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Autore: yonoi    14/06/2020    20 recensioni
Un luogo dal fascino primordiale, in grado di accendere la fantasia e il timore.
Una valle remota, dove il lento passaggio delle stagioni è ancora regolato dagli spiriti della natura.
In cima a una collina, tre alberi formano un'oscura combinazione.
Un rito propiziatorio che si perde nella notte dei tempi.
Cosa accadrà quando qualcuno negherà il dovuto omaggio alle tre dame della collina?
Storia partecipante al contest "una biblioteca in disordine" indetto da Marika Ciuarrocchi / Angel Cruelty sul Forum di EFP
Genere: Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Le fate rappresentano il potere, il potere magico,
incomprensibile agli uomini e quindi nemico (…).
La parola gaelica per indicare le fate è sidhe,
ovvero il popolo delle colline
(da “Fate”, di Brian Froud e Alan Lee)
 

 

Foglie agre
 


Vi è stato un tempo, ormai perduto insieme alla memoria dei focolari, dei vecchi che sedevano negli spicchi di sole e dei villaggi senza più un nome, visitati soltanto dal vento della brughiera, vi è stato un tempo, dicevo, in cui energie sottili nutrivano la terra di un misterioso vigore. Creature primordiali, legate alla particolare natura dei luoghi, sovrintendevano al passaggio delle stagioni.
Così, quand’era l’ora, il mantello di neve e silenzio dell’inverno s’inteneriva fin dentro al cuore e cominciava a gocciolare dai tetti, a rumoreggiare turbinoso nelle grondaie. Nei prati, i bucaneve foravano il gelo con la punta delle dita e parevano anch’essi degli elfi, gli occhi semichiusi per l’abitudine al letargo e i cappucci bianchi sulle piccole zucche assonnate.
I lastroni di ghiaccio si spaccavano con un tonfo, gli stagni tornavano a sapere di muschio e i corsi d’acqua a ruzzolare verso valle. Nelle vene del legno scorreva la linfa nuova e le nocche del melo si gonfiavano di gemme.
Vi era, in quell’epoca ormai lontana, una valle stretta tra le montagne e una collina dominata da tre alberi. Posti uno di fronte all’altro al centro di una radura, formavano un triangolo talmente ben misurato che neanche a piantarli col metro si sarebbe potuto far meglio.
Erano due tassi e un prugnolo, nero di lunghe spine. In confronto agli altri due, levigati e solenni, il prugnolo era un groviglio così spettinato, e per giunta pungente, che solo gli abitanti più minuti del bosco – lo scoiattolo, il passero e per l’appunto gli elfi – riuscivano a scavarsi un rifugio tra i rami, lontano dai predatori e dagli umani curiosi.
Per questo, il prugnolo era considerato il custode per eccellenza delle cose nascoste. 
Il tasso, invece, essendo velenoso nella corteccia e nelle foglie, era considerato parente stretto dei morti ma anche un simbolo di eternità, in quanto assai longevo. Svettando verso l’alto, a lui spettava il compito d’indicare alle anime la via dell’aldilà. O almeno così si credeva in quel tempo in cui il mondo degli uomini e quello degli spiriti vivevano insieme come buoni vicini.  
Malgrado la loro diversità, i due tassi e la loro sorella minore vivevano in armonia da più di cento anni, rinfrescando le chiome alla brezza della notte, scambiandosi il ronzio delle api nell’ora sonnolenta del mezzogiorno, per il resto del tempo restando a contemplare il mondo in silenzio. Nel cuore della terra, le loro radici affondavano tenendosi per mano.
La radura era nota come luogo di sortilegi e d’incanti. Chi si fosse avventurato da quelle parti nelle notti di luna piena avrebbe udito musiche di zufoli e tamburi, e c’era chi giurava di aver scorto tre figure danzare sull’erba molle della radura. Spigolose le membra al modo di ramoscelli, i piccoli piedi levati al suono dolce dei flauti.
