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Autore: Lapiuma    14/06/2020    0 recensioni
"Attrazione.
Tutti almeno una volta la sperimentiamo. É un formicolio delle dita, una corrente inarrestabile, i due capi di un elastico che dopo essere stati tesi allo spasimo, improvvisamente non possono fare a meno di ricongiungersi. È antica come il mondo, si intreccia alla nostra natura da sempre. È calamità magnetica, offuscamento della ragione, risveglio dell'animale. È tormento ed estasi, dolcezza di miele e sapido di lacrime.
È ciò che regola i nostri rapporti, che ci spinge a perpetuare la specie, che fa scoccare quel mostro chiamato amore. Sembriamo creati apposta per esserne interessati.
Ma a volte, l'attrazione va repressa, soffocata, condannata ad affogare in zone della nostra anima di cui non sappiamo il nome. Allora diventa afasia, tremore, rabbia, gelosia, instabilità. È un acido che corrode le viscere e un immenso roveto con cui imprigionare il cuore. È contraria alla nostra natura, aliena ai nostri istinti, morte dell'animale sotto la ragione. È squilibrio, violenza silenziosa; repressione dell'attrazione."
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1.
Attrazione. 
Tutti almeno una volta la sperimentiamo. É un formicolio delle dita, una corrente inarrestabile, i due capi di un elastico che dopo essere stati tesi allo spasimo, improvvisamente non possono fare a meno di ricongiungersi. È antica come il mondo, si intreccia alla nostra natura da sempre. È calamità magnetica, offuscamento della ragione, risveglio dell'animale. È tormento ed estasi, dolcezza di miele e sapido di lacrime.
È ciò che regola i nostri rapporti, che ci spinge a perpetuare la specie, che fa scoccare quel mostro chiamato amore. Sembriamo creati apposta per esserne interessati.
Ma a volte, l'attrazione va repressa, soffocata, condannata ad affogare in zone della nostra anima di cui non sappiamo il nome. Allora diventa afasia, tremore, rabbia, gelosia, instabilità. È un acido che corrode le viscere e un immenso roveto con cui imprigionare il cuore. È contraria alla nostra natura, aliena ai nostri istinti, morte dell'animale sotto la ragione. È squilibrio, violenza silenziosa; repressione dell'attrazione.
......
Quando lo vedo, per un attimo è come se perdessi consistenza: il mio corpo si è dissolto, sono solo negazione, urlo in una prigione. È in un angolo, una birra in una delle sue mani nervose, i jeans stinti avvolti intorno alle gambe lunghe, i baveri del cappotto alzati ad accarezzargli gli zigomi. Mi si attorcigliano le viscere, sono affascinata dall'architettura della sua immagine: un corpo asciutto, tutto piegato in un intrico di linee spezzate, sgraziate, che nell'insieme però sprigiona un fascino impossibile. Stupidamente, mi rendo conto che, per quanto me lo imponga, non posso impedirmi di desiderarlo, di provare per lui una brama meschina, che incrina l’acciaio della mia armatura. Soprattutto quando si lascia cogliere in modo quasi imprevisto in mezzo a una folla, un sorriso pigro, appena accennato sulle labbra, quella sua sottilissima ruga in mezzo alle sopracciglia. 
Davanti a lui sono indifesa, nuda. 
Lui impiega qualche secondo ad accorgersi di me, anzi di noi; ne approfitto per lasciare che il casino assordante del locale mi penetri dentro, ammorbi tutte quelle voci sibilline che mi si rincorrono in testa. Ma poi Alice lo chiama, tutta sorrisi e guance rosse. Sofia, di fianco a me, mi dà di gomito, già ride per la ridicola fibrillazione della nostra amica. Ricambio con una smorfia ironica e alzo gli occhi al cielo, mentre Sofia inizia a sganasciarsi quando Alice prende a correre e si lancia su di lui. Non ha idea quanto mi faccia male questo momento. Se l'avesse, dubito ci troveremmo in questa situazione. Sarebbe tutto molto, molto diverso, non so se meglio o peggio. 
Mentre li raggiungiamo, non oso alzare lo sguardo, mi obbligo a trovare interessanti le chiazze luride sul pavimento. 
Poi, appena entrano anche i suoi di piedi nel mio campo visivo, è il mio momento. 
"Ma voi due non potete trovarvi una stanza? È estenuante stare a guardarvi mentre vi saltate addosso" esordisco e imbottisco le parole di sarcasmo, le metto in ordine tre volte nella mia testa, prima di spararle una dietro l'altra, di fila, senza tentennare. Sofia mi schiaccia il cinque, mentre Alice si mette a ridere, spalmata sul suo corpo, le vocali della sua risata che affondano nel collo di lui. Lui lo ignoro, non lo guardo, lo escludo perentoria dal mio campo visivo. In questo momento, nel momento della mia trasformazione, dell'ibernazione del mio cuore, non esiste, non deve esistere. 
"È sempre un piacere vederti, Irene" la sua voce, però, bassa e scura, mi arriva comunque, fa strage d'ovunque. Per un attimo, il suo astio malcelato mi fa venire voglia di concluderla qui questa pagliacciata, di congedare gli attori ed abbassare il sipario. Il fatto che mi detesti è spina e carezza insieme, orrore e soddisfazione in pari misura. Perché tu non sai le parole che vorrei dirti, i nei che vorrei scoprirti, i baci che vorrei darti. Non lo sai. E mi chiami per nome, irene, irene, irene, e la tua voce mi dà alla testa, mi fa dimenticare cose importanti, cose fondamentali. Tipo Alice. Alice. Lei sì che è importante, fondamentale, vitale. Mentre lui, lui è solo un movimento dei nervi, un capriccio degli ormoni, composti chimici che mi esplodono nel cervello. Lui, lui non è nulla. 
