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Autore: _Unmei_    10/07/2020    1 recensioni
Chissà se qualcuno è riuscito a capirlo, che in ogni colpo di scalpello che ha dato forma a quell'angelo, dietro a ogni lineamento cesellato con pazienza, nei boccoli che gli ricadono sulle spalle, nel morbido drappeggio che gli copre le gambe, nel lievissimo sorriso che gli increspa le labbra… che in ogni piuma delle ali che ho fatto nascere dalla sua schiena, c’è la mia dichiarazione d’amore per lui.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Capitoli:
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Giardini di Pietra
 
Capitolo 5

 
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Volevo fuggire, sprofondare, scomparire. A ogni passo di Florent il mio panico si gonfiava, il cuore impazziva, la mente si affannava alla ricerca di una scusa per il mio patetico comportamento… disperavo per una giustificazione, quando sapevo che non ce ne’era bisogno, che lui non la voleva. Quando mi fu vicino mi rivolse un sorriso di velato, blando rimprovero; in esso si rifletteva cristallino il suo pensiero:
 
“Perché baci quella, quando io sono proprio qui?”
 
Paralizzato dalla vergogna, soffocato dall’umiliazione, riuscii a balbettare solo qualche parola di scusa; avrei voluto fare un passo indietro, o con andatura veloce e sicura uscire dallo studio, ma non mi riuscì di fare né l’una né l’altra cosa. Così Florent mi catturò.
Le sue mani mi incorniciarono il volto, ed erano fresche e leggere, deliziose sulle mie guance che scottavano; i suoi occhi non lasciavano i miei, e brillavano, luccicavano, raccontavano quanto era sciocco continuare a respingere il mio stesso sentimento, che era impossibile negare l’accaduto, o nascondersi dietro a finzioni che non avevano ragione di esistere.
La vita che ti offre un’altra possibilità…
La vita che ti dimostra che tutto è perduto solo nel momento in cui lo credi.
Che un nuovo inizio è venuto a cercare te, quando tu eri troppo stanco e disilluso per cercare lui.
Il terzo volto dell’amore, il suo!
Perciò non mi ritrassi quando infine mi tirò a sé, e chiusi gli occhi nella fiducia e nel trasporto, gioendo di averlo finalmente tra le braccia.
La sua bocca era tenera, amabile; senza fretta mi dava il tempo di abituarmi di nuovo ai baci, allo sfiorarsi, cercarsi delle lingue, di imparare a respirare ancora nel modo giusto. Era passato così tanto tempo da quando avevo sentito un petto muoversi contro il mio che un pensiero mi strinse la gola: avevo perso troppi anni e non potevo averli indietro… ma ciò che Florent mi offriva pareggiava il conto.
Mi staccai appena un po’ da lui, per guardarlo, desiderando imprimere per sempre nella mia mente il suo viso in quel momento, l’espressione trasparente, fiduciosa, intensa, piena di tenerezza; mi piaceva pensare di essere il primo ad ammirarla, ma sapevo che quasi certamente non era vero, e dopotutto non mi importava: mi bastava che appartenesse a me, e a me soltanto, da quel giorno in avanti.
Tutto sembrava un miracolo di bellezza; tornai a baciarlo, e per un lungo istante fui beato. Desiderai che durasse per sempre, di diventare io stesso muto, e capace di parlare solo attraverso i baci, per poter tessere infiniti discorsi con lui, discorsi incomprensibili al resto del mondo, che avremmo capito soltanto noi due.
Lo amavo, perciò tutto era facile. E infinitamente difficile.
Da vigliacco qual ero, e sono, in un momento così sublime, così sospirato, d’improvviso mi si affacciò alla mente la paura dell’abbandono, e tutti i vecchi fantasmi, gli echi delle sofferenze… delle lacrime di infinito dolore versate per Ludovico, e quelle di rabbia sprecate per Patrizio.
Che tipo di lacrime avrei pianto per Florent?
Che avrei fatto quando anche lui se ne sarebbe andato, quando mi avrebbe lasciato e io non avrei avuto più nulla in cui rifugiarmi, perché la mia arte sarebbe diventata un richiamo al suo ricordo, e i colpi di scalpello non sarebbero stati più carezze, ma pugnalate a me stesso inflitte…
 
