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Autore: _Unmei_    19/06/2020    1 recensioni
Chissà se qualcuno è riuscito a capirlo, che in ogni colpo di scalpello che ha dato forma a quell'angelo, dietro a ogni lineamento cesellato con pazienza, nei boccoli che gli ricadono sulle spalle, nel morbido drappeggio che gli copre le gambe, nel lievissimo sorriso che gli increspa le labbra… che in ogni piuma delle ali che ho fatto nascere dalla sua schiena, c’è la mia dichiarazione d’amore per lui.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
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Giardini di Pietra
 
Capitolo 4

 
______________
 
 
Sono passati tre giorni dalle ultime parole che ho scritto, e sono stati giorni in cui la mia mente tornava al passato con ancor più insistenza del solito; anche di notte succedeva: ho sognato la mia perduta giovinezza, ho sognato Florent, e nel sogno ho creduto che fosse questa mia presente e triste realtà a non esistere.
Non sono vecchio. Florent è con me, va tutto bene. Che sollievo, e che strani pensieri!
Atroce tornare alla veglia, alla solitudine, a questo corpo offeso dal tempo. Sarebbe stato bello morire nel sogno e restarci per sempre, ma sono ancora qui, e dunque continuo a raccontare.
 
Credo di essere un uomo ostinato, ora meno che in gioventù, perché che senso ha intestardirsi quando ormai tutto è perduto? Un tempo, spesso, non mi arrendevo nemmeno di fronte all’evidenza del mio torto, adesso sono troppo vecchio per continuare a confondere l’orgoglio con la vuota caparbietà. Per questo allora non volevo cedere alla lusinga di Florent, e mi comportavo come se quel momento tanto intimo non fosse mai accaduto.
Non avevo scrupoli morali, o religiosi, tutt’altro: già allora la mia fede era scarsa, e non era certo la paura del cosiddetto peccato che m’impediva di abbandonarmi alla passione.
Non avevo una fidanzata cui porgere il braccio, e vivevo in quella grande casa praticamente da solo, eccezion fatta per le ore in cui Matilde prestava servizio; in ogni caso la sua presenza era discreta, e inoltre trascorreva le ore libere e la notte nella sua piccola dependance, cosa che mi lasciava tutta l’intimità del mondo, e che mi avrebbe permesso di scivolare facilmente nel letto del mio violinista… se solo avessi voluto.
E invece persisteva dentro di me l’idea che il sentimento che provavo fosse sbagliato e pericoloso, ed ero convinto che, se avessi saputo aspettare abbastanza a lungo, sarebbe svanito da solo, consumato da se stesso.
Avevo paura, ecco la verità.
Avevo paura di restare scottato, mortalmente ferito, come mi era già capitato in altre occasioni: nelle uniche due relazioni omosessuali, le uniche due relazioni e basta, a dire il vero, che io avessi mai avuto.
 