A parere dei pochi che ebbero il coraggio di avventurarsi fin lì, si trattava di creature non di questo mondo, o che vi appartenevano solamente a metà. Il loro aspetto era quello di dame di corteccia, gli abbozzi lignei dei seni strizzati nei corsetti e lunghe vesti immateriali e fluenti.  
L’intensa fragranza che, a quanto si diceva, accompagnava sempre la loro apparizione, ricordava quella dell’erba bagnata dal temporale.
Nessuno osava frequentare quel luogo specialmente nelle notti di luna nuova, quando le dame sedevano a tessere i germogli novelli, l’erba del prato e i canovacci dei torrenti prima di dedicarsi alla loro felice passione per la danza.
Soltanto un contadino, un uomo taciturno che viveva ai piedi della collina, era solito salirvi ad ogni luna nuova e deporre un’offerta - dolci di grano semplici e un poco di latte – ai piedi dei tre alberi. Cauto e rispettoso, non aveva mai tentato di sorprendere le dame intente al loro lavoro: era solito avventurarsi soltanto in pieno giorno, e una volta raggiunto il punto in cui gli alberi formavano un triangolo deponeva il suo omaggio. Quindi si premurava di rientrare al casolare prima che le ombre cominciassero ad allungarsi e a tingersi d’azzurro, preannuncio del crepuscolo.
Quel tizio che pareva fatto anche lui di corteccia era il proprietario di una fattoria prospera, circondata da terreni adibiti a pascolo e da frutteti sovrabbondanti: l’erba medica fioriva ad altezza d’uomo e la lavanda profumava tutta la valle, le mele appesantivano i cesti e nelle stalle ruzzolavano uno dietro l’altro i parti degli animali. A primavera, era tutto uno scalpiccio di agnelli che provavano a reggersi in piedi, un pigolio di pulcini a frotte sull’aia.
Il vecchio fattore era solito attribuire quell’abbondanza alle arcane presenze che dimoravano sulla collina. “Non mancate di rendere onore alle tre dame,” soleva ripetere ai figli, “come abbiamo fatto io e mio padre prima di me, e il padre di mio padre, sull’esempio dei nostri avi.”
I due maggiori non erano propensi a dar credito a quei discorsi. Li consideravano alla stregua di superstizioni da comari, ovvero di fantasie dovute all’età avanzata del padre. Il più giovane, invece, avrebbe voluto conoscere qualche cosa di più su quelle misteriose creature. In più occasioni s’era appostato al limite del sentiero sperando di poterle osservarle da lontano, senza riuscirvi mai.   
Alla morte dell’anziano padrone, la fattoria fu divisa in tre lotti: i figli maggiori si aggiudicarono il casolare e le stalle, i frutteti e le profumate distese di erba medica. Al più giovane spettò in eredità una striscia affondata ai piedi della collina, che in altri tempi era stata il letto di un torrente. Si trattava a tutti gli effetti di una pietraia nota in paese come il campo dei beccamorti, e mai nome risultò più appropriato, perché il vecchio proprietario l’aveva concessa in uso agli scalpellini che salivano dal paese a cavare le lapidi per i morti nuovi.
Il risultato di un primo sopralluogo fu sconfortante: c’erano più sassi che terra e anche quella era polvere, secca come le ossa del camposanto, arida come mai fu possibile trovarne in un canalone di montagna. Dell’antico corso d’acqua era rimasto solamente lo scheletro, costituito da pietre di tutte le fogge, dalla ghiaia minuta ai massi precipitati in tempi così remoti da sconfinare nella leggenda.
Malgrado le apparenze a dir poco sconfortanti e l’atmosfera sinistra che incombeva sul luogo, il giovane erede era ben determinato a cavare da quella fiumana di rocce almeno un orticello, sicché non si perse d’animo. Nei giorni di luna nuova saliva sulla collina, mentre il resto del tempo lo passava a sgombrare, a coprirsi di polvere mentre spalava la ghiaia, a pungolare i massi per convincerli a muoversi, come se fossero giganteschi pachidermi fermi in mezzo alla strada. E i pachidermi, docili, accettavano di levare le grosse schiene di muschio e di andare a spostarsi sul confine della nuova proprietà, mentre la terra cominciava a respirare, a sgranchirsi le zolle e infine a germogliare.
