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Autore: destiel87    11/06/2020    2 recensioni
3 trilogie, 3 storie ambientate al college, 3 improbabili dj.
1968 San Francisco: Il professor Kenobi insegna storia, il suo ragazzo Anakin, suona in un gruppo rock, i Sith. Padme si batte per la fine della guerra in vietnam. I loro destini s’incrociano, mentre i Beatles suonano alla radio e dj Yoda ci racconta una storia.
1979 Chicago: Leila insegna diritto. Han corre con la sua macchina, il Falcon, e il suo compagno di stanza Luke, immortala tutto con la sua polaroid, R2D2. I due ragazzi fanno una promessa, mentre Leila dovrà scegliere tra il cuore e la ragione. Dj Chewbecca ci guida tra i classici del rock.
2010 NY: Ben Solo insegna filosofia e suona il piano. Rey per poco non lo investe con la sua moto. Tra di loro si crea un unione, nata tra i ricordi di una vita passata e di una presente che s’intrecciano. Finn scappa dalla sua gang, The First Order, aiutato da Poe. Da allora diventano inseparabili, finché amicizia ed amore non diventano una cosa sola. Dj Hux,ci racconta i rapporti attraverso la musica pop.
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Anakin Skywalker/Darth Vader, Kylo Ren, Luke Skywalker, Obi-Wan Kenobi, Principessa Leia Organa
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Story 3 - Neutron star collision



 
“Then our hearts combined like a neutron star collision.
I have nothing left to lose you took your time to choose,
Then we told each other with no trace of fear that.

Our love would be forever,
and if we die we die together.”

 
“Qui è il vostro dj Hux, in diretta dalla Starkiller radio di New York! Questo era l’ultimo singolo dei Muse, Neutron star collision, un vero successo di questo 2010! Una canzone che ci parla d’amore, quel tipo di amore per cui si può morire. Ma del resto, non siamo tutti i soldati dell’amore? Sempre alla ricerca, sempre in missione, sempre in lotta, spesso in fuga. E chissà se quell’amore che tanto a lungo abbiamo cercato, per cui così duramente abbiamo lottato, sarà destinato a durare per sempre, per un anno, o una notte sola. Si dice che New York sia la città che non dorme mai, e allora eccoci qui, ad affrontare una nuova giornata, una nuova ricerca, e forse amici miei, sarà oggi il vostro giorno fortunato!”
 
“Fottute canzoni d’amore!” Sbottò Rey, sbattendo nervosamente il bicchiere sul vassoio.
Finn e Poe si guardarono confusamente, seduti dall’altra parte del tavolo, senza sapere cosa dire.
Prima che uno dei due riuscisse a pensare a qualcosa da replicare, Rey si era già alzata. Li salutò con un rapido cenno della mano e uscì dalla mensa del campus con l’aria assente.
“L’amore fa male…” Disse Finn, tirando un lungo sospiro.
“Vuoi sapere cos’altro fa male?” Rispose Poe, avvicinando il viso alla sua spalla.
“L’amore non corrisposto?” Fece l’altro, malinconico.
“No, questo!” Esclamò Poe, rovesciandogli dei cubetti di ghiaccio nella giacca.
Finn si alzò di scatto imprecando, cercando di scrollarseli di dosso, mentre Poe rideva, passandosi una mano tra i folti capelli neri.
“Questa me la paghi, Dameron!” Disse Finn, scattando nella sua direzione.
Rey stava camminando per i lunghi corridoi della Columbia university, quando i due ragazzi attraversarono di corsa quello a fianco, rincorrendosi l’un l’altro.
Lei li seguì con lo sguardo, non riuscendo ad evitare di ridere.
Proprio mentre stava svoltando l’angolo, ancora intenta a guardarli, un giovane professore stava per svoltare lo stesso angolo, nascosto dietro una pila di libri.
Fecero ancora qualche passo, prima di andare a sbattere l’uno contro l’altra.
Caddero entrambi a terra, insieme ai libri che si sparpagliarono intorno a loro.
“Ma che cazzo! Guarda dove vai razza di…” Sbottò Rey, prima di rendersi conto di chi aveva davanti.
Il professor Solo era seduto a terra a gambe incrociate, con un libro dalla copertina verde aperto sulle sue gambe e un altro in grembo.
I lunghi capelli neri gli ricadevano sugli occhi, profondi come un cielo notturno, e per qualche momento, Rey si perse ad osservarli, incantata dal modo in cui catturavano la luce.
“Oh mi scusi, non l’avevo proprio vista…” Disse il professore, rialzandosi in piedi. “Signorina…?”
“Rey.”
“Avrà anche un cognome immagino.”
“Solo Rey.” Si affrettò a dire lei.
Lui le porse la mano, per aiutarla a rialzarsi. “Va bene, solo Rey.” Disse, con un timido sorriso.
Era un sorriso strano, che lei non aveva mai visto. Non era un sorriso di gioia, ma neanche uno di quei sorrisi forzati che si fanno quando si è costretti, sembrava piuttosto un gesto incerto, come se la persona che avesse davanti non fosse abituata a sorridere, o non sapesse bene come farlo.
Rey gli prese la mano, era grande, e la sua presa salda la risollevò in un unico scatto.
Il professore si mise a raccogliere i libri, ed il sorriso sparì.
Istintivamente Rey gli diede una mano, prendendone quattro e facendone una pila.
“L’aiuto a portarli, professore.”
“Non c’è né bisogno, davvero.”
“Ormai li ho presi!” Rispose lei, facendo spallucce.
Poi di nuovo, quel sorriso.
“Va bene, mi segua allora.”
Rey annuì, seguendolo nel corridoio, poi su per le scale, fino ad arrivare al secondo piano, dove proseguirono fino ad arrivare davanti alla porta di un ufficio.
Lui aprii la porta, scostandosi per farla passare, poi le indicò la scrivania e le disse di appoggiarli lì.
Era un ufficio piccolo, c’era una scrivania di legno, e dietro di essa una libreria.
Nell’angolo sotto la finestra c’era un piccolo divanetto blu e un tavolino ricolmo di fogli.
Rey appoggiò i libri, e notò che sulla scrivania erano riposti degli spartiti musicali, ci passò le dita sopra, seguendo le note e le lunghe linee, fino ad osservare l’intestazione:
Notturno op. 9 n. 1 di Chopin.
“Conosce Chopin, signorina?” Chiese gentilmente il professore.
Lei scosse la testa, vagamente a disagio. “No, non fa per me.”
“Non tutti sono in grado di apprezzarlo, forse perché scava oltre la superficie, oltre la corazza che ci costruiamo, arrivando fin dentro l’anima. Ci si sente nudi, di fronte a tanta bellezza.”
Rey ascoltava rapita, cercando di immaginare una simile sensazione.
“Ma forse lei preferisce musica più… Moderna. Canzoni d’amore magari.”
Rey scoppiò a ridere. “Odio le canzoni d’amore, sono tutte così banali, stupide e…”
“Irreali?” La anticipò lui.
