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Autore: SofiPiff    03/07/2020    1 recensioni
Intraprendi con me questo viaggio, fatto di scale vertiginose e stagni oscuri, di mani tese e canzoni, di parole e silenzi. Non posso che augurarti di arrivare anche tu a casa.
Questa la posso dedicare solo a me.
Si consiglia del rock leggero come sottofondo alla lettura. O qualunque melodia ti predisponga al viaggio nelle viscere del tuo essere.
Genere: Introspettivo, Poesia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sono in bagno e non devo neanche pisciare. Piangere in un posto così non può che peggiorare l'umore. Mi alzo e mi guardo allo specchio; una sconosciuta restituisce il mio sguardo severo. Così, a pelle, non c'è proprio chimica tra di noi. La tensione la posso praticamente percepire, ne avverto l'odore pesante. Eppure queste quattro mura non mi sono più opprimenti di quelle che racchiudono il nostro bagno. Forse non è nemmeno la gravità familiare di questo tetto a schiacciarmi. Forse, a furia di camminare a testa bassa, comincio a sentirne il peso sul collo. Forse gli occhi di mia nonna, che oggi vedono in me, li posso aprire un po' di più. Persino le scarpe implorano ai miei piedi di fermarsi un attimo a riposare. Ma fuori dalla porta regna un silenzio denso, e forse è calata la notte. Non c'è nessuno qui. Mi ritrovo a cantare una vecchia melodia, quasi a voler riempire questi spazi troppo vuoti. O forse semplicemente perché sono sola. Posso farlo. Posso vedere la mia voce colorare con qualche nota queste pareti bianche. Un po' è ancora timida, però. E se non mi ricordassi più le parole? Chi ci sarà per guardare il mondo da una panchina, la sera, con questo sottofondo malinconico? Però posso farlo, e allora alzo il volume. L'aria si riempie di sfumature. Comincio a sentire un fastidio leggero alla gola. E allora taccio. Mi ritrovo da un’altra parte, mentre i miei piedi continuano a pesare su quel pavimento. “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo!” Roba da principoanti, penso io, leggendolo sulla soglia di questo posto nuovo. Dove mi risveglio, come da un lungo sogno. Ma il viaggio è appena cominciato. Posso contare sulle scarpe buone di mamma. Posso imparare dal papà. Ma qui sono sola, e un po' mi fa male la pancia. E il gomitolo nella mia gola continua a riavvolgersi su se stesso, facendosi sempre più ingombrante. E proprio quando sento che vorrei stringere una mano forte; proprio quando vorrei che qualcuno come te fosse qui; proprio quando penso che sarebbe quasi meglio, se qualcuno potesse leggere con me queste parole, in silenzio, questa massima così semplice eppure difficile da decifrare; proprio quando potresti dirmi, come se stessi ancora sognando, che il cambiamento nel mondo non può che nascere qui dentro; proprio quando ne avrei bisogno; tu interpreti questo silenzio, pieno di parole gravi, e mi offri qualcosa per alleviare il dolore. Questo non è un sogno. Il mal di pancia, piano piano, si calma. Il nodo alla gola comincia a sciogliersi. Ma io ho il cuore a mille. Mi sconvolgi. Come riesci a capire quello che vorrei, quando così spesso si nasconde dietro parole vuote? Me lo merito? Sei abbastanza equipaggiato per intraprendere questo pezzo di strada con me? E che si fa, se il mondo ci schiaccia? Hai paura anche tu? Tutto quello che ti chiedo è di uscire da qui, ma le scarpe lasciamole dentro. Insieme al resto. Camminare a piedi nudi fa sentire più leggeri, liberi, quasi al punto di staccarsi da terra. Però sento il terreno sotto la pianta del piede; sento che, in un certo senso, potrei essere anch’io come una pianta. Mettere radici. Crescere. Resistere. Ma troppo a lungo, e in modo troppo intenso, mi sono lasciata fluttuare nel vuoto del nulla. Anche quando le suole delle mie scarpe solcavano questa stessa terra. Sfioravano l'erba che oggi assaporo a piedi nudi. Ho ritrovato la bussola da troppo poco, ancora. Adesso si tratta di partire alla ricerca di me stessa: voglio piacermi, voglio volermi bene come ormai ne voglio a te. Il mondo poi si adegua; ma almeno oggi l'obbiettivo è davanti a me come non mai. La ferita è ancora troppo fresca per lasciarmi trasportare dalle onde del mare. Ma tu prendimi la mano, e non lasciarmi andare via. Ormai te l'ho tesa; dai, non farmi fare figuracce. Ma tu già la stringi e ti lasci accarezzare le dita. E il cammino sembra un po' meno in salita. Oggi il sole splende. E il cuore in poco tempo si scalda, grazie al calorie della tua mano attenta. Ce ne stiamo in silenzio per un po'. Lo ascoltiamo. Proviamo anche ad ascoltarci, da dentro. Ma poi mi porti a casa, ed è così che mi fai sentire. Al riparo di quattro mura, anche se a dirtela tutta non so bene come ci si