E fu di nuovo autunno sulle colline picchiettate di giallo e di arancio, poi il sole diventò un barlume lattiginoso, un moccolo nella nebbia, finché scomparve per lunghi mesi. Iniziò il tempo in cui i giorni non si distinguevano dalle notti, ma erano tutti ugualmente tetri e assediati dal gelo.
Infine, il sole tornò a scaldare quella piccola parte del mondo. I bucaneve forarono i lastroni di ghiaccio spingendo con le bianche dita sopra alla testa, e all’inizio della primavera seguente l’ex campo dei beccamorti era sbocciato come meglio non si poteva.
Nessuno seppe mai che cosa avesse dato maggiormente nell’occhio, se quell’inattesa esplosione di primizie o ancor più la frequenza con cui il figlio minore visitava il misterioso sito sulla collina. Fatto sta che i fratelli decisero un bel giorno di fargli visita e rimasero sbalorditi alla vista dell’orticello di verdure e dei semplici, dei ciuffi di prezzemolo alti fino al ginocchio, dei mirtilli del sottobosco che crescevano lì, portati forse dal vento o forse da un sortilegio.
La casa colonica era edificata con le pietre del torrente, di un bianco abbagliante e pulita come un osso. Di là in poi, il letto dell’antico corso d’acqua proseguiva sotto forma di file ordinate di meli.
“Ti sei sistemato bene,” notò il fratello maggiore, guardandosi attorno. Sebbene avesse ereditato la fattoria e tutte le stalle, stentava a tirare avanti. Se non c’era qualche malattia delle vacche, allora erano le galline a soffrire e le uova uscivano marce. Tutte le bestie parevano colpite dal medesimo incanto di malinconia, ed erano sempre più spelacchiate e magre. Era come se una sorta di ansia le divorasse. Ovviamente, a figliare le vacche non ci pensavano neanche e il medico del paese, lo stesso che a seconda dei casi si occupava degli animali e degli uomini, non sapeva che pesci pigliare.
Il fratello di mezzo si era accaparrato gli orti ed era in perenne lotta coi vermi, con le lumache che banchettavano a quattro palmenti tra i cavoli, addentavano l’insalata e spargevano bave venefiche ovunque. “Hai fatto un gran lavoro,” osservò suo malgrado, rivolgendosi al minore. “Questo non sembra neppure il campo dei beccamorti.”
“Probabilmente è stato commesso un errore nel fissare i confini, e in realtà questo terreno non ti spetta,” rincarò il primogenito. “Oppure hai chi ti aiuta? Eri per caso tu quello che abbiamo visto in cima alla collina meno di un’ora fa, mentre eravamo per strada?”
“Cosa stavi facendo lassù? Certo qualche stregoneria per guastare i nostri campi e ammazzare le bestie.”
“Stasera è luna nuova,” rispose il più giovane col naso in su, rivolto verso il luogo degli incanti segreti. “Ricordate la raccomandazione di nostro padre? Oggi mi sono recato sulla collina per onorare le tre dame. Dovreste farlo anche voi.”
“La collina si trova nella mia proprietà!” sbottò il fratello maggiore. “Che non ti veda mai più in quel luogo a evocare quelle creature infernali. E ti dirò di più,” aggiunse, “domani stesso farò abbattere quegli alberi maledetti.”
“Non farlo,” intervenne il minore. “Non hai idea di cosa potrebbe succedere.”
“Conto sul tuo aiuto per mettere fine a questa storia,” continuò il primogenito rivolto all’altro fratello, quello di mezzo. “Useremo la legna per segnare con maggior precisione i confini di proprietà. Almeno, da tutta questa faccenda ne uscirà qualche cosa di buono.”
 
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Il mattino seguente, mosso da un inspiegabile presentimento, il secondogenito si levò mentre le stelle erano ancora alte nel firmamento. Inciampò in tutti i possibili spigoli prima di raggiungere la lucerna, perché la notte era di luna nuova e quindi densa di tenebre. Non appena riuscì a raggiungere gli abiti a tentoni, si vestì in tutta fretta, cavò dal materasso la borsa coi denari, attaccò il mulo al calesse e partì di gran carriera diretto in città.