La prima volta non ero nemmeno quindicenne, e terribilmente innocente (dovrebbe essere proibito essere così innocenti!), e lui era un buon amico di mio padre… e un suo lontano cugino, pure; un uomo di trentacinque anni, molto ricco e altrettanto bello, amante dell’arte, del lusso e dei viaggi. Si chiamava Ludovico; mio padre era sempre cortese con lui, fino all’eccesso, perché apparteneva a una famiglia molto potente nella sfera politica.
Nei primi ricordi che ho di lui, io ero un bambino di sette, otto anni, e lui un giovanotto che già aveva girato il mondo: aveva viaggiato in Europa, ma era già stato anche in Egitto, in Russia, e poi negli anni successivi in Cina, in India. Amavo sentirlo parlare dei suoi viaggi, lo riempivo di domande, e lui soddisfava con pazienza la mia curiosità, sempre gentile, sorridente. Mi portava doni provenienti da quei paesi lontani, mi regalava stampe che ritraevano paesaggi che non avevo mai visto. Lo ammiravo, ogni sua attenzione mi riempiva d’orgoglio, e non c’era niente che desiderassi quanto diventare suo amico. Ero un bambino, lo adoravo, pendevo dalle sue labbra, ma i miei sentimenti erano innocenti… cambiarono, però, intorno ai dodici, tredici anni, entrando nella pubertà. Vederlo, ascoltarlo, anche solo attendere le sue visite, mi dava un’emozione diversa e sconosciuta; anche il tocco della sua mano, quando mi accarezzava la testa, mi dava il batticuore. Pensavo che avrebbero dovuto infastidirmi, quelle carezze sulla testa, perché erano un gesto che si riserva ai bambini, e non mi sentivo più tale, stavo crescendo… e invece le bramavo, e non sapevo perché. Mi era difficile restare per mesi senza vederlo, quando era in viaggio, e quando tornava la gioia mi colmava… nuovi racconti, nuove ore da passare insieme.
E non solo rispondeva alle mie domande, ma pure ora si interessava alle mie passioni, alle mie letture, ai miei sogni. Lodava i miei disegni, mi spronava e consigliava; era l’unico a incoraggiarmi nella mia nascente passione per l’arte, mi parlava di pittori e scultori delle epoche passate... mi regalò  Vite del Vasari. Li ho tutti ancora oggi, i suoi regali.
Altro tempo passò. Ero entrato ormai nell’adolescenza, e i miei batticuori aumentavano; le guance mi si imporporavano al suo tocco… una mano sulla spalla quando camminavo al suo fianco, o una breve stretta sul ginocchio quando gli sedevo vicino. Non sapevo come identificare ciò che provavo, non riuscivo a dargli un nome, conoscevo solo la strana sensazione che la vicinanza di Ludovico mi dava, e il desiderio di stare con lui più tempo possibile; essergli vicino, avere la sua attenzione, la sua approvazione.
Non avevo nemmeno quindici anni, dicevo… li avrei compiuti sul finire di ottobre. Era ancora primavera quando, mentre da soli passeggiavamo su un sentiero sulle alture fuori città, Ludovico mi chiese se mi sarebbe piaciuto passare l’estate con lui, in Francia; Parigi era la meta principale, ma avremmo toccato anche altre città. Ero incredulo, folle di gioia, il cuore impazzito: Parigi! E con lui, noi due insieme, per interi mesi!
Oh, sì! Sì!
Risposi, ma quasi subito il mio entusiasmo si smorzò: rabbuiato mormorai che mio padre non avrebbe certo acconsentito.
Ludovico mi posò una mano sulla guancia; la lasciò ferma lì, carezzandomi con il pollice, poi la fece scivolare lentamente sul collo, stringendo appena.
Parlerò io con tuo padre.
E mi sorrise, di un sorriso che non dimenticherò mai. Ero innocente, l’ho detto: non avevo saputo riconoscere in esso la brama… sapevo solo che la sua mano lì sul collo, le dita che si insinuavano sotto il colletto, sulla mia pelle nuda, mi davano una vertigine, un dolce tuffo al cuore, uno svolazzare alla bocca dello stomaco.
 
