Anime & Manga > TSUBASA RESERVoir CHRoNiCLE / xxxHOLiC
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Autore: steffirah    30/06/2020    0 recensioni
Erano già trascorsi dieci anni all’incirca da quando il signor Fay mi aveva preso come assistente. Egli era un rinomato scrittore, mentre io invece ero nessuno. Ero solo un garzone, un ragazzino rimasto senza una famiglia, al servizio dei potenti. Sfruttato notte e giorno, il mio unico conforto stava in quei pochi momenti di solitudine, durante i quali potevo dedicarmi ai miei interessi e a me stesso. [...] A lungo andare, cominciai a cambiare. Quando ero arrivato lì ero già un tantino diverso rispetto a quando ero stato assunto, ma continuavo a sentirmi smarrito, incredulo, timoroso che tutto potesse sparire da un momento all’altro. Mi chiedevo se non stessi diventando troppo dipendente da quelle persone che mi avevano accolto con calore, quando invece ero sempre stato abituato a cavarmela da solo. Mi domandavo se fosse giusto e se, col mio agire, coi miei modi di fare, riuscissi a dimostrare tutta la mia gratitudine.
Ma a cambiarmi era stata soprattutto Sakura.

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[Basata sul tema del Tsubasa Month di maggio 2020: Day 12 AU]
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Fay D. Flourite, Kurogane, Sakura, Syaoran
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Shattering the Past







 
迷わないよキミの笑顔抱きしめ
落ちる涙は雨に消して強くなる
失くさないよこの想いは永遠に
つかみ取るのはきらめく世界


- “Kizuna” -








Steso supino tra i fili d’erba, osservavo rilassato le nuvole che vagavano nel cielo. Erano bianchissime, come soffice ovatta, e sembravano aver assunto le forme più svariate solo per me. Solo per tentare, invano, di occupare la mia mente.
Le tagliai fuori, chiudendo gli occhi, ripensando invece a quanta fortuna avevo avuto in quegli ultimi tempi.
Erano già trascorsi dieci anni all’incirca da quando il signor Fay mi aveva preso come assistente. Egli era un rinomato scrittore, mentre io invece ero nessuno. Ero solo un garzone, un ragazzino rimasto senza una famiglia, al servizio dei potenti. Sfruttato notte e giorno, il mio unico conforto stava in quei pochi momenti di solitudine, durante i quali potevo dedicarmi ai miei interessi e a me stesso. Mi piaceva indagare. Mi piaceva scoprire cose nuove. Mi piaceva restare ore ad osservare i dettagli delle collezioni d’arte del mio padrone. Mi piaceva origliare quando arrivavano ospiti stranieri e assimilare quelle brevi informazioni che davano sul proprio Paese. Tutto ciò che apprendevo lo annotavo su un taccuino, e fu proprio un giorno, mentre lo rileggevo al mercato per essere certo di aver memorizzato tutto, che quel signore straniero mi si approcciò.
Appena lo vidi, non sapevo bene che pensare. Indossava eleganti abiti nobili al di sotto di un ampio mantello impellicciato, e al suo fianco c’era un uomo ben due volte più grosso di lui, vestito completamente di nero in una sorta di divisa da guerriero.
«Ciao», mi sorrise cordiale, accomodandosi accanto a me su quella cassetta di frutta capovolta. «Che cosa stai leggendo?» domandò interessato, affacciandosi sul mio taccuino.
Lo strinsi al petto, celandoglielo dallo sguardo, cauto. Non ero sicuro che tutti i dati che avevo raccolto potessero essere letti da altri. E ciononostante gli rivelai almeno di cosa si trattasse.
Dopo tale notizia, i suoi occhi lampeggiarono.
«Sei al servizio di qualcuno?»
Annuii, riferendogli il nome del mio padrone, Fei Wang Reed.
Lui si portò una mano al mento, pensieroso, guardando negli occhi l’altro uomo.
«Dici che lo convinciamo a darcelo?»
«Tsk, finché lo paghi non avrà certo da ridire, conoscendo il soggetto», sbottò l’altro, sprezzante.
Il biondo sorrise, rivolgendosi poi a me cordiale: «Ti andrebbe di venire con noi? Naturalmente se non sei tu stesso a desiderarlo non insisterò. Solo che vedi, sto scrivendo un libro su queste terre e mi farebbe veramente comodo un assistente, soprattutto se fosse qualcuno della zona».
Si manteneva sul vago, ma capii subito dove voleva andare a parare. Mi stava dando una nuova possibilità, una nuova chance. Mi stava offrendo una vita migliore, forse una vita vera, e io sarei stato stupido a rifiutare.
Lo guardai dritto in quelle iridi celesti, cercando l’inganno, ma esse erano chiare come un cielo privo di nubi, e sembravano totalmente sincere.
«È una perdita di tempo, non si fida di te», sbuffò l’altro, incrociando le braccia.
