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Autore: Saelde_und_Ehre    17/07/2020    5 recensioni
Polonia, settembre 1939.
L'offensiva tedesca è appena iniziata: i bombardieri sorvolano il cielo come oscuri presagi di morte, le truppe terrestri avanzano mietendo un successo dopo l'altro. Assediata su due fronti, dopo una strenua resistenza, la Polonia è costretta a capitolare.
Il tenente Friedrich von Kleist e il maggiore Hans Bühler sono due ufficiali di fanteria della Wehrmacht che prestano servizio nell'operazione. Il primo è un idealista, la cui condotta cavalleresca spesso si scontra con la ferrea disciplina dell'esercito; il secondo è un giovanissimo comandante di battaglione che si è fatto rapidamente strada nei ranghi dello Heer. Sono partiti per la guerra animati dai migliori propositi, ma presto entrambi dovranno scontrarsi duramente con un dilemma all'apparenza irrisolvibile: fino a che punto è lecito sfidare la ferrea disciplina dell'esercito, in nome di ciò che si reputa giusto?
Una storia di cameratismo e di guerra, con molta azione e una buona dose di angst, in cui Eros e Thanatos s'intrecciano, ancora una volta, indissolubilmente.
Genere: Angst, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
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XIX.
Der gute Kamerad

 

La sagoma nera della fabbrica si intravedeva al di là della recinzione, avvolta in una nebbiolina spettrale. Intorno al suo perimetro, i lampioni erano spenti: solo il medaglione della luna spandeva un tenue lume sul piazzale. Aveva da poco smesso di piovere e barbagli di luce fioca si riflettevano sul cemento bagnato; l’atmosfera era caliginosa, gravida di umidità.
Alla testa della squadra, il capitano Greifenberg fece cenno ai suoi uomini di fermarsi, sfruttando la copertura di un edificio. Le lancette fosforescenti dell’orologio indicavano che mancava ancora un’ora abbondante all’alba: quella missione sarebbe potuta durare una scarsa mezz’ora oppure diverse ore; tutto dipendeva da come avrebbero reagito gli uomini all’interno.
Con cautela, l’ufficiale si sporse ulteriormente per osservare meglio il cortile della fabbrica e il tratto di strada che li separava dal pesante cancello d’entrata. Non c’era nessuno in vista; su un lato della barricata si apriva uno squarcio talmente ampio da permettere il passaggio di un carro armato. Guardò ancora una volta l’orologio, poi si mise un MP38 ad armacollo, infilò un paio di bombe a mano nel tascapane e rimase in attesa.
Non dovette attendere molto prima di udire il segnale convenuto: il capitano Bentheim era appena tornato dal suo giro d’ispezione e gli stava venendo incontro. Alzò lo sguardo verso il cielo: il nero stava cedendo il passo a un blu profondo; le stelle sbiadite si nascondevano tra le nubi.
“Abbiamo eliminato le sentinelle prima che potessero dare l’allarme…” riferì l’altro, prendendolo in disparte. “Dietro ci sono due uscite di servizio, diversi camion parcheggiati e un cancello chiuso da un lucchetto. Potrebbe essere una trappola.”
Reinhardt annuì. “Lo è sicuramente. C’è troppo silenzio… le barbabietole sono asserragliate là dentro da ieri pomeriggio, con almeno venti ostaggi del plotone di Werner von Tannenberg.”
“È per questo che da ieri la nostra artiglieria evita di colpire questa fabbrica: prima dobbiamo liberare i prigionieri… e abbiamo una sola possibilità per farlo in fretta e senza sbavature.”
“Dobbiamo accerchiare la fabbrica e fare irruzione approfittando dell’effetto sorpresa.”
“Precisamente.” Konrad tirò fuori il taccuino dalla tasca e gli mostrò la pianta che aveva disegnato. “Manderò dei soldati a ogni uscita per tagliare eventuali ritirate, ma noi entreremo da un solo lato: questo.” Indicò l’entrata principale, poi il corrispondente sulla mappa e le unità che vi aveva schierato. “Se i polacchi dovessero provare a uscire dal retro, troveranno i miei uomini ad aspettarli.”
Reinhardt aguzzò la vista, osservando il piazzale deserto; in lontananza si iniziavano già a udire gli echi di scontri lontani. “Quelle macerie ammassate qua e là sono una buona copertura per i mitraglieri. Quanto a me, ho solo una squadra d’assalto…” Si voltò a guardare gli uomini che aveva portato con sé: i tre superstiti dell’equipaggio del Panzer e un’altra decina di fanti che, fermi e attenti, allineati contro il muro, attendevano un ordine che non tardò ad arrivare. L’ufficiale fece un passo verso di loro. “Come convenuto, avanzeremo con la massima cautela possibile e sfonderemo la porta, approfittando della concitazione per entrare. Tutto chiaro?”
“Sì, signor capitano.”
“Bene, mantenete la copertura e tenetevi pronti ad attaccare.” Mentre pronunciava quelle parole, trasse una granata dal tascapane e se la soppesò tra le mani, fissando l’entrata con piglio rapace, poi si avvicinò di nuovo al compagno e gli rivolse un eloquente sguardo d’intesa. “Ci pensi tu o ci penso io?”