Lei annuì, lui sorrise, solo per qualche istante, poi si scostò una ciocca di capelli dl viso, riponendola dietro l’orecchio, e tornò ad indossare quella maschera d’indifferenza che portava sempre.
Il professore si mise silenziosamente a sistemare i libri, riponendoli con la massima cura negli scaffali. Sembrava che le sue lunghe dita li accarezzassero, quasi fossero vecchi amici.
Rey si sentiva quasi di troppo, come se fosse un intrusa in quel suo piccolo mondo. Si voltò verso la porta, e proprio in quel momento, fu attratta da qualcosa. Un quadro, appeso alla grande parete frontale.
Si avvicinò incuriosita, come se quel dipinto avesse una voce propria, e la stesse chiamando.
Erano raffigurati due cavalieri, un uomo ed una donna.
Lei era vestita di bianco, e intorno a lei, tutto era luminoso, quasi accecante.
Lui era avvolto nell’ombra, dai capelli ai vestiti, tutto di sé richiamava il nero.
I due avevano le fronti appoggiate l’una contro l’altra, gli occhi chiusi.
Entrambi reggevano una spada, conficcata dritta nel corpo dell’altro, all’altezza del cuore.
Ma attraverso quelle spade, anche i colori li trafiggevano, li oltrepassavano, inondando il bianco di lei di sfumature nere, e l’oscurità di lui, in onde di luce. 
“Eros e Thanatos.” Sussurrò il professore.
Lei lo guardò incuriosita, chiedendo di più con lo sguardo.
“Amore e morte. Secondo Freud, la pulsione di vita, o Eros, comprende la libido e lo spirito di autoconservazione. Mentre la pulsione di morte, o Thanatos, si manifesta in tendenze di distruzione, verso sé stessi e gli altri.” Disse lui, indicando i cavalieri con le dita, mentre spiegava.
“L’eterna lotta tra Eros e Thanatos, costituisce la forma più profonda dell’ambivalenza, tuttavia è una sorta di equilibrio, l’uno non può esistere senza l’altro, come se si completassero a vicenda.”
Rey rimase in silenzio, osservando i volti dei due cavalieri. C’era sofferenza in loro, ma anche felicità. Il sangue usciva dal loro petto, sporcando di rosso scarlatto i loro corpi, eppure le loro mani erano intrecciate.
“E’ strano… Questo dipinto… Non lo so’ è come se lo avessi già visto. In un sogno…” Disse lei, corrugando la fronte, e avvicinandosi per vedere meglio. “E’ quasi come se fosse…”
Mentre parlava, Rey sfiorava i volti dei cavalieri, passando i polpastrelli sui loro volti, cercando di capire le sensazioni che riceveva in quel momento. Ben si ritrovò a fare lo stesso gesto, spinto da un istinto che non seppe spiegarsi, accarezzando la luce intorno al corpo nero del cavaliere.
“Un ricordo?” Disse lui, mentre le loro dita si sfioravano, come mosse da un energia che avvolgeva ogni cosa, e che li spingeva a ricongiungersi.
“Si… Ma non è possibile! Me lo ricorderei, se avessi vissuto un’esperienza come questa.”
Lui si voltò, guardandola negli occhi, e per qualche istante le loro dita rimasero le une sull’altre, mentre i loro sguardi s’incatenavano, studiandosi a vicenda, cercando qualcosa in profondità...
“Forse non è accaduto in questa vita, ma in una passata.” Disse alla fine Ben, senza smettere di guardarla.
“Lei crede nella rincarnazione, professore?”
“Credo nell’anima. L’anima è immortale, e ci sono forze nell’universo molto più grandi di me e di te, che avvolgono ogni cosa.”
“Ci sono più cose in cielo e in terra Orazio, di quante tu ne possa sognare nella filosofia.” Disse lei.
“Shakespeare.” Aggiunse lui stupito, abbandonandosi ad sorriso caldo e genuino.
I due rimasero a guardarsi, per un tempo che non seppero calcolare, come se in qualche modo stessero dialogando con lo sguardo, con lo spirito, anziché con le parole.
Solo molto dopo, si ritrovarono nell’aula di filosofia del professore, separati dai lunghi banchi dove si sedevano li studenti.
Rey si trovava nelle file centrali, alla sua destra c’era Finn, che continuava a scarabocchiare sul suo quaderno per attirare la sua attenzione. E alla sua sinistra Poe, che tirava all’altro ragazzo palline di carta, cercando a sua volta di attirare la sua attenzione.
Il professor Solo era in piedi in mezzo all’aula, indossava un completo nero, e stava spiegando la concezione junghiana di casualità e teleologia. Secondo la sua teoria, il comportamento dell’uomo è condizionato dalla sua storia individuale, la casualità, e dalle sue aspirazioni future, la teologia. Sia il passato come realtà, sia il futuro come potenzialità, guidano l’essere umano nel suo comportamento presente.
Si muoveva con grazia, quasi che non appartenesse a quel mondo, ma che fosse solo un spirito.
La sua voce era bassa e suadente, come il canto di una sirena.
C’era qualcosa di misterioso in lui, qualcosa che Rey non aveva mai notato, eppure adesso non riusciva a pensare ad altro.
Poi quando i due ragazzi la colpirono con l’ennesima pallina di carta, fu costretta a tornare alla realtà. Tirò entrambi per le orecchie, finché non la finirono, e a quel punto fece un profondo respiro, e tornò a concentrarsi su quello che diceva il professore, e a prendere appunti.
Quella sera, cambiò qualcosa. Fu un cambiamento leggero, quasi difficile da avvertire, come una scossa di terremoto quando stai ancora dormendo, che viene percepita solo nella parte più inconscia della mente.
Finn e Poe avevano appena finito l’allenamento di football, e stavano lasciando il campo, festeggiando per l’ultimo punto segnato.
Indossavano le divise della loro squadra, i Columbia Lions, bianche e blu, che erano ora ricoperte di erba e fango.
Una volta negli spogliatoi, iniziarono a svestirsi delle pesante uniformi e dei caschi, sui quali avevano scarabocchiato i loro nomi in codice: Capo nero era il soprannome di Poe, e FN-2187 quello di Finn. Si chiamavano così solo tra di loro, visto che nessun’altro ne conosceva il significato.
Mentre erano a torso nudo, intendi a sfilarsi i pantaloni, sentirono alcuni ragazzi ridere, guardando Finn. Sentirono parole come negro, gang, rifiuto della società.
Poe si voltò di scatto, serrando la mascella e stringendo i pugni.
Fece un passo verso di loro, prima che Finn lo afferrasse per un braccio, tirandolo verso di sé.
“Lascia perdere, non ha importanza.” Disse, rise e scrollò le spalle, come se non gliene importasse nulla.
Poe però vedeva oltre quella risata, oltre quella scrollata di spalle, vedeva il dolore nei suoi occhi.
Quando i ragazzi andarono a farsi la doccia e loro rimasero soli, Poe accarezzò con le dita il tatuaggio di Finn, quel sole nero sul braccio. Sapeva cosa si nascondeva sotto, cosa copriva. L’anno in cui lo aveva conosciuto, su sul braccio muscoloso c’era scritto First Order. Era la gang a cui apparteneva, e quello era il marchio che portavano i suoi membri.