Gli rispondo, senza neanche voltarmi: "Mi dispiace dire, Andrea, che il piacere è tutto tuo". Secondo cinque con Sofia, Alice mi allunga il pugno, mi prega di aver pietà del suo povero ragazzo. Suo. Dovrei essere su di giri, effervescere d’adrenalina: l'ho schiacciato, affossato contro il pavimento senza neanche guardarlo. Invece mi sembro una di quelle libellule mezze affogate, che in estate, ubriache dalla dolcezza dell’uva, si lasciano andare alla deriva sul pelo di un lago. Suo. 
Improvvisamente ho bisogno d'aria, di porre in mezzo a noi spazio, distanza. Decido di prendermi da bere e lascio che Alice e Sofia chiacchierino in sottofondo, mentre tra la gente accaldata, in accoppiamento sulla pista da ballo, individuo il bancone del bar sul lato opposto della sala. "Vado a prendermi da bere, voi rimanete qui?" chiedo e Sofia annuisce, facendo cenno ai due avviluppati l'uno all'altra. Così mi dileguo, diretta alla terra promessa, cercando di farmi strada tra un mar rosso di gente sudata, ubriaca, miseramente alla deriva dentro se stessa. Però, quando mi ritrovo con il cocktail in mano, senza sapere cosa fare, mi sento stupida, intrappolata nella mia idiozia: in realtà non ho nemmeno voglia di bere. Solo di tornare a casa e dormire, sprofondare in un buio denso, impenetrabile. Non voglio stare qui ad annegare in un vortice di corpi drogati. 
Per mia sfortuna, proprio mentre medito se infilare o meno l’uscita, vengo accalappiata da una Sofia sorridente e appiccicosa, che mi trascina di nuovo nel turbine, senza darmi tempo di opporre resistenza. Mi vomita nell’orecchio una fila di parole sconnesse, che colgo solo a tratti: “Dove ti eri cacciata? Mi hai lasciata da sola con quei due… che cazzo di noia… cos’è gin tonic questo?” E approfitta del mio stordimento per rubarmi il drink e scolarlo tutto d’un colpo. Stronza. “Ma ehi! Che diavolo…?” Lei scoppia a ridere, mettendomi a tacere: “Ti sto salvando il fegato cara, tra quindici anni mi ringrazierai” “Intanto mi hai fottuto sei euro e cinquanta, alcolista dei miei stivali” “Da quando sei così tirchia?” “Da quando sei una ladra?” Lei sbuffa, alza gli occhi al cielo, ma sul suo viso è dipinto un sorriso, una pennellata ciliegia, e mi stringe a sé, trascinandomi lontano dalla mia salvezza. Il suo calore di girasole scalda le mie ossa sottili, ali di un uccellino impaurito, e per un attimo squarcia le coltri del mio umore nero, bilioso. Lei mi guarda, sotto le luci stroboscopiche, in mezzo alla pista, e so cosa vede, so che mi vede, ma non penso di ritrarmi: lascio che mi veda, che mi comprenda con quegli occhi dorati, da maga saggia, mentre il suo sorriso si fa tremulo, curva all’ingiù come lo stelo di una campanula gravata dal sole di maggio. Non dice nulla e la ringrazio, appoggiandomi al suo corpo di luce, cercando di assorbire, di imprimere dentro di me quel calore amico e solo suo. Maldestramente le sfioro le guance, tirandole la pelle, e le disegno un sorriso posticcio, perché mi è insopportabile vederla sfiorita. Ci guardiamo di nuovo, dicendo tutto con gli occhi. Non devi essere triste solo per me. Lo so, che non devo, ma non posso impedirmelo. 
Rimaniamo intrecciate, in mezzo alla calca, il mio orecchio sul suo cuore, il suo viso nel mio collo. Ed è splendida e pura, come la rugiada che riverbera la carezza del sole, questa cosa tra me e lei, che ogni secondo nasce, pulsa e muore ed è sempre diversa e sempre uguale a se stessa. 
Lascio che mi trascini di nuovo da loro, seguendola a rimorchio, piano piano. Vorrei nascondermi dietro di lei, dietro la mia intrepida paladina, far in modo che la mia ombra sia inghiottita dal suo fulgore e che nessuno mai più si accorga di me. Sublimarmi in qualcun altro, annullarmi in chi è migliore, lasciare questo corpo pesante, traditore, bugiardo, che dentro di sé macchina e cova, e si diverte a credere che con me lui sarebbe più felice. Che con me starebbe meglio. Che lei lo imprigiona, lo soffoca, lo limita.  
Ma poi li guardo - sono di nuovo davanti a me - e mi ricordo che lei è Alice, Alice che è delicata come l’aurora e dolce come i lamponi d’estate, che ha un cuore di leone ed insieme di cerbiatta. Allora cade il mio castello di carta, crolla sotto la meschinità della sua stessa padrona, e rimangono solo macerie affogate nel buio. 
   
 
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