Un boato assordante accompagnò l’esplosione, seguita dal rotolare cupo di mattoni e calcinacci. Lì dove c’era la porta, tra le falde di fumo, si aprì un grande squarcio che dava su un ambiente torrido e buio come una fucina. Dall’interno della fonderia provennero grida concitate e ordini perentori in polacco, poi qualche colpo di arma da fuoco.
Guidati dai due ufficiali, i soldati scivolarono all’interno e si dispersero in cerca di copertura, sparando sui difensori asserragliati dietro ripari di fortuna: sedie, tavoli rovesciati, macchinari e scale. Le poche torce che i polacchi avevano con sé furono gettate per terra per impugnare le armi. Dall’alto piovevano raffiche di mitragliatrice pesante, che falciarono un paio di tedeschi prima che riuscissero a raggiungere una postazione. Uno di essi rimase immobile lì dov’era caduto; l’altro si trascinò sui gomiti, lasciando dietro di sé una scia di sangue.
Reinhardt strisciò in copertura dietro alcuni blocchi di metallo impilati e da lì riprese a sparare sulle sagome scure e armate che vedeva brulicare nella penombra. Un sergente gli balzò addosso e lo spinse per terra trascinandolo in un corpo a corpo, un altro tentò di avvicinarsi ma fu abbattuto da una raffica.
Liberatosi dalla sua presa, il giovane deviò un colpo di pistola che andò a rimbalzare contro il ferro, estrasse la baionetta e la affondò alla cieca nella gola del suo aggressore. Il corpo sopra di lui si dimenò un paio di volte, sussultò emettendo versi inarticolati, poi rimase immobile con gli occhi sbarrati.
Il giovane lo spinse da parte e, con le mani ancora sporche, ricaricò il mitra.
L’aria all’interno era irrespirabile, gravata dall’odore del sangue e della polvere da sparo, resa ancora più rovente dalla vicinanza delle siviere colme di acciaio fuso a millecinquecento gradi. Ovunque, amplificati dall’alto soffitto, si udivano fischi e tintinnii di proiettili, grida e lamenti.
Gocce di sudore gli scendevano sulla fronte e sui palmi e gli incollavano l’uniforme al corpo.
“In alto! Neutralizzare il nido di mitragliatrici!” udì gridare la voce di Konrad. Qualche istante dopo Reinhardt lo vide avvicinarsi, quasi appiattito al suolo per evitare i proiettili dei mitraglieri appostati sui corridoi sospesi. Con un gesto fulmineo lo afferrò per un braccio e lo tirò verso di sé, mentre passi rapidi riecheggiavano sulle scale di ferro e una delle raffiche s’interrompeva di colpo.
Entrambi ansanti, si abbassarono di nuovo dietro la barriera, le armi strette contro il petto.
“Hai per caso visto i prigionieri?” chiese Reinhardt.
“No, però qualcuno ha messo in moto i macchinari.” Konrad indicò in alto con la canna della pistola: una delle siviere colme di materiale incandescente si muoveva sferragliando lungo le rotaie poste sul soffitto, diretta verso lo stampo per la colata. Dal retro della fabbrica, una voce isolata implorò aiuto in tedesco. Le sparatorie continuavano da entrambe le parti, ma il loro crepitio andava via via diminuendo d’intensità. Gli ingranaggi mal oliati emettevano cigolii sinistri. “Tra i tuoi effettivi c’è qualcuno che abbia lavorato in fonderia?”
Reinhard balzò in piedi. “Sì, andiamo.”

Quando li vide arrivare, il soldato che armeggiava con le leve alzò le mani e si arrese prima che un qualsiasi colpo potesse partire dalle loro pistole. Si lasciò scortare dai due ufficiali, la pistola di Reinhardt contro la schiena, mentre un robusto Sturmmann interveniva per spegnere il meccanismo.
Ormai, all’interno della fabbrica si udivano soltanto spari isolati e lamenti di feriti.
Richiamati dal capitano Bentheim, gli uomini della fanteria entrarono nella fabbrica dalle uscite secondarie, e i polacchi superstiti, trovandosi accerchiati, gettarono le armi per terra e si arresero senza opporre resistenza.
Il pavimento, scivoloso di sangue, era disseminato di bossoli di proiettili di diversi calibri, schegge di vetro e frammenti di legno. Un tedesco morto giaceva sul cadavere di un polacco, nella stessa posizione in cui dovevano essersi uccisi a vicenda. Altri corpi si muovevano ancora e furono radunati in un angolo, indipendentemente dallo schieramento di appartenenza, in attesa di adeguate cure.
Legati e imbavagliati, gli ostaggi delle Waffen-SS erano ammassati a ridosso di uno degli stampi per la colata: molti di loro erano feriti e presentavano delle bende insanguinate bene in vista. Tra essi, i due ufficiali riconobbero subito il tenente von Tannenberg: un ciuffo scomposto di capelli scuri gli ricadeva sulla fronte e il labbro inferiore era sporco di sangue, che dal naso gli colava sul mento. Appeso al collo aveva un braccio fasciato.
Greifenberg si chinò di fronte a lui, inumidì un fazzoletto con la borraccia dell’acqua e glielo passò sul viso. “Werner?”
Il tenente sbatté le palpebre e fissò gli occhi celesti su di lui. “Reinhardt… Konrad?”
“Sì, siamo noi.”
“Sete…”
Reinhardt si limitò a porgere il recipiente al suo amico e subalterno, lasciando che si dissetasse, poi si alzò di nuovo in piedi. “Tenente, sono stati i polacchi a medicarle il braccio?”
Egli annuì. Cercò di forzare un sorriso sarcastico, ma gli uscì una smorfia distorta. “Sì… del resto, sono stati loro a ferirmi, signor capitano.”
“Avete combattuto per molto tempo?”
“Sì, dalle dieci di mattina fino alle due del pomeriggio.”
Il capitano calcolò che quello era più o meno l’orario in cui il vecchio Barbarossa era esploso, mentre i Panzer del maggiore si trovavano nel centro storico. “Quanti eravate?”
“Trentuno, signore. Di quelli che non sono presenti qui, un paio sono rimasti uccisi, mentre gli altri sono riusciti a fuggire e dare l’allarme.”
“Adesso vi tiriamo fuori di qui e mandiamo a chiamare i barellieri.” L’orologio gli indicò che mancava poco alle sette del mattino, e già dalle alte vetrate iniziava a intravedersi il chiarore del mattino. Greifenberg voltò verso il suo parigrado. “Per quanto riguarda questa vecchia fabbrica… noi dobbiamo continuare l’avanzata, ma sarebbe un vero peccato lasciare alle barbabietole la possibilità di occuparla di nuovo…”
“Posso lasciare una trentina di uomini qui: è un’ottima postazione strategica e un rifugio sicuro, in caso ne avessimo bisogno. Gli altri proseguiranno insieme a noi.”
Finirono di predisporre le ultime cose, poi uscirono nel piazzale deserto. L’aria era fresca e rorida, e il sole nascente spandeva sull’orizzonte una colata d’oro liquido.
Approfittando di quel breve momento di solitudine, Reinhardt poggiò una mano sulla spalla del compagno e la strinse leggermente. “Tutto bene, Konrad?”
Si fissarono per qualche istante in silenzio, poi l’altro annuì. “Sì, tu?”
“Tutto bene.”

