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Autore: Duncneyforever    17/07/2020    0 recensioni
{Seguito di " Canone inverso - Behind enemy lines "}
Tratto dal testo:
Lui si china verso di me, dolce, fragile quasi, lasciandomi un candido bacio sulla fronte. " Se ti avessi persa, non sarebbero bastate le urla di mia madre, il dolore di mio fratello o il richiamo della patria a dissuadermi dal raggiungerti... "
~
" Questo non devi dirlo mai. " Dopo aver rizzato la schiena, lo rimiro con gli stessi suoi occhi tersi, scossa dal magone. " Perché morirei due volte se scoprissi di aver ucciso te. "
Genere: Drammatico, Guerra, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta, Tematiche delicate | Contesto: Guerre mondiali, Novecento/Dittature
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Achtung!: il capitolo in questione contiene tematiche delicate, violenza (presente ma, di fatto, accennata), linguaggio scurrile per un preciso motivo. Se ve la sentite comunque di leggere, fatevi avanti, coraggiosi e coraggiose! 

 

 

 

 

- Torni sempre da lui. - 

Mi muove un'accusa pesante, senza neppure saperlo. Che cosa sta insinuando, di preciso? Che gli copra le spalle, che nutra per Rüdiger una sorta di affettuosa comprensione che mi induce a perdonargli tutto? 

Non si tratta di questo. Schneider sarà anche un mostro, ma condividiamo lo stesso brutto carattere. Saprei come prenderlo, se solo lui me ne concedesse la possibilità; potrei impedirgli di sfogare la tensione su Ariel o su chiunque altro. 

Siamo due metà della stessa medaglia; devo solamente impedirgli di distruggere me, l'unica debolezza, un male che ritiene estirpabile. 

Come un'erbaccia, come un'edera velenosa, che ha preso possesso dell'unico anfratto rimasto incontaminato. 

- Smettila di fare la buona samaritana. Non ti voglio sapere nel suo letto... qualunque uomo non lo tollererebbe. -

- Io non sono debole. Non ho bisogno di te per sopravvivere. - Ed è vero; ne ho passate di tutti i colori da quando sono qui ed ero sempre riuscita a cavarmela, fin quando Erika, quel giorno, non mi ha posto un limite invalicabile, che ha richiesto per forza l'intervento di qualcun altro, di più forte, di più potente. E da quel momento la mia vita è dipesa da quella di un uomo. Mi ero dimenticata di quanto fossi stata coraggiosa; incosciente il più delle volte, ma anche libera e indipendente. 

Forse è questa sensazione di languore e debolezza, frutto dell'amore o della passione, che il rosso ripudia fermamente. È la sua impostazione sentimentale, le sue conseguenze che violano i confini di qualunque credenza implichi la violenza e la brutalità, che glielo rendono odioso. 

- Non l'ho mai pensato, questo. - Il viale attende il mio passo leggero; è a un metro da me, eppure non riesco ad aprire la portiera. La sua mano, stretta attorno alla maniglia, prolunga la mia pena e la mia angoscia. 

- Ma che cosa vuoi? Eh? Mi intralci soltanto. - Lo guardo dritto in quegli occhi infuocati, facendo pressione sul suo braccio, affinché mi lasci uscire. 

- Che cosa intralcio? La tua giustizia? La violenza che subirai da parte di Schneider? - È la sua risposta, caustica, che corrode ben più che la mia pelle; mi perfora i polmoni, il cuore, raggiungendo quell'entità misteriosa e spirituale che in esso risiede. 

Non posso, mi suggeriscono quegli stessi occhi, macchie di colore su carta bianca. Non c'è solo azzurro; c'è anche dell'ambra che s'incorpora nella tavolozza variopinta della luce, che a specchio riflette nell'uno i colori dell'altra. E sono occhi di nuovo lucidi, dita che si sfiorano, labbra che si cercano, nell'oscurità turpe del nostro peccato. 

