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Autore: Ghostro    21/07/2020    9 recensioni
La storia di un vecchio cavaliere in cerca delle stelle. E del suo fato, che mai ha avuto il coraggio di abbracciare...
Questa storia partecipa al contest “Immergersi nell’immaginazione” indetto da Artnifa sul forum di EFP
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Universo di E’Drha'
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Questa storia partecipa al contest “Immergersi nell’immaginazione” indetto da Artnifa sul forum di EFP
 
 
 
In un passato ormai remoto il continente di E’Drha fu afflitto da guerre e accese rivalità. Le piane erano infestate da feroci clan di orchi, le gelide montagne del Nord da Troll possenti e creature mai sazie di sangue umano. I deserti del pullulavano di bestie feroci, alte quanto la torre più elevata sulla cima di un bastione.
Poi arrivarono gli elfi, i nani, e gli uomini. La diversità andò dissipandosi e le leggende a maturare nell’immaginario, diffondendosi a macchia d’olio in ogni angolo dei regni che andavano costituendosi.
Infine, giunsero i Demoni.
Fecero la loro comparsa dagli sconosciuti continenti oltre il Mare delle nebbia, e la loro ascesa fu inarrestabile. Finché un prescelto proveniente dal regno Alto, il Campione del cielo, si erse a difesa di tutta E’Drha opponendosi a quelle orde senza morale, e ne rapì la principessa. Costui, Tussio, assieme a Fe’Se, la Regina-demone, divenne il primo eroe-imperatore dell’Impero del cielo; in onore della divinità protagonista del credo che dal regno Alto avrebbe preso piede nel continente.
Da quel giorno, ogni coppia reale fu benedetta con una figlia, una sola erede, e per lei il Signore del cielo faceva nascere un prescelto: il prossimo eroe-imperatore. Contadino, nobile, mercante; la divinità non pregiudicava razze o ceto. Quali fossero le loro origini, gli eroi-imperatori sono ricordati per aver portato pace e prosperità, guerra e sangue. Taluni annessero in tempi diversi tutti i reami del continente all’Impero.
Daryus, dei Riti, il terzo imperatore, conquistò con l’aiuto della sua strega-sorella il regno elfico del Bosco dorato, nell’Ovest. Mullenonne, il sedicesimo, combatté ed perì nella Seconda grande guerra contro i Demoni, dopo averne uccisi centinaia di sua mano nella battaglia del crocevia Neve nera.
A fianco di questi, la tradizione accompagna i Divini: i migliori guerrieri di ogni generazione, provenienti ciascuno da un regno per rappresentarne la sudditanza all’Impero. Uomini e donne eccezionali, eroi, guerrieri, custodi dei sovrani, martiri.
Come non menzionare Bathyllas, l’Eroina. Servì per generazioni, da che il suo reame elfico fu annesso all’Impero e salvò l’odierna imperatrice Valessa quand’era ancora in fasce, mentre i Divini e l’imperatore perivano durante l’assalto alla Capitale operato dal Re-demone Shu-Zaz. Riuscì a ucciderlo, addirittura, per poi accudire la neonata in attesa dei soccorsi.
Kavess, la strega-sorella di Daryus. Aveva opposto ai malefici della Regina d’oro le sue stregonerie, garantendo al fratello la vittoria.
Juno, Campione di Bastia e della Grande arena. Luthor il Monaco pazzo, e tanti e tanti eroi che diedero lustro in ogni tempo alla confraternita. Facendo sognare le folle e i piccini.
Generazione dopo generazione, nuovi e più numerosi guerrieri bramavano di mettersi in mostra per emulare le loro gesta. Incidere il proprio nome negli annali della storia divenne, nel continente di E’Drha, la maggiore aspirazione concepibile.
 