«E sarebbe del tutto naturale», rise il mezzo albino, allungando una mano. La sua nobile mano inguantata che cercava la mia, piccola, sporca e ferita. «Io sono Fay D. Fluorite. Vivo in un paese al Nord e sto viaggiando per raccogliere materiale. Qui fa molto caldo e sicuramente inizialmente ti sarà difficile abituarti ai nostri rigidi inverni, ma ciononostante ti chiedo di apportare un po’ di pazienza. Il tempo non è inclemente come potrebbe sembrare.»
Dato che continuavo a fissarlo soltanto, senza ribattere nulla, soggiunse: «Abito in una villa in cima ad una collina, insieme ad altri servitori, domestiche, e la mia sorellina, che è l’unica effettiva famiglia che mi è rimasta. Sebbene consideriamo quell’uomo nero lì il paparino di casa».
«Chi sarebbe il paparino?!» lo rimbeccò questi, mostrando un’estrema confidenza.
«In realtà è una sorta di guardia del corpo, e il suo nome è Kurorin», lo presentò, ignorandolo.
«Mi chiamo Kurogane! E non sono “una sorta di guardia del corpo”, sono la loro guardia del corpo.»
Guardai anche Kurogane, sempre più convinto. Se persino una persona di rango inferiore poteva permettersi una tale confidenza, forse non me la sarei passata tanto male. Non poteva comunque essere peggio di ciò che già stavo subendo, da anni.
«Ma ho solamente nove anni», feci notare, chiedendomi se potessi veramente essere d’aiuto.
«Sarai anche un bambino, ma vedo del potenziale in te. E sento che sia destino che tu venga con noi.» Ci pensò su, aprendosi in un sorriso convinto. «La mia sorellina ha la tua età, di certo sarebbe lieta di diventare tua amica. E poi», concluse, spostando lo sguardo sulla mia mano che ancora teneva delicatamente nella sua, notando con mestizia i tagli e le bruciature che la ricoprivano. «Ti prometto che ti tratteremo bene.»
Probabilmente lì cedetti. Ritrassi la mano, sentendomi violato, nascondendola in una tasca delle mie luride vesti. Mi alzai in piedi e feci un inchino, asserendo convinto: «Mi fido di lei. Accetto di passare al suo servizio».
Quando risollevai lo sguardo lo vidi fare letteralmente i salti di gioia, mentre l’altro uomo sospirava pesantemente, borbottando: «Sarà una bella grana».
Mi dispiacqui per questo. Sapevo quanto potesse essere difficile trattare con il mio padrone, e difatti ci volle parecchia insistenza per convincerlo a lasciarmi andare. Era restio a farlo perché mi considerava il suo “prodotto” migliore, ed ero certo che fosse solo perché non mi ero mai ribellato alla sua volontà. Non ero stupido, non ci avevo provato per la consapevolezza di non avere alcuna possibilità di sopravvivenza. D’altronde non aveva esitato a strapparmi via con la forza dai miei genitori e farli uccidere, quindi sapevo che non avevo alcuna chance di cavarmela al di fuori del suo feudo. E poi, nonostante tutto, una volta che mi isolavo dalla sua corte e dal suo harem, la mia non era una vita tanto pessima.
Ciononostante, dopo aver saputo che avrebbe potuto esserci di meglio per me lì fuori, in caso di esito negativo avrei meditato una fuga. Anche a costo della mia vita.
Fortunatamente non ci fu bisogno di arrivare a tanto, perché dopo molto esitare alla fine accettò di firmare un accordo. Sapendo come funzionava l’economia lì mi resi conto che aveva richiesto una cifra impossibile da saldare, ma il signor Fay non sembrava indugiare in ricchezze. Gliene diede una parte, promettendogli che ben presto gli avrebbe fatto recapitare il resto.
Dopodiché mi invitò a preparare in fretta i bagagli e si stupì quando l’unica cosa che portai con me fu una piccola sacca con qualche straccio, il taccuino e una boccetta d’inchiostro con una penna piuma.
«Di più non possiedo», spiegai con indifferenza, elettrizzandomi piuttosto alla prospettiva di ciò che mi aspettava.
Viaggiammo a lungo nei regni del Sud, e il signor Fay, non appena si ritrovò dinanzi mercanti di stoffe, mi acquistò dei nuovi abiti, affinché potessero adeguarsi maggiormente al mio rinnovato ruolo. Mi fece persino curare le ferite da un dottore, nel primo paese in cui ci spostammo. Inoltre mi permise di consumare tutti i pasti con lui, di interrogare gli storici e gli studiosi locali insieme, di dormire su morbidi letti tra cuscini e coperte pulite.
Ci misi un po’ ad abituarmi a tanta cura, sebbene dopo non molto persino la sua guardia parve prendermi a cuore. Quando non facevamo niente mi allenava per irrobustirmi, dato che secondo lui ero troppo mingherlino e malnutrito, nonostante avessi la pelle dura. In seguito scoprii che in realtà aveva sempre desiderato avere un apprendista, per cui mi promise che mi avrebbe insegnato tutto ciò che sapeva, così che potessi imparare a proteggere me stesso e chi amavo.