Accarezzò i bordi del sole, seguendone i raggi, poi si voltò verso Finn, che teneva la testa abbassata contro l’armadietto.
Poi il ragazzo sollevò il viso, cercando con lo sguardo gli occhi neri del suo amico, che fin troppo spesso sembravano leggere nei suoi.
A molti isolati da dove si trovavano,  nell’ East Village, c’era una palestra.
Dentro quella palestra, una ragazza si stava allenando con la sua spada di legno.
Lottava al centro della grande sala, altri dodici ragazzi erano intorno a lei, osservando curiosi ed intimoriti i suoi movimenti, la forza che metteva in ogni attacco, la velocità con cui si muoveva.
Il suo avversario era tra i migliori del corso, e metteva nei suoi colpi una tale furia, che solo in due riuscivano a tenergli testa. Rey era una di quelli, ma quella sera in particolare, qualcosa sembrava distrarla, non erano che sussurri, ombre sui muri.
Ma quei sussurri, avevano la voce di lui.
E ogni volta che guardava negli occhi il suo avversario, erano gli occhi di lui, che lei vedeva.
Cadde a terra, ansimando per la fatica, tremando per il dolore.
Fece un profondo respiro, allontanando quei pensieri, cercando di regolarizzare il battito, di trovare la calma dentro di lei.
Guardò il suo avversario,  e si rimise in piedi.
In un'altra zona della città, nell’Upper West Side, un uomo stava suonando il suo piano.
Era un pianoforte a coda Steinway & sons, l’ultimo regalo di sua madre.
Ogni volta che accarezzava i tasti, aveva la sensazione di vederla ancora al suo fianco.
Era un appartamento elegante il suo, molto spazioso ed illuminato, ma vuoto.
L’uomo era nel salone, e oltre il pianoforte, oltre grande vetrata che si affacciava su Central Park, osservava la luna. Quella tenue luce, sembrava chiamarlo a sé.
Stava suonando il Preludio op. 28 n.15 di Chopin, una melodia che di solito lo trasportava lontano, oltre la città, oltre la luna, nel vasto ed infinito universo.
Ma quella notte, lo portò da una ragazza, dai suoi occhi penetranti, dalla luce che emanava.
“Rey…” Sussurrò Ben Solo, chiudendo gli occhi e accarezzando i tasti del pianoforte.
 
“Qui è il vostro Dj Hux, in diretta dalla Starkiller radio. A New York sono le undici e cinquanta minuti, e le strade sono affollate di giovani in cerca di divertimento, di amanti in cerca di passione, di musicisti in cerca di ispirazione. C’è chi beve cocktail nei locali alla moda, c’è chi si scola una birra al parco con gli amici, c’è chi si beve un bicchiere di vodka e bacia i suoi figli, prima di andare al lavoro, c’è chi sorseggia un bicchiere di vino, nudo nel suo letto accanto a qualcuno. Per tutti voi, qualsiasi cosa stiate bevendo, le lancette corrono, corrono veloci! Ma c’è ancora tempo, prima che sorga il sole. E allora eccovi la prossima canzone, vi lascio in compagnia di Kesha, con la sua Tik tok!”
 
Era una bella giornata estiva, e Rey stava percorrendo la Fifth Avenue con la sua moto, attraversando Manhattan sotto il sole del mattino.
Arrivò al campus verso le dieci, godendosi la vista del cielo limpido all’orizzonte, si diresse verso i parcheggi, e lì, con la sua camminata leggera e un libro tra le mani, c’era il professor Solo, che attraversava distrattamente la strada.
Cercò di frenare, spostandosi bruscamente a destra per evitarlo, e nella manovra perse il controllo, sbandando e scivolando sull’asfalto con la sua moto, fino a rotolare per qualche metro.
Si ritrovò a terra, fissando confusamente il cielo sopra di lei.
Sentì in lontananza la voce di lui che la chiamava, finché non se lo ritrovò davanti.
Alzò la visiera del casco, cercandola con lo sguardo, poi l’aiutò a sollevarsi, fino a quando riuscì a metterla seduta.
Aveva la testa appoggiata al suo petto, quando lui le sollevò delicatamente il casco.
“Stai bene? Rey? Vuoi che chiami un’ambulanza?”
“Sto bene…” Disse lei, cercando di metterlo a fuoco.
“Sei sicura? Potresti avere un trauma cranico, o un emorragia interna o…”
“Sto bene, sul serio professore!” Rispose lei, sforzandosi di sorridere.
“Che giorno è oggi? Quante sono le mie dita? Riesci a muovere le gambe? Ti fa male la schiena?”
Continuò a chiedere lui, visibilmente spaventato.
“Il 16 giugno. Tre. Si e no.” Rispose lei, sorridendo.
Era quasi buffo, vederlo così agitato, proprio lui che di solito era così composto e silenzioso.
Lui sospirò, sorrise, e le spostò i capelli dal viso, rimanendo qualche istante a guardala.
C’era una tale profondità nel suo sguardo, che aveva la sensazione di essere nuda.
Ed era strano per lei sentirsi così, lei che si era costruita un armatura, e che non si lasciava avvicinare da nessuno.
Il professore diede un’occhiata al suo braccio scoperto, che strisciando sull’asfalto aveva riportato una brutta abrasione. Lo stesso valeva per la gamba sinistra, che era rigata di sangue e di terriccio per l’ustione da attrito.
“Ti porto in infermeria, bisogna medicare le ferite.”
Lei annuì, e prima di poter dire qualcosa, si ritrovò sollevata dal terreno, tra le sue braccia.
“Posso camminare!” Esclamò a disagio, cercando goffamente di scendere.
“Posso portarti io, non sei pesante.”
“Non è quello il punto!”
“E’ colpa mia se sei caduta, lascia almeno che ti aiuti!”
Mentre lei continuava ad insistere per camminare, e lui per portarla, finirono per arrivare in infermeria.
“Sei davvero una ragazza testarda, te l’hanno mai detto?” Disse Ben, appoggiandola al lettino.
“Costantemente.” Rispose lei, facendo una smorfia divertita.
Il professore si guardò intorno, ma non c’era nessuno, così disse che sarebbe andato a cercare aiuto.
“Non c’è n’è bisogno, so’ cosa fare.”
“Hai fatto un corso di infermieristica?”
“No, ma non è la prima volta che cado… Ti dirò… Le dirò io cosa fare…”
“Dammi pure del tu. E’ colpa mia se sei qui, mi sembra il minimo.”
“Va bene… Ben?” Chiese lei incerta.
Lui annuì.
Sotto le indicazioni di Rey, il professore le tamponò la ferita al braccio con un panno, applicando una leggera pressione fin quando l’emorragia si fermò. Poi la lavò con cura, passandoci sopra del sapone. La parte più difficile fu togliere i residui di asfalto con le pinzette, ma per fortuna aveva le mani ferme, il che gli consentì di essere molto preciso. Poi l’asciugò con cura, passando il panno sul braccio,  ci passò sopra la crema antibiotica e infine la fasciò con una garza.