Partimmo a metà giugno; via nave, fino a Marsiglia, dove restammo qualche giorno. Per la prima volta in una città straniera, mi sentivo straordinariamente libero; cercavo di parlare nel mio ancora incerto francese, anche con Ludovico, e fantasticavo su ciò che avremmo visto e fatto a Parigi.
Lui ascoltava paziente, e poi mi raccontava di Notre Dame e del Louvre, della Sainte Chapelle e della cupola dorata degli Invalides, dei Giardini del Lussemburgo e delle Tuileries. Passeggiando talvolta mi cingeva le spalle con un braccio, o mi posava una mano fra le scapole, e poi la lasciava scivolare lenta giù lungo la schiena, e mi sembrava di sentirla bruciare, meravigliosa, attraverso i vestiti.
La sera del nostro terzo giorno lì, inevitabilmente mi ritrovai nudo sotto di lui, languidamente abbandonato alla sua bocca e alle sue mani, inebriato di vino rosso e forte che mi aveva offuscato la mente ma acceso i sensi.
E fu così per quasi ogni notte di quella lunga estate; da Ludovico appresi molto altro, oltre alla storia e all’arte… cose che certo non avrei potuto raccontare a mio padre.
Mi fece leggere libri e sonetti di cui mai avrei immaginato l’esistenza, il cui contenuto indecente mi faceva arrossire, e me li faceva leggere a letto, ad alta voce, per gustare la reazione che provocavano nel mio corpo, e intanto baciarlo, toccarlo e stuzzicarlo fino a quando non riuscivo più a seguire le parole sulla pagina, e la mia voce si spezzava, ansimante, e il libro mi scivolava dalle mani.
Mi insegnò a dare e a prendere piacere, ad abbandonarmi a giochi erotici a volte dolcissimi e a volte perversi, e mi insegnò anche che non c’era nulla di male in questo. I suoi racconti mi parlavano di cose a cui prima non aveva mai accennato… mi descrisse bordelli profumati d’incenso e di gelsomino, con i loro delicati fanciulli educati alla poesia e alla voluttà, ma mi parlò anche di strade squallide dove nel fango potevi trovare veri gioielli. Talvolta comprava i favori di quei ragazzi, e ripagava quell’ora di piacere effimero con abbastanza denaro da permettere loro di sfamare se stessi e le loro famiglie per un mese.
E poi diceva che io ero diverso, e che lo facevo impazzire, perché ero puro e fiducioso, e vorace e curioso; mi baciava il palmo della mano e scendeva giù fino al polso, e mi chiamava il suo eromenos.
I nostri giorni erano fatti di bellezza, di arte e poesia e storia; dopo Marsiglia, Arles, Avignone, e finalmente Parigi… e le nostre notti di passione, ed io ero vorace, proprio come lui aveva detto. Lo amavo, e desideravo che quell’estate non avesse mai fine; lo amavo, e non so se lui mi amasse nello stesso modo, ma so che ero felice, e che nel mondo che lui tesseva per me esistevano solo grazia e bellezza, e il futuro era radioso.
Quando rientrammo a Genova mi disse di non temere: anche se eravamo tornati nei nostri soliti panni, la nostra storia sarebbe continuata, e che saremmo partiti di nuovo insieme, appena possibile.
Stava via interi mesi per i suoi viaggi, ma quando tornava a casa mi dedicava il suo tempo, come e più di prima. Mi portò a Firenze e a Roma, l’anno successivo. In Grecia, quello dopo ancora; qualche mese prima della partenza mi aveva regalato Periegesi della Grecia, di Pausania, dicendomi che si trattava di un indizio piuttosto lampante sulla nostra meta, e io impazzii d’eccitazione e impazienza.
Mi promise che una volta avessi terminato gli studi saremmo rimasti in viaggio un anno intero, che saremmo andati ovunque volessi.
Ma non accadde.
Qualche mese dopo il ritorno dalla Grecia partì ancora, alla volta di Tunisi, per affari, e sulla via del ritorno si ammalò: febbre alta, dolori, tosse. Poi una debolezza tale da non riuscire nemmeno a stare seduto, episodi di delirio. Tutto questo me lo dissero, perché non potei incontrarlo, era tenuto in quarantena; protestai, insistetti, pregai di poterlo andare a trovare, ma fu inutile. Potei solo mandargli delle lettere, in cui nemmeno mi era permesso esprimere i miei veri sentimenti; gli scrissi di quanto avrei voluto essergli accanto, che avrei insistito fino a ottenere almeno una breve visita.
Prima di peggiorare troppo lui fece in tempo a rispondermi, in una grafia stentata che non sembrava nemmeno più la sua. Diceva che sarebbe stato felice di vedermi, ma che no, non dovevo andare da lui: temeva di infettarmi, per quanto il pericolo potesse essere ridotto, se fossi rimasto a distanza. Non voleva correre il minimo rischio, e non voleva nemmeno che lo vedessi in quelle condizioni, che definì indecenti e patetiche. Intanto il ricordo dei nostri viaggi gli avrebbe tenuto compagnia, e io avrei dovuto pensare a quelli che avremmo fatto in futuro. Sì, perché non dovevo disperare: aveva la febbre tifoide, dunque sarebbe potuto guarire, non era una condanna a morte.
E invece lo fu.
Le sue condizioni precipitarono, la febbre si alzò ancora, rimanendo costante, e lui rientrò nel delirio per non uscirne più, se non con la morte.
Ludovico, che mi aveva mostrato quanto fossero fiammanti i colori della vita, se ne andò così, soffrendo, e io che avrei voluto essergli accanto, stringerlo, accompagnarlo tra le ombre tenendolo fra le braccia… io non potei nemmeno assistere al suo funerale, perché la tensione e il dolore, il digiuno e le notti insonni, mi logorarono al punto da farmi ammalare a mia volta.
Nel mio letto, le coperte tirate sopra la testa, piansi e piansi, come non si conviene a un uomo; soffrii follemente, e soffrii in modo ancor più crudele perché non potevo dar sfogo liberamente a tutto il mio dolore, in famiglia… tutti sapevano quanto fossi affezionato a Ludovico, quanto lo ammirassi e quanto forte fosse la sua influenza su di me, ma nessuno sospettava ciò che davvero esisteva fra noi. Era un pensiero talmente estraneo ai miei genitori e agli altri familiari che nemmeno sarebbero riusciti a concepirlo.
 