Germhan crebbe ascoltando queste storie da sua madre. Un donna gentile; in gioventù una forte guerriera, in vecchiaia una madre e una moglie amorevole. Era il settimo figlio di Jolel e Harexa, nato a pochi chilometri dalla Capitale, in una notte d’inverno.
«È un segno» aveva proferito Harexa, nello stringerlo a sé.
Proveniva dal Nord. Aveva conosciuto Jolel mentre scortava alla capitale Ruggo, il prossimo Divino del Nord. Il sangue del troll scorreva nelle sue vene come in ogni abitante di quel lontano regno, le conferiva vigore inesauribile e una prolungata giovinezza. Qualità che le avevano permesso di sopravvivere al parto difficile, tuttavia Jolel non l’avrebbe mai perdonato all’ultimo figlio, pur consapevole che non avesse colpe.
Secondo le leggende del Nord, nascere nella notte più gelida dell’anno era segno di fortuna. «È nato un piccolo, grande guerriero» aveva sussurrato Harexa, dal primo momento in cui i loro occhi di ghiaccio si erano incontrati.
Quell’inverno pieno di speranze, per Germhan, non sarebbe mai mutato in estate.
Figlio di contadini, di un padre che lo respingeva, in molte occasioni la vita gli aveva offerto l’opportunità di splendere, ma lui non l’aveva mai colta. Era l’ultimo figlio, non gli spettavano le terre dei genitori, destinate a Kael, né possedeva l’avvenenza di Kala, o la forza erculea di Froze e Gerdul; suo padre non mancava mai di rammentarglielo, di ricordargli che la sua vita si limitava alle sue braccia, donate per zappare la terra e abbeverare i cavalli.
«Non è mestiere per te, Germhan.» Gli ripeteva da quando era piccino.
Quando pronunciava quelle parole, una parte di Germhan si spezzava e quel posto lasciato vacante nel suo cuore per amare si riempiva soltanto di una perpetua tristezza.
Amava suo padre. Un uomo austero, brusco nei modi, ma sapeva anche sorridere. Per Harexa: persino dopo il litigio più violento, i due riuscivano a riappacificarsi. A Germh piaceva vedere il sorriso della madre, era l’unica cosa che lo riempisse di gioia e speranza; l’uomo che sapeva farle brillare gli occhi non poteva odiarlo, non ci sarebbe riuscito. C’erano dei momenti, inoltre, in cui Jolel si dimenticava del suo odio e si comportava come un padre. Momenti nei quali Germhan avvertiva un legame, pur seppellito dalla distanza e dall’immotivato disprezzo dovuto alla paura di perdere Harexa. Momenti in cui il bimbo si era sentito… felice.
«Non è mestiere per te, Germhan.»
La tempesta era sempre dietro l’angolo. Più l’idillio si prolungava, più gelida sarebbe stata la lama della realtà che lacerava il sogno, e freddo il pungere dell’umore paterno, che mutava dalla calma alla furia come il vento. Faceva male.
Forse era davvero lui, il problema, aveva cominciato a pensare, dopo una notte trascorsa a piangere in solitudine. Sua sorella Lorra l’aveva definito un buono a nulla; parole che l’avevano ferito nel profondo, perché l’aveva sempre pensato. Sua madre rischiava le ire di Jolel ogni giorno pur d’insegnargli a tirar di spada, a cavalcare, ma alla sua ostinazione non trovava e, ahimè, mai avrebbe trovato appagamento. Una colpa sotto il peso della quale Germhan sentiva di sprofondare giorno dopo giorno.
«Non è mestiere per te, Germhan.»
Quelle parole stringevano un cappio attorno al collo della sua determinazione. Erano un appuntamento immancabile, soprattutto la notte; teatro dei ricordi più tristi e delle sue vergogne. Presto aveva cominciato a pronunciarle alle prime difficoltà: una slogatura, una giornata particolarmente faticosa, un litigio con i suoi fratelli più grandi; e che fosse per loro merito o del meschino intervento di Jolel, Germhan infine chinava la testa, dopo essere stato vessato nel corpo e soprattutto nello spirito. A poco a poco quel fuoco che apparteneva al sangue del troll, ammesso che in lui fosse mai esistito, si spense diventando ghiaccio. Diventando indolenza, paura.
Vergogna. Sì, anche quella.
Lo teneva sempre a mente, quel giorno. L’imperatore Ascarlot, dal regno del Tuono, il nonno di Valessa, aveva indetto il Torneo Celeste per festeggiare la nascita della figlia.
Un evento sfarzoso e sacrale che si ripeteva ad ogni generazione. Aveva preso piede dalla nascita della seconda imperatrice, il giorno in cui gli astri che circondavano il cielo notturno si erano legati in una brillante costellazione e i Sacerdoti del Cielo, e gli Indovini dei Riti, tra loro sempre in disaccordo, per la prima e unica volta avevano parimenti riconosciuto il segno della divinità.