Per tutto il tempo aveva cercato di essere il più gentile e delicato possibile, mordendosi il labbro inferiore per la concentrazione. Rey lo guardava, non riuscendo a trattenersi dal sorridere.
Era piacevole avere tutte quelle attenzioni, e di nuovo si ritrovò a pensare a quanto fosse buffo, aveva quasi un aria fanciullesca, mentre la puliva e la fasciava con cura.
Mentre Ben ripeteva le operazioni con la gamba, osservò i tanti lividi che aveva, da quelli più recenti, rossi e gonfi, a quelli più vecchi, viola e gialli.
“Come te li sei fatta? Se posso chiedere…” Chiese, inginocchiato sotto di lei, mentre reggeva sulle gambe il suo piede.
“Mi addestro ogni giorno, botte del genere sono normali per me.”
“Deve essere un addestramento piuttosto violento, per causarti queste ferite.” Disse, mentre le fasciava la ferita.
“Solo quando combatto.”
Lui la guardò per qualche istante, incuriosito.
“Kendo.” Rispose lei, anticipando la domanda.
“La via della spada.” Rispose lui, colpito.
“Conosci il Kendo?” Chiese lei, ancora più colpita.
“So’ che è un’arte marziale giapponese, evolutasi dalle tecniche di combattimento con la katana anticamente usate dai samurai… Mi affascina molto, quel mondo. A differenza delle altre arti marziali, o delle tecniche di combattimento occidentali, che basano tutto sulla forza, la via della spada mi è sempre sembrata più elegante, raffinata… Ha qualcosa di…”
“Mistico?” Lo interruppe lei.
“Si, esatto. Quasi come una danza mortale.”
“Una danza? Non l’avevo mai vista, sotto questo punto di vista.”
“Forse dopotutto, in un’altra vita eri davvero una cavaliere. O un samurai”
Mentre le stava stringendo la garza, si ritrovò a indugiare sulla sua caviglia, accarezzandola leggermente con la punta delle dita.
Fu una questione di secondi, poi sembrò ridestarsi, e tornò ad occuparsi della fasciatura.
“E tu invece? Chi pensi di essere stato, nella tua vita precedente?”
“Oh non lo so…” Rispose cupamente lui. “Ma ho come la sensazione di aver commesso qualcosa di orribile. Di aver fatto del male a qualcuno.” Dicendolo, abbassò la testa e curvò la schiena, quasi che portasse un peso sulle spalle, troppo pesante da sopportare.
“Qualsiasi cosa tu abbia fatta, appartiene ad un'altra vita. Ad un altro te stesso. Ora quella persona non esiste più. Ci sei solo tu. E tu sei una persona buona, che cura le ferite degli altri.”
Ben sollevò il viso, rilassò il corpo, come se quel peso fosse diventato più leggero.
Sorrise, e Rey pensò di non aver mai visto un sorriso più caldo e gentile del suo.
Anche i suoi occhi, sembravano più luminosi.
Fu a quel punto che Finn spalancò la porta, correndo come una furia verso di lei.
“Rey! Che ti è successo? Eravamo così preoccupati!” Urlò, avvicinandosi al suo letto e prendendole la mano.
“Oh sto bene, niente di grave!” Rispose lei, lasciando la presa.
“Abbiamo saputo dell’incidente e siamo corsi subito a cercarti!” Esclamò Poe, che era proprio dietro al ragazzo.
“Siete stati gentili a preoccuparvi, ma davvero non è niente, solo qualche livido in più!”
“Se trovo lo stronzo che ti ha fatto cadere giuro che lo strozzo!” Esclamò concitato Finn.
“Veramente, lo stronzo sarei io.” Disse Ben, alzandosi in piedi.
“Oh, bene!” Disse Finn, avvicinandosi a lui con fare minaccioso.
Ben non arretrò, sostenendo il suo sguardo.
“Stai calmo amico!” Esclamò Poe, prendendolo per un braccio e tirandolo indietro di qualche passo. “Sta bene, non lo vedi come sorride?”
“Ma se è piena di fasciature! Poteva anche morire, te ne rendi conto?” Sbottò Finn, senza tuttavia allontanarsi dalla sua presa.
Per qualche minuto rimasero tutti immobili, come se il minimo gesto potesse compromettere quel delicato equilibrio.
“Che sta succedendo nella mia infermeria?” Urlò una donna sulla cinquantina, con la divisa celeste. Dopo aver malamente buttato fuori i tre uomini, si accertò che le medicazioni fossero state eseguite correttamente.
Quella sera, di nuovo qualcosa cambiò nella vita di ognuno di loro.
A tratti rapido e impetuoso, a tratti delicato e leggero, quel cambiamento era come un’onda, destinata a cambiare per sempre il corso degli eventi.
Poe e Finn si trovavano nella loro stanza, una piccola camera che condividevano fin dal primo giorno di college.
Si erano conosciuti il giorno in cui Finn aveva lasciato il First Order, il giorno in cui aveva deciso che quella non era la sua vita. Poe si era trovato in mezzo a quel caos per puro caso, e aveva preso botte da un paio di ragazzi della banda, quando inaspettatamente Finn l’aveva portato via, scappando con lui tra i vicoli di Harlem. Avevano corso per sette isolati, temendo di venire accoltellati da un momento all’altro, e alla fine si erano ritrovati in cima ad un vecchio edificio, sdraiati su un terrazzo che profumava di bucato, nascosti dai panni stesi al sole.
Avevano guardato il cielo per tutto il pomeriggio, senza dire nulla. Poi all’improvviso avevano iniziato a parlare, a raccontarsi le piccole e grandi cose che facevano parte della loro vita. E da allora, non avevano più smesso.
Quella sera stavano giocando al loro videogioco preferito, Star Wars.
“Qui Capo nero, sono circondato! Ho bisogno di supporto!” Esclamò Poe con il joystick in mano, muovendosi nel letto come se stesse schivando i nemici.
“Qui FN-2187! Sto arrivando amico, sono proprio dietro di te! Tieni duro!”
“Sono troppi! Ne ho tre a ore dieci, aiutami!”
“Possiamo farcela Capo nero, ti copro le spalle!”
“Dobbiamo farcela FN-2187, la resistenza conta su di noi!”
Continuarono così per molte ore, battaglia dopo battaglia, inseguendosi nel cielo, seguendo le stelle e abbattendo nemici.
Fu verso le tre del mattino, che Poe si accorse che il suo amico si era addormentato.
Rise, osservando il filo del joystick che si era attorcigliato intorno al suo petto, e cercò di liberarlo senza svegliarlo.
Si ritrovò a cavalcioni su di lui, mentre tentava di sollevargli la schiena quel tanto che bastava per sfilargli il cavo.
Sospirò, quando si ritrovò vicino alle sue labbra, pesando a quanto avrebbe voluto potersi chinare e farle sue.
Lentamente Finn aprii gli occhi, guardandolo confusamente tra il sonno e la veglia.
