Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: LaViaggiatrice    24/07/2020    1 recensioni
"Era notte, probabilmente la mezza notte era passata da un pezzo, e io ero sveglia.
Mi ero svegliata a causa di un sogno che ora stava inesorabilmente svanendo ma che mi aveva lasciato una sensazione di amarezza in petto; probabilmente aveva a che fare con Trost.
Dopo essermi girata e rigirata un paio di volte decisi di alzarmi, essendo ormai impossibile riuscire a riaddormentarmi. Indossai gli stivali dell’uniforme e il mantello sulle spalle per sfuggire al freddo della notte, quindi uscii dalla mia camera e mi diressi nella cucina, in cerca di qualcosa da bere.
Appena vi entrai però, mi resi conto di non essere sola: appoggiato al bancone su cui, su un fornelletto acceso, era appoggiata una teiera, stava il Capitano Levi, lo sguardo perso nel vuoto e le braccia incrociate."
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Anche i più forti hanno bisogno di sostegno nei momenti più bui, perfino il soldato più forte dell'umanità. Basta trovare qualcuno di cui fidarsi.
Genere: Fluff, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Levi Ackerman, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era notte, probabilmente la mezza notte era passata da un pezzo, e io ero sveglia.
Mi ero svegliata a causa di un sogno che ora stava inesorabilmente svanendo ma che mi aveva lasciato una sensazione di amarezza in petto; probabilmente aveva a che fare con Trost.
Dopo essermi girata e rigirata un paio di volte decisi di alzarmi, essendo ormai impossibile riuscire a riaddormentarmi. Indossai gli stivali dell’uniforme e il mantello sulle spalle per sfuggire al freddo della notte, quindi uscii dalla mia camera e mi diressi nella cucina, in cerca di qualcosa da bere.
Appena vi entrai però, mi resi conto di non essere sola: appoggiato al bancone su cui, su un fornelletto acceso, era appoggiata una teiera, stava il Capitano Levi, lo sguardo perso nel vuoto e le braccia incrociate. Azzardai un altro passo dentro la stanza e lo vidi alzare lo sguardo su di me in un espressione interrogativa, al quale risposi con un cenno di saluto.
– Salve capitano- dissi con un sorriso che durò poco sul mio volto stanco.
Mi rispose con un cenno simile al mio – Cosa ci fai sveglia a quest’ora?- chiese impassibile, il suo volto una maschera inespressiva.
Scrollai le spalle – Un sogno. Mi sono svegliata e non riuscivo più a dormire, quindi sono venuta a cercare qualcosa di caldo da bere- spiegai con tono basso, a non voler disturbare la quiete della notte.
L’uomo annuì, e mi parve di vedere un barlume di comprensione nei suoi occhi argentei – Mi stavo per preparare del tè. Ne vuoi una tazza?-.
Rimasi sorpresa alla sua offerta, in realtà ero convinta che mi avrebbe rimproverata e mandata in camera, quindi annuii – Se non è di disturbo-.
- Se lo fosse stato non te l’avrei chiesto- osservò piccato. Il gorgoglio dell’acqua lo distrasse: con movimenti meccanici, come se lo avesse fatto migliaia di volte, spense il fornello e mise il tè in infusione nella teiera, poi tirò fuori una tazza e un piattino in più dal mobile appeso.
Dopo pochi minuti versò in entrambe le tazze il liquido ambrato contenuto nella teiera e me ne passò una, che presi con un ringraziamento sussurrato, tenendola con medio e anulare della mano destra avvolti attorno ad essa attraverso il manico mentre indice e mignolo la circondavano da fuori.
Il capitano prese la propria e si sedette al tavolo dove pochi momenti prima mi ero seduta io, mettendosi sulla sedia alla mia destra e appoggiando la sua tazza sulla superficie di legno, lasciando che il tè si raffreddasse.
Mentre attendevamo trovai il coraggio di chiedergli – Come mai lei è ancora sveglio capitano?-.
Levi alzò lo sguardo su di me – Insonnia- replicò brevemente. Annuii e mi persi a osservare il liquido ambrato nella mia tazza.
Calò un silenzio confortante su di noi, che nessuno dei due spezzò. Quando il tè si fu raffreddato lo iniziai a sorseggiare tenendo la tazza tra le mani nello stesso modo di prima, mentre Levi lo beveva nella sua solita maniera che avevo imparato a conoscere, come se avesse paura di scottarsi o di rompere la tazza.
Pensai tra me che probabilmente se le tazze fossero state poco più grandi non sarebbe riuscito a bere in quel modo. Chissà se ciò l’avrebbe mandato in crisi? Ecco un regalo ideale per il capitano: una tazza. Sperai di ricordarlo in tempo per la prossima festa.
- Che hai da sorridere mocciosa?-
La voce del capitano mi riscosse dal flusso di pensieri, e mi resi conto di star sorridendo guardando la sua tazza. Alzai lo sguardo a incrociare i suoi occhi e il mio sorriso si fece più ampio – Pensavo che se mai dovessimo farle un regalo potremmo regalarle una tazza- dissi.
Lui alzò le sopracciglia e fece un “tch” dei suoi, per poi scuotere la testa leggermente, ma non mi sfuggì il leggero sollevarsi dell’angolo sinistro delle sue labbra – Ma davvero? Posso semplicemente appropriarmi di una tazza della cucina- osservò sorseggiando il suo tè.
– Ma quella che gli regaleremmo sarebbe una tazza speciale- risposi fintamente offesa.