Intanto il signor Fay scambiava regolarmente epistole con sua sorella, rimasta al maniero con una zia. Sembrava sentire la sua mancanza e, dato che lui la aveva molto a cuore, dopo un anno di ricerche tornammo a casa.
A casa. Ancora mi faceva strano pronunciare quella parola, ma era così. Perché lì ero stato davvero accolto come un figlio.
Quando giungemmo a destinazione, essendo inverno, nevicava. Era la prima volta che vedevo la neve, per cui mi stupii di quanto fosse morbida ma ghiacciata.
Per non farmi congelare, il signor Fay aveva provveduto in anticipo ad acquistare abiti pesanti e mantelli di pelliccia per tutti, coprendo in particolar modo me.
Come mi aveva detto la sua villa si ergeva su una collina e per raggiungerla dovemmo farci portare in carrozza; non era grande quanto il palazzo di Fei Wang Reed, e la sua conformazione architettonica era molto diversa, più squadrata, dai tetti appuntiti, con bovindo e assi di legno incassate tra di loro sulle pareti. “A graticcio”, l’aveva definita il proprietario di casa. Col suo essere meno imponente, sembrava mille volte più accogliente.
Sulla soglia fummo accolti da una breve fila di cameriere e maggiordomi, che sembravano tutti felici del ritorno del loro padrone. Al centro di essi sostava una donna alta ed elegante, con occhi cristallini e lunghi capelli acconciati in una raffinata acconciatura; poiché entrambi erano dello stesso colore di quelli del signor Fay, supposi dovesse essere la zia di cui aveva parlato.
Ella aprì le braccia, dandogli il bentornato, e lui non esitò a fiondarvisi, ringraziandola.
Rimasi in disparte col signor Kurogane, chiedendomi cosa si provasse a dare o ricevere un abbraccio, osservando ogni singola cosa per imparare quanto prima come funzionavano le cose lì.
Quasi contemporaneamente si udì qualcuno correre dal piano di sopra, in maniera trafelata. Sollevammo tutti lo sguardo e vedemmo spuntare il viso raggiante di una bambina, che si illuminò tutta nell’individuare il signor Fay.
«Fratello!» esclamò energicamente, correndo per le scale e quasi ruzzolando giù, tanto che per non cadere finì con lo sbattere contro il corrimano. Impassibile si mantenne il bernoccolo sulla fronte, gettandosi tra le sue braccia con un sorriso che sembrava immortale. «Bentornato!»
Lui la accolse volentieri, facendola roteare in aria e stringendola fortissimo, prima di darle un bacio sulla botta presa e ringraziarla.
La fece scendere e, tenendola per mano, si avvicinò a noi. Lei salutò immediatamente il signor Kurogane, mettendosi sull’attenti, e suo malgrado egli si fece sfuggire un ghigno sghembo. Guardò poi me, piegando la testa su un lato, incuriosita.
Mi irrigidii, rendendomi conto solo in quel momento che non avevo mai avuto modo di conoscere qualcuno che avesse la mia stessa età, essendo sempre circondato da adulti. L’unica cameriera che in passato era sembrata mostrare un po’ di interesse per me, talvolta curandomi quando venivo punito, era Xing Huo, ma anche lei era più grande – essendo adolescente – e una volta che fu scoperta non ne uscì viva.
La sorellina del signor Fay, comunque, era diversa da chiunque avessi mai incontrato prima. Non solo perché era nobile, ma proprio per la sua indole. Già dopo che suo fratello mi presentò si mostrò estremamente cordiale: mi prese per mano, mi chiese di diventare amici, e gioì del fatto che ora avesse qualcuno con cui giocare.
Escludendo gli occasionali viaggi e le nostre lezioni, finimmo col trascorrere quasi tutto il nostro tempo insieme. Lei mi coinvolse nelle sue attività, io la inclusi nelle mie.
Ad esempio, c’erano giorni in cui desiderava recarsi a fare compere al mercato nel villaggio e, dato che secondo Kurogane sembravo essere divenuto in grado di combattere, quanto meno per difesa, fui sostituito a lui nell’accompagnarla. Tuttavia ogni volta, invece di fare acquisti veri e propri, si incantava nell’ammirare stoffe, gioielli e i cibi esotici che giungevano da altre terre, facendosi raccontare la loro provenienza. Non avrei mai potuto dimenticare la sua meraviglia quando le fu spiegata l’origine dei colori, soprattutto della porpora. Persino per me era una sorpresa che provenisse da una conchiglia, tanto vicina al luogo in cui ero nato, ma lei andò proprio in visibilio. Si appassionò a tal punto a quel colore da acquistarne tutti gli abiti con cui era tinto e indossarlo per un lungo periodo. E immancabilmente prima di rincasare comprava anche qualcosa per me, come forma di ringraziamento per averle fatto compagnia.
