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Autore: VeronicaDallari    29/06/2020    0 recensioni
“Ecco un consiglio, ragazzo, da chi vede il tempo stando fermo. Non usare quella focalizzante prima di quando ti servirà. Vedresti colori che non possono essere descritti. Vedresti orrori al di là della tua più folle concezione, ti rapiranno durante il sonno e ti porteranno nella loro tana. Terrori dei non-luce al di fuori del Fuori. Hai visto che effetto fa; servitene quando sarà arrivato il momento: tu saprai quale.
“Non andare verso Arres. Le sue vie colorate ed interrotte dalla natura si arrampicano sui versanti più ripidi delle colline, ed il luogo più bello è quello che porta più dolore, perché è il più vicino alle montagne. Ti attende invece Geta, con la sua orrida ma sincera terra grigia ed infestata dagli spiriti di chi è stato sacrificato al culto. Quella che si compirà al tuo arrivo è una celebrazione spaventosa, ma tu ti unirai agli abitanti di Geta senza esitare. Osserverai il culto, osserverai la facilità con cui il coltello di pietra del Pozzo smembra i sacrifici, vedrai da vicino che cosa, da generazioni, è l’orrore di Geta. E poi, solo dopo il terrore, il fato ti darà le indicazioni per il luogo che cerchi."
Genere: Fantasy, Horror, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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La montagna si staglia, enorme, alla sua destra.
È la prima che vede da giorni, settimane – mesi? Ha perso il senso del tempo da così tanto che non ricorda nemmeno l’ultima volta che ha chiuso gli occhi al buio e non semplicemente quando era stanco – e non può fare a meno di esserne impressionato. Ani vi passa vicino, quasi toccandola con il remo della sua modesta barca di legno, in silenzio. Non c’è un rumore intorno a lui da quando ne ha memoria, e ormai ci ha fatto l’abitudine. È solo con i suoi pensieri da molto, molto tempo.
“Sarà difficile da superare” pensa Ani, lo sguardo critico puntato all’enorme massa di roccia. Probabilmente dovrà deviare di parecchio dalla direzione che tentava di seguire e non è nemmeno così sicuro di ritrovare la strada. “La strada per cosa?” Si domanda, ironico. Non sa nemmeno più cosa sta cercando, forse semplicemente qualcuno di simile a lui.
Ha una vaga idea di possedere un corpo, ma non ne è poi così sicuro. Si vede, ma potrebbe essere un’allucinazione causata dai troppi giorni trascorsi nel deserto. Riesce ad afferrare i remi della barca, ma forse è tutto dovuto soltanto ad una forte telecinesi. Chi lo sa? “Di sicuro non tu” si risponde, tranquillo, mentre circumnaviga la montagna.
Sospira. Se non fosse per la scarsa soglia di sopportazione che riserva al suo io pensante, da solo si troverebbe piuttosto bene, deve ammettere. Anche se, ormai, non sa neanche più come si interagisce con un altro suo simile. O come sia fatto. “O come ti chiami” lo rimprovera la sua voce, nella testa. Sì, effettivamente si è dato il nome Ani solo perché un giorno, moltissimo tempo addietro, ha percepito un suono da qualche parte, e il fatto lo ha sconcertato talmente tanto che si è precipitato verso la sua sorgente, senza trovarne traccia. Ha dedotto si trattasse della sua immaginazione che, stanca di tutto quel silenzio, gli ha urlato qualcosa di molto simile a “A-Ni”.