Centinaia di guerrieri si radunavano per dimostrare il proprio valore e ambire al Desiderio: il Campione del torneo l’avrebbe espresso prima di ricevere gli onori del vincitore. Era un momento molto importante. Non solo segnava la fine di un’epoca e l’inizio della nuova, ma si era diffusa la credenza che l’animo del vincitore, tramite il Desiderio, influenzasse il carattere del prossimo imperatore.
Nel secondo torneo, il Campione sconosciuto aveva chiesto guerra, e guerra aveva ottenuto, contro il popolo elfico di Bosco Dorato.
Carestia, giustizia, ricchezza e saggezza. Vita, morte. Il destino del continente era appeso a un sussurro e la folla aveva imparato a trattenere il fiato.
Ovviamente furono promossi tentativi, da parte di vari imperatori, per pilotare quel momento topico, ma il destino sapeva come illudere i piani degli uomini: tradimento, orgoglio, lussuria, vanità. Abilità, tolleranza, errore; nonché la tradizione che impediva ai Divini di partecipare. Certo, alcuni imperatori riuscirono nell’impresa di influenzare il Desiderio, se ne compiacquero; inconsapevoli che il disegno del fato si era appena compiuto.
Quel torneo, per Germhan, per l’Impero, avrebbe segnato l’inizio di un lungo tormento.
Hugor Teragross. Era questo il nome dell’incubo che avrebbe disturbato le sue notti negli anni a venire. Un nobile minore dal viso crudele, massiccio, privo d’onore. Circolavano voci su di lui. Parlavano di torture e malefatte, di ambizione. La famiglia Teragross era riuscita ad ottenere la nobiltà dopo generazioni di brigantaggio e corruzione. Essendo casato di “mercati minori”, come disposto da Commudus, l’imperatore che li aveva elevati al rango nobiliare, non possedevano di sufficienti ricchezze per potersi garantire terre o castelli. Hugor aveva intenzione di cambiare le cose.
Ad opporsi, cavalieri e dame di ogni ceto, sui quali Harexa non mancava di pronunciarsi. Germhan li aveva osservati con gli occhi che brillavano. Le storie di sua madre prendevano vita, lo sfarzo, la bellezza della virtù splendeva nelle loro armature e nei sorrisi: sembravano stelle del cielo notturno discese fra i mortali per farsi ammirare.
Uno in particolare aveva attirato la sua attenzione. Un uomo sulla cinquantina, dalla fluente chioma dorata che scendeva sino alla vita. Un viso lungo, vissuto, gentile. Aveva penetranti occhi indaco e indossava una pesante armatura splendente come il sole, con un cielo stellato tinto sul pettorale destro e sullo scudo a goccia assicurato alla sella. Dehel Stella accecante, lo chiamavano. Harexa sosteneva che nessuno l’avesse mai sconfitto nella giostra. Troppo veloce, troppo abile: l’ombra della sua lancia era tutto ciò che l’avversario poteva scorgere prima della fine; l’oro della sua armatura era stato ricavato dalle vincite che l’avevano visto protagonista.
Dehel gli aveva sorriso. Per Germhan era stato il momento più felice della sua fanciullezza: quell’uomo era la realizzazione delle promesse della madre, in quel sorriso c’era una luce che aveva spazzato via le tenebre. Aveva scosso qualcosa, in lui. Forse un fuoco, la voglia di osare, per la prima volta sognare: qualcosa che aveva sempre ritenuto sacrilego. Dehel era la dimostrazione che le storie d’onore e giustizia erano reali.
Germhan si era sentito così… vivo da promettere a sé stesso di non cedere, mai più. Voleva diventare come lui. Vederlo cantare, giostrare, tendere la mano all’avversario sconfitto, l’aveva fatto piangere; e poco importava che Lorra l’avesse schernito, o suo padre avesse brontolato di ricomporsi per non arrecargli vergogna. Germhan aveva deciso: voleva diventare cavaliere.
Quel giorno, la Stella accecante sarebbe diventata la Stella cadente.
Dopo essersi distinto nella giostra, conquistando il favore della folla e l’onore di favorito, Dehel era caduto a un passo dalla grandezza. Per colpa dell’ingiustizia, della cupidigia, del disonore di Hugor. I presenti avevano osservato sconvolti il frammento di lancia che gli dilaniava la gola. Dehel sarebbe morto strozzato nel suo stesso sangue, l’armatura d’oro insudiciata di scarlatto, circondato da un coro di strepiti e grida agghiacciate.
Ghiaccio. Quello che si era sedimentato nelle vene di Germhan rendendolo l’esangue parodia di fanciullo. Il vergine velo dell’infanzia era stato squarciato, favorendo l’avanzare della vita adulta, fatta di tenebra e menzogna; se le sue dita erano riuscite ad aggrapparsi sul bordo del pozzo con la forza della speranza… la presa era scivolata sotto una colata di rancido disonore e si era trovato a scivolare nell’abisso, trascinato dalla mano della morte; la stessa che si era aggrappata a Dehel, smorzandone la forza vitale.