Mi staccai di nuovo da lui, ma per fuggire, senza il coraggio di guardarlo in viso, ripetendo non posso, mi dispiace, mi dispiace. Sciolsi l’abbraccio, rinunciai al calore che mi donava, anche se sapevo bene di averne un infinito bisogno.
Di fretta me ne andai in camera, mi spogliai e mi infilai nel letto, senza nemmeno chiudere le imposte, o tirare le tende; guardavo il soffitto nell’argentea luminosità della luna piena e ascoltavo il cuore rimbombarmi nel petto. Mi figuravo il giorno successivo: che avrei detto, che avrei fatto?
E Florent? Che avrebbe pensato di me?
Tutto il male possibile, certo. Mi avrebbe disprezzato, e a ragione.
Sospirai e chiusi gli occhi, ma dietro le palpebre continuai a vedere lui, lui deluso da me. Sapevo con certezza che non avrei trovato requie, che la notte sarebbe stata insonne, un incessante rigirarsi fra le lenzuola. Era forse troppo tardi per tornare sui miei passi? Per presentarmi nella sua stanza e chiedergli di accettarmi ancora, di avere pazienza con me?
Riaprii gli occhi di scatto quando sentii la porta schiudersi; un rumore appena percettibile che però risuonò con chiarezza nel silenzio della notte.
Lui.
Florent si avvicinò al mio letto, camminando a piedi nudi sul tappeto, e io ero lì immobile, di nuovo incapace di fare o dire alcunché.
Lo lasciai fare quando sedette sul letto, vicino a me, quando mi accarezzò la testa e mi baciò la fronte, come si fa per consolare un bambino; e poi ancora i suoi baci leggeri sulle guance, sulle tempie, sulle labbra. Erano dolci, tranquillizzanti, insistenti e pazienti allo stesso tempo. Quando infine smise, restò a guardarmi con occhi pieni di attesa e di speranza; io scostai le coperte, mi feci un po’ da parte, e gli dissi “Vieni”, suonando rauco.
Lui si infilò lesto, si accoccolò contro di me, mi posò la testa sul petto, e io coprii entrambi. La mia mano esitò solo un istante, e poi presi ad accarezzargli i capelli; il suo calore, il suo profumo, il suo respiro… mi sentivo dolcemente sommerso, perduto. Mi ritrovai a parlargli, a raccontargli ciò che non avevo mai detto a nessuno. Gli confessai perché scappavo, i miei amori passati, il lutto che mi aveva schiantato, l’abbandono che avevo patito, la paura di innamorarmi troppo di lui e di lasciarmi andare. Perché la solitudine era più semplice, nella solitudine non correvo rischi, e in fondo ormai ero abituato a essa, e quasi non la sentivo più… se non delle volte, di tanto in tanto, la sera, quando mi strangolava con tanta amarezza e ferocia che dovevo affogarla nel liquore per poter respirare ancora.
Parola dopo parola, frase dopo frase, venne tutto fuori con una facilità che non credevo possibile; il bisogno di sfogarmi che non credevo di avere era infine stato liberato. La tristezza si scioglieva, scivolava via, gli spettri del passato svanivano, lasciandomi più leggero, immacolato. I timori sembravano meno foschi, così come le ombre minacciose di un bosco tornano a essere semplici alberi al sorgere del sole… da forme spaventose che erano, distorte dalla fantasia e dalla paura. Di paura in quel momento me ne era rimasta una sola: di essermi addormentato, dopotutto, e di stare indugiando in un sogno liberatorio.
 
Florent mi ascoltava, e continuava ad accarezzarmi, il tocco delle sue dita mi confortava e incoraggiava; era amorevole, indulgente, era la mia salvezza, la via d’uscita al vuoto cui mi credevo condannato. Lasciai che mi curasse, che facesse in modo di far tornare a battere il mio cuore e a scorrere il mio sangue; le sue labbra mi rianimavano, mi davano il respiro togliendomelo, si staccavano dalle mie giusto il tempo di farmele cercare, affamato, e poi tornavano come dispensatrici d’amore. Mi riportava i brividi a cui avevo rinunciato, sembrava che la mia pelle, rimasta insensibile per tanto tempo, dimentica di come fosse la vicinanza, stesse reimparando tutto. La voglia di contatto formicolava nel mio corpo, mi scuoteva fino a farmi tremare. Florent, Florent… potei stringerlo, assaggiarlo, reclamarlo; così tanto lo desideravo che le mie mani vagavano sotto la sua vestaglia impazienti ma sperdute, tentando di prendere quanto di più e più in fretta potevano, prima che il sogno finisse.
Appartenere di nuovo a qualcuno, lasciarsi andare, offrirsi e possedere, ritrovare il senso smarrito, ecco cosa volevo. Essere felicemente indifeso, che le emozioni di entrambi mi si riversassero addosso, che violente e gentili mi sconvolgessero, mi resuscitassero.
Sciolsi il nodo della cintura della sua vestaglia, poi i pochi indumenti che indossavamo vennero abbandonati per terra, e potei contemplare Florent nella completa nudità; era perfetto come un giovane dio, ma nessun Apollo fu mai così aggraziato. I miei occhi indugiarono sul suo sesso turgido ed eretto, e in un riflesso ben oltre il mio controllo mi leccai le labbra, con brama, impazienza; il mio corpo stava rispondendo con un delirio di anticipazione. Eravamo in ginocchio, l’uno di fronte all’altro, e Florent sorrideva; mi prese le mani e se le portò al petto, le guidò giù, sul ventre, poi sui fianchi, e dietro, sulle natiche. Le afferrai, le strinsi forse con fin troppa forza, e lo tirai a me; le sue braccia mi cinsero, la sua bocca fu di nuovo sulla mia.
Gentile, ma possessivo, appassionato eppure delicato, languido e flessuoso come un gatto che  si struscia facendo le fusa, Florent mi sopraffaceva. Accarezzandomi, esplorandomi, le sue mani mi restituivano l'innocenza, la felicità, l’ardore, la fiducia, e io mi abbandonavo a esse beato, ma avrei anche potuto piangere di gioia, adorando ogni suo gesto.
Non mi interessava null'altro, in quel momento, che noi due, la nostra pace, la sensazione di avere qualcosa di eterno ad avvolgerci e proteggerci, qualcosa di unico che ci rendeva diversi e più felici di tutte le altre persone al mondo. Ero certo che non potesse esistere, né fosse mai esistito, nessuno altrettanto innamorato.
Passammo ore a coprirci vicendevolmente di baci e carezze, a esplorarci, a divorarci; lasciai segni sul suo corpo, e lui li lasciò sul mio… ci donammo piacere a vicenda, più volte, sempre più languidi e sempre più voraci. Il suo volto affondato tra il mio collo e la spalla, il suo respiro affannato, le sue ciglia umide. I nostri corpi si muovevano in un’armonia meravigliosa, perfetti l’uno per l’altro, come i nostri cuori, e il solo ricordarlo mi strazia.
 