Ed ora è stanco di remare. Si lascerebbe volentieri trasportare dalla corrente, ma quest’ultima lo trascina inesorabilmente verso il ripido muro della montagna. Ani ha un’idea. Si lascia trascinare molto vicino, contrapponendo l’azione dei remi a quella della corrente, e si accosta alla parete di roccia. Utilizzando il remo come leva, si discosta di quel tanto che basta per poter puntare lo sguardo direttamente allo zenit e cercare di capire fin dove si estende il monte. Non c’è una fine. Sembra allungarsi in alto fino alle nuvole più basse, e poi continuare. Ani non ha mai posato gli occhi su niente del genere, almeno non nei millenni di viaggio che ha affrontato. Gli pare di scorgere un luccichio molto distante, in alto, ma non capisce da cosa potrebbe essere generato; “magari un minerale” si dice. E non troverà mai spiegazioni per ciò che accade in quel momento, neanche quando si siederà sulla pietra morbida, circondato da strane creature, alla fine del suo viaggio, ma si trova già con un piede fuori dall’imbarcazione, pronto a saltare nell’acqua – o in qualunque cosa quel liquido, sempre che i suoi sensi non lo ingannino, sia.
Quando se ne accorge è troppo tardi per riportare il suo baricentro sulla barca, così precipita in acqua. O in quella che crede sia acqua. È convinto che sia troppo densa per essere acqua, ma ormai non ha importanza, perché ci è finito dentro comunque. Non è né calda, né fredda, in effetti non percepisce niente di diverso nel suo corpo, se non una strana sensazione. Si sente come se quel liquido viscoso gli strisciasse addosso con una velocità mostruosa, attratto da qualcosa, ma forse è solo l’effetto della corrente. In ogni caso non ne ha idea. Solo una volta si è tuffato in un altro liquido – e suppone che quello fosse acqua, perché lo ha anche bevuto senza trarne alcuno svantaggio fisico – e comunque non ha avuto abbastanza voglia per fermarsi a ragionare. Ricorda di essere stato molto stanco…
Intorno a lui è tutto indefinitamente scuro. Non è proprio nero, è come se fosse diventato improvvisamente cieco. Prova a sbattere le palpebre qualche volta per accertarsi di avere gli occhi aperti, ma anche quando li sbarra, non entra un filo di luce nella sua pupilla. Per la prima volta da tempo immemorabile, è terrorizzato. Torna in superficie con un paio di bracciate e si aggrappa alla sua barca, che nel frattempo si è avvicinata. Cerca di tirarsi su, ma non ha forza a sufficienza e così, dato che i principi della fisica valgono bene o male in tutto l’universo, afferra la barca, cerca di portarsi in orizzontale, come sdraiato sul liquido e scopre di non fare poi troppa fatica. Con i piedi spinge sulla roccia per aiutarsi e finalmente riesce a risalire a bordo, non senza fiato corto.
Per un tempo indefinito, Ani rimane sdraiato sulla piccola imbarcazione accostata alla roccia, ansimando, lo sguardo puntato in alto. Il cielo è… pesante. Appare come una cupola ferma di azzurro che si estende all’infinito. Non sa dove è la stella, ma sa che è molto dietro di lui, lo sguardo fisso sul deserto, da qualche parte infinitamente lontana. È tutto immobile. In quel mondo di “acqua”, è tutto fermo. Non un’onda increspa la superficie del liquido scuro. Non un soffio di vento spinge all’indietro i capelli lunghi di Ani. Non una forma di vita – o una qualsiasi forma – spezza la monotonia di nero e azzurro che si estende in tutte le direzioni. Tranne la montagna.
Ci vuole poco prima che Ani capisca che è stato il suo destino a portarlo lì, ai piedi di quel colosso di roccia. Avrebbe potuto seguire qualunque direzione, sia nel deserto, sia una volta raggiunta quell’infinita distesa di oscurità, e invece ha scelto quella strada. Deve scalare la montagna.