“Sarò al mercato per l’intera giornata,” lasciò detto per chiunque si fosse preso la briga di venirlo a cercare, e mentre lo diceva aveva in mente soprattutto – per non dire soltanto – il fratello maggiore. Non si sentiva in animo di partecipare all’abbattimento dei tre alberi. Il perché di quell’improvvisa intuizione gli sfuggiva del tutto. Di saggezza non si trattava, posto che anche lui aveva sempre considerato l’esistenza delle dame alla stregua di una superstizione, che suo padre aveva ereditato tale e quale dai suoi avi, senza riuscire mai a scrollarsela di dosso.
Se non era la saggezza a farlo correre, si poteva trattare solamente di panico, tanto più forte in quanto del tutto irragionevole, come ogni paura che si rispetti. Il fratello di mezzo, in realtà, lo sapeva: era il terrore a mettergli le ali ai piedi, a farlo galoppare nella notte di luna nuova ormai giunta al termine, lungo la strada battuta che conduceva in città.
Quella stessa mattina, al campo dei beccamorti, il figlio minore era impegnato ad accudire i meli giovani quando sopraggiunse il maggiore, accompagnato da una squadra di taglialegna.
“Vieni con noi, e forse potrò convincermi che con le malattie del bestiame tu non hai nulla a che fare. Vieni a dimostrarmi che sei del tutto innocente.”
Di nuovo, il più giovane non si scompose. Continuò imperturbabile nella sua occupazione, che consisteva nel legare i tronchi meno vigorosi ai rispettivi sostegni, in modo che potessero venir su diritti e in grado di reggere l’urto delle tempeste.
Il fratello maggiore se ne stava piantato là a gambe larghe, circondato dai suoi scagnozzi con la scure. Il sole passava le dita tra i rami, accendeva di barbagli le foglie e le lame di bagliori affilati.
“Ricorda le parole di nostro padre,” si limitò a dire il minore, avvertendo la bufera addensarsi e stringendo i fusti con maggior lena.
“Non sarai tu a dirmi che cosa devo fare,” rispose il maggiore, voltandogli le spalle. “Andiamo,” aggiunse rivolto ai suoi. “Mettiamo fine al malocchio una volta per tutte.”
Pochi minuti dopo, la squadra era sul posto e il rumore delle asce, i tonfi ben scanditi e i sordi contraccolpi che incidevano il legno echeggiavano fino al frutteto, giù al campo dei beccamorti. I giovani meli tremavano, per quella solidarietà che attraverso vie ignote unisce le radici di tutte le piante del mondo.
Eppure, di lì a poco, quei colpi ben ritmati cessarono, e se si fosse trovato anche lui in cima al colle, il fratello minore avrebbe visto i volti dei taglialegna pallidi come cenci.
Di fatto, una volta sferrato il primo colpo d’ascia contro al tronco di uno dei due tassi gemelli, dalla corteccia era emerso un lamento. Dapprima fioco e indistinto, come se fosse scaturito dalle radici e faticasse a risalire, s’era poi palesato come un grido aguzzo di donna.
Chi l’aveva sentito, lì per lì doveva aver pensato a un’allucinazione o a qualche eco lontana, condotta fin là dal vento. Ma ben presto quell’urlo era salito fino in cima, fino a riempire tutta la cupola di fronde, di foglie agre e penombra, cacciando via a folate gli uccelli dai nidi e scatenando una fuga improvvisa di scoiattoli. Era durato un attimo. Non appena la lama si era allontanata dal tronco era cessato.
Neppure il tempo di rendersi conto se si trattava di realtà oppure di suggestione che un altro boscaiolo, all’estremità opposta e poderosa del tronco, aveva calato l’ascia ed ecco un altro grido, più carico di rabbia e dolente del primo. I due taglialegna si erano affacciati ciascuno dalla propria postazione attorno al tronco scabro, profondamente inciso dalle intemperie e scuro di molti secoli.