A lungo andare, cominciai a cambiare. Quando ero arrivato lì ero già un tantino diverso rispetto a quando ero stato assunto, ma continuavo a sentirmi smarrito, incredulo, timoroso che tutto potesse sparire da un momento all’altro. Mi chiedevo se non stessi diventando troppo dipendente da quelle persone che mi avevano accolto con calore, quando invece ero sempre stato abituato a cavarmela da solo. Mi domandavo se fosse giusto e se, col mio agire, coi miei modi di fare, riuscissi a dimostrare tutta la mia gratitudine.
Ma a cambiarmi era stata soprattutto Sakura. Ogni volta che trascorrevamo ore intere insieme, soprattutto quelle all’aperto quando il tempo lo permetteva, mi sembrava che una parte di me svanisse. Veniva sostituita da qualcosa di più piacevole, di più leggero, di più caldo. Il suo sorriso mi scaldava, sembrava avvolgermi il cuore e rilassarmi, facendo svanire ogni preoccupazione. La sua voce era sempre così piena di gioia e di vita, era una piacevole sinfonia quotidiana, e ben presto cancellò del tutto le urla di terrore impresse nella mia memoria, sostituendole col suono della sua risata, e col suo modo adorabile di chiamare il mio nome. I suoi occhi, di quel verde mozzafiato, tanto simili alle foglie di quella natura lussureggiante lassù, mi carezzavano ogni giorno, sfiorandomi con dolcezza, facendomi quasi sciogliere al suo cospetto.
Più tempo trascorrevamo insieme, più mi sentivo a mio agio con lei. Era diventata una presenza naturale, essenziale, e quando eravamo lontani persino noi avevamo cominciato a scambiarci lettere, accompagnandole da piccoli regali. Sapendo quanto le piacessero le novità, raccoglievo di volta in volta fiori, foglie o pietre particolari delle zone che visitavamo, facendogliene dono.
Quando poi tornavamo, lei aveva preso l’abitudine di lanciarsi prima tra le mie braccia e poi, quando il signor Fay si schiariva la gola, la vedevo arrossire e scusarsi con lui, facendo altrettanto – sebbene con minore foga rispetto a quando era più piccola.
Era stata Sakura ad insegnarmi il calore di un abbraccio. Era stata lei a prendere l’iniziativa un giorno, in maniera spontanea, prima che se ne rendesse pienamente conto e si imbarazzasse di quella sua azione.
Io non sapevo bene come reagire e quando lei si accorse della mia esitazione mi chiese, intristendosi: «Ti ha dato tanto fastidio?»
Scossi il capo, spiegandole con onestà: «Non sono mai stato toccato così prima. Non so come dovrei comportarmi».
Lei parve turbata da quella rivelazione. Non aveva mai indagato sulle mie origini, certo per non risvegliare brutti ricordi – anche perché sentivo che suo fratello per somme linee gliene avesse parlato –, ma da quel momento in poi, poco alla volta, sembrava aver deciso di “abituarmi” al contatto fisico.
Allora io restavo sempre impassibile, concentrandomi sulle mie percezioni. Quando mi sfiorava appena avvertivo un formicolio nella zona toccata, quando mi prendeva per mano lo faceva con una delicatezza ed eleganza persino superiori a quelle del fratello, e là dove le mie dita entravano in contatto con le sue mi sembrava bruciassero fiamme. Quando mi accarezzava il mio corpo le andava incontro, quasi abbandonandosi contro di lei, come se si fidasse ciecamente e volesse mettersi completamente nelle sue mani. Quando mi abbracciava percepivo il calore avvolgere tutto il mio corpo, il suo buon profumo floreale raggiungeva le mie narici e il mio cuore batteva più rapidamente. Avrei dovuto esserne spaventato, forse, ma come avrei potuto temere sensazioni tanto positive, tanto affettuose, tanto piacevoli?
Una volta abituatomi a ciò, cominciai a sperimentare il contrario, ossia cosa si provasse a toccarla. Per timidezza lo facevo solo quando restavamo completamente soli, sebbene alla fine non facevo altro che replicare i suoi stessi gesti. Ma ogni volta che le mie dita la sfioravano venivo attraversato da un brivido, e i miei polpastrelli sembravano sprigionare scariche elettriche. Forse era perché lei, escludendo la sorpresa iniziale la prima volta che agii per primo, sembrava sempre lieta di quelle mie azioni. Sembrava accoglierle, con tutta se stessa. Quando la prendevo per mano ricambiava la stretta senza esitazione, quando la abbracciavo si stringeva a me con tutte le sue forze, quando di tanto in tanto finivo col sfiorarla, anche per sbaglio davanti agli altri, lei si apriva in un minuscolo sorriso intriso di complicità, con le sue iridi che lampeggiavano. E quando un giorno provai volontariamente a carezzarla lei non si scansò, mi lasciò fare.