È rimasto ad osservare il cielo per secoli, millenni. Nel frattempo ripercorre il suo viaggio nel deserto infinito, ancora e ancora: non è morto allora e non morirà scalando la maledetta montagna. Se proprio il destino lo ha portato lì, sicuramente non è per morire in modo idiota mentre compie l’impresa. Sarà una questione diversa quando arriverà sulla vetta. Gira intorno alla montagna senza cercare di ricordare da dove è arrivato, ormai ha come la sensazione che la direzione non abbia più importanza – sempre che l’abbia mai avuta: dal momento che il tempo non esiste più, magari è lo stesso anche per lo spazio. Ani trova un punto ideale per l’inizio della scalata e guarda in alto. Osservando attentamente, si rende conto che non potrà proseguire neanche solo lontanamente in linea retta; ci sono punti in cui l’appiglio disponibile più vicino è talmente spostato rispetto al precedente da richiedere un salto. In ogni caso, Ani ha intenzione di fidarsi della propria sorte. Si guarda intorno, con la speranza di vedere qualcosa oltre alla montagna e all’ombra che sembra acqua. Non riesce neanche più a vedere il punto in cui, ere prima, ha trovato la sua barca; in riva a quella che poteva essere chiamata una spiaggia, ma che in realtà non era altro che l’incontro tra il mare nero ed il deserto più puro. Ani ricorda che i cactus più vicini all’acqua non erano più distanti di un paio di passi. Dell’entroterra, invece, non ricorda assolutamente nulla. È come se fosse nato nel deserto e avesse viaggiato secoli, solo per incontrare quella barca.
Barca che sta per abbandonare. Non c’è verso di caricarsela sulle spalle per tentare di portarla con sé; la parete è troppo ripida; praticamente verticale. Puntando lo sguardo allo zenit non si vede altro che la montagna.
Ani non riflette tanto, è rimasto solo con i propri pensieri fin troppo. Si accovaccia, aspetta che la barca si stabilizzi – ora che è lontana dalla corrente non ci vuole così tanto – e, trattenendo il respiro, spicca il primo balzo.
Ani è agile. Si sente giovane e fresco, ma la realtà è che non ha idea di cosa sia, né di quanti anni abbia. Sa soltanto che grazie alla dieta a base di bacche variopinte e strani insetti dalle cento zampe, è fin troppo leggero. Si aggrappa ad uno spuntone con entrambe le mani e infila la punta del piede destro in una crepa larga un paio di dita. Sente qualche sassolino scivolare, ma non è poi così grave; si stabilizza immediatamente. Dopo i primi attimi di paura – Ani ha sviluppato inconsapevolmente un terrore quasi folle dell’ombra nera e profonda su cui ha galleggiato tanto tempo senza mai sprofondare – emette un sospiro di sollievo. Si concede una risata. Una risata! Ani non ha mai sentito la propria voce, se non nei suoi pensieri. Gli piace la sua voce. Ammette che in mezzo a tutto quel silenzio, un suono non guasta certo l’umore. E così, la fiducia ritrovata, prende a salire con maggior foga. Non si risparmia un grido di felicità ogni tanto, perché è sicuro che non ci sia nessuno a sentirlo.
Ora che ha preso confidenza con la roccia, tenta di salire sempre più velocemente, sempre più velocemente, finché, per la prima volta in quel tempo che ha trascorso in quello strano luogo, sente freddo. È vento.
Ani è incredulo. È sempre più distante dall’infinita distesa scura sotto di lui, talmente tanto che fatica a vedere la barchetta di legno. È così in alto da essere in procinto di superare le basse nubi che circondano la montagna. Ani è sicuro che, oltre quelle nubi, ci sia altro da scalare. Non si abbatte. È molto in alto, è vero, ma non così in alto da vedere il deserto da cui è partito. Non ricorda molto del suo viaggio, ma di una cosa è certa; ha dormito più spesso nel deserto che sula barca. Perciò, a rigor di logica – sempre che quella esista ancora – deve aver speso molto più tempo ad attraversare il deserto che il mare. Forse, una volta più in alto, potrà vederlo.
Instancabile, sale. Sente il dolore alle gambe, che iniziano a tremare dalla fatica; sente il sangue che scorre lungo le braccia, perché si sono staccate alcune unghie delle mani; sente il sudore che gli cola lungo la schiena e lo fa tremare di freddo, perché il vento lo colpisce continuamente, e più sale, più è esposto alla corrente d’aria.