Non avevano sprecato né fiato né parole per domandarsi cosa stava accadendo, perché entrambi conoscevano le dicerie del luogo, e se fino a quel momento ci avevano riso sopra, considerandole fole da donne, ora non erano più dello stesso parere.
Gli altri boscaioli si scambiavano sguardi, si scrutavano tra loro di faccia in faccia. Nessuno osò colpire con la scure gli altri due alberi e anzi qualcuno cominciava già a defilarsi, a ritirarsi in qualche angolino più distante come per suggerire alle tre dame verdi che loro si trovavano là per caso, e comunque erano ben disposti ad andarsene, quanto prima e alla svelta.  
Quando il fratello maggiore si accorse che tutti lo fissavano più o meno esterrefatti, perse definitivamente le staffe. Anche lui – e più di tutti – aveva udito il lamento, ma l’esasperazione per la fattoria in malora l’aveva indotto a interpretare quel segnale al pari di una vittoria. Non esitò quindi a strappare l’ascia al caposquadra e si mise a colpire la corteccia del tasso con tutta la foga e la collera che si sentiva in corpo.
L’urlo che uscì a quel punto fu come un grido di guerra.
I boscaioli non fecero neppure in tempo ad avvertire il maggiore di levarsi di mezzo, che l’albero crollò a terra con uno schianto. L’eco di quello strepito restò nella memoria dell’intero paese perché fece tremare le strade, le aie e i pavimenti di tutte le case. Il pane che era stato messo a lievitare sotto ai canovacci ruzzolò fuori dalle madie, il latte scappò dai secchi, il burro dalla zangola e molte altre stranezze furono raccontate a proposito di quell’accadimento, per dire quanto fu straordinario e funesto.
Poiché il fratello maggiore era più scaltro e svelto di tutti i tassi del mondo, riuscì facilmente a sottrarsi a quei quintali di legna che venivano giù a capofitto e che sarebbero stati in grado di accoppare un cavallo. Riuscì a schivare l’impatto semplicemente con un salto.  
A quel punto, i taglialegna avevano le facce non più bianche come cenci ma trasfigurate in verde dal senso di malessere.
“Non si è mai vista una cosa del genere,” commentò il caposquadra. “Un albero come questo, di solito ci vogliono ore prima che cada.”
“È evidente che il tasso voleva farlo secco,” sghignazzò un vecchietto che si reggeva a stento e che si era accodato alla comitiva, a suo dire, per pura curiosità. A guardarlo da vicino e per bene, aveva un naso camuso e lunghe orecchie appuntite, occhietti neri e lustri e un elaborato berretto sopra a cui s’innestavano mazzetti di campanule. Quell’aspetto inconsueto, unito al fatto che le campanule erano notoriamente tra i fiori prediletti dagli elfi, convinse l’intero gruppo dei taglialegna a filarsela alla svelta.
Rimasto solo di fronte all’immenso tasso abbattuto, il fratello maggiore sgobbò fino a notte fonda per segare il tronco fino ai rami più sottili, caricare i ciocchi sul carro e da lì trasportarli alla fattoria. Mentre era intento a quell’occupazione e un senso di rivincita rendeva i suoi colpi più feroci e azzeccati, un mormorio di dolore passava tra le foglie del tasso superstite, e in mezzo al groviglio di fiori candidi e spine del prugnolo lì accanto.
Pareva che entrambe le piante si chinassero a piangere sulle spoglie premature del tasso. Ancora al tempo felice del vecchio proprietario, ai rami dei tre alberi erano stati legati dei nastri colorati, per onorare la loro fertilità e bellezza e acquistarne il favore.
Erano proprio quei nastri che ora il fratello maggiore strappava con rabbia, mentre era intento a segare i rami del vecchio tasso, già pregustando il fuoco che avrebbe acceso una volta a casa. Era intenzionato a bruciarli nel camino dal primo all’ultimo, più per dispetto che per annullare chissà quale incantesimo. Non sapeva che portare nella propria dimora i ciocchi del tasso, albero della morte se mai ve ne furono, equivaleva ad attirarsi una maledizione coi fiocchi.