Quella notte, nel mio letto troppo grande per uno e troppo piccolo per due, Florent dormì stretto a me. Il suo respiro era tranquillo e regolare, seguirlo era un invito a scivolare a mia volta nel sonno; non volevo, però, non ancora. Ancora per un po’ volevo vivere quel momento, la prima notte insieme, mentre lui sognava sul mio petto. Avevo tempo per cedere al sonno e alle palpebre pesanti; intanto lo accarezzavo, mi beavo incredulo del suo tepore, giocavo con i suoi capelli, mi stupivo ancora una volta di quanto il suo corpo sembrasse fatto apposta per unirsi al mio. Se ne avessi il potere, vorrei tornare in quel preciso istante, e rivivere tutto ciò che doveva venire, e poter cambiare il nostro finale.
Quante volte mi sono attaccato ai ricordi cercando il fantasma di quel calore; mi dona una breve consolazione, l’ombra di un sorriso nostalgico, ma poi mi lascia amaro e triste. Sempre più spesso sogno i tempi perduti, e mi vedo di nuovo giovane, ancora sano e forte, nella mia vecchia casa, e c’è anche lui.
Lui, che posa per me, che mi sorride, che suona il suo violino, o mi conduce al pianoforte; scarabocchia su un foglietto ‘mon petit Chopin’ e me lo consegna ridacchiando, ben sapendo che né petit né Chopin mi si addicevano… ma suo lo ero, completamente.
Lo vedo, sulla poltrona di velluto, intento a leggere, o con lo sguardo assorto mentre guarda il mare dalla finestra, o che passeggia con me sul lungomare, e ogni tanto mi sfiora la mano… la stringe e la trattiene per un po’, quando nessuno ci può vedere.
E vedo noi tornare a casa e fare l’amore.
 
Vorrei morire nel sonno, sognando di noi… l’ho già detto, forse? Anche se fosse posso ripeterlo, sono vecchio e l’età può giustificare gli scherzi della memoria. E comunque è la verità, e la verità non viene mai ripetuta troppe volte.
Morire sognando di noi, avrei il sorriso sulle labbra; sarebbe una dolce consolazione.
Il pensiero della morte mi riempie di impazienza: so già che la fine è vicina, il mio corpo è esausto, il cuore debole, e lasciare la vita non mi spaventa, perché la morte è non-esistenza, è il nulla, e il nulla non si può temere, il nulla non ti può ferire. Nel nulla c'è la mia pace, l'estinzione del rimorso.
L'unica cosa di cui ho paura è aprire di nuovo gli occhi ogni mattina, vecchio e stanco e solo e inutile, e trascinarmi un giorno ancora.
 
Non posso più accarezzare Florent, ma ogni volta che vado al cimitero accarezzo la sua statua. È posta troppo al di fuori dalla mia portata, e troppo in alto, perché io possa baciarla sulle labbra, o anche solo toccarle, ma posso sfiorare con le dita la sua veste. Forse è proprio l’orlo di questa che dovrei baciare, come un penitente, supplicando perdono.
Sì, abusare delle mie ginocchia doloranti e oltrepassare la bassa inferriata che mi separa dal sepolcro, baciare l’orlo della veste, e i piedi che da essa spuntano.
Tante volte, davanti all’effige in pietra del mio Florent, senza che potessi farci niente, ho sentito lacrime amare, nostalgiche, piene di strazio, scorrermi sul viso. Non posso fermarle, non ci riesco e nemmeno lo voglio: lascio che scorrano, colpevoli e pentite. E non m’importa ciò che può pensare chi mi vede… sono solo un vecchio che piange davanti a una tomba.
Per chi piange questo vecchio, magari si chiedono. Una moglie, un figlio, un fratello?
Niente di strano, fa persino pena, pover’uomo. A un vecchio le lacrime si possono anche perdonare.
Loro non sanno, non possono immaginare.
In questa tomba è sepolta la mia vita.
 
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