L’androne del piano terra conservava le tracce di una violenta sparatoria: i corpi scomposti di tre soldati polacchi erano riversi per terra nel sangue e sul pavimento erano sparsi proiettili di pistola e mitragliatrice. Il caporale della sanità tastò il polso di ciascuno per accertarne il decesso e i suoi assistenti li allinearono lungo la parete coprendoli con dei teli. “Anche oggi, i vermi troveranno parecchie carni su cui banchettare,” borbottò il maresciallo Braun, frugando nella sua tasca alla ricerca della pipa.
Il graduato ignorò il sarcasmo e proseguì la sua ispezione. “Signor maresciallo! Venga a vedere!”
Nessuno degli altri soldati lì presenti osò fiatare: adagiata contro una colonna c’era la figura curva di un uomo in uniforme dello Heer. Sulle spalle aveva una giacca con le mostrine lucide, sporca e bucherellata, e il nastrino della croce di ferro di seconda classe appuntato all’occhiello. Giaceva immobile, con un’ampia rosa di sangue sulla camicia bianca e una mano abbandonata in grembo.
“È un ufficiale. Un ufficiale superiore,” disse il caporale, chinandosi di fronte a lui. Nonostante i gradi che portava sembrava non arrivare a trent’anni; i lineamenti e il pallore del viso accentuavano quell’impressione. “Si direbbe un maggiore alla prima nomina.”
“Povero ragazzo,” commentò un soldato, avendo cura di non farsi sentire dal maresciallo.
Qualcuno gli aveva già applicato i bendaggi, ancora sporchi di liquido viscoso. “Non è qui da molto, ma ha già perso parecchio sangue.” La sua mano era gelida, ma il corpo era scosso da tremiti impercettibili e il polso emanava una debole pulsazione. “È ancora vivo, ma se non ci sbrighiamo temo che lo sarà ancora per poco.”
Con delicatezza, il graduato gli scostò l’orlo della giubba per controllare meglio le fasciature, ma il giovane emise un grugnito di disappunto e i suoi lineamenti furono distorti da una smorfia.
“Signor maggiore?”
L’ufficiale spalancò gli occhi, rivolgendogli uno sguardo annebbiato, forse senza neanche rendersi conto di chi avesse di fronte, e si limitò a scuotere la testa in segno di diniego. “Lasciatemi…” Tentò invano di sottrarsi a quelle attenzioni, rannicchiandosi contro la parete, ma un movimento brusco lo fece sussultare per il dolore. Come d’istinto, si portò di nuovo la mano al costato, senza osare proferire un lamento.
“Signor maggiore, siamo della sanità. È tutto a posto,” lo blandì il maresciallo. “Adesso la portiamo via da qui.”
Mentre il ferito veniva sollevato per caricarlo su una barella, il caporale si accostò al maresciallo e lo indicò con un cenno del capo. “Dice che ce la farà, signore?”
“Non si sa.” Braun si infilò la pipa tra le labbra e l’accese, poi si strinse nelle spalle ossute. “Avrà già perso più di un litro di sangue, guarda quanto è pallido. Uno di costituzione più debole sarebbe già finito all’altro mondo. Possiamo soltanto provare a fare il possibile, e soprattutto farlo in fretta.”