Un errore esecrabile quanto irresistibile, che cancella ogni razionalità. Agguanto la sua mandibola, ridisegnando il contorno della sua bocca con pennellate intense d'un amore corrotto. 

La dannazione incombe su di me; non la parola di Dio, ma il ricordo della schiena bianca di Isaac rovinata dalle cicatrici e della polvere di stelle; uno strato lucido come la luce del giorno, immerso nella notte più nera delle sue iridi, così belle, così addolorate. 

Mi sgancio da lui di colpo, come se mi avessero dato una schioppettata sulle natiche e colgo l'occasione per correre fuori. Sfreccio lungo il viale alzando nuvolette di polvere e mi getto sulla porta, intrufolandomi all'interno prima che possa raggiungermi. 

- Sbarrala! - Grido, armeggiando con la serratura in gran fretta. Ariel, dalla cucina, viene a vedere cos'abbia tanto da urlare ma, quando si accorge da chi, in realtà, vorrei che mi proteggesse, non muove un solo passo in mia direzione.  Al che mi volto di nuovo verso la porta, assalita dal panico. Poi, il suo odore mi pervade le narici; lui mi sovrasta, appoggia la mano sulla tavola liscia, annullando quello spiraglio di luce con una spallata decisa. Appoggia la mano fredda alla mia, compiendo per me quei giri di volta che mi mancavano per barricarmi dentro in sicurezza. 

Sicurezza... questo è il posto meno sicuro al mondo, per me. 

- Vattene via! Sparisci! - Ribadisco, poggiando la guancia sull'uscio indolente. - Sparisci - un sussurro così lieve non avrebbe mai potuto bucare il legno, ma raggiunge comunque le orecchie di Rüdiger, che mi è anche troppo vicino. Lo oltrepasso senza guardarlo negli occhi, mangiandomi le scale, schizzando per il corridoio dalle pareti sanguigne. Mi ritrovo in camera sua, piegata sul letto in preghiera, nello stesso punto in cui, inginocchiato, lo avevo scorto con le mani intrecciate e tremanti, il "Miserere" a mezza bocca in un sospiro pesante. 

Amo ancora l'uomo che ha annientato i Lebrac, che ha mandato a morte Yonathan, che ha stuprato e torturato un ragazzino... un ragazzino innamorato di me. 

Mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati; le ciglia abbracciano involontariamente le palpebre, sorelle di cui troppe cose sono state complici; omertose nei confronti dei loro fratelli, si sono rifiutate di donar loro il conforto del buio, dandogli libero accesso per il crimine di cui poi si sono macchiati. Hanno idolatrato un nazista dalle sembianze di un angelo: solidi pilastri, un tempio di marmo il suo corpo, il viso di una tale fotonica bellezza da non lasciarli indifferenti. Era un tempio pagano però, inavvicinabile per tutti, tranne che per loro. Perché peccando ho meritato i tuoi castighi; hanno abusato di quel dono strabiliante, la vista, permettendogli di insinuarsi oltre le retine, nell'oracolo di ogni uman sentimento. Allora mi sono ingrigita, ho scartato quella moralità che avevo tutelato con ogni respiro, perché fuorviata dal movimento sensuale delle sue labbra, dalla solerzia della carne calda e guizzante che mi faceva ansimare. 

Peccato, peccato, peccato. Azzanno la lingua con ferocia, scartavetrandomi le pelle delle gambe, su cui è impresso il suo marchio. 

Tuttavia, non è stata la carne a farmi cedere; lo devo riconoscere. Sono state le note di pianoforte, gli spruzzi di colore sulle sue belle mani dopo che aveva trascorso ore davanti al cavalletto, a dipingermi; è stato il suo sorriso gioviale, la fierezza dei più grandi conquistatori che sprizzava da ogni poro, la decisione che io non avevo mai avuto. 