Harexa aveva cercato di fargli distogliere lo sguardo, ma Germhan era morto. Dentro, assieme all’ultimo barlume di speranza. Nessun pianto di gioia o disperazione. La virtù, avrebbe appreso molto presto, e con fragore, non valeva più della lancia di Hugor: uno strumento reso molliccio da sterco e ambizione, irto di mortali spuntoni che laceravano carne e anima.
«Terra.» Il desiderio di Hugor. Guadagnata con disonore e sangue, maledetta.
Il Desiderio fu esaudito.
Germhan non poteva saperlo allora, ma Jolel e Harexa avevano compreso la fine. I Teragross avevano posato lo sguardo sui ricchi appezzamenti che circondavano la Capitale. Tra di essi, c’era la fattoria di Jolel. I suoi profitti, chi la lavorava. Quando Hugor sarebbe stato elevato Lord, avrebbero smesso di essere liberi.
Ripercorrere a ritroso le vie della città, per Germhan, sarebbe stato il momento più difficile della sua vita. Si era sentito abbandonato; persino la presa della madre, un tempo rassicurante, era diventata cenere fastidiosa che graffiava la pelle. Aveva perso la speranza, la luce di Dehel si era spenta.
Grigio e nebbia era diventato il suo umore, come la mattina in cui Teragross sarebbe giunto insieme a un manipolo di soldati al seguito: nere locuste pronte a divorare vita.
Notte e giorno Jolel e Harexa avevano atteso che la disgrazia incombesse su di loro. La legge imperiale ordinava loro di rispondere al nuovo signore, e avevano chinato il capo. Ma Hugor, concentrato di infamia e malvagità, aveva altri piani. Decine di criminali aveva radunato sotto la sua ala. Famiglie che suo padre, e suo nonno, avevano riempito di promesse in cambio di favori nell’ascesa alla nobiltà.
Dovevano essere mantenute.
Uno schiocco di dita: tanto bastava a un lord per reclamare la vita di un uomo onesto.
Germhan era caduto in ginocchio alla vista di Jolel e Harexa esalanti l’ultimo respiro.
Un’esecuzione sommaria. I suoi fratelli avevano cercato vendetta, creando il pretesto che Hugor non aveva esitato a raccogliere. Era accaduto in fretta, i ricordi erano come grigie ombre scolpite nella memoria, i loro visi una polverosa concentrazione di colori. Germhan si era ritrovato a terra. I suoi fratelli giacevano inerti, la vita li aveva abbandonati. Gli uomini di Teragross lo colpivano con calci e pietre.
L’oblio aveva catturato la sua anima. Sarebbe stata questa la sua fortuna, lo scherzo crudele del fato che gli aveva consentito di sopravvivere. Ritenuto morto, era stato ammassato accanto ai fratelli caduti. Le ombre di Kala, di Gedda e Lorra, le sue sorelle, sarebbero state l’ultima cosa che aveva visto prima di chiudere gli occhi.
Non avrebbe mai conosciuto il loro destino. A chiunque avesse chiesto, gli sarebbe stato riferito che erano morte. Un bene, poiché la crudeltà dei Teragross non aveva confine.
Gedda avrebbe conosciuto solo dolore e vuotezza. Lorra aveva nove anni. Friss, un giovane servitore di Hugor, l’avrebbe maritata poco più tardi. Di carattere irrequieto, Lorra. Quel matrimonio non sarebbe stato felice e si sarebbe consumato nel sangue.
Aveva un carattere solare, Kala. Sottomettendosi alle crudeltà del futuro marito, Hugor Teragross, giorno dopo giorno si sarebbe consumata. Avrebbe trovato pace solo durante la vecchiaia, a un passo dalla morte, quando la nuova imperatrice, Valessa, la scelse come dama di compagnia; un atto di misera consolazione confronto alle turpitudini che aveva vissuto, ma per Kala rappresentò il primo, vero gesto d’amore dopo tanti anni di agonia e lutto.
Quanto a Germhan, al risveglio l’avevano atteso soltanto freddo e desolazione. E una pioggia scrosciante, che l’aveva impiastrato di fango dalla testa ai piedi.
Aveva seppellito i suoi fratelli scavando nella terra umida a mani nude, sporcando le dita di sangue. Aveva sotterrato suo padre, austero anche nella morte. E sua madre. I singhiozzi l’avevano scosso, le lacrime si erano fuse al gelido abbraccio della pioggia.
Aveva dovuto seppellirla in un mondo senza onore, fatto non di eroi ma assassini. Gli era mancato il coraggio. Sua madre credeva nell’onore, ci aveva creduto davvero. Sua madre così gentile, pronta a sfidare chiunque pur di difendere il figlio che continuava a deluderla.
Aveva carezzato quel viso per ore.
Mai avrebbe trovato il coraggio, se a poco a poco la rabbia non avesse preso il sopravvento sulla ragione. Si era sentito tradito, sporcato dalla verità. I visi di Dehel e Harexa era stati obliterati dal sangue nelle sue memorie: l’ultima goccia. Aveva seppellito quel corpo senza vita come se una divinità crudele l’avesse riempito di rancore e follia.
Tuoni e lampi avevano scosso il cielo, nel momento in cui ad esso aveva rivolto il viso e le braccia. «Madre, mi hai mentito!» Il grido disperato era stato coperto dalla furia della tempesta.
 