Solo verso mezzogiorno la furia dei polacchi iniziò a diminuire: accerchiati e in minoranza numerica, come animali minacciati dal fuoco avevano raccolto le loro armi e avevano ripiegato verso Varsavia, dove l’ultima strenua difesa attendeva le truppe della Wehrmacht.
Il sottotenente Kühn alzò lo sguardo verso il cielo: il sole, pur alto, era velato da nuvole diafane che abbagliavano gli occhi. Un vento umido disperdeva il fumo che si levava dai focolai d’incendio sparsi per il villaggio, le strade erano ancora invase dai calcinacci.
Si accertò che i feriti e i prigionieri venissero smistati, poi andò a sedersi sugli scalini all’ombra di un vecchio edificio e tirò fuori la gavetta del rancio. I soldati fumavano e chiacchieravano; altri, seduti per terra come lui, approfittavano della pausa per mangiare.
Il suo stomaco brontolò con prepotenza e il giovane si avventò sul cibo come se fosse rimasto a digiuno per giorni. Poco dopo, con la lingua penzoloni, lo raggiunse anche il cane, che si sedette sulle zampe posteriori in attesa che lui gli elargisse una scatoletta di carne.
Mentre mangiavano, Erich ripercorse gli avvenimenti di quella mattina: era rimasto tutto il tempo in prima linea a guidare l’assalto aspettando che il maggiore e il capitano von Kleist tornassero per dare l’ordine di avanzare, ma da ore erano assenti, e a un certo punto si era diffusa la voce che fossero stati trattenuti altrove da uno scontro a fuoco. Alla fine, cogliendo l’occasione favorevole, era stato proprio lui a prendere l’iniziativa per rompere lo schieramento nemico, e si sentiva orgoglioso di quel piccolo successo.
Tuttavia, gli parve fin troppo strano che Bühler non gli avesse fatto pervenire indicazioni di nessun genere: l’ultima – e unica – volta che si era verificata una tale circostanza, si era poi scoperto che l’uomo era finito nelle mani dei nemici.
Era così immerso in quei pensieri quando vide arrivare il sergente Böhmer insieme a due soldati con una MG 34 e i volti sporchi di fuliggine. Erich si alzò andandogli incontro e gli ordinò il riposo prima ancora che il sottufficiale si presentasse a rapporto. “Che sta succedendo?” indagò.
“Herr Leutnant.” Böhmer gli restituì uno sguardo stralunato, poi lo spostò sui soldati con aria contrita. “L’avete saputo?”
“Cosa?”
Con un sospiro, il sergente si tolse il berretto e chinò il capo. “Il maggiore.”
Il giovane sobbalzò come se una granata fosse caduta a pochi passi da lui. “Cos’è successo?”
Böhmer sospirò di nuovo. “Gli hanno sparato, signore. Il capitano von Kleist ha chiamato i portaferiti che respirava ancora, ma quando loro sono arrivati sul posto non l’hanno più trovato. C’era solo un lago di sangue… sangue ovunque, tutto suo. Era ancora fresco.”
“Che l’avesse già portato via qualcun altro?” ipotizzò l’ufficiale.
“Chi lo sa, signore, con tutto quel casino. Dicono che è morto.” Fece una pausa significativa e si portò una mano al petto. “Una pallottola qui, vicino al cuore.”
A quella luttuosa rivelazione, i soldati, che si erano assiepati intorno a loro, tacquero e si scambiarono occhiate sconcertate. Erich si morse l’interno della guancia, sinceramente colpito da quelle parole: il Vecchio era in realtà così giovane che gli veniva da considerarlo più simile a un fratello maggiore che a un padre. Ripensando ai suoi ammonimenti di quella mattina, fece quasi fatica a credere che fosse morto così all’improvviso.
“Abbiamo perso due comandanti di battaglione in nemmeno due mesi,” commentò l’uccello del malaugurio con la sua voce stridula. “Prima von Eltz, con quell’orrendo incidente, poi Bühler…”
“Nulla da dire,” disse un veterano, accendendosi una sigaretta, “di strada ne aveva da fare ancora parecchia, ma sapeva il fatto suo.”
Hanke, cercando di risollevare l’atmosfera, tirò fuori una fiaschetta. “La saggezza viene con l’esperienza, caro Neumann. Dobbiamo berci un goccio di Schnaps alla sua salute.”
“Ma…” balbettò il sottotenente. “È una notizia ufficiale?”
Eichmann lo guardò con l’aria di uno che voglia mostrare di saperla lunga. “Con tutto il rispetto, signor sottotenente, io ho visto il sangue per terra: perfino un cavallo rimarrebbe stecchito a perderne così tanto.”
Erich aggrottò appena le sopracciglia, poi chiese: “E il capitano dov’è?”
“Era con lui, poi non l’hanno più visto,” rispose Böhmer.
Krause scosse la testa, gli occhi abbassati e fissi su un punto oltre i propri stivali. “Il Vecchio si consultava sempre con lui… si fidava di lui.”
“E il capitano ha fatto di tutto per salvarlo,” aggiunse Hanke. “Ci teneva a lui.”
“Ma poi è morto comunque…”
Erich immaginò che, se davvero von Kleist e il maggiore erano così tanto amici – e, a testimonianza di quel rapporto, li aveva visti spesso condividere il rancio e parlare tra loro – vederselo morire davanti agli occhi doveva essere stato davvero terribile per lui.
“Forse era già arrivata la sua ora,” intervenne Eichmann dopo un po’. “Mai contraddire la morte: si prenderà sempre quello che le spetta, in un modo o nell’altro.”
In quel momento, il soldato Schreiber si fermò davanti a Erich e scattò sull’attenti. “Signore, sta arrivando il capitano.”
Rapido, il giovane ufficiale fece schierare il plotone sull’attenti e si preparò a riceverlo.
Von Kleist arrivò a passo di marcia, con un MP38 ad armacollo, in testa a un gruppo di circa quindici soldati. Due di loro ne stavano sostenendo un terzo che zoppicava a fatica, sanguinando copiosamente da una gamba. Anche i vestiti del capitano erano sporchi di sangue, e la visiera del berretto gettava un’ombra cupa sulla sua espressione.
Quando si avvicinò a lui, i suoi occhi si fecero taglienti come due lame di ghiaccio: doveva aver intuito subito quello che era successo. “Perché non siete rimasti ai posti assegnati?”
“Signor capitano, io…”
“Non adesso, sottotenente.” Con un gesto imperioso, von Kleist lo indusse a tacere. “Ne riparleremo stasera. Adesso dobbiamo rimetterci in marcia, senza perdere altro tempo.”
Gli volse le spalle e, con passo marziale, si diresse verso il telefono da campo: non sembrava aver conservato alcuna traccia della gentilezza che di solito riservava ai subalterni.
“Stessi metodi dell’uomo di ferro,” sussurrò Krause all’orecchio di Hanke, cercando al contempo di mostrarsi impassibile per non attirare l’attenzione.”Suo degno erede: cuore d’acciaio.”
Erich non disse nulla; tuttavia, quelle parole gli provocarono un sottile brivido lungo la spina dorsale.

