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Autore: paige95    15/06/2020    8 recensioni
La guerra in Afghanistan è il filo rosso che lega il destino di due uomini e due famiglie, due mondi distanti che non sanno di essere molto vicini tra loro.
Nell'estate del 2018, in pieno conflitto, il tenente comandante dei Navy SEALs Christian Richardson e l'inviato speciale del Los Angeles Times Samuel Clark verranno chiamati al fronte, lasciandosi alle spalle vissuti, affetti e i vasti territori californiani.
[Questa storia partecipa al contest "Chi ben comincia è a metà del prologo" indetto da BessieB sul forum di EFP]
Genere: Angst, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Destino'
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L’infanzia rubata




 
Base militare americana – confine Nord/Est di Kabul, 23 agosto 2018
 
 
Dalle prime luci dell’alba, la cartina del centro e della periferia di Kabul aveva catturato l’attenzione di Christian; lo scomodo letto, offerto in dotazione a qualsiasi soldato di ogni grado, era diventato il suo piano di lavoro. Aveva accomodato solo una gamba sul materasso, il ginocchio fungeva da appoggio per il gomito, e l’altra era penzoloni giù dalla sponda, mentre la schiena era ricurva; non era confortevole, ma non si sarebbe rilassato in qualunque posizione, visto che la mente era in tensione.
Il generale Flores aveva ragione, stava perdendo di vista il reale obiettivo che lo aveva condotto tra lo squallore di quelle terre distrutte. Scacciò dai meandri più razionali della mente il pensiero di Katherine e Alisia, lo serbò nel cuore e impedì che per qualche ora tornasse a martellare; immaginò la moglie devastata senza sue notizie dal fronte, poteva solo sperare che l’animo di ghiaccio del generale avesse impiegato qualche minuto del suo prezioso tempo per confortarla, ma era solo un magro e remoto auspicio per Christian.
Kabul era immensa, da una semplice cartina si poteva cogliere la maestosità della capitale. Per il capitano però era diverso, in passato l’aveva visitata, aveva già respirato da vicino la vita della popolazione afghana. Di sicuro Christian era stato testimone del processo di urbanizzazione che aveva investito anche quella zona remota dell'Afghanistan, bombardata, annichilita, ma mai del tutto scomparsa agli occhi del mondo. L’umanità soffriva tra i grattacieli risparmiati dalla guerra; erano costruzioni simili a quelle della città natìa di Christian, ma a differenza di San Diego erano privi di colore, cupi e impolverati, come i visi dei loro abitanti.
Il tenente ricordava nitido l’odore di sangue e macerie che aleggiava nell’atmosfera della città, pregna di dolore, morte e solitudine. Leggeva i nomi delle strade sulla cartina asettica e visualizzava nella mente la posizione e la conformazione; erano passati nove intensi anni colmi di conflitto, poteva essere cambiato tutto, di sicuro buona parte dei volti che aveva sfiorato, anche solo nel tempo di un battito di ciglia, non esisteva più.
Il Navy SEAL si concentrò sull’ospedale militare posto al centro della città. Era quello l’obiettivo, il resto era solo contorno; era in quel punto l’ala più critica della zona rossa, era lì il rischio più elevato e conclamato che civili, sani e malati, stavano correndo. Circondò sulla cartina il nosocomio con un tratto di biro. Non era facile capire come muoversi, le vie esposte e gli accessi controllati dal nemico impedivano qualunque margine d’azione. Cercò di non lasciarsi attanagliare e sopraffare dallo sconforto e dall’impotenza. Ogni percorso diretto era ostruito da talebani armati fino ai denti e da trappole spesso invisibili e perciò più insidiose. Christian depennò con una croce tutti gli ostacoli, le strade più esposte e allo stato attuale impraticabili. Non restava alcun varco, anche piccolo, nemmeno una porticina sul retro non controllata e sconosciuta ai sequestratori.