Liberaci dal male; salto da una preghiera all'altra, mentre la suola crocchiante dei suoi anfibi calpesta il tratto di corridoio percorso dalle mie All-stars taroccate, prive di scritte. 

Si avvicina con una lentezza inesorabile perché, evidentemente, non aveva fretta di inseguirmi. 

Si inginocchia accanto a me e ci ritroviamo spalla contro spalla; lui così ripiegato su se stesso da apparire in uno stato di prostrazione. Coi gomiti appoggiati sul letto, compie l'ennesimo sacrilegio. Con la croce di ferro affissa al collo, si rivolge all'unica croce non uncinata della casa, congiungendo le mani. 

- Hai visto che cosa ti fa, l'amore? - Taccio nella consapevolezza che, in fondo, la vittoria sia sua stavolta. Una vittoria senza gloria. - So di cosa sono infestati i tuoi incubi. - Aggiunge, pilotandomi verso di lui. - Apri gli occhi. - Quasi come se nemmeno loro volessero racchiudere la sua immagine, restano serrati, compressi così tanto da far dolere le palpebre. Poi ancora la sua acqua di colonia, che mi travolge come un onda e un refolo caldo: il suo respiro, a un soffio dal mio. 

La mia manata lo raggiunge, prima che riesca a riaprirli. 

- Non toccarmi - scandisco, al ricordo dei suoi baci velenosi. 

 - Davanti al Signore mi respingi così? - È ironico, perché ha sorriso candidamente, palesemente soddisfatto. - Mi fa piacere che tu abbia riacquistato dignità. - Lo guardo in tralice, irreprensibile al cospetto dell'ennesima offesa. 

- Lasciami in pace. Non vedi che mi stai uccidendo? - Lo rimprovero, mentre lui, voltato e votato alla preghiera, non accenna la benché minima reazione. 

- Te l'ho detto, piccola. Mi dispiace di farti male. - Il materasso sotto di noi si incurva sotto il suo peso; il rosso s'incunea, si distende, infossando il volto tra i palmi rigidi. Era sentito... chissà se era un avvertimento o una scusante. - Sono marcio. - Ruota il collo, tendendolo in modo tale che il mento gli gravi sulla spalla, e sospira.

Ride sbuffando, immensamente triste. È uno squarcio lancinante e lui si ritrova con gli occhi liquidi, rossi, come quelli di Lucifero nel quadro di Cabanel. 

L'angelo caduto, esiliato dal cielo non per la sua malvagità, ma per un atto di superbia nei confronti del suo creatore. 

- Perché preghi? - Lo sguardo che mi rivolge, furente di rabbia e di dolore, le ciocche di capelli di un rosso surreale, morbide, adagiate sulle sopracciglia aggrottate, mi rimandano all'iconografia del diavolo. 

Evito di essere discreta, mostrandogli la mia inquietudine nello stargli accanto. 

- Prego per quello che sto per fare, perché ti farà soffrire. - Con un colpo di reni si rimette in piedi, assistendo al mio sconcerto, al sollevamento del mio lato più combattivo che si premura subito di intralciare. - Ho affidato i due cugini a Peter. Si prenderà cura di loro fin quando non sarà tutto finito. - Mi paralizza alla sua maniera, mentre quella nebbiolina leggera che gli avevo visto di sfuggita nello sguardo, sopraffa anche me. 

"Non toccarla", il pensiero mi corre subito a Naomi, indifesa e inconsapevole, oltre che sola dinanzi alla vita bastarda e a un predatore invitto, che non ha pietà né per la sua verginità, né tantomeno per lei. 

- Non ti azzardare. Prendi ciò che vuoi da me, ma lascia stare lei. - È una preghiera e una minaccia e lui la recepisce, forte e chiara. 