Era cominciato solo perché eravamo seduti sotto gli alberi in giardino e, poiché tirava un leggero venticello, alcune foglie autunnali le si erano impigliate nelle trecce. Gliele tolsi con naturalezza, prima di notare il suo sguardo. Quello sguardo particolare, che aveva iniziato a mostrarmi negli ultimi tempi, che non sembravo essere in grado di identificare perché non guardava nessun altro in quel modo. Era uno sguardo riservato unicamente a me, che nessuno mi aveva mai rivolto prima. Era caldo e piacevole come i raggi del sole primaverile, tanto quanto il suo sorriso, ma era anche qualcosa di più. Qualcosa che mi attraeva come una calamita, soprattutto dopo che richiuse il libro che stava leggendo per me ad alta voce, posandolo di lato sull’erba per voltarsi totalmente nella mia direzione.
«Puoi continuare», concesse, chiudendo gli occhi.
Incantato dai suoi lineamenti mi sporsi inconsapevolmente verso di lei, seguendo con le dita la sua treccia. I capelli le si erano un po’ scompigliati, ma anche se così non era perfetta e impeccabile come sempre la trovai bellissima. Forse persino più bella del solito, perché quella mi sembrava essere la vera lei.
Le spostai qualche corta ciocca dal viso, liberandoglielo per sfiorarle una gota. Lei sorrise e io seguii con dita tremanti la sua guancia, stupendomi di quanto fosse morbida la sua pelle. Eppure, lo avevo già appurato in precedenza con le sue mani, lisce e levigate, totalmente opposte alle mie, così piene di calli e cicatrici. Non avevo ancora avuto modo di toccarle altre parti del corpo, ma sentivo che dovunque sarebbero andate le mie ruvide dita, ad accoglierle ci sarebbe sempre stata una morbidezza impeccabile.
Come vittima di un incantesimo scivolai fino al suo mento e lei schiuse le labbra, emettendo un sospiro. La sua pelle, cominciava ad essere bollente. Provai a scendere sul suo collo, con lo stomaco attorcigliato, il cuore che palpitava impetuoso nel mio petto. Ne seguii la lunghezza, sempre più ammaliato, e lei fu scossa da un brivido. Mugugnò quando proseguii per la sua clavicola, e lì mi arrestai, impaurito. Mi ero accorto che il mio tocco era cambiato, non più leggero come prima, divenendo più presente. E, insieme ad esso, anche i miei impulsi erano mutati, perché ora sembrava non bastarmi più. Udire quel suono provenire da lei mi aveva annodato maggiormente le interiora e gli occhi mi erano cascati su ciò che si intravedeva del suo niveo seno dallo stretto corpetto che indossava.
Dovetti allontanarmi di scatto, timoroso di ciò che ne sarebbe conseguito, spaventato dai miei stessi pensieri. Era irrazionale, tutto troppo irrazionale. Mi strinsi le gambe al petto, scusandomi senza guardarla, mortificato. Mi stavo spingendo troppo oltre.
Con la coda dell’occhio la vidi assumere la mia stessa posizione e avvolgere le braccia attorno alle gambe, affondando la testa tra le ginocchia.
«Non scusarti, Syaoran.» Prese un respiro, quasi avesse il fiatone, prima di aggiungere sottovoce: «Per me… per me è stato piacevole…»
Dato che nell’udire ciò il mio cuore e il mio corpo parvero impazzire persino di più pensai fosse meglio mantenere una certa distanza da lei, finché non avessi imparato a controllare i miei istinti e desideri. Mi aiutò il fatto che dovessi ripartire, ma sebbene quando tornai la salutai cordialmente restando ad una certa distanza, utilizzando il pretesto di essere stanco, tutti si accorsero che qualcosa non quadrava. E non mi sfuggì la sua espressione ferita e delusa.
Mi dispiaceva tantissimo, ma non sapevo proprio cosa fare. Mi tenni impegnato con la scrittura, assistendo il mio padrone finché mi voleva con sé, o allenandomi. Kurogane mi aveva anche insegnato a cavalcare e, una volta che ebbi appreso appieno come fare e cominciai ad uscire con un cavallo bianco chiamato Mokona, riuscii a ragionare meglio. Forse a rinfrescarmi la mente era anche il vento che mi sferzava sul viso, sembrando ripulire i miei pensieri.
In quei giorni andava meglio, sebbene ancora tentassi di non mostrare altro che cortesia e gentilezza nei confronti di Sakura. Anche perché era diventato più raro trovare momenti per stare soli.
Probabilmente fu proprio perché si sentiva troppo insoddisfatta da tutto ciò che una notte si presentò fino alla porta della mia stanza. Bussò piano e quando aprii, nonostante il mio sconcerto, entrò senza troppi complimenti, posando la candela che aveva portato con sé sullo scrittoio.
Mi fece cenno di silenzio e mi prese per mano, prima che io potessi pronunciare qualunque parola, trascinandomi a sedermi sul letto. Mi lasciò poi giungendo le mani, sembrando raccogliere i pensieri, mentre io cercavo di guardare tutto tranne lei, essendo venuta in vestaglia.