Per qualche minuto, rimasero entrambi sospesi, gli occhi persi l’uno nell’altro, i respiri che si mischiavano tra di loro.
Nessuno dei due si mosse, nessuno dei due parlò.
“Buonanotte, Capo nero…” Mugugnò Finn con un sorriso stanco, richiudendo gli occhi.
“Buonanotte, FN-2187…” Rispose Poe, sistemandosi al suo fianco.
“Abbiamo vinto?” Chiese dopo un po’ Finn, voltandosi verso di lui ancora con gli occhi chiusi.
“Si amico mio, abbiamo vinto.” Poe si girò, appoggiando la fronte contro la sua e rannicchiandosi vicino al suo petto. Finn gli strinse la mano, e lui chiuse gli occhi.
Molto lontano da lì, dall’altra parte della città, una ragazza stava guidando la sua moto, percorrendo la Palisades interstate pkwy, che costeggiava il fiume Hadson sulla destra, e si affacciava al grande parco naturale sulla sinistra.
Tutto ciò di cui aveva bisogno era il vento sul viso, le stelle all’orizzonte e la natura che la circondava.
Percorse quella strada per ore, senza una meta precisa, con il solo desiderio di perdersi nella notte.
Poi d’improvviso, notò una figura in una piazzola di parcheggio.
Un uomo vestito di nero, con i capelli lunghi che ondeggiavano nel vento e lo sguardo perso all’orizzonte.
Si fermò poco dopo, convinta di esserselo immaginato, e tornò indietro, quasi ridendo per la sua fervida immaginazione.
Eppure, quando si fermò nella piccola piazzola, si rese conto di non esserselo immaginato.
Proprio in mezzo al nulla, in una strada deserta, così lontano dalla città, c’era Ben che le sorrideva.
Scese dalla moto, togliendosi il casco e liberando i lunghi capelli castani nel vento.
“Pensavo di averti immaginato.” Disse incredula, avvicinandosi a lui.
“Forse è così. Forse sono solo il frutto della tua immaginazione.” Rispose lui, con un sorriso.
Per quanto fosse strano per lei, addirittura ridicolo, si stava davvero affezionando a quel suo malinconico sorriso.
“Forse allora dovrei toccarti, per accertarmi che tu sia reale.”
Lui allungò la mano verso di lei, senza smettere di sorridere.
Dietro di lui, la luna si affacciava tra i grattacieli, illuminando il fiume con i suoi riflessi dorati.
Rey rimase qualche istante a guardarlo, quasi temendo che allungando la mano, avrebbe afferrato l’aria.
Invece, raggiunse la sua mano, stringendola nella propria.
Di nuovo i loro occhi si cercarono, si scontrarono, e l’uno si perse nello sguardo dell’altra, mentre il vento accarezzava la loro pelle e le loro dita si intrecciavano.
 
“C’è la luna piena stanotte, sopra New York! La state guardando anche voi? Qui è il vostro dj Hux, sempre con voi dalla Starkiller radio. Una luna del genere fa sognare, fa venire voglia di esprimere un desiderio. E allora uscite sul terrazzo, affacciatevi alla finestra, scendete in strada, ed esprimete un desiderio amici miei! Chissà che la luna non vi ascolti questa notte…  Chissà che proprio mentre state camminando per la strada, stanchi e soldi, non vi troviate proprio ciò che desideriate. Che sia una macchina veloce o una bella donna, si può trovare ogni cosa sulla strada, basta sapere dove guardare. E adesso ascoltiamo insieme la prossima canzone, Meet me the halfway, dei black eyed peas.”
 
Era una domenica pomeriggio di giugno, e il sole splendeva sopra Central Park.
Rey si esercitando con la sua spada di legno, ripetendo i movimenti, schivando e parandosi, cercando di concentrarsi solo sulla spada, come fosse un prolungamento del suo braccio.
Poco distante, Poe e Finn avevano afferrato dei rami e li stavano usando come fossero delle spade, sfidandosi in un duello mortale.
Poi d’improvviso un uomo sollevò lo sguardo dal suo libro, perdendosi qualche momento ad osservare i raggi del sole, che filtravano tra le fronde rosa delle magnolie.
Seguì uno di quei raggi, fino a quando si ritrovò davanti Rey, che girata di spalle era intenta a fare degli affondi verticali. I petali rosa danzavano intorno a lei, mossi dal vento.
Pensò di andarla a salutare, così si avvicinò, sollevando la mano e aprendo la bocca per dire il suo nome, quando venne colpito violentemente al petto, e si ritrovò per terra a lamentarsi per il dolore.
Rey mollò immediatamente la spada, inginocchiandosi sull’uomo.
“Ben! Stai bene? Mi dispiace, non ti avevo visto!” Disse, mettendosi a cavalcioni su di lui.
Lui si massaggiava il torace, la bocca corrugata in una smorfia sofferente.
“Più o meno…” Disse poco convinto, con gli occhi socchiusi.
“Accidenti, è tutta colpa mia! Mi dispiace così tanto...” Rispose lei, posando la mano sul suo petto.
Fu in quel momento che Ben sollevò il viso, e aprendo gli occhi si rese conto di come la figura della ragazza emergesse dalla luce del sole dietro di lei, rendendola quasi accecante.
“Eros e Thanatos…” Sussurrò, ripensando al quadro.
“Come?” Fece lei confusa.
“La luce dietro di te…” Rispose, indicandole il sole con il dito. “Mi ha ricordato quel dipinto.”
Lei sorrise, ricordando a sua volta quell’immagine.
“Dobbiamo smetterla di incontrarci così però!” Esclamò dopo un po’, ridendo.
Lui annuì, con un debole sorriso, mettendosi meglio a sedere.
Lei scoppiò a ridere, e lui la guardò smarrito.
Rey avvicinò la mano ai suoi capelli neri, all’altezza dell’orecchio destro, sfilandogli uno stelo d’erba. Poi glielo mostrò, ridendo.
“Oh, certo. Ne ho ancora?” Chiese lui, passandosi una mano sui capelli.
Lei annuì, avvicinò di nuovo la mano e ne tolse uno vicino alla fronte, continuando così per un po’.
Ben rimase a guardarla, incanto dalla dolcezza del suo volto, di solito così scontroso.
Poi mentre lei catturava un petalo rosa, facendolo scivolare tra i suoi capelli, si ritrovò ad accarezzare la sua tempia, delicatamente, con la punta delle dita.
Quando si accorse di quanto stava facendo, si immobilizzò, senza sapere se continuare o ritrarsi. Cercò negli occhi di Ben la risposta, che le arrivò con uno sguardo carico di dolcezza.
Appoggiò di nuovo le dita sul suo viso, seguendone i contorni, dalla guancia al collo.
Poi sentì la mano di lui muoversi sulla sua clavicola, accarezzarne i bordi fino a salire lentamente, indugiando sul collo e dietro l’orecchio, fino a posarsi sulla sua guancia.
Chiuse istintivamente gli occhi, godendosi il calore di quel contatto, perdendosi in quella sensazione di pace e desiderio.
Ad una ventina di metri, Finn stava cercando Poe, che si era nascosto.