- Tu non hai colpa - tiene a specificare, come se potesse importarmi in un momento simile. - Lo devo fare. L'ho già toccata, che ne sarebbe della mia purezza? - Mi sfiora il labbro tremolante con il pollice, tenendomi inchiodata alla parete. - L'ebrea deve morire. - Mi spinge all'indietro, facendomi ricadere sul tappeto, intontita. Gattono fino alla porta; gli occhi calamitati verso i suoi crateri scuri, incastonati nel pallore lunare, di spettro. - Mi dispiace di farti male. - Pronuncia un'ultima volta, chiudendomi dentro, affinché non presenzi all'esecuzione brutale di quella ragazza che ho conosciuto, che mi ha accolta e benvoluta... che io ho consolato e che ha consolato me. 

Strilli forsennati li levano al cielo, in contingenza con il battito cardiaco incrementato vertiginosamente e il picchiare sordo delle mie nocche, lo scontro delle spalle indolenzite contro l'ostacolo inarrivabile. Un crocchiare sinistro mi induce a smettere di torturarmi inutilmente. Mi graffio la cute nello stringere tra le dita fili sottili e bruni come...  come una forcina! È questo che mi serve! Una forcina! 

Pensa Sara, pensa in fretta. Fai presto. O il lupo banchetterà con l'agnello. 

Erika è stata qui molte volte... si sarà sciolta i capelli; avrà riposto da qualche parte alcune delle forcine che le servono per ottenere una crocchia perfetta. Mi piego per terra, dove i primi rumori, di mobili messi a soqquadro e urla disperate, mi straziano l'anima, sebbene siano tanto ovattate da essere recepite a malapena. Striscio sul pavimento, controllando ovunque. 

Sono braccia, gambe che nuotano in frenesia, alla ricerca di un qualunque tintinnio, di un "sassolino" duro che possa ferirle. 

Il pavimento liscio, pulito e profumato sembra sgombro. 

No no, fermo! Ti prego, non farlo! Le mie mani si immergono nei cassetti, gettano all'aria tutto, in contemporanea col probabile affondo del suo arnese nell'intimità inviolata di una ragazzina, poco più grande di me. Impedisco alle lacrime di privarmi dell'unica risorsa che ho, risucchiandole indietro. 

No no, non è possibile! Non posso consentire che accada. No! 

Picchio forte sui cassetti con i pugni chiusi, spolmonandomi. 

- Erika! - Chiamo colei che avrebbe voluto uccidermi, sperando che la sua gelosia possa salvarla. - Erika, dove sei, maledizione! Fanculo, fanculo, fanculo! - Sempre più intensi sono gli schiamazzi provenienti dal piano di sotto. 

E Reiner? Sarà ancora fuori dalla porta? Riconoscerà che non si tratti della mia voce? 

Ma certo... e perché dovrebbe arrischiarsi ad aiutarla? Gli è sufficiente che il colonnello non faccia del male a me! 

Quanto tempo è passato? Dieci minuti forse? Un quarto d'ora? La camera è inguardabile; ho scandagliato ogni angolo in una furia cieca; sono ricoperta di tagli, di botte che presto diverranno lividi. 

Il finimondo al piano terra. Lei grida, inveisce, piange in un modo convulso e raccapricciante. Finché non la sento: Sara, Sara... quattro misere lettere che mi perseguitano, violentandomi l'udito. 

Trattengo il fiato, rovescio il materasso, fin quando la mia attenzione non viene attirata da una capocchia nera oltre le sbarre. Mi scartavetro il braccio per raggiungere la forcina; non perdo un singolo istante per guardare in che stato sia ridotto. La inserisco nella toppa, armeggiando inesperta. 

Uno sparo, un unico boato della durata di un attimo, fende l'aria, facendomi cadere l'oggettino dalle mani delicate e sanguinanti. Una testata contro la porta, urli di animale imbizzarrito da parte mia e il dolore originato dalle unghie spezzate e dalle sbucciature scompare. 

Il fallimento brucia più della scarne squarciata; il rimorso, fedele compagno di viaggio, si intensifica, raggiungendo livelli che porterebbero un qualunque essere umano al suicidio o alla pazzia. 

