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Autore: Ily Briarroot    23/07/2020    2 recensioni
Storia partecipante al Contest "Villain’s Ballad" indetto da _Vintage_ sul forum di EFP.
[Una volta davanti allo specchio noti il cambiamento del tuo sguardo, della tua espressione. Non provi altro, non vedi altri colori nella tua vita.
Solo quel nero che ti ha sempre fatto compagnia.
Non vorresti diventare come lui, non vuoi credere che quegli occhi siano identici ai suoi.]
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Gin
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Nome: Ily Briarrott (EFP), Ile_W (Forum)
Titolo: Closer to the edge
Bonus: 9
Rating: Arancione
Fandom: Detective Conan
Closer to the edge


Le urla diventano più forti, così tanto da riuscire a distinguerle chiaramente oltre la porta della camera.
Premi il cuscino sulla testa per non sentire, ti basterebbe anche che quei rumori fastidiosi di oggetti che si frantumano si attutissero appena.
Non comprendi il motivo per il quale ogni volta che tuo padre torna a casa si scatena l'inferno; questa sarà la quarta in otto anni e sei consapevole di non conoscerlo affatto. Una volta che ce l'hai di fronte i suoi occhi chiari ti scalfiscono in profondità e non riesci a delineare bene la sua figura costantemente avvolta dalla stoffa nera dei vestiti.
Non ti piace - non lo vuoi in casa - e la tua unica arma per difenderti è chiudere la porta a chiave e aspettare, premendo il cuscino sulle orecchie.
La voce di tua madre ti entra in testa e percepisci una fitta rapida al petto, il respiro stringe. All'improvviso, la tempia ti esplode e non puoi fare a meno di sdraiarti sul materasso e stringere le palpebre.
Credi di riuscire a vederle, quelle urla, una volta che chiudi gli occhi.
Voci avvolte nell'oscurità.
Il nero è l'unico colore che vedi e che avvolge ogni cosa.

Quando sembra che tutto sia cessato e il silenzio diventa assordante apri la porta, sempre silenziosamente, per evitare che qualcuno si possa accorgere della tua presenza.
Raggiungi il salone e il dolore alle tempie adesso è scemato, ma provoca comunque delle fitte fastidiose che ti permettono di muovere la testa con fatica.
«Mamma?».
La guardi di spalle, in mezzo alla miriade di pezzi di ceramica sul pavimento, e non riesci a evitare un sussulto di sbigottimento.
«Lascia stare, torna in camera tua».
La vedi accovacciarsi tra i cocci con un sacchetto di carta per raccoglierli e rimani fermo a osservare le tracce umide tra i capelli biondi che le scivolano sul viso.
La osservi attento allungare la mano pallida per recuperare ciò che resta del bicchiere di vetro, per poi ritrarla subito dopo con un gemito. In questo esatto momento percepisci un dolore acuto al dito e controlli la pelle perché hai l'impressione che una scheggia ti abbia penetrato la carne nonostante tu non ti sia mosso di un millimetro, ma non vi è nulla.
Sollevi lo sguardo verso tua madre e rimani stupito nel vederla premere uno strofinaccio contro il proprio indice per tentare di fermare l'emorragia, nello stesso punto che continua a bruciare anche sul tuo.
Fa male, lo senti attraverso una ferita che non esiste. Guardi il taglio di tua madre sbigottito come fosse tuo – perché è il tuo che continua a pulsare inspiegabilmente – finché non incroci i suoi occhi chiari che ti mortificano, spingendoti ad allontanarti da lì.

L'unica volta in cui hai avuto a che fare così da vicino con la polizia è stata quando tuo padre è tornato, dopo un paio d'anni da quell'episodio, e lo hai visto tirare fuori una pistola per volgerla contro tua madre.
Hai composto tu il numero quando, sempre al sicuro in camera, hai provato la paura – quella vera, che ti fa tremare l'anima – e ti sei fidato di quella sensazione. Tuttavia non è grazie a loro se tua madre è viva.
Devi ringraziare qualcosa o qualcuno – ma non lo hai mai fatto e neanche t'importa – perché l'uomo ha sbagliato mira prima di scappare riducendo in mille pezzi il vaso di ceramica posto in corridoio.  
Da quella volta non lo hai più visto.
Da quella volta hai compreso che avresti dovuto imparare a cavartela da solo, perché dopotutto lo sei sempre stato.