Con il ramo ben sollevato e gli occhi che scrutavano in tutte le direzioni, si muoveva facendo il meno rumore possibile, nella speranza di sorprenderlo e vincere quella battaglia.
Camminava sull’erba, circondato dalle magnolie in fiore, quando d’improvviso se lo ritrovò davanti, appeso a testa in giù, con le gambe che circondavano un grande ramo.
“Preso!” Esclamò Poe vittorioso.
“Cazzo!” Rispose Finn, lasciando cadere il bastone a terra.
“Ho vinto! Quindi devi fare la penitenza.” Disse l’altro ridendo, con i capelli neri che gli ricadevano sul viso.
“Oh ma andiamo, non abbiamo cinque anni!”
“Le regole sono quelle amico!” Fece l’altro, senza smettere di ridere.
“E va bene… Cosa vuoi che faccia?” Disse sospirando.
Poe stette qualche minuto a riflettere, dondolandosi lievemente con le gambe.
“Potresti baciarmi!” Sussurrò alla fine, tirandosi un po’ giù con le gambe, per arrivare all’altezza del suo viso.
“Che cosa?” Esclamò confuso Finn. “Stai… Stai scherzando vero?”
“Oh no no, affatto.”
“Ma… Ma non è leale!” Disse visibilmente a disagio.
“Certo che lo è.”
“Ma… Siamo in un parco pubblico!”
“Beh è allora? Non ti ho mica chiesto di farmi un pomp…”
Finn gli mise una mano sulla bocca, zittendolo all’istante.
I due rimasero a guardarsi, il primo eccitato e vittorioso, il secondo titubante ed imbarazzato.
“E comunque non saprei… Si insomma… Non saprei come fare.”
“Non sai come si bacia?” Chiese Poe, spostandosi i capelli dal viso.
“Certo che so come si bacia idiota!” Rispose l’altro nervoso. “Ma io… Ecco non ho mai… Baciato un altro ragazzo.” Sussurrò alla fine, grattandosi la nuca.
“E’ come baciare una ragazza!”
“Ma non dire stronzate! Non può essere uguale!”
“Ti dico di si.”
“E tu come fai a saperlo?”
L’altro sorrise maliziosamente, inarcando il sopracciglio.
Lo sguardo di Finn passò dalla confusione, all’irritazione.
“Geloso FN-2187?”
“Nient’affatto.” Rispose imbronciato, incrociando le braccia al petto.
Per qualche minuto Finn  rimase così, lo sguardo basso e la bocca corrucciata, i piedi che sfregavano contro il terreno.
“Beh se può consolarti…” Iniziò a dire Poe, catturando la sua attenzione.
“Non ho mai baciato un ragazzo che mi piacesse veramente…” Sussurrò malizioso.
“E… Allora? Che vuoi dire?” Chiese Finn a disagio, guardandolo con la coda dell’occhio.
“Che se ora tu mi baci, sarebbe la prima volta.” Disse con voce seria, smettendo di dondolarsi.
Finn lo guardò e fece un profondo respiro, lasciando scivolare le braccia sul petto.
Avanzò di un paio di passi verso di lui, fissando prima i suoi occhi scuri e poi le sue labbra sottili.
E per un lungo momento, indugiò, avvicinandosi piano alla sua bocca, temendo e desiderando quel contatto.
Quando alla fine le sue labbra si posarono su quelle dell’amico, si sentì invadere da una sensazione di piacere, come se il suo corpo si stesse sciogliendo e scaldando allo stesso momento.
 
“Abbiamo appena ascoltato Misery, dei Maroon 5! Qui è il vostro dj Hux che parla, come sempre in diretta da New York! Ditemi amici miei, non vi sentite anche voi dei miserabili idioti, quando siete innamorati? Così piccoli, stupidi, inetti perfino. Ci si dimentica come si parla, come si guida, come si cammina,  a volte come ci si allaccia le scarpe. E’ così che ci riduce l’amore. Ci dimentichiamo di noi stessi, delle bollette da pagare o dell’esame da preparare, e in compenso la nostra mente si riempie di tante piccole cose che non ci appartengono: Il profumo dei suoi capelli, il suo colore preferito, il sapore della sua pelle, il modo che ha di arricciarsi i capelli tra le dita. Sono queste le cose che rimangono, alla fine.”
 
Era un martedì mattina qualunque alla Columbia university, o almeno, così sembrava.
Finn era seduto sugli spalti, ed osservava il campo di calcio verde di fronte a lui, ispirando a pieni polmoni l’odore di erba tagliata.
Stringeva i pugni sulla sua maglietta azzurra, quella della squadra. Passò le mani sul numero 21, sorridendo malinconico. Poi osservò le scritte fatte con il pennarello rosso, accanto al suo nome.
Faceva male, leggere quelle parole così piene d’odio.
Più male che qualsiasi colpo preso sul campo.
La buttò a terra, chiedendosi se un giorno avrebbe potuto dimenticare il suo passato, o se gli sarebbe rimasto incollato addosso per sempre.
Era così preso dai suoi pensieri che non si accorse nemmeno che Poe era arrivato, finché non lo vide sedersi al suo fianco.
Aveva ancora la maglietta della squadra, e le strisce nere colorate sulle guancie.
Guardò l’uniforme dell’amico, raccogliendola da terra e togliendo il terriccio con le mani.
“Stasera la laviamo con il sapone, vedrai che tornerà come nuova!” Disse, cercando di sorridere.
Ma l’altro non rispose, continuò a fissare il campo, con gli occhi tristi.
“Sono degli idioti, fregatene di quello che pensano!”
“Forse hanno ragione Poe… Forse non dovrei essere qui…”
“Non dire stronzate!” Esclamò l’amico, passandogli un braccio intorno al collo. “Sono solo invidiosi perché sei più bravo di loro, tutto lì.”
“Lo dici solo per consolarmi…” Rispose l’altro, abbassando il viso.
“Lo dico perché è vero. Dentro e fuori dal campo.”
Finn scosse la testa, amareggiato. “Quello che ho fatto, non mi rende migliore di loro. Mi rende solo una persona orribile. E neanche tutto il sapone del mondo potrà cancellare quello sono stato.”
Poe rimase qualche istante a guardarlo, sospirò. Poi con la mano gli guidò il volto, per poterlo guardare negli occhi.
“Ciò che hai fatto, non ti rende una persona orribile. Una persona orribile, non si sentirebbe in colpa, non capirebbe di aver sbagliato, e non cercherebbe di rimediare ai suoi errori.”
“E dimmi, cosa ho fatto io per rimediare ai miei errori? Nulla, me ne sto qui a giocare come un bambino.”
“E che mi dici del fatto che hai rischiato la vita per salvare la mia? Quello non conta?” Disse Poe, accarezzandogli teneramente la guancia. “Te lo ricordi quel terrazzo? Quello dove abbiamo parlato la prima volta?” Chiese con gentilezza, sfregando il naso contro il suo.