Cado sul tappeto o, forse, mi lascio cadere, tra boccette di profumo infrante e cianfrusaglie tirate all'aria, inutili.

Come me. 

Non sono riuscita a salvarla. Di nuovo impotente dinanzi alla tragedia. 

Come farò... con che coraggio mi presenterò al cospetto dei Costa, viva, per comunicargli della morte violenta della figlia, della sorella, della nipote... Dio, pietà! Abbi pietà di me! 

E se non fosse morta? E se fosse sopravvissuta?! Devo sapere! Devo correre, correre, correre! 

Reinfilo la forcina e scendo di sotto a rotta di collo. "Naomi, Naomi!" Schneider esce dalla porta di casa, tranquillo; vedo scomparire la sua schiena, risucchiata in un bagliore di luce. Scansa Reiner, ad un passo dalla soglia, sgusciando fuori senza neppure calcolarlo; senza ombra di rimpianto. 

Reiner aveva una scelta davanti a sé; consumare la sua vendetta o restarmi accanto. Lo ha seguito con lo sguardo, poi lo stivale ha oltrepassato lo zerbino e ho capito che ha scelto me. 

Sembra passata un'eternità, ma è la quiete assordante, il martellare di qualcosa di rotto nel mio petto ad avermi dato l'impressione che quel dolore non finisse più. 

Mi ero detta di correre, eppure resto ferma. 

Perché combattere? È tardi, troppo tardi. Non si sente piangere, né singhiozzare. Non si sentono urla. 

È morta. 

Non voglio vedere il suo corpo senza vita. 

Non voglio... non posso... 

- Reiner - immergo il viso tra le pieghe della sua camicia, singhiozzando disperata. - L'ha ammazzata, quell'animale... ho cercato di evadere dalla stanza, ma non ho fatto in tempo. - Lui mi stringe a sé, in silenzio, massaggiandomi le nocche livide. - La devo vedere in quello stato... - 

- No, è meglio di no. - Consiglia, tamponandomi gli squarci con un fazzoletto. - Hai sofferto già molto per Friederick. Me ne occupo io. - 

- Lei non vorrebbe questo - statuisco, facendomi forza. Non sarà un nazista a portarla via... devo perlomeno assicurarmi che la tratti bene, almeno nella morte. 

La ritroviamo in una pozza di sangue; il vestito strappato in più punti, le gambe  molli, piegate in una posa innaturale. Invece che coprirmi la bocca, mi copro gli occhi; scuoto la testa con vigore, orrore al di là delle dita serrate. Le lacrime defluiscono dal mio viso come sangue, che si propaga sotto un corpo ancora tiepido. Le sfioro un piede, accarezzandone il dorso in un inutile tentativo di riscaldarla. 

Mi avevi accolta, anche quando gli altri non avrebbero voluto. Sei andata contro la tua stessa famiglia per me. 

Un rantolo strano fuoriesce dalla mia gola, mentre le copro il seno nudo con i lunghi capelli neri. Il viso ancora bello, ricaduto di lato, la fa assomigliare a un manichino difettoso dagli occhi di vetro. 

La pelle olivastra si asciuga lentamente; il colorito luminoso e bronzeo lascia spazio a un secco caramello. Una chiazza scura sul fianco vomita un fiotto liquido e vermiglio, sempre più esiguo man mano che metabolizzo l'immagine. 

Il tintinnare di un secchio mi distoglie dal cadavere: è Ariel, che nel vederla in questo stato se lo lascia scivolare a terra. Il secchio pieno d'acqua ricade con un botto cupo. Il sangue, più denso dell'acqua, non viene trascinato via dallo spruzzo stillato da quella caduta. 

Strizza gli occhi anche lui, trafficando con un cencio imbevuto, che non riesce a posare sul pavimento. Pallido, gli viene da rimettere, ma si trattiene, cercando il mio supporto. 