dovrebbe sentire, a casa. Sono a casa, con te, anche quando non siamo da nessuna parte. E allora inizio a raccontarti delle storie. A raccontarmi. E non voglio dirti niente di più, e niente di meno, di queste parole che vengono da lontano, dal profondo. Da qui, senti la forza con cui le spinge fuori il mio cuore. E se proprio vuoi saperlo, questo è il momento giusto. In qualche modo era scritto che dovessimo imparare a leggerci, tu e io, qui e ora. Altrimenti non me lo spiego. E tu? Allo stesso tempo, prima che arrivassi tu, non sapevo proprio parlare. Figuriamoci leggere gli altri. Indossare gli occhiali giusti. Trovare una buona prospettiva per fotografare come si deve un panorama. Non sarei stata in grado di dirti niente. E forse lo sai, quanto mi piace raccontare storie. E se avessi dovuto aspettare ancora, non so se avrei sorriso così tanto. Così grande. Sei proprio tu a voler stare qui, con me. Mentre io ho cercato così a lungo di andarmene altrove, lontana da me, che non so più come si fa a starci dentro. Mi sento soffocare. Felice. Terrorizzata. Mi manca il fiato. Ne sei proprio convinto? E te lo chiedo anche se, come spesso accade, tu già lo sai. Ti basta guardarmi negli occhi, per capirmi, persino quando nemmeno io sono ancora del tutto in chiaro. Che qui dentro ci sto da un po'. E questi piedi li voglio tenere ben piantati per terra. Oggi. Ma per un po' non ci credevo più. Vedevo solo quello che circolava sul fondo dello stagno. Ero disillusa, soprattutto riguardo a me. Non lo vedevo tutto quello che oggi si para davanti a me, chiaro come il sole, che se tendo le mani riesco quasi a toccare. Non lo sentivo, dal fondale, quel vociare preso a fare il tifo per me. Chi più chi meno. Chi a parole e chi con un muto abbraccio. C'era chi immergeva una mano, il braccio, chi si è tuffato a testa. Ma io li guardavo, e sapevo di non farcela. Di non essere abbastanza forte. Di essere troppo diversa da tutti loro. Ma loro restavano lì ad aspettarmi. Poco gli importava di quanto mi ci sarebbe voluto. Ma pochi come lei sarebbero arrivati a tanto. Lei mi ha subito avvolta in un asciugamano caldo, prima che le ferite ancora aperte, che stavo disinfettando con le lacrime, le sussurassero un debole “Mai più”; quando l'affanno era troppo per continuare a respirare l'aria di quel non luogo vuoto; lei per prima mi ha dato il bentornata. Erano tutti lì ad aspettarmi, senza fretta, perché sapevano che sarei tornata in me. Grazie alle mie spalle forti, ma anche a tutti loro, ho risalito le viscide pareti dello stagno, dalla sua profondità più nera fino in superficie. Oggi ho qualche ferita in più che però, dopo nove lune piene, nemmeno sanguina più. Lo so, è ancora presto per lasciare che l'acqua salatissima le sfiori. Figuriamoci per tuffarmi ad occhi chiusi nell'oceano. Perché il moto delle onde non si è fermato; l'acqua ha continuato a scorrere, e gli altri hanno continuato a portarne al loro mulino. Il flusso inesorabile delle onde non lo fermo di certo io. Nemmeno quando sono io a fermarmi. Lentamente ho ricominciato a camminare. Due passi al giorno, due chilometri la settimana dopo. A correre, a volte. Ma mai troppo a lungo, e mai più dietro a un treno che ormai aveva lasciato la stazione. A volte mi fermo su uno scalino per riprendere fiato. Per godermi il panorama. Per scambiare due parole con chi mi sorride dalla scala vicina. Per tendergli la mano; anche se sono più avanti di me nella salita, soprattutto se sono rimasti indietro. Tu la mia mano la stringi, la tieni forte. E allora ci fermiamo alla stessa altezza. Guardiamo quanti scalini abbiamo già oltrepassato e quanti, tantissimi, ce ne restano davanti; alcuni vertiginosi, altri più bassi e ampi. Un po' mi tremano le gambe, come se cadessi. Non li senti, tu, i brividi? Non ci credo che non hai mai perso l'orientamento, guardando il panorama estendersi a perdifiato. Camminare tenendosi per mano può aiutare a restare in equilibrio. A restare in piedi, insieme. D'altra parte, se scivolo, cadi con me. Se tu ti sporgi a guardare indietro, agli scalini ormai superati, non posso fare a meno di guardare in basso anch'io. Aiuto – ci vengono le vertigini. Vuoi tornare sui tuoi passi? Siamo troppo giovani per la disillusione. Non credi? Per un po' ti porto in spalla, e mi lascio accarezzare i capelli. Quando ricominci a guardare verso l'alto, e finalmente ti ricordi come si fa a sognare, ti faccio scendere e ricominci a camminare al mio fianco. A volte mi sento debole io, e sei tu a portarmi in braccio per un po'. Ma si continua. Andiamo sempre avanti. Guardiamo anche indietro, qualche volta, è inevitabile; ma anche quando succede, puntiamo alle stelle.
   
 
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