“C’erano i panni stesi… E profumava di bucato.” Disse Finn, quasi in un sussurro. “Il cielo era limpido, e tu ridevi, osservando le nuvole. Non potrei mai dimenticarlo… E’ stato quel giorno, che la mia vita è cambiata.”
“Si… Perché hai lasciato la tua banda. Perché hai deciso che potevi essere migliore.”
“No…” Rispose Finn, alzando lo sguardo, fino ad incontrare gli occhi di Poe. “Perché ho incontrato te.”
Si ritrovarono entrambi a sorridere, fronte contro fronte.
Poe accarezzava la nuca dell’altro ragazzo, strofinando la guancia contro la sua, mentre
Finn gli prendeva la mano, dandogli dei leggeri baci sul collo.
Dall’altra parte del campus, nella biblioteca, Rey stava cercando un libro, osservando tra i tanti volumi sugli scaffali neri.
Poi d’improvvisò lo trovò, era un grande tomo con la copertina marrone. Soddisfatta avvicinò la mano per prenderlo, ma quando posò le dita sulla copertina, sfiorò quelle di qualcun altro.
In quella sottile linea che lo separava dagli altri volumi, in quello spiraglio di luce che univa i due lati della libreria, scorse uno occhio nero, un lato della sua bocca carnosa, un ciuffo di capelli che ricadeva sulla guancia.
Ben scostò il volume accanto, e quello dopo ancora, e ad ogni spazio che si liberava, il suo viso si faceva completo.
Rimasero a guardarsi, senza sapere cosa dire.
Le loro dita ancora vicine, che si accarezzavano i polpastrelli.
Poi lui allungò lentamente la mano, fino a stringere con forza la sua.
Rey aveva la sensazione di aver già vissuto quel momento, di aver già sfiorato la sua mano in quel modo, di essersi persa nei suoi occhi. Riusciva quasi ad avvertire il calore del fuoco vicino a loro, il rumore delle onde che si infrangevano sugli scogli, i tuoni in lontananza, il suo respiro lento ed incerto.
Spostò bruscamente la mano, spaventata da quei ricordi.
Rimase a fissare la sua mano, cercando di capire cosa le stesse succedendo.
Era un sogno? Era la sua immaginazione?  O erano davvero frammenti di una vita passata?
Erano domande troppo grandi, a cui non sapeva darsi una risposta.
Poi notò che Ben era proprio al suo fianco, e stava cercando con le dita di ricongiungersi alle sue.
“Non so cosa mi succeda…” Disse lei, ritraendo un poco la mano. “Non so cosa dire, ne cosa fare.”
“Allora non dire niente, non fare niente…” Rispose lui, intrecciando le dita con le sue. “Rimani semplicemente qui con me.”
Lei annuì debolmente, poi appoggiò la testa contro il petto di Ben, sospirando profondamente.
Lui le baciò la fronte, stringendola a sé con l’altra mano.
Lentamente i loro corpi si strinsero l’uno all’altro, sempre più forte, fino ad unirsi in’unico abbraccio.
 
Eccomi di nuovo con voi, miei soldati dell’amore! Qui è dj Hux, dalla Starkiller radio. Abbiamo appena ascoltato il nuovo singolo di Bruno Mars, Just the way you are. A chi non piacerebbe sentirsi dire quelle parole? Ti amo, proprio così come sei. A chi non piacerebbe sentirsi dire che si è perfetti, esattamente così come siamo? Con tutti i nostri difetti e le nostre manie, con le rughe sotto gli occhi e i capelli arruffati, con i piedi troppo piccoli e le cosce troppo grandi? Infondo è quello che cerchiamo tutti. Personalmente, io ho qualcuno che mi ama, esattamente come sono. Il mio gatto, il generale. Vi sembrerò stupido forse, ma in un mondo dove le persone vanno e vengono, quel grosso gatto rosso, è l’unico che rimane.”
 
Era il quattro luglio, e tutta l’America si preparava per festeggiare il giorno dell’indipendenza.
A New York avevano organizzato un grande corteo, le sfilate dei carri, feste e concerti in tutta la città, e i famosi fuochi d’artificio.
Anche il campus era in fibrillazione, e almeno per quel giorno, sia studenti che professori misero da parte le lezioni e i libri di testo, per concentrarsi sulle celebrazioni.
Il preside aveva organizzato una grande festa, per i docenti e i genitori degli alunni.
Ogni anno, quelle feste diventavano sempre più eleganti ed esclusive, per mantenere alta la reputazione del college. Dopotutto, era uno degli otto facente parte dell’Ivy League.
Era un onore, ma anche un responsabilità.
Il professor Solo naturalmente era stato invitato, ma per la prima volta nella sua carriera, era venuto accompagnato.
Entrò nella grande salone delle cerimonie del Campus, con uno smoking nero, e una ragazza a braccetto. Lei aveva i capelli sciolti che le ricadevano sulle spalle, e un vestito argentato, stretto e lungo, che le fasciava armoniosamente il corpo.
Non era abituata a portare i tacchi, per cui accettò di buon grado il braccio di Ben, pur di non cadere davanti a tutti.
Ben camminava dritto e fiero, impassibile e sfuggente, come se nemmeno vedesse tutte le persone che lo circondavano.
Con un cenno del capo salutava chi conosceva, ignorando tutti gli altri.
Rey cercava di imitarne i movimenti, visibilmente a disagio.
Odiava i vestiti, odiava le feste, spesso anche le persone.
Soprattutto, quel genere di persone che giudica chi ha di fronte in base all’abito che porta o alla sua posizione sociale.
Per quasi tutta la sera rimasero praticamente in silenzio, evitando presentazioni imbarazzanti e discussioni superflue. Bevvero qualche bicchiere di champagne, e osservarono i quadri e le sculture che decoravano la sala.
Ogni tanto si catturavano con lo sguardo, perdendosi in un universo tutto loro.
Finché lo sguardo di Ben venne attratto dal pianoforte, posto nell’angolo della grande sala.
Accarezzò i tasti bianchi e neri, sedendosi sulla panca.
Rey era davanti a lui, e dietro di lei, la luna era già alta in cielo.
Ben sorrise, poi iniziò ad accarezzare i tasti, componendo una melodia, senza smettere di guardarla, come se la stesse suonando solo per lei.
Era Clair de lune, di Debussy.
Intorno a loro si creò una piccola folla, intenta a contemplare il malinconico pianista, ascoltando distrattamente quel motivo dolce e famigliare.
Dall’altra parte della città, nelle affollate vie di Manhattan, Poe e Finn stavano festeggiando con alcuni amici, bevendo  e cantando a squarciagola, accennando qualche passo di danza, rincorrendosi per le strade. Tutto attorno a loro c’erano amici intenti ad ubriacarsi, ragazze che ballavano tra di loro, coppie che si baciavano sotto le luci colorate, odori di ogni sorta di cibo, fuochi d’artificio nel cielo, canzoni che risuonavano dagli auto parlanti.
L’intera città era in festa, e sembrava quasi che tutti avessero dimenticato i loro problemi, mettendo in pausa la loro vita incasinata, per concedersi una notte di follie e divertimenti.