Schmidt guidava con una ruga verticale sulla fronte, il piede schiacciato sull’acceleratore ed entrambe le mani piantate sul volante della macchina. Curvò per imboccare una strada secondaria, circondata su due lati da campi dilaniati dalle bombe, e von Kleist dovette tenersi il berretto con una mano per evitare che gli scivolasse via. Le ruote posteriori rasparono per terra sollevando una fontana di sassolini, si disincagliarono dalla buca e ripresero a percorrere la strada sobbalzando.
“Da qui in poi proceda con attenzione, caporale.”
L’autiere annuì e il capitano sprofondò di nuovo nel sedile del passeggero, senza tuttavia perdere di vista la strada: il paesaggio era desolato, spettrale, come una vasta distesa grigiastra di arbusti bruciati e terra smossa; forse, tra le zolle di terra, c’era ancora qualche mina inesplosa.
Rifletté sull’iniziativa personale del sottotenente Kühn, sulla sua, e su quanto in fretta fossero precipitate le cose. Fino a venti giorni prima, nessuno di loro aveva mai provato sulla propria pelle quanto potesse essere dura la guerra vera. Nessuno di loro aveva mai provato il dolore di perdere un camerata, un amico, un commilitone… qualcuno che andava al di là di ogni definizione convenzionale, di ogni rapporto comunemente accettato.
Si guardò l’uniforme, ancora sporca di sangue – il suo sangue. Non aveva più ricevuto notizie di Hans, ma il timore di quello che poteva essere successo in quell’androne dopo che se n’era andato bruciava come un marchio a fuoco. E se i portaferiti non fossero arrivati in tempo per trarlo in salvo? Se l’emorragia lo avesse ucciso prima che qualcuno potesse occuparsi di lui?
Dovette mordersi il labbro inferiore e costringersi a non pensarci, a non rievocare quelle immagini, almeno fino alla fine dell’offensiva di quel giorno, ma il rumore di quell’ultimo sparo continuava a riecheggiargli nella testa come una sentenza di morte.
Anche se per lui – per loro – il tempo sembrava essersi cristallizzato in quel terribile attimo, la guerra non si sarebbe fermata per così poco. Hans aveva dato il suo sangue per la riuscita di quella missione, ma non avrebbe mai visto Varsavia; tuttavia – e quel pensiero, che si era insinuato furtivo, gli s’impresse come un marchio d’infamia – si era risparmiato anche la vergogna di vederlo precipitare inesorabilmente verso la rovina.
Irrigidì la postura, imponendosi ancora una volta di concentrarsi solo sulla battaglia, e le mani torturarono il berretto come se volessero accartocciarlo.
Giunti in vista del villaggio, ordinò a Schmidt di fermarsi e, mentre i soldati approntavano lo schieramento, convocò il sottotenente Kühn a rapporto.