Ogni volta che ti avvicini a lei, la frase è sempre la stessa: «vai via, sono stanca per pensare a te adesso».
Volgi come sempre lo sguardo verso il blister di pillole appoggiato sul tavolino e osservi la donna che ti sta davanti. Sembra davvero stanca; sdraiata sul divano, il viso pallido, non ha alcuna intenzione di alzarsi almeno per qualche ora, come l'ultima volta. Sai che si addormenterà a minuti e che non si sveglierà prima di domani.
Il petto stringe e fai fatica a respirare ma abbassi lo sguardo senza rispondere. Non sentirebbe comunque.
«Ehi, chiedi al biondo se ha fatto i compiti».
I ragazzini intorno a te ridono, sanno benissimo che li hai sentiti. Ti ripeti che oggi che non importa, ma non riesci.
«L'orfanello dici?».
«Ma quale orfanello? Ho sentito che il padre è in galera, faceva parte di una grande organizzazione criminale”.
«Stiamo attenti allora» risponde un altro in tono provocatorio. Ti volti verso di loro e li fissi freddamente, mentre dentro di te inizia a prevaricare un sentimento che probabilmente è sempre esistito e che adesso necessita di venire alla luce.
Odio.
«Ve l'avevo detto di non farlo arrabbiare, sai che paura».
Ti alzi di scatto dalla sedia e raggiungi il bagno sotto lo sguardo contrariato della professoressa: basta lanciarle un'occhiata eloquente per intimarla a non seguirti.
Una volta davanti allo specchio noti il cambiamento del tuo sguardo, della tua espressione. Non provi altro, non vedi altri colori nella tua vita.
Solo quel nero che ti ha sempre fatto compagnia.  
Non vorresti diventare come lui, non vuoi credere che quegli occhi siano identici ai suoi.
La rabbia arriva come una doccia ghiacciata; esci bruscamente dal bagno e decidi di tornare a casa senza neanche avvisare. Prima di raggiungere l'uscita noti qualche viso conosciuto, i compagni delle altre classi che stanno spingendo contro un muro un ragazzino più piccolo. Percepisci il fiato mozzarsi tuoi polmoni, il dolore che ti percorre la colonna vertebrale.

Bene. Fatelo.
Non chiedo altro. Continuate pure.

Non comprendi i tuoi pensieri, ma quelle sensazioni ti fanno sentire vivo. Quel dolore è l'unica cosa che ti fa provare ancora qualcosa, in grado di infliggerti una punizione e una benedizione allo stesso tempo.
Magari, così riuscirai a non assomigliargli.
Forse è ciò che meriti; è la punizione per non essere riuscito a impedire tutto, tua madre sarebbe senz'altro d'accordo.
Si voltano tutti verso di te e il ragazzino ti chiede aiuto con lo sguardo, ma ti volti e torni a casa con indifferenza.

Tutto di te è diventato insignificante.
Sei un povero ragazzino che ha avuto la sfortuna di nascere in una famiglia disagiata, con un padre delinquente che non hai quasi mai visto e una madre troppo presa dai suoi problemi per ascoltarti e che non faceva nulla per interrompere il silenzio di una vita.
Non hai più un'età, perché nessuno ti ha mai permesso di viverla appieno. Hai undici anni ma potresti anche averne venti, non ne hai idea.
Non hai un nome e forse non ne hai mai avuto uno. Lo usava tua madre soltanto per rimproverarti – per enfatizzare il vuoto delle sue giornate e il peso che riuscivi a costituire per lei, pensavi.
Non ti sei mai affezionato davvero a tutto questo e persino adesso che sei in affidamento da un'altra famiglia senti che è tutto sbagliato e che non è quello il tuo posto.

Hai bisogno di quelle sensazioni particolari, di quell'empatia che ti permette di sentirti vivo. E allora te ne vai, senza sapere dove. Te ne vai cercando di trovare la strada che non vorresti intraprendere ma che ti calza a pennello.
La senti tua perché ti permette di essere circondato da quel colore, quell'oscurità, l'unica cosa che ti ha sempre tenuto compagnia.
E allora la vuoi.

«Gin, che stai facendo?».
Adori il tuo nuovo nome e il tuo posto all'interno di quella gerarchia ai piani alti. Hai trovato finalmente una famiglia – o un qualcosa di simile - una cerchia di persone che pendono dalle tue labbra, persone che non hanno il potere di spingerti a scappare o a rinchiuderti, non più.
Tendi il braccio verso l'uomo che deve consegnarti i soldi e gli punti contro la pistola, mirando bene alla testa.
«Avresti dovuto pensarci prima. Gli errori si pagano sempre».
Premi il grilletto e lo vedi accasciarsi a terra immediatamente; il dolore adesso è qualcosa di indispensabile. I brividi partono dalle tempie e s'irradiano in tutto il corpo, le ginocchia fanno male nell'istante in cui lo vedi battere le proprie contro l'asfalto.
Ora che sei diventato ciò che non avresti voluto diventare, ti prendi anche le conseguenze. È l'ennesima punizione per aver deciso di percorrere quella strada; un sentiero senza via d'uscita e carico di vendetta.
L'omicidio è qualcosa con cui hai imparato a fare i conti e l'empatia diventa sadismo e poi, ancora, masochismo; provare la stessa paura, lo stesso tormento delle vittime ti fa sentire bene. Un'unione particolare tra queste e il carnefice, una linfa del colore del sangue difficile da frenare.
E neanche vuoi farlo.
Non ora che ti senti bene.
Non adesso che hai deciso di vivere per sempre con quell'oscurità.



* * * *



Note dell'autrice
Prima di tutto ci tengo a ringraziare Vintage per l'opportunità di avermi fatto scrivere questa storia: mi sono divertita a immaginare un ipotetico passato di Gin. Il risultato finale non mi convince per nulla, devo ammetterlo, perché è la prima volta che scrivo temi del genere ma in generale è stato bello. Grazie a chiunque abbia voglia di lasciarmi un parere e alla prossima!


  
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