Ani passa attraverso la nube bassa. Non ha messo in conto che, una volta dentro, avrebbe visto molto meno. In realtà non vede quasi niente, ma non si fa prendere dal panico. Aspetta che gli occhi si abituino un minimo a quella nebbia e cerca di arrivare all’appiglio più vicino. Per la prima volta in vita sua, ha davvero freddo. Ha talmente tanto freddo e male alle mani che per un momento pensa di lasciarsi cadere. È un pensiero fugace, ma forte abbastanza affinché lo spaventi più della caduta stessa. E così continua a salire, salire e salire.
Improvvisamente, si rende conto che la pendenza della parete diminuisce. Riesce a stare in equilibrio con meno difficoltà, perché è più piegato in avanti e fa meno fatica a sorreggersi. Sorride. Presto sarà sulla cima. “Potrebbe anche non esserci nulla” pensa, stanco. “Potresti anche trovarti di nuovo in mezzo al deserto, stanco e affamato.” Non gli importa, vuole solo…
Le sue mani toccano una superficie strana, ruvida. Orizzontale. È già uscito dalla nube bassa, e la luce è cambiata; sembra più intensa. Se punta lo sguardo in alto, riesce a vedere la Stella poco più in là. Solleva l’altra mano, e incredulo tocca la stessa superficie. Erba.
Ani, esaltato, trasferisce tutta la sua forza residua nelle braccia e si tira su. Si trova in un prato. “Un prato!” Pensa. "Un vero prato!" Ani, scioccato e ridente, si lascia rotolare oltre il bordo e si sdraia comodamente sull’erba fresca. Sente il vento di prima, ma la sua azione è compensata dalla Stella. Si sente bene. Non ha voglia di guardarsi troppo intorno per il momento, gli basta essere arrivato sulla cima. Il cielo è meno pallido e più in movimento. Nubi di varie forme lo attraversano, coprendo, ogni tanto, la luce del Stella. Ani le osserva, estasiato. Dopo tutto quel tempo di immobilità azzurrognola…
Il suo istinto lo porta di nuovo vicino al bordo. Improvvisamente spaventato, guarda in basso, da dove è venuto. C’è qualche segno di sangue sulle pareti del monte, ma non sono così visibili a meno che non si guardi attentamente. Alcuni curiosi insetti – o animali molto piccoli – grigi dalla forma allungata si avvicinano al sangue, lo annusano e vi si posano sopra, immobili. L’infinita distesa di nero è ancora lì, immobile sotto la piccola nube bassa, e lo terrorizza più del previsto. Non vede assolutamente nulla oltre a quell’oceano di oscurità, e la luce della Stella non riesce ad attraversarlo nemmeno quando si trova nel punto più alto. È come se il mondo non esistesse al di sotto di quella montagna. Non c’è movimento, non c’è varietà, non c’è vita.
Ani ha presto il fiatone e deve allontanarsi dal bordo, in preda ad una nausea incontenibile. Torna a guardare il cielo nella speranza che lo aiuti a calmarsi. Funziona. Non riesce a spiegarsi come non abbia mai fatto caso alla strana distesa di quella che sembra acqua prima di caderci dentro. Forse la scalata l’ha reso meno superficiale di quanto sia mai stato fino a quel momento. Sente quasi la speranza di poter recuperare ricordi del suo viaggio nello strano deserto, ma soprattutto dell’entroterra.
All’improvviso, un’ombra oscura il Stella. Ani, i cui occhi sono abituati alla luce, non vede nulla. Solo dopo qualche secondo nota la cosa che lo sta osservando.
Ani trattiene il respiro. Non ha mai provato un orrore più grande in vita sua. La cosa lo osserva, silenziosa, poco distante dal suo viso, in attesa forse di un movimento equivoco. Ani rimane in silenzio, le lacrime che zitte scivolano lungo le tempie. Si sente mancare la lucidità.
Si aggiunge un’altra cosa simile. Ani, ormai follemente terrorizzato, in preda all’istinto, grida e cerca di sottrarsi alla vista delle cose. Non sa dove andare, ma tenta di alzarsi e almeno di spostarsi. L’oceano nero non è niente, in confronto a quell’orrore. È allora che le cose capiscono che è vivo.
Ani sente un forte dolore alla testa, poi più nulla.
   
 
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