Friedrich von Kleist si avvicinò alle barricate con passo marziale, le mani allacciate dietro la schiena mentre osservava a uno a uno gli uomini della sua compagnia. La foga iniziale, per il momento, si era placata, ma i soldati chini sui mirini dei fucili non osavano muoversi dalle loro postazioni: era questione di pochi minuti prima che lo scontro divampasse ancora una volta, con maggiore ferocia.
Dovevano essere passate ore da quando erano arrivati in quel villaggio, ad avanzare tra le tempeste di pallottole mentre il nemico si nascondeva nelle case e cercava disperatamente di ricacciarli indietro con tutti i mezzi che aveva a disposizione.
Vide il sottotenente Kühn col suo MP38 e l’elmetto lucido, gli rivolse uno sguardo penetrante e passò oltre. Quel ragazzo – pensò – aveva avuto fortuna se la sua iniziativa personale si era conclusa un esito positivo, che gli avrebbe procurato una nota di merito per l’audacia dimostrata. Lui, invece, sarebbe stato processato, rischiando di perdere i gradi e l’onore; forse l’avrebbero spedito in un battaglione di disciplina a dissotterrare mine nel punto più orrendo del fronte.
Era bastato così poco perché l’ago della bilancia si spostasse dal lato sbagliato…
Di riflesso, le sue dita andarono a sfiorare la fondina della pistola, e un brivido impercettibile gli scosse le membra. Affrettò il passo, quasi pestando gli stivali per terra.
Al suo passaggio, gli uomini tacevano e si ricomponevano, qualunque cosa stessero facendo.
Hanke e Schreiber, come ormai era diventata loro abitudine, erano appostati dietro la mitragliatrice che avevano scherzosamente ribattezzato Erika come la ragazza della canzone di Herms Niel. Era capitato anche a von Kleist di maneggiare quell’arma per così tante ore, e immaginò che la canna dovesse essere rovente. Approfittando della breve pausa, Schreiber la rimosse e la sostituì con una nuova.
“Peter…” Friedrich gli aveva appena voltato le spalle quando sentì la voce di Hanke bisbigliare: “Io… devo avere le traveggole.”
“Perché?” Il tono di Schreiber era sbalordito.
“Forse quel bicchiere di Schnaps mi ha dato alla testa, ma… per un attimo mi è sembrato di vedere il Vecchio. Qui, di fronte a me, in carne e ossa.”
Il soldatino non rispose, e Hanke abbassò la voce. “Sì, Peter, mi è parso di vedere il maggiore. E guardalo… von Kleist non te lo ricorda?”
“Non ho mai visto due persone così diverse, signore,” rispose Schreiber, la voce appena udibile. “Il capitano è basso e biondo, il maggiore era alto e aveva i capelli castani.”
Friedrich tese l’orecchio e finse di continuare il suo giro d’ispezione, sforzandosi di far finta di nulla; non intervenne neanche per intimare di nuovo il silenzio. Ne aveva sentite dire tante dai soldati, col tempo aveva anche imparato a ignorare il loro cicaleccio, ma quel paragone gli giunse del tutto inaspettato.
“Certo che sono diversi, Peter, ma guarda: von Kleist si comporta esattamente come lui.” Hanke sospirò con aria rassegnata, poi scosse la testa come a voler dichiarare concluso il discorso. “Che ti devo dire, ragazzo mio… non riesco ancora a credere che sia morto.”
Friedrich si era fermato alle spalle di due fucilieri, senza neanche prestare attenzione a quello che stavano facendo – e i due, nel frattempo, si erano sbrigati a far sparire le sigarette sotto le suole degli stivali – e quelle parole lo lasciarono pietrificato, riecheggiando amplificate nella sua testa come tra le ampie volte di una cattedrale.
Non riesco ancora a credere che sia morto…
Strinse i denti, affondando le unghie nei palmi delle mani: in realtà, non si stupì neanche di quella dichiarazione, ma sentirla pronunciare a voce faceva tutto un altro effetto; il battito del cuore riprese a opprimergli la gola come se una mano invisibile lo stesse stritolando.
“Tutti ai propri posti,” ordinò in tono glaciale, armandosi a sua volta. “Tenersi pronti per il prossimo assalto.”

Era già notte inoltrata, ma l’artiglieria in sottofondo ruggiva senza posa, illuminando di lampi il cielo scuro. Dal piano di sotto provenivano risate composte e il suono di un’armonica a bocca che intonava la melodia di In einem Polenstädtchen. Seduti al tavolino della loro sgangherata postazione di comando, Konrad von Bentheim e Reinhardt Greifenberg studiavano una mappa dei sobborghi di Varsavia.
“Al momento non abbiamo informazioni più precise…” disse il primo, tamburellando la penna sul piano del tavolo. “Ma ho buone ragioni per presupporre che ci sia un grosso contingente polacco nella zona di Grabnik.”
Lo Hauptsturmführer si alzò e andò ad affacciarsi alla finestra, sospirò e si passò una mano tra i capelli. Nonostante l’ora tarda, aveva ancora il cinturone della pistola stretto in vita. “Anche le barbabietole dormono sonni inquieti…”
Avrebbe continuato la frase, ma un portaordini bussò alla porta, si affacciò all’interno e annunciò: “Signori, è arrivato il capitano von Kleist.”
Pochi istanti dopo, Friedrich entrò salutando con un asciutto cenno del capo. Appoggiò le sue armi su una cassapanca e rimase fermo lì, nel riflesso delle fiamme. Neanche lui si tolse il cinturone, né l’elmetto d’acciaio che adombrava il suo volto sporco. “Scusate il ritardo,” disse semplicemente. “Ci siamo dovuti fare strada col fucile.”
Konrad annuì, notando nella scarsa luce che la sua uniforme grigioverde era strappata e sporca di sangue. “Hans non c’è?” gli chiese, cauto.
Friedrich esalò un profondo sospiro, poi levò su di lui un paio di occhi rossi e cerchiati dalla stanchezza. La voce gli uscì dalla bocca in una tonalità distorta, velata di retorica: “Ha reso il suo ultimo servigio alla Patria. Vediamo di non renderlo vano.”
Konrad e Reinhardt si scambiarono un’occhiata sgomenta, ma non dissero niente per non metterlo in imbarazzo. Sapevano entrambi quanto Friedrich tenesse al suo compagno; erano testimoni di come ne parlava, esaltandone le qualità umane e militari: erano gli unici al corrente di quel segreto condiviso da tutti e quattro, che li aveva resi amici prima che colleghi e collaboratori. E Konrad, che conosceva Friedrich da sempre, non l’aveva mai visto provare per qualcuno una stima che fosse anche solo minimamente paragonabile a quella che provava per Hans.
Fece un passo avanti e si limitò a poggiargli una mano sulla spalla, immaginando – dallo sguardo tagliente e dalle labbra contratte – il dolore che doveva provare in quel momento.