Necessitava di un’idea fulminante, valida e risolutiva. Non era più solo ciò che si aspettavano da lui, era anche ciò che Christian si aspettava da se stesso. Se le idee mancavano – quelle più sicure per la sua incolumità –, ecco che i riflettori si accendevano sul sacrificio: gettarsi nell’ignoto e sperare di essere abbastanza fortunato per uscire indenne da uno scontro diretto e poterlo raccontare. Gli sfuggì un sorriso amaro al pensiero della sua fortuna, la buona sorte non lo aveva mai assistito, se non in rare – rarissime – occasioni, quelle fondamentali per continuare a vivere: la famiglia.
Nel Coronado colleghi, superiori e sottoposti vantavano le sue doti da stratega, ma San Diego non era Kabul, l’oceano – di cui sentiva la mancanza – non era la guerra. Lo scenario era diverso, la posta in palio era più alta, così come il grado di rischio. Aveva un disperato bisogno della Stella polare che indicasse il Nord, la direzione più sicura da prendere, la porta giusta tra le mille da varcare; aveva perso la bussola, il senso dell’orientamento, rischio peraltro comune su un suolo devastato in modo informe.
Il cielo che la sua bambina aveva dedicato a lui prima della partenza era candido, carico di speranza e di buoni propositi; era il cielo pacifico della California, sgombro da nuvole di polvere. Il cielo sereno che Alisia aveva disegnato era lo stesso sotto cui lei viveva; molti bambini afghani non erano altrettanto fortunati da riuscire a scorgere una stella cadente e possedere ancora l’innocenza del sogno. Si era ricordato solo in quel momento di aver lasciato il prezioso disegno nel taschino della divisa; l’aveva indossata di rado negli ultimi giorni, l’aveva presto accantonata in favore della classica uniforme dai colori militari, più comoda e più discreta tra le fila dei commilitoni. Ritrovò il disegno di Alisia, era un po’ sgualcito, ma intatto; lo dispiegò e appurò anche con sollievo che i colori fossero vividi; l’unica àncora di salvezza per la sua anima era integra. Come un fulmine a ciel sereno, un’idea lo folgorò e si sovrappose al disegno di sua figlia, la sua bussola; la strada da percorrere gli era appena stata rivelata da una bambina di sei anni, certo non intenzionalmente, ma gli aveva illuminato il percorso da intraprendere.
Qualcuno era entrato nel frattempo nella stanza, aveva avvertito passi felpati, ma non si curò di alzare lo sguardo, la sua mente era divisa a metà tra la famiglia e la missione; finalmente le sue due più grandi premure non cozzavano più, anzi il pensiero dell’una rendeva meno oneroso quello dell’altra.
«Capitano. Gradisce del caffè?»
Aveva riconosciuto la voce di Gwendoline, ma non aveva incrociato il suo volto nemmeno per un istante; il foglio che teneva ben saldo tra le dita aveva guadagnato la sua più completa attenzione. Alla ragazza intimò con la mano di attendere, pronunciare anche una singola parola gli avrebbe fatto perdere il filo dei pensieri; lei non si mosse dalla soglia, i suoi muscoli erano immobili, eseguì l’ordine – o quello che dava l’idea di essere – con ligio rigore, ma con le pupille seguì incuriosita i passi del superiore. Christian si accostò di nuovo alla cartina posata sul letto, ma stavolta rimase in piedi, la frenesia per la scoperta si era impossessata di lui; posò il foglio colorato alla sua sinistra sempre sulle lenzuola non più candide e visionò un’ultima volta l’intreccio capillare della città. Non vi era altra soluzione, il cielo stavolta non sembrava essergli così avverso, non doveva esserlo, non poteva. Deglutì il vuoto al solo pensiero di solcare di nuovo la volta celeste e stavolta con in circolo l’adrenalina di una missione delicata come il cristallo, che valeva la vita di salvatori e salvati; anche se, i talebani in primis, in quella cristalleria avrebbero scatenato presto una mandria di elefanti. Doveva essere la soluzione migliore, quella che avrebbe avuto successo al primo colpo, non vi erano altri tentativi, l’esordio avrebbe dovuto essere un trionfo. Era in fondo quello il lavoro di Christian, tentare e pregare di non aver progettato male e di aver seguito alla lettera tutte le fasi del suo piano; non aveva ancora delineato alcun piano, era fermo all’ideazione, ma era intenzionato ad elaborarlo il prima possibile, il tempo per quelle povere anime in pericolo stava scadendo.