Poe stava guardando il cielo, eccitato per i fuochi e le loro molte forme e colori.
Finn al suo fianco, guardava il volto del ragazzo, così dolce ed espressivo.
Poi d’improvviso lo prese per mano, trascinandolo attraverso la folla.
“Aspetta! Dove stai andando?” Esclamò confuso Poe. “Voglio vedere i fuochi d’artificio!”
“E’ una sorpresa!” Gli rispose l’altro, facendogli l’occhiolino.
Incuriosito ed emozionato, il ragazzo si lasciò portare senza fare domande, anche quando salendo sulla metro, Finn gli fece mettere una benda sugli occhi. Anche quando inciampò sul marciapiede e rischiò di cadere dalle scale.
Più di una volta fu tentato di togliersi quella benda, stufo di sbattere contro la gente o scivolare.
Ma resistette, perché la mano di Finn era salda nella sua, e la sua voce lo guidava.
Quando alla fine gli disse di toglierla, rimase senza fiato.
“Aspetta… Questo è… E’ davvero…?” Chiese impressionato, guardandosi intorno.
“Si. E’ il nostro terrazzo.” Rispose l’altro. Poi tirandolo appena per la mano, lo portò in un angolo dove aveva sistemato un lenzuolo bianco per terra, e sparso petali di rosa.
“Questa è la cosa più romantica che io abbia mai…” Iniziò a dire Poe, visibilmente commosso.
“Cazzo! Lo sapevo che sarebbe successo…” Lo interruppe Finn. “Che idiota che sono!” Sbottò, sbattendo il piede per terra.
“Che succede?”  Chiese l’altro, avvicinandosi a lui.
“Beh… Avevo lasciato qui anche lo spumante. Dovevo immaginare che ce lo avrebbero rubato!” Esclamò sospirando, mentre si grattava la nuca. Scusa… Volevo che fosse tutto perfetto.”
Poe rise, guardando quel ragazzo di solito così orgoglioso e forte, diventare improvvisamente tenero e premuroso.
“E’ tutto perfetto… Credimi. Non c’è nient’altro che potrei volere in questo momento…” Rispose, unendosi a lui in un abbraccio.
Gli strinse le braccia intorno al collo, mentre Finn gli circondava la vita.
“Sei proprio sicuro, di non desiderare nient’altro?” Sussurrò al suo orecchio, baciandogli poi il collo.
Poe si morse il labbro, accarezzando la nuca del ragazzo.
“Qualcosa ci sarebbe, a pensarci bene.”
“Vediamo se indovino allora!” Esclamò Finn, avvicinandosi alla sua bocca.
E proprio mentre i fuochi d’artificio scoppiavano nel cielo sopra di loro, illuminandolo di verde, rosso, giallo e viola, le loro labbra si scontrarono, si assaporarono, riscoprendo vecchi e nuovi sapori.
Due corpi stavano per unirsi, su quel bianco lenzuolo ricoperto di fiori.
Due anime stavano per ricongiungersi, come nella vita precedente avevano fatto.
Una vita di guerre, di schiavitù, di ribellione e di stelle.
Così come avrebbero fatto in quella successiva.
L’eco di quella vita, risuonava ora nella mente di Rey, mentre osservava le stelle sopra di lei.
Il vento le soffiava tra i capelli, piccoli brividi le ricoprivano la schiena.
Ben le appoggiò la sua giacca sulle spalle, con un timido sorriso.
Si appoggiò alla sua schiena, accostando la guancia contro la sua.
“A cosa stai pensando?” Le chiese, circondandole la vita con le braccia.
“Alle stelle.” Rispose lei. “Ti chiedi mai, cosa ci sia lassù?”
“Si… Immagino, che in una galassia lontana, altre due persone simili a noi, si stiano facendo la stessa domanda, guardano un cielo diverso.”
Lei sorrise, alzando gli occhi verso il cielo, immaginando, ricordando, un’altra vita.
Ben seguii il suo sguardo, e si perse negli stessi ricordi, ricordi sbiaditi e confusi, simili ad un sogno quasi del tutto dimenticato.
Poi avvicinò le labbra a quelle di lei, respirando su di esse per qualche istante.
Lei non chiuse gli occhi, gli tenne aperti, ostinandosi a guardarlo.
Quando le loro labbra si sfiorarono, timide e calde di desiderio, qualcosa dentro di loro scattò.
Qualcosa di indefinibile si risvegliò, inondandogli di un piacere simile all’estasi.
Rimasero a lungo su quel piccolo terrazzino, nascosti dalle tende di velluto, a consumarsi a vicenda.
Lui la sollevò tra le braccia, stringendola con tutta la forza che aveva, facendola roteare nell’aria.
“Faresti una pazzia con me?” Chiese lei alla fine, tra un bacio e l’altro.
“Si.” Le rispose Ben, riprendendo fiato.
Lei sorrise, con quel sorriso da bambina, furbo e malandrino.
Si tolse le scarpe, lanciandole dal balcone, con grande stupore di lui.
Lo prese per mano, fino ad arrivare ai parcheggi, dove gli lanciò un casco.
Salì sulla sua moto, si allacciò il suo, e accese il motore, sfidandolo a salire con lo sguardo.
Per qualche istante lui restò a guardarla incerto, poi fece un profondo respiro, e salì.
“Allora, dove mi vuoi portare?”
“Ha importanza?”
“No… Immagino che non ne abbia.”
“Allora tieniti forte Ben, si parte!”
Attraversarono la città in festa, superarono le macchine e le persone, oltrepassarono i grandi ponti, costeggiarono il mare, percorsero le lunghe strade, superando colline ed i boschi, finché le stelle scomparvero, ed un nuovo sole sorse di fronte a loro.
 
“Abbiamo appena ascoltato Train, con la sua Hey soul sister. Sembra anche voi, che vi stia chiamando? Che sussurri il vostro nome? Che vi cerchi tra gli sguardi della gente? E’ lì da qualche parte, la vostra anima gemella. Forse proprio al vostro fianco, forse in un’altra città, forse addirittura in una galassia lontana lontana. Qui è dj Hux, per l’ultima volta in diretta con voi, dalla Starkiller radio. Oggi è un giorno importante, per ognuno di noi, perché ci ricorda che per quanto difficile possa sembrare, per quanto dura possa essere, per quanti sacrifici richieda, abbiamo tutti la possibilità di essere liberi. Liberi non solo come nazione, ma come persone, come semplici esseri umani. Liberi di essere chi siamo, liberi di amare chi vogliamo. Liberi di inseguire strade diverse, di complicarci la vita, di sbagliare, di cadere e di rialzarci. Liberi di scegliere, liberi di pentirci, di provare, ancora e ancora, inseguendo quei sogni che ci tengono svegli la notte, che ci spingono ad andare avanti, sempre.  E allora ovunque voi siate nella galassia, con chiunque voi siate, qualsiasi strada stiate percorrendo, non smettete di percorrerla. Non smettete di inseguire i vostri sogni, per quanto lontani possano sembrare. Qui è il vostro dj Hux, che la forza sia con voi. Passo e chiudo.”



  
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