Friedrich si sedette al tavolo cercando di costringersi a non pensare a niente, anche se quel momento di tranquillità lasciava libero sfogo al dolore che lo dilaniava da dentro. Fu grato a Konrad e Reinhardt che, pur essendosene accorti e condividendo il suo dispiacere, evitavano di toccare l’argomento in sua presenza. Non voleva compassione o parole di conforto, nemmeno da parte dei suoi più cari amici.
Come attraverso il velo che lo separava dal mondo esterno, vide la figura di Reinhardt che si alzava e si girava verso il focolare per andare ad attizzare le fiamme, poi lo udì parlare, senza rivolgersi direttamente a lui: “Al primo turno di guardia ci pensiamo io e Konrad.”
“Sì, ce ne occupiamo noi,” disse l’altro. “La difesa per la notte l’abbiamo già predisposta, adesso andiamo di sotto a trasmettere gli ordini.”
Friedrich annuì e comprese, né cercò di opporsi a quella decisione: se dormire era un po’ come morire, sentiva il bisogno di quel dolce balsamo per non impazzire prima della battaglia finale.
“Chiamatemi se succede qualcosa,” disse, mentre i due si allontanavano.
Aspettò che richiudessero la porta, poi prese le sue cose e andò ad appartarsi in un angolo, dove allestì un giaciglio con un vecchio materasso e il bagaglio a fargli da cuscino. Senza neanche togliersi gli stivali, avvolse la Luger di Hans nella giacca logora e si rannicchiò col viso verso la parete, tirandosi la coperta fin sopra le orecchie. D’istinto strinse a sé l’involto come se fosse un commilitone caduto, e gli venne da ripensare all’ultima notte trascorsa in Germania, prima di partire per il fronte.

Le strade del centro storico di Potsdam erano ammantate di silenzio; dalle finestre socchiuse proveniva una leggera brezza e un fascio di luce lunare illuminava le due divise abbandonate sulla poltrona.
“E così, domani si parte,” sussurrò Hans.
Friedrich sorrise nella penombra. “E nei prossimi giorni combatteremo insieme.”
“Certo, e se per qualche motivo ci dovessimo separare, tieni sempre a mente le mie istruzioni.”
Von Kleist si sollevò su un gomito e si protese su di lui con un ghigno sarcastico. “In tal caso, signor maggiore, cercherò di non inciampare nel filo spinato.”
“Guarda che sto parlando sul serio, Preuße,” lo rimbeccò Hans con una risata, ribaltandolo senza preavviso.
Friedrich ridusse la voce a un sussurro: rispondergli con qualche ironica provocazione faceva parte del gioco tra loro. “Anch’io dicevo sul serio, Schwabe, che cosa credi?”
“È sempre bene mettere le cose in chiaro con te,” replicò il maggiore, beffardo.
“Ah, grazie per la fiducia!” Friedrich gli sferrò un pugno sulla spalla, che l’altro incassò senza battere ciglio. “E per quale motivo mi avresti nominato tuo aiutante di campo?”
“Per tenerti d’occhio, naturalmente: non sia mai che tu inciampi nel filo spinato…” Bühler assecondò il suo tono, ma subito dopo si fece di nuovo serio. “Scherzi a parte, Friedrich: sei tu quello che mi assiste sempre durante le manovre e la pianificazione delle strategie. Non avrei potuto scegliere nessun altro, se non te.”
Rimasero per qualche istante in silenzio: lo sguardo di Hans, fisso nel suo, comunicava molto di più di quanto avesse mai espresso a parole.
“Puoi contare su di me, Schwabe,” promise infine il tenente.

Non era riuscito a mantenere la parola data quella notte, lo aveva deluso anche quando credeva di fare la cosa giusta: avrebbe forse dovuto rassegnarsi all’eventualità di perderlo, in un modo o nell’altro? O forse avrebbe dovuto disobbedirgli una seconda volta per salvarlo, caricarselo di peso in spalla e portarlo al posto di medicazione?
Lui, coi suoi valori di onore e fedeltà incrollabile, aveva fallito su tutti i fronti, né poteva più emendarsi dalla sua mancanza. Disattendendo gli ordini per un giusto fine, si era ritrovato a fronteggiare la minaccia della corte marziale; eseguendoli – sempre in buona fede, per quanto la sua coscienza fosse contraria – si era reso indirettamente responsabile della morte del suo compagno e comandante.
Il fallimento non è contemplato… non doveva esserlo.
Strinse ancora più forte l’involto che racchiudeva la pistola, quasi come se fosse il corpo della persona amata, e le lacrime ripresero a scorrere, silenziose ma inarrestabili, venendo riassorbite dalla stoffa dell’uniforme.
A quel punto, dove si trovava il labile confine che separava ciò che era giusto da ciò che era sbagliato?
Non sapeva darsi una risposta, e quel turbine di domande generava un angosciante abisso di dubbi.
Stremato, chiuse gli occhi e lasciò che l’oblio del sonno soffocasse ogni pensiero.