Alzò finalmente gli occhi sulla ragazza, ma erano velati dai pensieri; lei infatti si sentì solo sfiorata dall’espressione intensa e accigliata di Christian, con la mente l’uomo era altrove.
«Gwen, l’ospedale ha un accesso sul tetto?»
Un po’ titubante, il soldato semplice si avvicinò alla cartina e si inginocchiò all’altezza del letto per indicargli un punto all’apparenza qualsiasi; non l’aveva trovata impreparata, da mesi ormai lei, insieme al resto dell’esercito insediato nella base a Nord/Est di Kabul, stava studiato la planimetria del nosocomio militare.
«Qui, tenente»
«Potrebbe essere libero, secondo te?»
«Non credo, signore»
«E se giocassimo sull’effetto sorpresa? Cosa dici?»
Christian le porse la domanda con entusiasmo; pericoloso o meno, amava il suo lavoro, amava avere la possibilità di salvare vite umane e ciò gli infondeva adrenalina insieme a grande spirito di iniziativa. L’esaltazione però non venne ricambiata dalla giovane, la quale accennò appena un sorriso fioco.
«Gwendoline. Tutto bene?»
«Sì, capitano, mi scusi. È la mia prima operazione, temo di non essere all’altezza»
«Non penso che tu non sia all’altezza, anzi hai dimostrato molta più destrezza di me, ma non ti consentirò comunque di affiancarmi in questa missione suicida»
L’uomo la fissò con uno sguardo austero, dall’alto al basso, che non ammetteva alcuna replica. Il soldato Ward ricambiò offesa le pretese del suo superiore; non voleva ripetere l’irriverenza del loro primo incontro, ma era stanca di essere sottovalutata e la sua inesperienza non era una valida motivazione.
«Perché sono una donna, vero?»
«Prego? Scusa, mi stai accusando di essere maschilista?»
Gwendoline stava affermando, ma si era trattenuta a fatica con un sospiro.
«Non ho bisogno di protezione, tenente, solo di ordini precisi. Mi affido al suo comando e so di non sbagliare. Mio padre si fidava di lei ed io mi fidavo di lui. Spero possa anche lei riporre fiducia in me»
Christian visse un suggestivo tuffo nel passato; gli occhi della ragazza erano infiammati da un luccichio intenso, proprio come quelli appartenuti al compianto sergente Ward. Solo uno stupido avrebbe potuto sminuire le sue doti in campo  per la sua appartenenza al gentil sesso. La giovane recluta era passionale, volenterosa e caparbia, su di lei il leggero velo di irriverenza non stonava.
«Gwen, il fatto che tu sia una donna non incide sulla mia decisione, ma …»
Un violento scoppio mozzò la frase dell’uomo e fece cadere nell’oblio la loro conversazione. La base militare fu inondata dal suono di un allarme intenso e insistente; entrambi scattarono in automatico verso l’uscita della stanza, non fecero congetture sull’evento appena avvenuto, ma la sua gravità fu drammaticamente palese.
 
 
 
Confine Ovest di Kabul, 23 agosto 2018
 
In coscienza Samuel non si era sentito di lasciare l’amico ad affrontare da solo il campo di battaglia. Era una paranoia del giornalista, visto che mille volte il medico aveva operato, senza valutare le conseguenze, tra le rovine ancora fresche del sangue delle vittime.