Quel momento disperato l’avrebbe perseguitato negli anni a venire, assieme al senso di colpa e alla malinconia: uniche compagne di viaggio nella lunga marcia verso l’ignoto, in una landa piena di colori che ai suoi occhi appariva grigia, maledetta, come l’anima dell’Impero da che il Desiderio era stato espresso.
Quante volte aveva ceduto ai sussurri che gli suggerivano di accasciarsi a terra e arrendersi? Eppure, qualcosa lo spingeva sempre a rialzarsi. Un sentimento codardo che non lo lasciava libero. Continuava a riempire il suo cuore di tristezza: qualcosa di vivo si opponeva con forza al vuoto lasciato dalla verità. Quando dormiva, una mano dorata scivolava nei suoi sogni e cercava la propria. Germhan sognava di stringerla e subito una forza lo spronava a rialzarsi; e si svegliava, ansante, nel suo sporco giaciglio di fortuna.
Aveva dovuto imparare a rubare, a sopportare gli insulti, e se la giornata gli era favorevole solo quelli. Non aveva mai provato il sapore delle labbra di una donna, né la felicità. Persino le stelle un tempo amate, dolce compagnia nelle notti infestate di ansie e paure, erano state velate dall’oscura cortina di malvagità che avvolgeva il mondo. Le lacrime non avevano allietato la sua pena, perché di lacrime e veleno Germhan era privo.
Solo le ferite donavano vita, non dolore. Se aveva cominciato a combattere, fu per la speranza che il sale delle ferite lo risparmiasse dalle cocenti agonie che laceravano lo spirito. Ma non avrebbe mai ucciso, mai. Sua madre l’aveva deluso raccontandogli falsità. Nei giorni più bui, aveva osato addirittura schiacciarne il ricordo sotto le parole crudeli di Jolel; perlomeno, lui non gli aveva riempito la testa d’inganni.
Eppure, più forte e caparbio si rivelava sempre il timore di deluderla, anche nella morte.
La verità era ben altra: se avesse tolto una vita, il ricordo del sorriso di Harexa, tenue brace, si sarebbe spenta per sempre, disperdendo nel nulla ogni traccia di lei. Quel sentimento lo rendeva più debole, vulnerabile ai soprusi della vita, ma Germhan non voleva perderne il ricordo. Il suo cuore glielo impediva.
Esisteva ancora un frammento di purezza, in lui.
Quella piccola scheggia lucente, per cui sua madre aveva lottato ed era morta, avrebbe cambiato il suo destino; e quello dell’Impero.
 