Decine di candele ardevano nella penombra, illuminando i drappi sanguigni delle bandiere che pendevano dalle colonne marmoree. Rami fioriti e foglie di quercia adornavano le aquile dorate del Reich che vegliavano sui caduti.
Friedrich si avvicinò quasi di soppiatto, sperando di poter rivedere Hans un’ultima volta prima che deponessero il coperchio sulla sua bara: il giovane era in alta uniforme, con la sciabola cerimoniale tra le mani avvolte in guanti bianchi e la croce di cavaliere, ricevuta postuma, al collo. Le ferite che lo straziavano sembravano scomparse, i capelli non erano più sporchi di sangue; sembrava quasi addormentato. Anche nell’immobilità della morte, i suoi lineamenti conservavano un’espressione serena. Gli sfiorò con delicatezza la guancia, liscia e fredda come il marmo, poi un rumore di passi proveniente dal corridoio lo costrinse ad allontanarsi.

Le bare dei caduti erano allineate all’ombra di querce secolari, in un campo di smeraldo che ricordava i paesaggi della natia Germania. Quella di Hans, in qualità di ufficiale più alto in grado e comandante del battaglione, si trovava al centro, più rialzata delle altre; sopra di essa era stesa la bandiera di guerra del Reich.
Friedrich, l’elmetto lucido e la spada alla cintura, si sforzò di mantenere una facciata impassibile, di mostrarsi impeccabile nel suo ruolo di aiutante di campo e comandante della guardia d’onore: anche se il suo lutto era quello di un amante, agli occhi di quei soldati il caduto era solo un ufficiale, un giovane maggiore alla prima nomina che aveva fatto il suo dovere, esattamente come ci si aspettava da lui. A Hans sarebbe piaciuto essere ricordato così, senza compassione né piagnistei.
Eppure, non vi era un’ironia più crudele di quella: la morte dignitosa del suo compagno non faceva altro che acuire il peso del fallimento che gli sarebbe pesato in eterno sul capo.
Fu l’ultimo a fare l’orazione funebre, senza neanche rendersi conto delle parole che stava pronunciando, trattenendo a stento le emozioni contrastanti che si agitavano in lui come una tempesta; poi prese una coccarda di rami di quercia e la depose con un gesto solenne sulla bara del maggiore.
La fanfara attaccò a suonare, accompagnata dal ritmo marziale dei tamburi, e le voci dei soldati vibrarono all’unisono.

Ich hatt’ einen Kameraden
einen bessern findst du nit
Die Trommel schlug zum Streite
er ging an meiner Seite
in gleichem Schritt und Tritt
1

Eine Kugel kam geflogen
gilt es mir oder gilt sie dir?
Ihn hat sie weggerissen
er liegt vor meinen Füßen
als wär’s ein Stück von mir.
2

Tre salve di fucile riecheggiarono nell’aria, tributando ai caduti l’ultimo saluto.
A un cenno del capitano la musica cambiò, la fanfara divenne un’orchestra, e al ritmo sostenuto della marcia militare si sostituirono i toni epici, sempre più incalzanti, del Götterdämmerung di Wagner.
Friedrich ordinò che venisse allestita una pira funebre per i caduti, come ai tempi degli antichi Germani. Schierati in un solenne corteo, i soldati della guardia d’onore arrivarono recando con sé delle fiaccole che illuminavano i loro volti pallidi, distorcendo i loro lineamenti di ragazzi. Anche il capitano ne prese una, la accostò alla bara del suo compagno e lasciò che il fuoco attecchisse sul legno di quercia.
Le fiamme divamparono crepitando, intrecciandosi alle vibrazioni impetuose della musica, e Friedrich rimase a guardarle come ipnotizzato, con la torcia tra le mani, mentre i bagliori ignei si riflettevano guizzando sui suoi capelli biondi. La sua figura era una sagoma scura che si stagliava contro il fuoco, come quella di una sentinella che veglia.
Tutto il resto intorno a lui scomparve; rimasero solo le fiamme, più alte di lui, che ardevano senza bruciare.
Friedrich gettò la torcia nel rogo, che si gonfiò ruggendo mentre le note della marcia funebre s’innalzavano fino al parossismo. Sprezzante, si strappò la croce di ferro di seconda classe dal petto, scagliò anch’essa nel fuoco, poi estrasse dalla fondina la pistola affidatagli da Hans. Con un gesto solenne, risoluto, se la puntò alla tempia.
“Bleib’ du im ew’gen Leben, mein guter Kamerad.” 3
Premette il grilletto senza esitazione, facendo riecheggiare un unico sparo, e ricadde in avanti. Le fiamme lo avvolsero nel loro abbraccio rovente e lo inghiottirono con un ruggito.

Si risvegliò di soprassalto, boccheggiando, le guance ancora umide di lacrime. Memore di quegli ultimi istanti, il cuore gli martellava furioso contro le costole.
Annaspando tra i fumi del torpore, cercò di recuperare il contatto con la realtà: aveva ancora la vecchia Luger stretta al petto; dal piano di sotto provenivano voci e passi. Come stordito, si tirò a sedere, mise a fuoco la sagoma del tavolino che riaffiorava dal buio, colse il sibilo delle braci morenti che sfrigolavano nel camino.
Vi gettò un ciocco con noncuranza, poi indossò di nuovo la giubba, si armò e si precipitò al piano di sotto, interrompendo prima del tempo il turno di guardia di Reinhardt e Konrad.


  1. Avevo un camerata, / Non ne puoi trovare uno migliore. / I tamburi incitavano alla battaglia, / lui stava saldo al mio fianco / allo stesso passo di marcia.↩︎

  2. Giunse fischiando una pallottola, / è per me oppure per te? / L’ha strappato alla vita, / egli giace ai miei piedi / come se fosse parte di me.↩︎

  3. Riposa nella vita eterna, mio buon camerata.↩︎

  
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