Lo scenario che i due uomini trovarono fu raccapricciante; da vicino scoprirono che non era esplosa un’unica bomba, bensì due in contemporanea e in un breve raggio d’azione, ciò spiegava il boato udibile a chilometri di distanza. Non fu solo il cuore di un occidentale inesperto a pompare meno sangue, anche lo stomaco di Karim fu assalito da crampi di dolore. In un simile scenario apocalittico restava solo che pregare; ai corpi dilaniati dall’esplosione dei sopravvissuti e di coloro che erano ormai deceduti stavano pensando i militari insieme alle autorità locali, i quali si occuparono anche di transennare la zona interessata. Karim si sentì inutile lì, fu assalito dal più profondo senso di impotenza; piegò le ginocchia, non sfiorò il suolo, ma abbassò lo sguardo su esso mortificato; la sua anima era stanca, le macerie del paesaggio, dell’amata Kabul dove aveva trascorso la sua giovinezza, irroravano il suo cuore di amarezza. Il Dio che pregavano non li stava assistendo più ormai da troppi anni, erano stati abbandonati; forse davvero stava chiedendo a quel popolo un sacrificio in suo nome, proprio come i terroristi dichiaravano. Il medico di Herat non era più sicuro che le sue suppliche raggiungessero la volta celeste ed anche se fosse, si dissolvevano nell’atmosfera come le vite spezzate dei suoi connazionali.
Le lacrime di Karim non inumidirono le iridi, fecero un balzo all’indietro quando lui e Samuel udirono la disperazione di una donna che implorava aiuto, da qualunque parte esso fosse giunto; le suppliche raccolte dagli uomini furono l’unico aiuto in cui il medico iniziava a credere, nel divino ormai aveva perso le speranze. I due uomini si precipitarono nella sua direzione, guidati dalle sue grida concitate. Non appena la scorsero, capirono entrambi che stavano prestando soccorso ad una giovane militare americana – lo stemma che portava al braccio sopra i vestiti era inconfondibile –, ma anche che non era lei ad essere ferita; la ragazza era inginocchiata sulla nuda terra – la bomba aveva sollevato lo sterrato, quel poco di civiltà che la guerra consentiva al Paese – e sulle cosce reggeva la nuca di un’altra donna, poco più vissuta di lei; a differenza del soldato, quest’ultima era moribonda, le palpebre erano dolcemente serrate e la massa muscolare si stava rilassando troppo mettendo a rischio la sua vita. Gwendoline aveva scoperto il capo della vittima dal khimar[1] per favorire il suo respiro e piangeva, riversando qualche goccia di sale sul volto candido del corpo inerme tra le sue braccia; dopo tante missioni fallite verso l’ospedale di Kabul e commilitoni morti, la giovane recluta fresca di accademia non riusciva a rassegnarsi alla morte prematura, poco importava che fossero suoi conoscenti o sconosciuti, la realtà era che una donna nel fiore dei suoi anni stava spirando davanti a lei e lei si sentiva impotente, anzi lo era, senza se e senza ma.
«Per favore, aiutatemi»
Karim accolse la preghiera che la ragazza aveva proferito tra i denti, insicura sul fatto che comprendessero la sua lingua; esaminò la vittima con un inevitabile trasporto emotivo, rappresentava la sua gente, ma prima ancora era un essere umano sofferente; sull’onda del dialogo che aveva intrapreso qualche ora prima con Samuel, notò che si trattava di una donna più libera di molte altre, quantomeno le era stato consentito di mostrare il volto. L’afghano si inginocchiò accanto alle due e cercò di intuire il motivo dello stato della vittima; sperò che la ferita fosse esterna e non ci fossero organi lesionati, in quel caso le speranze si sarebbero azzerate sul nascere. Gwendoline tremava sotto la testa della donna, il medico se ne accorse, le era troppo vicino per ignorarlo; Karim comprese l’emotività di una recluta, non poteva essere un soldato esperto per la sua giovane età; prima di occuparsi della donna ferita, sfiorò la mano della ragazza per rincuorarla, anch’essa aveva subìto un trauma, nello spirito forse, ma ciò non era ugualmente da sottovalutare.