Elgon, un mercante di vini pregiati.
Germhan l’aveva assalito assieme a un manipolo di compagni per rubare i suoi averi. Lasciato indietro per finire il lavoro, non aveva potuto ucciderlo. Quella mano dorata che gli faceva visita ogni notte si era tramutata in una forza inesorabile e l’aveva costretto a risparmiarlo, preservando l’onore che in lui ancora viveva.
Come ringraziamento, il mercante l’aveva assunto come guardia personale. Un uomo istruito, onesto, uno dei pochi. Elgon l’aveva accolto nella sua casa, gli aveva offerto desco e gentilezza. Gesti dei quali Germhan, affine al lato ambiguo del mondo, si era chiesto la ragione.
«La gratitudine è una virtù potente, amico mio.»
Viveva in una modesta villa nel regno Alto. Aveva seppellito la sposa in tenera età, ma al contrario di Germhan non aveva mai perso la fede. Viveva assieme alla figlia, Ilsa. Una giovane donna pia e timida, dai grandi occhi castani speziati di venature al miele e folti capelli bruni raccolti sulla nuca. Un cuore puro, un angelo dal largo sorriso splendente. Per Germhan non sarebbe mai esistita donna più bella; il suo cuore, così pieno di malinconia e amarezza, aveva perso un battito.
«Non è mestiere per te, Germhan.»
E la paura era tornata dopo un lungo letargo.
Ilsa era una donna dolce e matura. La perdita della madre l’aveva costretta a crescere in fretta, ma non aveva perso la speranza, o la voglia d’immergersi nella bellezza del mondo. Amava le arti e la musica, aveva la voce di un usignolo. Si dedicava a scacciare la sofferenza dall’animo degli smarriti. Quando aveva incontrato Germhan, però, non era stata la gentilezza ad attrarla. I suoi occhi di ghiaccio erano magneti e non riusciva a scostarsene. Non era un uomo particolarmente possente, ma asciutto, agile, alto. Un viso segnato dalla sofferenza e dalla dolcezza dei lineamenti. Soffriva, soffriva enormemente.
Aveva cercato di lenire i suoi mali con la speranza, di nutrire la sua mente con la saggezza dei libri, l’aveva spinto a prendere in mano calce e penna d’oca, affinché sfogasse su carta il dolore che lo lacerava.
Gli anni trascorsi insieme ad Ilsa ed Elgon era stati un idillio, e un tormento. Le parole di Jolel erano tornate a infestare il verbo e le notti di Germhan, gli toglievano il respiro. Un muro fatto di vergogna gli impediva di allungare la mano e afferrare Ilsa; un altro, alle spalle, composto di dolorosi ricordi, premeva per schiacciarlo.
La giovane era paziente, Germh distante. Si ripeteva la stessa situazione che aveva visto protagonisti lui e Harexa: la paura e Jolel, a distanza di anni, gli impedivano di accettare il suo destino.
E quell’infausto giorno, dopo che Ilsa era uscita dalle Acque dei miracoli, trasformata dal volere della divinità in un angelo splendente dal sorriso più abbagliante che avesse mai visto, Germhan si era frenato. I loro occhi si erano incontrati e mai lasciati. Mentre Ilsa acquisiva sicurezza ad ogni passo, Germhan appassiva e la voce di suo padre tuonava feroce, come le paure e i ricordi.
Cosa poteva offrirle, uno come lui? Aveva ragionato, con le sue labbra morbide a un passo. Avrebbe voluto baciarla, ma non era degno: lui non credeva nell’onore. La mano dorata lo spingeva, le gambe restavano salde come lastre di pietra.
Attendeva solo di essere baciata. Germhan non c’era riuscito.
Se ne sarebbe andato il giorno stesso, senza preparativi, senza lasciare messaggi, gettandosi alle spalle due cuori spezzati: il proprio e quello della giovane.
Il destino doveva trovare divertente la sua codardia, poiché negli anni a seguire, solo e pieno di vergogna, aveva cominciato davvero a scrivere; merito di un’insegnate che, senza colpa, non avrebbe mai ammirato i suoi progressi.
Come già accadde con Harexa, Germhan maturò le sue capacità per lenire il dolore. Gli insegnamenti della madre l’avevano reso un discreto combattente, alla fine, ma per Ilsa le ferite della carne non bastavano a saziarne la mancanza. Il bisogno di scrivere era diventato così impellente da far tacere la voce di Jolel e lasciarsi guidare dalla mano dorata; la quale, erroneamente, riteneva ancora essere l’ultimo scampolo della luce di Dehel.
“Dove siete, oh stelle?” scriveva. “Non vedo né odo, la corte dei cieli è grigia e i miei occhi stanchi. Vedo le mie angosce ma mai oltre, il mio sogno di libertà s’è infranto in polvere e lacrime. Mai luce sarà più splendente dell’oro, in questo mondo. Non c’è virtù, non c’è onore. La vita è scossa da un tintinnio infernale.”
“Dove siete, oh stelle? Dove, eroi di tempi che furono? Spettri o uomini fu la vostra natura? Ha mai ghermito, la paura, le vostre splendenti armature fatte di coraggio e gloria? Dov’è l’amore, se il profitto e la sopravvivenza sono gli unici sentieri che imparai a conoscere? Dove sono il cavaliere e il suo sorriso? L’avete forse chiamato a voi affinché splendesse lontano da queste terre maledette?”
“Sangue e ombra, il mio destino. Ilsa, amore mio, non perdonare quest’uomo codardo. Trova nel tuo cuore giusto la forza di allontanarmi. Te ne prego, angelo lucente. Due stelle ho perduto e da quegli infausti giorni la loro bellezza per me è veleno. La tua luce li avrebbe scalzati. Nel freddo e nella miseria sono nato. Dolore e colpa mi hanno svezzato, quando smisi di nutrimi al seno della giustizia.”
“Ricordo le tue labbra, il mio desiderio di avvicinarle. Ma l’amore, in queste lande, non si concede: si compra. Tu mi offrivi felicità e focolare, io nulla. Un fallito non merita di amare, ed io ho fallito come figlio e ho tradito la mia causa. Vile e codardo, questo io sono. Questo sarò. Prego la morte, ma non ho forza di abbracciarla.”
Gli anni passavano.
“Aspetto. Vivo in un limbo. Dove siete, oh stelle?”
Un nuovo torneo era stato indetto per la nascita di Valessa. La brama della famiglia Teragross non era sazia. «Un esercito per scacciare i nostri nemici dai confini dell’Impero.»
Un esercito Sotho Teragross aveva ottenuto. Lasciando i regni vulnerabili al disastro che si sarebbe compiuto: una nuova Grande guerra. I Demoni erano riusciti a superare l’avanguardia Teragross e invadere i confini dell’Impero. Erano stati mesi duri, gli uomini a difendere le città scarseggiavano e ogni regno subiva incursioni sanguinose. Il piano del nuovo re-demone si sarebbe compiuto, se il coraggio della Divina Bathyllas non avesse superato ogni ostacolo, salvando il futuro dell’impero.
Germhan aveva preso parte alla battaglia della Capitale. Era stato il primo a soccorrere una Bathyllas stremata.
«Proteggila. Giuralo. Sul tuo onore» aveva ordinato, prima che le forze mancassero e il suo corpo cedesse alle fatiche.
Nessun uomo avrebbe dovuto toccare un’imperatrice, o la sua erede. Solo il prescelto. Ma in un momento del genere, tra fiamme e urla, e dolore, le regole del mondo e del cielo venivano meno. Valessa aveva aperto i suoi occhietti, destandosi con un vagito. Germhan ne era rimasto folgorato. Le stelle! Nel blu dei suoi occhi erano incastonate! In esse era risuonato il canto di gloria che aveva strappato le sue spalle dall’indolenza col silente fragore di un fremito. Germhan ne era rimasto folgorato. In quella neonata c’era un potere che non poteva essere spiegato a parole. Non era luce, non era tenebra: era il filo del destino che si districava.
“Onore, disse. Io non possiedo onore, non credo nelle favole. Sto invecchiando. Le mie ossa scricchiolano, il tempo della mia vita si accorcia.”
Il coraggio di Bathyllas, quella lucente figura che proteggeva senza retrocedere, per un momento gli aveva ricordato Dehel. Quel giorno, l’elfa era diventata non solo l’Eroina di un Impero che aveva messo a ferro e fuoco la sua terra natia, ma un cavaliere. Come lui, e tutti i sopravvissuti alla battaglia della Capitale.
“Ser Germhan, mi chiamano. Mio padre si vergognerebbe anche di questo? Io mi vergogno. Bathyllas, eroe passato e presente. Tu hai combattuto nelle tenebre più fitte. Hai protetto la tua stella, la nostra, la più luminosa. Quale forza ti ha permesso di avversare paura e inganno? Qual è il destino di un cavaliere? No, non dirmene. Sono troppo vecchio. Non è mestiere per quest’uomo, l’onore. Non tentarmi di sogni e speranze.”
 