- La voglio lavare. Io non vorrei mai che m trovassero così... - enuncio, togliendogli il panno dalle mani e poggiandolo tra le sue gambe, con delicatezza, dove un rivolo scarlatto discende da una ferita invisibile. - Perdonami. Perdonami. - Strizzo il tessuto rosato ed è una colata di sangue e umori, disgustosa. 

Mi ritraggo affaticata, assegnando il compito ingrato a qualcun altro.

- È troppo... - lamento, immergendo le braccia nel secchiello fino ai gomiti, sciacquandomi ossessivamente le mani. Le sue guance sono già di un pallore mortale, le iridi di un grigio scuro... grigie, quando dovrebbero essere più scure del carbone. - Cosa racconterò a Federico e Samuele? E ai suoi genitori? Io... - 

- Niente. Cercherebbero di uccidere Schneider, una follia che, come minimo, costerà le loro, di vite. Sono giovani, in salute, non permettergli di buttare via un dono come questo. - Afferma il comandante, risoluto, tempestandomi la pelle di brividi. Propone una scappatoia; mi chiede di mentire per una "buona" causa. 

Vuol farmi diventare come lui; una bugiarda. 

- Cosa dici! - Lo rimbecco, sconcertata, abbassando di nuovo lo sguardo verso di lei. 

- È andata, Sara. Se vuoi che la sua dipartita non trascini nel baratro anche la sua famiglia, mi devi necessariamente tenere il gioco. Diremo loro che è stata trasferita a Ravensbrück, nel campo femminile. Non sapranno mai come realmente sono andate le cose. Avanti Ariel, cerca di farla ragionare tu! - Nel sentirsi chiamare per nome, rialza la testa e allontana la mano da quella di Naomi, come scottato. 

- Sì, Standartenführer. Avete ragione, trovo anche io che sarebbe il male minore, far loro credere che non sia... - Deglutisce in impaccio, dopo gli ho menzionato Maxim.

- Bisogna bruciare il corpo. Per cancellare ogni traccia. - Con che coraggio, davanti a me, ad Ariel, a Naomi, osa avanzare una proposta del genere. 

Mai. Mi rifiuto di farla sparire come se non fosse mai esistita; di far finta di niente, addirittura. Mi oppongo, no... non può divenire cenere, lei che è così bella, così pura, così gentile. 

Era bella, pura e gentile. Come Friederick, che almeno ha avuto una degna sepoltura. 

- È l’unico modo, Sara - fa eco, Ariel, tentando di persuadermi. - È meglio per tutti, credimi. Loro non devono sapere. - 

Vogliono la mia autorizzazione, non la mia comprensione. 

Non pretendono neppure che io accetti l’idea, pur richiedendomi implicitamente di prenderne parte. 

"È per il loro bene" mi dicono, con lo sguardo di lei, vacuo, che pare accusarci per il trattamento a dir poco sacrilego che vorrebbero riservare alle sue esequie. 

Non posso permettergli di sacrificarsi inutilmente. Sarebbe un errore. 

Mi rimetto alla mia coscienza per ciò che sto per fare, ma il bene collettivo, da un po’ di tempo a questa parte, è la mia assoluta priorità. 

La scelta è sofferta, perché la vergogna non è prerogativa dei morti, ma di coloro che alla sciagura vi sopravvivono. 

 

 

Angolo autrice: 

Eccomi tornata con questo capitolo cringissimo... ahimè, la guerra è guerra e non bisogna dimenticare il contesto in cui ho deciso di ambientare la storia. Mi rendo conto d’aver utilizzato termini al limite del tollerabile ma, trattandosi di una violenza barbara, ho preferito non risparmiarmi. 

Che ne pensate del comportamento dei vari personaggi? Qualcuno era bianco, qualcuno era nero... adesso sono quasi tutti “grigi”, al di là di Rüdiger che è sempre stato nero. 

 

 

 

  
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