«Tranquilla, faccio il possibile per lei»
Fu una boccata d’ossigeno per il soldato sentire quel salvatore pronunciare qualche parola in americano. Karim riuscì in breve tempo ad individuare l’emorragia, sul fianco destro della donna una macchia di rosso vivo stava imbrattando rapidamente la stoffa. Gli abiti della vittima erano stati lacerati da una scheggia di ferro; con facilità il medico riuscì a scoprire la parte che era stata colpita per valutare i danni; sperò che il frammento non fosse profondo e che avesse squarciato solo l’epidermide superficiale o al massimo i primi strati, causando il fluire copioso di sangue. Doveva affrontare una vera e proprio operazione sotto il cielo bianco ancora velato dalla polvere e a mani nude senza la strumentazione per la sutura. Non c’era tempo da perdere, era fondamentale quantomeno estrarre il corpo estraneo dalla ferita, al resto avrebbero pensato in seguito. Karim però venne distratto da una sottile voce infantile; il tono incrinato dalla sofferenza apparteneva ad una bambina che correva verso di loro e invocava in afghano la madre. La presenza dell’ultima arrivata aumentò le pulsazioni del medico; aveva una figlia, non poteva morire, la piccola non avrebbe subìto lo stesso destino di Hassan a distanza di pochi mesi, non se lui avesse potuto evitarlo in qualche modo.
«Samuel, portala via!»
Karim si era rivolto perentorio all’americano e il ragazzo non indugiò un istante, intercettò la bambina appena prima che riuscisse a raggiungere la madre riversa al suolo. La creatura poteva avere tre anni al massimo; Samuel la prese in braccio e la strinse al petto – non avrebbe comunque potuto essere d’aiuto in altro a Karim –, lasciò che piangesse sulla sua spalla e nascondesse il volto incrostato dalla polvere nelle pieghe del suo collo; sulla spalla di un completo sconosciuto il suo cuore innocente stava sfogando un immenso dolore accumulato, che assurdità, lui era la sua unica àncora di salvezza. La piccola non avrebbe compreso una singola parola in americano, ma il pianto era una lingua universale, così come le carezze; Samuel le accarezzò la schiena, sperando che si calmasse, era spaventata dal rumore delle bombe oltre che dalle condizioni della madre; nessuno avrebbe avuto il coraggio di darle torto.
«Karim, mi puoi dare buone notizie?»
«Sto facendo del mio meglio, sto improvvisando un’operazione per strada e non è proprio il luogo asettico per eccellenza»
Lo sguardo di Gwendoline non smetteva di ballare incontrollato tra le condizioni della piccola e quelle della madre ed infine si soffermò sul medico che, in una corsa contro il tempo, cercava di salvare almeno una vita in mezzo allo sterminio che si era consumato in pochi secondi quella mattina. Nessuno aveva potuto azzardare un aiuto a Karim, tra Samuel e Gwendoline non venivano raggiunte nemmeno le basi mediche; nonostante il medico avesse dovuto fare affidamento solo sulle sue forze, riuscì ad estrarre la scheggia senza aggiungere nuovi danni al corpo debilitato della donna. Come Karim aveva immaginato, un fluido rossastro cominciò ad uscire copioso senza ostacoli e non possedevano nulla per contenerlo.
«Dobbiamo accompagnarla all’ospedale più vicino. Subito»
 
~
 
Non appena Christian comprese che gli epicentri dell’esplosione erano due, decise di dividere la sua strada da quella di Gwendoline e di raggiungere il secondo luogo del disastro. Da troppo tempo ormai il Navy SEAL non toccava con mano il livello di distruzione che si era consumato all’improvviso sotto il cielo afghano, squarciando la quiete di una mattina di riflessione.
Non aveva idea di quanto la sua presenza potesse tornare utile su quel suolo randellato; molti colleghi si stavano adoprando per ripulire il caos incancellabile, l’ennesima ferita da accatastare alle mille che erano state affondate nel cuore di quel popolo sfortunato. Procedeva tra la più completa desolazione; restava in allerta nel caso qualche grido di aiuto fendesse l’aria viziata dall’odore di tritolo. Un silenzio assordante rendeva la sua anima pesante, un macigno quasi slegato dal suo corpo, talmente era insopportabile.