Sorprendentemente, esordì con timidezza: «Syaoran, mi dispiace se te lo chiedo all’improvviso, ma… te la senti di raccontarmi della tua precedente vita?»
Inevitabilmente finii per guardarla in viso, sentendomi confuso. Esitai per qualche istante, pronunciando poi in tono piatto: «Non è affatto interessante».
«Lo è», ribatté, guardandomi negli occhi. «Lo è sicuramente. Sono certa che sia stata piena di dolore», sussurrò ferita, prendendomi una mano tra le sue, guardandola agonizzante. «Ma una parte di me mi suggerisce che, se tu me ne parlassi, potresti sentirti meglio.»
«Non voglio parlartene», replicai in maniera diretta. Non volevo sconvolgerla.
Lei scosse la testa, guardandomi determinata.
«Ti prego di non pensare a me, in questo momento. Io voglio ascoltarti, voglio capirti, voglio… poter fare qualcosa per te.»
Tacemmo entrambi per lunghi secondi, mentre io mi chiedevo cosa sarebbe stato meglio fare. Sorrise appena, di un sorriso particolarmente triste alla soffusa luce aranciata della fiammella.
«Sai che, la prima volta in cui mi hai rivolto un sorriso, mi sono sentita estremamente felice? Felice e leggera, come se avessi potuto librarmi in volo da un momento all’altro», confessò, addolcendosi al ricordo. «Vorrei tanto vederti sempre così. Sempre spensierato, privo di preoccupazioni, sereno e tranquillo. Ma ultimamente non lo sembri affatto, e ho pensato che parlare potrebbe aiutarti a risollevarti.»
Aveva frainteso. Credeva che mi stessi comportando in quel modo perché il passato aveva ricominciato ad infestarmi, sebbene non fosse così. Tuttavia, poteva avere ragione. Con qualcuno avrei dovuto confidarmi prima o poi, e forse in seguito mi sarei sentito meglio.
Decisi pertanto di confessarglielo, pur non entrando troppo in dettagli, e per quanto la sua espressione fosse intrisa di dolore non sembrò affatto sorpresa.
«Devi aver sofferto così tanto…» mormorò accorata, i suoi occhi bagnati di mestizia. Mi afferrò entrambe le mani, pentita. «Se soltanto mio fratello ti avesse trovato prima…»
«Non importa», tagliai corto, sorridendole rassicurante. Di quello che stavo per dire ne ero profondamente convinto. «Ne è valsa la pena, visto che poi ho avuto la fortuna di incontrare voi. E poi, tra poco saranno più gli anni trascorsi qui che lì», le feci notare.
Sebbene stesse silenziosamente piangendo annuì, aprendosi in un sorriso.
«Non vedo l’ora che arrivi quel giorno», gioì, asciugandosi le lacrime, mostrandomi la sua contentezza. «Dovremmo tenere una grande festa, come facciamo ai nostri compleanni.»
Ridacchiai un po’ imbarazzato, tenendo bene a mente la pomposità e sfarzosità di ogni nostro compleanno – era stata lei a decidere che dovessimo festeggiarlo insieme, visto che io non avevo la più pallida idea di quando fossi nato. Conoscevo la mia età solo perché ogni anno mi veniva rammentata da Fei Wang Reed, quando mi ricordava la gratitudine che avrei dovuto provare per lui per avermi risparmiato quel giorno.
«Se non invitiamo troppa gente…»
«Solo noi e zia Chii», promise.
Acconsentii se quello era il caso e lei fece un salto di gioia, dopo essere balzata in piedi. Recuperò la sua candela, avviandosi verso la porta, ma prima di aprirla si voltò un’ultima volta, accertandosi: «Ti senti meglio?»
«Sì.»
Il suo sorriso si allargò, i suoi occhi si riempirono di speranza.
«Quindi da domani torniamo a comportarci come sempre?»
«Se a te non dà fastidio», concessi.
Scoppiò a ridere, scuotendo la testa. «No che non mi dà fastidio, al contrario!»
Senza perdere il sorriso mi augurò la buonanotte, prima di andarsene. Dopo averle parlato, dopo aver restaurato il nostro rapporto, qualunque notte sarebbe stata una buona notte.
Dal giorno successivo, quindi, riprendemmo a trascorrere le giornate insieme. La coinvolsi nuovamente nelle mie attività, qualunque esse fossero. Dato che aveva scoperto del mio nuovo passatempo la portavo con me a cavallo, facendole fare un giro per le colline, mostrandole il lago a valle che avevo scoperto proprio poco tempo prima. Prendemmo l’abitudine di trascorrere lì i pomeriggi soleggiati, immergendoci nella lettura o nei racconti, facendo picnic all’aperto.