«Allora, Syfer? Se vincessi, saresti il terzo Teragross a esprimere il Desiderio. Hai pensato cosa chiedere?»
Syfer Teragross si era passato la mano sulla chioma bruna con fare vanitoso. «Oserò ciò che mio nonno e mio padre avrebbero solo sognato: chiederò che l’imperatrice mi scaldi letto per una notte.»
 
Il cavallo partì al galoppo. I due cavalieri si scontrarono e Germhan fu quasi disarcionato. Mentre cercava l’equilibrio, si chiese ancora una volta cosa stesse facendo. Vecchio, munito di una pesante armatura piena di ruggine e sangue raffermo che gli avevano prestato dall’armeria. Non era mestiere per lui, il cavaliere, non lo era mai stato.
Eppure perseverò.
Guardò verso gli spalti. Valessa sedeva al posto d’onore, su un grande palco fatto di veli d’avorio e zaffiro. Giovane, bellissima, capelli bianco luminoso e occhi di stelle. Gli stessi di quel giorno lontano. Germhan aveva deciso di rimanere nella capitale, da allora. Non per amore o desiderio, sarebbe stato sacrilego. Era caduto di nuovo nella trappola del fato, aveva ritrovato una luce e adesso un nuovo Teragross voleva spegnerla.
Soltanto uno scherzo del fato…
Germhan aveva deciso di estraniarsi da un mondo che non aveva mai accettato, eppure era bastato un momento di debolezza, un riflesso del sole contro le inferiate. Quando aveva cercato di chiuderle, aveva udito le chiacchiere di Syfer e ne era rimasto allarmato.
Riuscì a rimettersi in posizione. Partì alla carica. Subì un nuovo colpo che frantumò il suo fragile scudo.
“Cosa sto facendo?” Pensava. Non era il suo mestiere, non era il suo mondo. Lui era un codardo. Quale senile follia aveva pervaso la sua mente per spingerlo a partecipare al torneo, a combattere… Per cosa?
La mano dorata lo rimise in sella, in posizione.
Degello Braxto era un giovane di belle speranze. Il fuoco della gioventù bruciava forte, in lui, ma i sogni di una facile fama gli annebbiavano il senno. Attaccava con ferocia, voleva sconfiggere quel vecchio in fretta. Ogni scambio di colpi lo riempiva di vergogna e ferocia. E più lo scontro perseverava, più potenza il suo braccio scaricava contro l’armatura cigolante del vecchio.
E nuove lesioni accusava Germhan.
C’era abituato. Il dolore era un vecchio amico. La fiacchezza della vecchiaia un’amante già in gioventù. Resisteva, ma la forza del suo allungo non poteva competere.
“Non è mestiere per me. Cosa sto facendo?”
La sua lancia si spezzò. Non ne aveva un’altra, poco importava. Il sollievo che fosse finita irrigidì le sue spalle d’imbarazzo e vergogna. Se i presenti avessero riso di lui, e l’avrebbero fatto, sarebbe stati nel giusto.
Eppure quel sacrilegio, l’arroganza del giovane Teragross… Nelle sue vecchie ossa si faceva strada un sentimento che ruggiva e che non comprendeva. Coraggio, forse la follia di un’anima ormai prossima alla fine.
«Cavaliere.» Germh si voltò verso la figura che lo attendeva al palo: Alexia, la Divina del Nord. Fu un onore trovarsi al cospetto di quella giovane eroina che lasciò Germhan senza parole. «Un dono. Dalla mia signora.» Lanciò una lancia d’argento, leggera e resistente.
Germhan non aveva i riflessi di un tempo, eppure riuscì a raccoglierla. Ringraziò con un cenno del capo, incapace del più innocente sussurro dinanzi a un guerriero così famoso.
Un’occhiata all’imperatrice, che sorrideva incoraggiante. Le ragioni del cuore sovrastarono i timori alla vista di quelle stelle che erano i suoi occhi. Magnifiche.
Si rimise in postazione e partì al galoppo.
Degello, ruggente di vergogna, condusse una carica senza criterio. Gridò, maledì la sua caparbietà. Ogni istante passato a giostrare con quel vecchio era una vergogna per sé e il suo casato. L’avrebbe spezzato.
Germhan aveva perso la prestanza, ma l’esperienza maturata nei combattimenti compensava lo svantaggio, e grazie alla nuova lancia, più precisa e agile, riuscì a colpire il cavaliere e disarcionarlo. Valessa celebrò quell’impresa applaudendolo. Presto, l’intero stadio lo acclamò seguendo l’esempio dell’imperatrice. Il suo nome fu pronunciato da grandi e piccini.
Per un folle momento, Germhan si ritrovò nel passato. C’era Dehel, al suo posto. Quel bambino che lo indicava, lì sugli spalti, un tempo era lui.
“Com’è caduto in basso questo Impero. I vecchi reggono le insegne di antichi sogni infranti, i giovani vivono dimentichi delle stelle.”
Syfer Teragross si aggiudicò con facilità ogni incontro.
Più le sue vincite lo portavano in alto, più le viscere di Germhan si torcevano e alto diventava il prezzo da pagare dopo ogni scontro. Il suo corpo stremato era pieno di lividi, le articolazioni cedevano.
Fu la Divina Alexia ad assisterlo, in attesa della finale.
«Perché aiuti questo vecchio?» le chiese.
Alexia rimase molto in silenzio. Lo zaffiro nei suoi occhi riluceva di concentrazione, l’argento dei suoi capelli splendeva come fiamme pallide e danzava sospinto dalla leggera brezza filtrante dalla tenda. «Il sangue della nostra terra vive in te. Onora il Nord, e onora la tua imperatrice.»
«Io non ho onore. La mia vita è ruggine, come questa armatura.»
La bellissima guerriera prese panno e olio. «L’hai giurato a Bathyllas. Sul tuo onore.» La ruggine attorno al pettorale iniziò a disperdersi, rivelando un segno inequivocabile: un cielo stellato.
Quell’armatura apparteneva a Dehel.
Era rimasta in armeria ad appassire. In attesa, era rimasta, che un giusto erede la raccogliesse. Sotto il tocco esperto di Alexia, l’oro ritrovò tenue vita. «I Teragross sono una piaga per questo Impero. Non lasciare che corrompano Valessa. Trova la forza di proteggerla» stabilì, nell’aiutarlo a indossarla.
«Chi indossava quest’armatura era il mio idolo.»
«Vinci anche per lui, dunque.»
La finale stava per cominciare, i cavalieri si misero in posizione.