Christian chiedeva un qualsiasi segno di vita, una speranza che gli potesse dimostrare che nulla per Kabul era perduto. Un segno arrivò, però non fu certo quello auspicato dal capitano. Uno sparo sferzò l’aria, il rimbombo giunse al suo udito, ma non ebbe l’istinto di ripararsi dietro ai resti lasciati dall’attentato; rimase immobile in attesa di altro. Perché altro stava sicuro arrivando, non poteva ridursi tutto a un po’ di rumore, non certo in conflitto aperto. Ciò che avvertì poco dopo non fu una presenza e nemmeno una raffica di nuovi spari, ma un dolore lancinante all’altezza della scapola sinistra, abbassò lo sguardo, posò il palmo sulla zona dolorante e la sua pelle si macchiò di rosso. L’adrenalina nel sangue era scesa quasi subito, non c’erano bossoli ai suoi piedi, probabilmente il proiettile era rimasto conficcato dentro. Il fiato dell’uomo si disperse in parte nei polmoni senza trovare vie di fuga. Christian cercò la pistola nella fondina, per fortuna posta sulla coscia destra, non sarebbe stato in grado in quelle condizioni di sparare con la mano mancina. Fu un magro tentativo di difesa, la sua schiena venne sfiorata dalla punta di un’arma; al tatto il soldato riconobbe la punta di un kalashnikov, ecco cosa lo aveva colpito. Gli restava oscuro però il volto del suo assalitore.
«Hai una buona mira»
Non lo aveva visto sparare e nemmeno sorprenderlo alle spalle. Il dolore si accostò all’ansia, era in trappola; mascherò il timore per i risvolti peggiori che quell’incontro avrebbe potuto portare e il male fisico di cui stava soffrendo, accennò persino una smorfia sofferente. Difficile che il suo assalitore avesse capito le sue parole, ma non impossibile.
«Lo so»
I bulbi oculari di Christian si trasformarono in vetro, era la voce di un ragazzino, era troppo immatura per appartenere ad un adulto. La scoperta accantonò il fatto che fosse poliglotta, dettaglio che avrebbe potuto giocare a favore del soldato. L’istinto suggerì all’uomo di voltarsi e abbassare le difese, anche se erano già state frantumate da un pezzo; il suo giovane assalitore si muoveva solo in offensiva e aveva un margine di superiorità notevole su di lui.
«Getta la pistola»
Il tenente stringeva ancora tra le dita la guancetta della sua pistola, eppure da quando aveva scoperto la natura del suo assalitore l’aveva dimenticata, non avrebbe mai potuto puntarla contro un bambino, se necessario anche a costo della sua stessa vita. Christian obbedì, accostò la sua Sig Sauer al suolo, non era nella posizione per ribellarsi; trovò che l’accondiscendenza fosse l’atteggiamento migliore, desiderava instaurare un dialogo, stimolare in lui il raziocinio. Era inutile un conflitto a fuoco, era superfluo tra adulti, motivo in più contro un giovanissimo soldato. L’americano alzò le mani in segno di resa, desiderava solo la pace, con lui e i suoi mandanti, magari fosse stato il loro stesso desiderio.
«Non dovresti tenere un’arma tra le mani»
Il suo cuore di padre urlò l’aberrazione a cui stava assistendo, ma lo fece con pacatezza; l’irruenza non avrebbe giovato alla sua posizione delicata – in fondo non era lui ad avere l’arma in mano dalla parte del grilletto – e nemmeno al fiato corto provocato dalla ferita.
«Inginocchiati»
«Non voglio farti del male»
«Ho detto inginocchiati!»