Quella notte stessa, il fratello maggiore perì soffocato dal fumo sprigionato dalle foglie agre e velenose dell’albero, insieme alla famiglia e a parecchi tra i servi. Tuttora si racconta che mentre quei miasmi salivano per il camino, portando con sé le anime, coloro che si trovavano a passare di lì abbiano udito suoni di risatine soffocate, sì da pensare che fosse in corso da quelle parti un convegno d’amore.
A partire da quella notte, sulla cima della collina solamente due dame furono viste danzare.
 
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Dopo la morte del primogenito, la sua eredità passò al fratello di mezzo. Questi si ritrovò proprietario, oltre che dei frutteti, delle grandi stalle che al tempo di suo padre avevano custodito decine di capi, tra mucche, pecore e capre. I malanni però continuavano a colpire sia le piante che gli animali. Imperterrite, le lumache addentavano le foglie peraltro sempre più sciupate dei cavoli, alle vacche si tastavano le ossa sul dorso e il latte che producevano era giallo e puzzava a metri di distanza.
Al campo dei beccamorti, invece, la fioritura dei meli aveva ceduto il passo a frutti così fitti e abbondanti che il fratello minore s’era trovato nella necessità di toglierne molti dai rami per non svigorire le piante. Malgrado ciò, più frutti staccava e più ne spuntavano di nuovi, e i meli anzi parevano ritrarre un giovamento da quell’esplosione di linfa, di polpa e di colore.
A voler considerare i fatti da un certo punto di vista, quello dell’invidia, l’abbattimento del grande tasso della collina non aveva apportato nessun giovamento a chi si rifiutava di onorare gli spiriti naturali riconoscendo loro la grazia dell’abbondanza.
Furono proprio l’invidia e il dispetto, o forse solamente la disperazione, a spingere a un certo punto il fratello di mezzo a voler completare l’opera del maggiore. Questa volta per reclutare i tagliaboschi dovette farli venire da fuori, perché in paese non trovò più nessuno che fosse disposto a ripetere l’esperienza. Le voci che giravano riguardo alla misteriosa fine del fratello maggiore e alle voci femminili che s’erano involate su per il camino ridendo, non valsero a dissuaderlo.
Di nuovo si ripeté la scena sulla collina. In quell’occasione, risultò che il secondogenito aveva intrapreso certi studi esoterici, strambe elucubrazioni da cui risultava che il tasso era un covo di spiriti maledetti e nocivi, capaci di malocchi tenaci almeno quanto le radici dell’albero. Mentre le foglie più alte arrivavano a fare il solletico al cielo, le suddette radici si diceva arrivassero fino al centro della terra, là dove bruciavano le fiamme dell’inferno.
Un fremito passò tra le fronde delle due piante superstiti.
La notte precedente era stata di luna nuova, ma nessuna musica di zufoli e tamburelli, nessun passo di danza aveva animato la notte della collina. Tra i rami chini del tasso e quelli del prugnolo passava solo il vento, che ebbe pietà di loro, prese a fischiare forte e si fece voce. Per tutta la notte continuò a vagabondare quel lamento struggente, ai piedi della montagna e per le vie del paese, nelle piazze riempite solo dal cielo nero, dove alla voce in lacrime portata dal vento si univa il pianto a dirotto delle fontane.
Dal campo dei beccamorti, il fratello minore udiva quel gemito ed egli solo riusciva a tradurlo in parole e a comprenderne il senso. In quella notte comprese che c’è una morte anche per gli spiriti, che anche ciò che è magico può diventare polvere.
La mattina seguente, il grido di dolore del grande tasso gemello gettò nello scompiglio i boscaioli venuti da fuori.  
“Questa volta non ha sbagliato la mira,” mormorò un sinistro personaggio che si trovava a passare di là, e assistette alla scena dell’enorme tronco che pencolava frusciando attorno al punto del taglio. Il tasso reciso esitò solo un poco, fin quando decise la direzione da prendere e si abbatté al suolo, sfiorando, nella caduta, con la punta di un ramoscello il fratello di mezzo.
