affondo mirato a un punto vitale.

Si tampona la mano con un canovaccio pulito, continuando a voltargli le spalle a mo’ di labile barriera tra loro.

«Tu dici?» gli arriva in fine, in tono molto meno aggressivo di quanto si aspettasse.

Tony sbuffa, comprimendo la stoffa contro le piaghe per poi voltarsi con deliberata flemma, poggiandosi contro il piano del lavello. Barnes lo scruta con un’ombra inquieta sul volto, le dita meccaniche contratte sullo schienale del divano a segnalare la sua tensione interna. Ha un aspetto meno ostile, senza barba e coi capelli acconciati in quel modo più civilizzato, quasi da bravo ragazzo, ma il suo volto mantiene un che di selvatico che oscilla costantemente tra istinto di fuga e di attacco.

«Dico per dire,» butta fuori infine, modellando le parole in una foggia meno caustica. Barnes, non il Soldato. «Lo faccio spesso; ti conviene abituarti, visto che a quanto pare tra poco diventeremo colleghi

Barnes non abbandona quell’espressione ombrosa, ma la schiarisce di qualche sfumatura appena percettibile, appaiandovi un breve, altrettanto discreto cenno del capo.

«Così pare,» scandisce poi, con lentezza.

Tony serra le labbra, e i suoi occhi viaggiano senza preavviso verso il braccio di Bucky. Vi si incollano, e se in un primo momento ha pensato di deviarli, decide poi di lasciare consapevolmente che vi indugino: su entrambi, in realtà. Sul braccio metallico che ha massacrato suo padre e su quello di carne ed ossa che ha strangolato sua madre.

Sente nitidamente il sangue defluirgli dal volto per andare a coagularsi attorno al cuore, ostruendogli le arterie. Il Soldato, non Barnes.

Ma riesce a vederne entrambe le essenze al contempo, come se fosse una figura in vetro soffiato sovrapposta a un’altra, altrettanto trasparente, altrettanto fuorviante e in contrasto col nucleo di metallo crudo che ospita, silenzioso ma vibrante. In contrasto con lui stesso, che il metallo inerte lo pone a involucro per proteggere le schegge di vetro fragile che tintinnano all’interno, che si rimescolano facendo rumore di non detti.

C’è molto altro, là dentro, che non vorrebbe essere in grado di vedere, e molto dentro di sé che vorrebbe lasciar chiuso in una corazza.

Si chiede perché non se ne stia andando, chiudendosi in laboratorio come aveva intenzione di fare, e rimanga in ascolto di quella vibrazione sottile che gli preme sui timpani. Perché Barnes non se ne stia andando, e rimanga lì a fissarlo e non fissarlo, come se quel tintinnio sommesso lo percepisse.

Tony beve un sorso di caffè. Non si muove, rimane in quel groviglio di vetro e ferro in attesa che si sciolga.


 
Fine Prima Parte

 

Note:
[1] PORZIA: E tu dovrai tagliare questa carne dal suo petto. / La legge lo permette e la corte lo ritiene giusto. / SHYLOCK: Oh, dottissimo giudice, qual sentenza! /[ad Antonio]  Vieni, preparati. Citazione da Il Mercante di Venezia di Shakespeare. La scelta di riportarla ruota attorno al concetto, ricorrente nella commedia, della “libbra di carne” che Shylock esige come pagamento, e di come questo pagamento, alla fine, si ritorca contro di lui, costringendolo a rinunciarvi in toto.


Note dell'Autrice:

Cari Lettori,
da quanto ho in cantiere questa storia? Da anni, in effetti. Almeno due, per essere precisi, ovvero da poco prima di Infinity War, quando pensavo che ci sarebbe stato un qualche tipo di confronto tra Tony e Barnes... a posteriori mi vien da ridere nell'averci anche solo sperato, visto come hanno trattato pure la frattura tra Tony e Steve, ma per fortuna esistono le fanfiction <3 Non mi dilungo in chiacchiere, e spero che questo capitolo, il primo di due, vi abbia messo curiosità. Chi mi legge sa come la penso sull'ipotetico rapporto Stark-Barnes, quindi non me ne vogliate se sceglierò un approccio "tagliente", considerando che è un PoV-Tony.

Il titolo e alcuni riferimenti interni al testo risentono del meraviglioso albo a fumetti Dimentica il mio nome di Zerocalcare. Come tematiche è abbastanza distante da ciò che tratto qui, ma il concetto d'identità che propone è invece molto attinente. Vi invito a leggerlo nel caso vogliate straziarvi l'anima <3
Grazie alla mia Guascosa Miryel per avermi fornito le tre parole ispiratrici e per avermi spinta a rileggere Zerocalcare qualche tempo fa <3
Grazie per aver letto fin qui, e alla prossima settimana con il capitolo conclusivo!

-Light-


 
Disclaimer:
Non concedo, in nessuna circostanza, né l'autorizzazione a ripubblicare le mie storie altrove, anche se creditate e anche con link all'originale su EFP, né quella a rielaborarne passaggi, concetti o trarne ispirazione in qualsivoglia modo senza mio consenso esplicito.
Questa storia è scritta senza scopo di lucro.


©_Lightning_

©Marvel
   
 
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