Serviva a poco contraddirlo, aveva però necessità di cure, senza un intervento medico si sarebbe dissanguato in pochi minuti. Finalmente il giovane entrò nel suo campo visivo e stavolta il kalashnikov puntò dritto al cuore del Navy SEAL; era un adolescente nell’età dell’incoscienza, caduto vittima della malleabilità della sua natura fisiologica e morale. La vista di Christian si offuscò, la sua fronte era madida di sudore, se fosse stato in piedi sarebbe comunque collassato sulle ginocchia. Intravide il ragazzo vacillare, la punta dell’arma tremava contro il petto di Christian.
«V-vuoi uccidermi? O forse non vuoi e in quel caso ti chiederei di lasciarmi andare, ho bisogno di un medico»
Si era rivolto a lui con dolcezza, come se lo comprendesse. Infatti era proprio così, non aveva alcun senso accusare un ragazzino succube di una cultura deviata, in cui l’omicidio sembrava essere la norma.
«Christian!»
Una voce maschile distrasse il giovane armato. Il Navy SEAL non la riconobbe, i suoi sensi erano ovattati, ma l’intervento inaspettato di quell’uomo gli consentì di abbassare verso il terreno la canna dell’arma che lo stava minacciando e di strapparla con le poche forze che aveva riservato dalle mani del ragazzino, il quale era rimasto quasi impietrito dall’atteggiamento pacifico del soldato e dalla comparsa di un altro occidentale. Se ne andò confuso, corse via da loro, lasciando la sua vittima in compagnia del dolore che gli aveva provocato.
«Christian»
La voce di Samuel tornò ad irrompere nella mente del tenente, ma continuava a non discriminarla tra le sue conoscenze. Il giornalista si avvicinò a lui, raggiunse la sua altezza e tamponò con le mani la ferita insieme alla vittima. Per un momento il soldato ebbe l’impressione di sognare, quel ragazzo non poteva essere accanto a lui, in realtà era difficile che qualcuno lo soccorresse con una tale celerità.
«S-Samuel, c-cosa …»
«Non ti sforzare. Mi avevi promesso che saresti stato prudente e ti rivedo con una pallottola nella spalla»
Christian provò a sorridergli, tentò, ma il dolore si stava intensificando.
«Samuel, era solo un bambino»
«Lo so, ma ora non pensare a lui. Ti accompagno in ospedale, stai perdendo troppo sangue. Coraggio, appoggiati a me»
Il giornalista lo invitò ad alzarsi, afferrando il braccio sano del ferito.
«S-Samuel, non riesco a reggermi in piedi, mi mancano le forze»
«Capitano, tu devi alzarti. Sbaglio o hai una bambina a casa che ti aspetta? Pensa a lei e non a quel bambino-soldato, per lui puoi fare poco, ma puoi ancora evitare che tua figlia perda il padre»
Il giovane giornalista fissò il tenente con intensità, sperava di essere stato abbastanza chiaro, non poteva arrendersi, le drammatiche condizioni fisiche non erano una buona scusa.
 
 
 
 


Ciao ragazzi!
Sono un po’ in ritardo, scusate, ma questo capitolo era tutto tranne che semplice ^^”. Se siete giunti a leggere fin qui, significa che avete resistito alle intemperie disseminate in questa storia. Tanto angst, tanta drammaticità, ma tranquilli che io non sono in grado di fare morire i miei personaggi ^^.
Vi ringrazio di cuore, non ho parole per il supporto che mi state dando, non me lo sarei mai aspettata, mi incentivate tantissimo <3.
Prima di lasciarvi, vi posto l’immagine di Maryam, anche se in questo capitolo non viene citata. Lasciatemi però ringraziare
Amily Ross perché senza di lei gli occhioni azzurri della ragazza non sarebbero stati possibili ** <3. Sono ancora un po’ indecisa se mostrarvi Christian e Katherine, non vorrei rovinare la vostra immaginazione che sono sicura sia migliore ^^.
Alla prossima
Un grande abbraccio
-Vale


 
[1] Velo che copre il capo della donna, lasciando scoperto il volto.
   
 
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