Comincia a pensare di non volermi innamorare mai più, per non soffrire ancora, e per l’ideale romantico di essere fedele a Ludovico fino alla morte... e volevo morire presto anche io, perché mi sembrava di non aver più futuro, niente aveva più senso, e ogni persona intorno a me appariva sbiadita, banale, stupida, in confronto al mio perduto amore.
Tuttavia non morii, e a piccoli passi incerti tornai al mondo, seppure con un buco nel cuore. Passarono tre anni, e mi innamorai di nuovo. Lui si chiamava Patrizio, ed era un mio compagno di studi; era poco più grande di me, aveva i capelli rosso mogano, dolci occhi scuri e una leggera spruzzata di lentiggini sul viso. Aveva un’indole dolce, remissiva, e i nostri caratteri erano equilibrati fra loro; tra noi non c’era una figura dominante come era stata quella di Ludovico, né c’era la stessa passionalità, la stessa sete reciproca. Non c’era quell’ubriacatura di bellezza e quel fulgore di bramosia, il nostro  era un rapporto quieto e tranquillizzante, fatto di intimità e sussurri, un reciproco appoggio che si consolidava ogni giorno, diventando un punto fermo che dava sicurezza; era il mio faro in una lunga notte di solitudine.
A Patrizio tacqui di Ludovico e di tutto ciò che era stato, ma mi misi a nudo per tutto il resto: gli raccontai i miei sogni e le mie speranze, gli confessai paure e desideri, gli consacrai i miei sentimenti e gli promisi il mio futuro.
E lui mi tradì.
Non semplicemente trovando un altro amante… quello, forse, sarebbe stato più facile da sopportare.
Dopo quasi due anni dall’inizio della nostra relazione, senza un segnale, senza un indizio a precederlo, mi disse: ‘mi fidanzo’.
Impiegai qualche secondo a recepire il significato di quelle parole, e all’inizio non riuscii nemmeno a ribattere, restai pietrificato mentre lui continuava: sarebbe stato meglio se non ci fossimo più frequentati, nemmeno come amici, se avessimo dimenticato ciò che ci aveva legati.
Mi riscossi, e cercai di lottare; gli dissi che non poteva, che lo amavo, lo presi per il bavero e lo bacia, e lo implorai, e insultai, e quasi lo picchiai… non servì a nulla.
 
“Non possiamo continuare – rispose – dobbiamo pensare al nostro avvenire, al posto che occuperemo in società, alle responsabilità che ci attendono. Questo è un amore senza futuro: siamo due uomini, Riccardo, la vita insieme che tu vorresti non ci è permessa. Era chiaro fin dall’inizio che sarebbe finita in questo modo, solo tu non lo vedevi. Io ti amo ancora, ma spero che questo sentimento si esaurisca presto… e questo avverrà in minor tempo se non ti vedrò più. Per questo ti dico addio.”
 
Aggiunse che io avrei dovuto fare lo stesso, e prendere il ruolo che la società si aspettava; mi mancò la forza di replicare, e lo lasciai andare, chiedendomi chi avessi amato in quegli anni, e se davvero fosse stato amore, da parte sua. Si fidanzò, un anno dopo si sposò, si trasferì a Roma, e a me restarono solo le sue parole di commiato e l’amarezza, e mi convinsi che davvero non poteva esserci speranza per me: due volte avevo amato, due volte avevo perso. Ludovico mi era stato strappato dalla morte, Patrizio dalla vita. Non soffrii come per il lutto devastante di pochi anni prima, nemmeno lontanamente, ma mi sentii così amareggiato e deluso da pensare che forse era vero: non poteva esserci amore per quelli come me. Potevo solo scegliere se seguire la strada di Patrizio e adattarmi alle aspettative del mondo, o restare solo. Scelsi la solitudine.
Così ad appena ventidue anni chiusi il mio cuore, e da quel momento evitai ogni relazione che andasse oltre la semplice amicizia: non volli nuovi amori, nemmeno superficiali, nemmeno mercenari. Mi ritrassi a tal punto in me stesso da riuscire a vivere dimenticandomi della carnalità, spegnendo ogni attrazione che provava ad accendersi in me. Quasi riuscii a convincermi di non aver mai provato niente di profondo per Patrizio, quasi mi illusi che l’amore afoso e sfolgorante che mi aveva legato a Ludovico fosse stato una specie di sogno.
Ecco, semplicemente, mi arresi. Per dolore, per delusione, per paura, bandii l’amore dalla mia anima e vissi in tal modo per otto interminabili anni, traendo consolazione e felicità solo dall’arte e dalla scultura, nella quale riversavo tutti i miei sentimenti, dal più basso al più sublime, sfogandovi tutta la passione che tenevo prigioniera.
 
E poi incontrai Florent.
 