“Vedrete, vedrete un po’ cosa succederà!” sghignazzò lo strano passante. I taglialegna, allibiti, stentavano a credere a ciò a cui avevano appena assistito con i loro occhi. Non s’era mai visto, infatti, che un albero tagliato scegliesse in quale direzione precipitare.  
Quando però quegli uomini esperti della montagna e che naturalmente non credevano alle leggende, notarono l’aspetto di quel vecchio col bastone, che aveva le orecchie a punta, occhi neri e dispettosi e uno strano copricapo decorato con mazzolini di campanule – segno più che evidente che c’erano fate in giro – rimasero sbalorditi. Allo sbalordimento seguì un rapido ripasso delle credenze locali, quelle di cui avevano riso così spesso e volentieri nelle serate ai pub, e a quel punto la paura cominciò ad arrampicarsi su per i garretti come quando s’incappa in una vipera lungo i sentieri. Il che indusse i taglialegna forestieri a darsela a gambe seduta stante, abbandonando il fratello di mezzo al suo destino.
Questi era ancora intento a strofinarsi il punto in cui era stato colpito dal ramoscello. Di lì a un batter di ciglia, non era più in grado di dire né come si chiamava né dove stava di casa, avendo perso in un sol colpo la memoria e anche il senno. Una cicatrice candida sulla fronte segnò per lui l’inizio della follia totale. A partire da quel momento l’uomo fu pazzo e pazzo da legare. Non si curò più dei frutteti e delle stalle, e iniziò a vagabondare lungo i sentieri di giorno e di notte, spesso in fuga e gridando che un albero lo inseguiva, finché fu ritrovato, marcito da giorni, in fondo a un burrone.
In esito a questi strani e apparentemente inspiegabili avvenimenti, il fratello minore si ritrovò a possedere in qualità di unico erede tutti i beni che erano stati di suo padre, i pascoli e le stalle, gli orti e la collina su cui restava ormai solamente il prugnolo. Quest’ultimo, col tempo, si era sviluppato ulteriormente in ampiezza non trovando più il limite imposto dai tassi. In breve, si era trasformato in un groviglio di spine che formava una vera e propria barriera e impediva a chiunque l’accesso alla collina. Soltanto il fratello minore poteva accedervi, per portare quei dolci e quel poco di latte che nei giorni di luna nuova rammentava al selvatico spirito del prugnolo il suono dei flauti, il ritmo dei balli e la dolcezza di un tempo.
Allora l’ultima dama si poneva a sedere su una zolla d’erba soffice, e dai suoi lunghi capelli che ricrescevano sempre tagliava come coriandoli i petali dei meli, dei mandorli, dei mirtilli. Tesseva all’uncinetto la schiuma dei torrenti e ricordava ai bucaneve quand’era il tempo si rompere con la punta delle dita il ghiaccio e iniziare la primavera.
Aveva molto da fare, la dama superstite, perché era rimasta sola e le toccava mettere ordine in tutta la valle. Per di più era confusionaria per natura, e il modo in cui il suo albero cresceva spettinato la diceva assai lunga sul suo stile di vita. In fondo, si trattava pur sempre di uno spirito libero.
Una volta terminato il lavoro del mese, allora si fermava ad assaporare un biscotto, un breve sorso di latte. Salutava l’anziano suonatore di flauto, che a sua volta s’inchinava levandosi il cappello decorato da mazzolini di campanule. Poi non restava altro che dare il via agli zufoli e ai tamburelli, e di nuovo la danza della notte di luna nuova poteva incominciare.    
 
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Nota: Questa storia non avrebbe mai visto la luce se non mi fossi imbattuto nella leggenda delle dame verdi pubblicata dal sito web “Elfland – benvenuti nella Terra di Mezzo”, che cito testualmente come fonte per la struttura base della leggenda, da me ovviamente – e non poco – rimaneggiata, perché la fantasia crea sempre nuove sfumature e dettagli. Ringrazio i curatori di Elfland per avermi autorizzato a trarre ispirazione da questa fairytale di origine e ambientazione squisitamente inglese.
Grazie ancora, di cuore.

http://www.elfland.it/2019/12/19/dame-verdi/
  
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