Su consenso di Kurogane le permisi anche di assistere agli allenamenti, vedendola esaltarsi tantissimo. Sembrava adorare particolarmente prendersi cura di noi, porgerci gli asciugamani per il sudore, approfittarne per staccarmi i capelli dalla fronte con sguardo amorevole, o spalmarmi unguenti e fasciarmi là dove restavo ferito. Ciò la portò inevitabilmente a scoprire di tutte le mie cicatrici, ma non ne sembrò affatto disgustata. Al contrario, ogni volta le osservava con mestizia, e ne seguiva i tracciati con le dita.
Una sera, in cui era venuta a trovarmi nuovamente di soppiatto, mi colse mentre non avevo ancora finito di cambiarmi e riuscì, purtroppo, a scorgerne di più. Mi scusai adoperandomi a rivestirmi in fretta, certo che per lei potesse essere una vista sgraziata, ma non mi concesse il tempo di indossare la camicia da notte. Si chiuse la porta alle spalle e mi abbracciò da dietro, affondando il viso tra le mie scapole.
«Non scusarti. Non devi scusarti.»
Mi avvolse completamente tra le sue braccia e io mi pietrificai, lasciandomi scivolare la stoffa dalle mani. Il cuore prese a battermi talmente rapidamente da soffocarmi quasi.
«Sa… Sakura…» la richiamai, cercando di capire che intenzioni avesse.
«Syaoran…» indugiò, stringendosi maggiormente a me. «Posso… posso baciarti le ferite?»
Sgranai gli occhi, non aspettandomelo. Un bacio sarebbe stato tutt’altra cosa. Non ce ne eravamo ancora scambiati, non sapevo cosa si provasse e… ero curioso. Terribilmente curioso.
Pertanto acconsentii, e lei paradossalmente mi ringraziò. Si allontanò di poco col corpo, lasciandomi per seguire con l’indice le tenui scie rialzate rimaste dalle frustate, sostituendolo poi con le sue labbra.
Le sue labbra, erano così soffici… Così leggere… Così piacevolmente calde… Così lenenti…
Chiusi gli occhi, rilassandomi, nonostante il batticuore. Mai avrei pensato che potesse essere così bello essere baciati. Mi abbandonai completamente al suo tocco, finché non si distanziò. Riaprii le palpebre, sentendomi un po’ debole, vedendola porsi davanti a me. Mi prese le mani, per occuparsi anche degli ultimi tagli che mi ero fatto, baciandoli uno ad uno, prendendosi il suo tempo.
Avvertii le mie gambe tremare, sopraffatto da quella sua dolcezza, e dalla sensazione di benessere che mi stava riempiendo il corpo e l’anima. Finii seduto sul letto, ma lei non si fermò per questo; mi si inginocchiò prontamente davanti, lasciando le mie mani solo dopo che le aveva riempite dei suoi baci, per seguire i solchi che avevo sull’addome, arrestandosi su una cicatrice più chiara sul fianco.
«E questa?» domandò accorta, sfiorandomi appena.
Ripresi fiato, rispondendo nello stesso tono basso: «Ferro bollente, ero stato indisciplinato».
Una lacrima le sfuggì, scivolandole fino al mento, mentre mi guardava agonizzante.
«Ti fa ancora male?»
Negai, rassicurandola con un sorriso, asciugandole il volto.
Lei prese un respiro tremante, prima di piegarsi verso la lesione, posandovi le sue labbra. La baciò con tenerezza, prima di occuparsi degli ultimi segni rimasti.
Quando finì con quella cura, per quanto mi sentissi un po’ smarrito, riuscii a sorriderle grato. Provai a fare lo stesso, baciandole il dorso di una mano, nel tentativo di ricambiare tutto ciò che lei aveva fatto per me. Come pensavo, posare le labbra sulla sua pelle era tutt’altra cosa. Era liscia e levigata, come seta…
Riaprii gli occhi, notando che stare inginocchiata sul duro pavimento in legno poteva essere doloroso, per cui la presi in braccio, facendola accomodare sul materasso, affinché potesse stare più comoda. Feci come per allontanarmi, ma lei non me lo permise e, invece, si stese del tutto, intrecciando le dita alle mie in maniera diversa dal solito.
Lessi una sorta di implorazione nelle sue iridi luccicanti, per quel poco che si riusciva a vedere di lei alla luce della luna. Seguendo l’istinto e mettendo a tacere la ragione, mi chinai su di lei, ripercorrendo lo stesso percorso di quel giorno, stavolta con le mie labbra. Giunto sul suo collo lo ricoprii completamente di baci, e lei mi agevolò reclinando la testa all’indietro. Scesi poi sulle sue spalle nude, sul suo petto, sciogliendo il nastro che le stringeva la veste e scostandogliela, giungendo sul suo morbido seno. Lì era ancora più calda e soffice, e profumata.
Mi liberò una mano per portarsi la sua sulle labbra, trattenendo qualsiasi suono che la avrebbe tradita, e solo perché mi accorsi di questo mi scostai dalla sua pelle. Mi sentivo sempre più in trance, ma non per questo l’avrei costretta a fare cose che non voleva. Tra l’altro, sapevo che fosse sbagliato, finché non si sarebbe sposata non avrebbe dovuto fare questo genere di cose e -
«Syaoran», mormorò appena, coprendosi pudicamente.