Pensate alle spaventose condizioni del mio cuore, impietrito da tanto tempo. Pensate alla tempesta che quel ragazzo causò, e al mio desiderio di fuggire, alla mia paura, a quant’ero disabituato all’amore e all’intimità. Immaginate i miei desideri contrastanti di dare un’altra possibilità ai sentimenti, e di costruire un muro ancora più alto dietro cui barricarmi.
Forse così capirete perché negavo, perché cercavo di scappare da me stesso, perché quell’attrazione mi sconvolgeva e non volevo cederle.
Continuai il mio lavoro, vivendo al fianco di Florent ogni giorno; suonammo ancora insieme, facemmo passeggiate, giri in carrozza… andammo a teatro, passammo tante serate in piedi fino a notte fonda, leggendo l’uno vicino all’altro. Lui talvolta trasformava la semplice prossimità in contatto, sfiorandomi nel passarmi vicino, o sedendosi accanto a me sul sofà, più vicino del necessario; sentivo così fortemente la sua presenza che il mio corpo fremeva da capo a piedi. E poi lui si allontanava, mi guardava colmo d’attesa, se ne andava, aspettava che facessi qualcosa.
Ma io, codardo, non riuscivo a far nulla, e poiché non volevo abbandonarmi ai miei sentimenti, consacravo il mio desiderio nello scolpire il simulacro di Florent. Non avevo altro modo per accarezzare il suo corpo, se non quello indiretto datomi dal marmo e dallo scalpello. Al fine giunsi a provare un attaccamento quasi morboso per quella statua; non ero sicura di volerla portare a termine, perché mi sarebbe stata portata via. E perché una volta finita mi sarei dovuto separare anche da Florent. Non volevo finirla perché mi aggrappavo a lei per mantenere il controllo, e perché almeno quel viso inanimato lo potevo accarezzare senza timore.
Poi…
Poi una sera andai nel mio studio, da solo. Accesi tutti i lumi, che crearono una bella luce calda e gentile, e mi avvicinai all’angelo di pietra, ammirando il mio lavoro. Ammirando l’angelo stesso, rapito dai miei sentimenti.
La statua non era ancora terminata, ma fino all’altezza della vita era già quasi perfetta; il petto, le braccia, erano lisci e flessuosi come i suoi, i capelli sembravano veri, il viso… oh, il viso! Restai a guardarlo come avevo guardato Florent in carne e ossa la prima volta, ammaliato. Come in un sogno, come fuori dal mio controllo, salii sulla scaletta per essere alla stessa altezza di quel volto marmoreo; lo accarezzai, e scesi con la mano lungo il collo, sulla spalla e poi sul petto, dove la fermai all’altezza del cuore, come se mi aspettassi di sentirlo battere sotto le mie dita. Il mio respiro era veloce, leggero; non potevo, non volevo, avere Florent, ma quella era una statua, solo una statua, anche se bella e perfetta. Era una statua ed era mia, perché io l’avevo scolpita, e quindi avevo il diritto di fare ciò che volevo.
Baciai le fredde labbra di marmo, una mano sul petto, l’altra sui suoi capelli; un bacio lungo, in cui immaginai di avere davvero lui, e di sentire il suo calore sciogliere i miei terrori. Ma Florent avrebbe potuto spezzarmi il cuore, la statua no… e con gli occhi chiusi potevo sognare quanto ne avevo bisogno.
Quando infine mi staccai rimasi a guardare da vicino il lievissimo, appena accennato, sorriso sulla bocca che avevo lambito; accarezzai le labbra inerti e confessai il mio amore con voce malinconia, addolorata, quasi colpevole.
Scesi dalla scaletta, e voltandomi mi accorsi di non avere solo la compagnia del Florent di marmo, poiché quello in carne e ossa mi stava osservando dalla soglia, avvolto nella sua vestaglia cremisi.
 
La terra mi mancò da sotto i piedi. Ero così sconcertato da non capire se il viso mi fosse sbiancato o se stesse andando a fuoco, giacché dall’espressione di Florent era evidente che aveva assistito a tutto.
E quell’espressione non era arrabbiata, o infastidita, o di derisione… era dolcissima, stupenda, così piena di tenerezza, ma anche di trionfo, da farmi tremare. Mentre restavo lì, penosamente paralizzato, lui venne verso di me con incedere silenzioso.

__________

NdA

Ecco spiegato perché Riccardo fosse così esitante nel prendere l'iniziativa, nonostante i segnali positivi di Florent a tal proposito. Non posso farci niente, devo avere almeno un personaggio con dell'angst pesante addosso, altrimenti non mi diverto. Infatti sto tentando di scrivere una nuova storia in cui tutti sono sereni, e sono in difficoltà, va evidentemente contro la mia natura.

Grazie per aver letto, al prossimo capitolo!
   
 
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