Syfer Teragross sorrideva. Un vecchio era tutto ciò che lo separava dalla grandezza, da Valessa. Nel suo ghigno c’era spavalderia ed esaltazione. Ma più di questo: c’era Jolel.
Germhan si era sempre tenuto alla larga da quella maledetta famiglia, ma non di rado quelle canaglie visitavano la Capitale. Il giorno che aveva incontrato il rampollo Teragross, un brivido gli aveva scosso la schiena. Era tale e quale a suo padre, Jolel. Lo stesso viso, la chioma folta, la stessa prestanza. Per nulla simile all’uomo massiccio qual era Hugor.
Quel giorno il cuore di Germhan aveva artigliato la gola al solo scorgerlo da lontano. Ora gli si parava di fronte, ridente, il gelo nei suoi occhi scuri. Suo padre aveva ripreso sembianza. Dalla tomba era tornato per schernire la sua follia.
«Hai osato troppo, vecchio. Non è mestiere per te, quello del cavaliere.» Parole così simili, lo stesso disprezzo. Syfer era lo spettro di suo padre che riprendeva forma.
Lo smarrimento lo colse. La sua cavalcatura parve percepirlo, nitrì e si agitò a disagio. Il braccio malandato divenne pesante, le risa dei seguaci di Syfer erano quelle dei suoi fratelli mentre Jolel lo insultava.
Cos’aveva fatto? Si ripeteva. Lui non doveva trovarsi lì.
Le trombe della carica stavano per suonare. Teragross calò l’elmo.
I due cavalli scattarono al segnale, dirigendosi l’uno contro l’altro, separati solo da uno spesso costone di legno. Germhan cercò di rimettersi in posa, ma tardivamente. Subì il colpo di lancia alla spalla e per poco non fu disarcionato. Al prezzo di un indicibile dolore.
Si riprese, ma vani furono i suoi tentativi di colpirlo. Syfer era un fulmine. Rapido, insolente. L’eco della sua risata era asfissiante e più dolore accumulava, più arduo diventava per Germhan concentrarsi. Di fronte a lui si riscopriva il bambino spaventato a cui Harexa, disperatamente, cercava d’insegnare.
L’armatura si riempiva di ammaccature pesanti, così come la sua volontà. E non era ancora finita. Nel Torneo del cielo, il Campione doveva disarcionare il suo sfidante. Non era ammessa altra vittoria. Syfer avrebbe continuato ad infierire finché non si fosse arreso. E Germhan, di arrendersi, ci stava pensando.
Non era mestiere per lui. Non era un vero cavaliere. Le stelle avevano voltato le spalle a quel mondo corrotto, la loro bellezza era solo un sogno, nulla più. Tutto ciò che aveva vissuto, il suo dolore, avrebbe dovuto prepararlo. Valessa era solo l’ultima delle luci che suo padre, che i Teragross, avrebbero spento. Non sarebbe mai riuscito a sfidare suo padre, non era nella sua natura.
Eppure, quella mano dorata, quel sentimento codardo che l’aveva sempre risollevato, non ne voleva sapere di lasciarlo cadere. Colpo su colpo, lo teneva saldo in sella. Persino dopo l’ultimo assalto di lancia in pieno viso.
Viaggiò, Germhan. Nella confusione, nell’allucinazione, rivide gli spettri del suo passato. Rivide Dehel, Harexa, Ilsa. Una mano guidò le sue sulle redini: la mano d’oro. In quell’attimo di follia, per la prima volta alzò lo sguardo e ne scrutò il possessore: era lui. Più giovane, l’armatura dorata, il viso pulito e sicuro. Ilsa sorrideva al suo fianco. Stretta al suo braccio appariva radiosa.
Una lacrima scivolò lungo la guancia.
Era lui, era sempre stato lui. Sarebbe potuto essere una stella, ma mai aveva brillato. Poteva essere il suo destino, ora lo sapeva. Se solo avesse avuto il coraggio di osare…
Ridotto uno straccio, ansante, la vista annebbiata, Syfer e Jolel ora gli apparvero come un’unica entità. Volevano sottrargli l’ultima luce, la più pura. L’ultimo legame con le stelle, con l’onore, che questo Impero avesse ancora da offrire.
No, non l’avrebbe permesso.
«Madre… guidami» sussurrò, prima di partire al galoppo.
E sferrare il colpo decisivo.
Syfer cadde in un’arena ammutolita… prima che il giubilo s’aizzasse come una sola voce roboante. Germhan, il vecchio cavaliere, aveva dato prova del suo coraggio e ricevette il tripudio che Dehel avrebbe meritato quell’infausto giorno. La folla inneggiò il suo nome, e continuò a farlo per ore.
Inconsapevole che quella sarebbe stata l’ultima apparizione del prode cavaliere.
Gli ultimi attimi di veglia, Germhan li visse nel letto imperiale. Le ferite della giostra si sarebbero rivelate fatali. Unicus, l’imperatore, aveva dato ordine che i guaritori si facessero da parte, lasciando il vecchio alle dolci cure di Valessa.
L’imperatrice gli carezzava il viso stanco con un panno bagnato, mentre Germhan faticava a restare vigile. «Mi ricordo di te, cavaliere. Mi hai tenuta al sicuro. So a cosa mirava Teragross. Ti sei opposto. Per me.»
Germhan osò sorridere. «Ho perso… troppo, per lasciare che prendessero anche voi. Ho sempre… sognato di salvare la mia sovrana.»
Valessa sorrise e l’oscurità divenne luce. «Hai un Desiderio, mio campione?»
Se gli era concesso osare, almeno una volta, allora… «P-Prendete… carta e penna.»
Valessa eseguì. In lacrime scrisse il suo ultimo messaggio, mentre il fuoco della sua vita si spegneva per sempre.
 
Le ceneri di Germhan furono sparse a fianco della tomba materna. Sulla lapide, splendida, degna di un eroe, come da richiesta fu inciso il suo ultimo lascito:
 
“Mie care stelle, sono luce.”
 
 
 
 
 
 
Angolo Autore:
Salve a tutti ^^
Avevo deciso di partecipare ad un altro contest, ed eccomi qui. È… una storia particolare, lo ammetto. Non so nemmeno se rientri appieno nei canoni della sfida, ma volevo provare una narrazione più esterna e questo personaggio mi sembrava l’ideale.
Dunque… come vi è sembrata questa storia? Strana? Assurda? Troppo semplice?
Spero, per chiunque sia arrivato sin qui, che abbia quantomeno rappresentato quella mezz’oretta/quarto d’ora meritevole. Spero T.T
A presto!
Spettro94

 
 
   
 
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