Mi tirai più indietro, scusandomi, senza fiato. Chiusi gli occhi e presi respiri profondi, ravvedendomi. Non dovevo esagerare.
Dai suoi spostamenti capii che si stava mettendo a sua volta seduta, ma mi stupì perché, invece di allontanarsi, finì tra le mie braccia.
«Per me va bene. Non siamo tenuti a rispettare alcuna tradizione», decise, affondando il viso contro il mio collo. E a quel punto cedetti.
Ricambiai la sua stretta, sprofondando tra i suoi capelli sciolti. Le mie mani si posarono sulle sinuose curve del suo corpo, finalmente tanto vicino, libero da qualsiasi restrizione. Quella veste sottile che indossava a malapena ne offuscava il calore, rendendola perfettamente tangibile. Più la accarezzavo, più tremava e si stringeva a me, finché non mi arrestai giusto al centro della sua schiena. Si tirò di poco indietro, giusto per sollevare il viso e incontrare il mio. I nostri nasi si sfiorarono, ed entrambi chiudemmo gli occhi, riducendo qualsiasi distanza.
L’incontro diretto con le sue labbra, era qualcosa di mai sperimentato prima. Mi parve di toccare il Paradiso con mano. Ci separammo solo per un minuscolo istante, prima di tornare a baciarci. E continuammo a baciarci, e baciarci, stringendoci l’uno all’altra. E seppure ci mancava il fiato, ci riempivano dei nostri respiri frammentati. Persino le nostre lingue si incrociavano, inondandomi di rinnovate sensazioni, e le nostre carezze si fecero meno delicate, più bisognose. I nostri ansiti si fusero insieme, mentre finalmente giungevo a toccare in maniera diretta la sua pelle. Carezzai ogni singolo centimetro del suo corpo, e lei tremò tra le mie braccia, finendo nuovamente distesa. Mugugnò per il piacere, più di quel giorno d’autunno, e mi invitò a scendere da lei, allargando le braccia, pronta ad accogliermi. Chiusi gli occhi, tornando nel suo abbraccio, perdendomi del tutto nella primavera.
Quella fu la prima volta in cui facemmo l’amore. Da allora capitò di rado, solo quando restavamo soli, che fosse in casa o fuori casa. Tuttavia, era proprio da quella sera che mi sentivo estremamente felice, come se nella mia vita avessi ottenuto molto, molto più di ciò che meritassi.
Tolsi il braccio dai miei occhi, trovando il viso sorridente di Sakura a sostituire il sole.
Ricambiai il suo sorriso, perdutamente innamorato, e lei corse a stendersi al mio fianco, guardandomi radiosa.
«Indovina? Ho appena parlato con mio fratello!»
Mi girai su un fianco, incuriosito.
«Di cosa?»
«Del nostro matrimonio!» esclamò gioiosa, illuminandosi.
Mi feci serio, dedicandole tutte le mie attenzioni.
«E…?»
«Ha detto che è onorato di averti come cognato! Ha detto sì!» Si sollevò di poco, fremente, e io imitai le sue azioni, incredulo.
«Dici davvero?»
Quello era diventato il nostro sogno. Poter vivere insieme, ricucire i nostri ricordi di gioia, sostituire quelli passati con un futuro pieno d’amore.
«Dico davvero», confermò gaia, mostrandomi il sorriso più grande che mi avesse mai rivolto. Portò una mano sul suo grembo, aggiungendo commossa: «Potremmo diventare ufficialmente una famiglia».
«Una famiglia», ripetei accorato, percependo le lacrime pungermi gli occhi. Posai una mano sul nostro bambino e la baciai, prima di afferrarla e rotolare insieme a lei nell’erba, inseguendo l’eco delle nostre risate.
Nonostante le brutture della mia vita e il mio nebuloso passato, quello che mi aspettava da allora innanzi era un radioso futuro, da vivere insieme alle persone che amavo.















 
Angolino autrice:
Buonsalve e buon pranzo! x'D
Eccomi qui con l'ultima delle one-shot scritte per il Tsubasa Month (come previsto ci ho impiegato due mesi per pubblicarle tutte...).
Al solito, non sapevo che rating mettere, quindi perdonatemi se la storia non risponde alle "aspettative" (?).
Non mi dilungherò molto, quindi dico solo che la canzone iniziale è la character song di Syaoran contenuta nel secondo Drama CD (cantata da Irino Miyu), di cui ho ripreso un verso finale del ritornello: "Non mi perderò, col tuo sorriso che mi abbraccia; le lacrime che cadono svaniranno nella pioggia e io diventerò più forte. Questi sentimenti non li perderò, saranno eterni, e ciò che afferrerò sarà un mondo che scintilla" (traduzione mia).
Grazie mille a chi ha letto, spero tanto che vi sia piaciuta!
Steffirah
  
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