Mi guardò divertito; potevo capirlo dalla sua espressione: gli occhi erano meno affilati del solito, il volto addolcito, le sopracciglia non corrugate e la fronte spoglia dal suo perenne cipiglio.
- E cosa avrebbe di tanto speciale?-.
- Beh, potremmo attaccare al manico un cordino con un biglietto con scritto “Al miglior capitano dell’esercito”. E magari farci il disegno di una scopa, o di uno scopettone- dissi ridacchiando. Levi si lasciò scappare un grugnito simile a una risata, prima di tornare a sorseggiare il suo tè – Buona idea. Se non riceverò mai un regalo del genere mi riterrò offeso-.
Nascosi una risata nella tazza ormai mezza vuota, lasciando cadere quella conversazione e lasciando che il silenzio tornasse ad avvolgerci, interrotto solo dal lieve tintinnio delle tazze che venivano appoggiate sui piattini dopo una sorsata.
Il nostro trovarci soli in una cucina, in piena notte, a sorseggiare tè, rendeva l’atmosfera quasi… familiare. Nonostante l’esteriore freddezza, il capitano nascondeva un cuore grande, che però non emergeva mai durante il giorno. Invece, nella calma pacata della notte, faceva capolino attraverso i suoi occhi grigio azzurri, che all’improvviso non avevano più la freddezza del ghiaccio, ma il calore di un pomeriggio assolato.
Quando il nostro tè finì era quasi l’alba. Lo finii per prima, per cui mi alzai e lo misi nel lavello vuoto, seguita poco dopo dal capitano, che mi imitò. Mi voltai a guardarlo e feci un cenno del capo; eravamo alti uguali, per cui potevamo guardarci negli occhi facilmente.
Gli sorrisi nuovamente – Grazie della compagnia- mormorai, e in risposta ottenni un piccolo arcuarsi dell’angolo delle labbra del capitano – Grazie a te. Ora va a riposare se riesci- disse, e il suo tono era caldo e tranquillo.
Annuii e obbedii, tornando alla mia stanza. Dormii per un’ora al massimo, prima che cominciasse la giornata.
 
Quella notte mi svegliai di nuovo. Non sapevo che ora fosse, ma stavolta non persi tempo a indossare scarpe e mantello e ad andare in cucina.
Il capitano era lì di nuovo, appoggiato al bancone ad aspettare che l’acqua si scaldasse.
Mi guardò e non disse niente, limitandosi a tirare fuori un'altra tazza mentre io mi sedevo al tavolo.
Anche quella nottata la passammo a bere tè e a chiacchierare occasionalmente dei miei flussi di pensiero, e anche la successiva. Non riuscivo mai a dormire quelle notti, e ogni volta che accadeva scendevo nelle cucine dove trovavo sempre il capitano. Man mano qualcosa tra di noi cambiò; qualcosa di impercettibile a occhio esterno, ma radicale dal mio punto di vista. Durante il giorno eravamo soldato e capitano, durante la notte invece eravamo confidenti, nonostante non parlassimo mai di nulla. Eppure, il capitano ormai mi dava il benvenuto con un cenno e un mezzo sorriso, due tazze affiancate sul bancone della cucina, e io rispondevo allo stesso modo. Avevo iniziato ad apprezzare la compagnia di quell’uomo tormentato, e lui la mia. Nessuno chiedeva all’altro nulla di personale, perché tutto ciò che c’era da capire lo leggevamo nei reciproci occhi e modi di fare. Lui leggeva sul mio volto la sofferenza che i sogni mi portavano, sogni di quando ero ancora in addestramento, prima di diplomarmi, prima di perdere la metà dei miei compagni; io nei suoi modi cauti leggevo una sofferenza simile, una malinconia perenne che lo circondava e che sul campo di battaglia diventava rabbia.
Nessuno dei due chiese mai all’altro della propria vita; ci bastava condividere il tè e il dolore durante le ore della notte.
Andò avanti così per due settimane: poi accadde la 57esima spedizione.
 
Al ritorno dalla mia prima spedizione, la mia faccia era di marmo. Non avevo pianto, non ancora, aspettavo di ritrovarmi al sicuro sotto le coperte del mio letto, ma gli occhi gonfi di lacrime che minacciavano di uscire mi tradivano. Nessuno si preoccupò per me, comunque: ognuno doveva fare i conti con il proprio dolore, non ci si poteva permettere di assumere quello degli altri. Un principio che forse non avrei mai capito, ma che mi permetteva di non aspettarmi aiuto dagli altri. Era egoismo? Si. Ma era l’unico modo per andare avanti.
Quella sera piansi per ore. Piansi per i ragazzi che avevamo perso, per la squadra di Levi, e poi la mia mente tornò indietro e allora piansi per Mina, Thomas, Samuel, Milius, Marco. Poi le lacrime si esaurirono e mi ritrovai stanca ma senza riuscire ad addormentarmi. Così mi alzai e andai in cucina.
La trovai vuota, il fornelletto spento e la teiera riposta nella credenza. Il capitano non era sceso quella notte. Un nodo mi si formò nello stomaco; ero preoccupata, quella giornata era stata pesante per lui, glielo avevo letto oltre la sua facciata stoica, che ormai avevo imparato a infrangere, mentre tornavamo indietro.
Uscii dalla cucina e mi diresti verso il suo ufficio, sapendo che l’avrei trovato lì. Mi ci avvicinai e bussai alla porta lievemente, senza ottenere risposta, ma da dentro la stanza mi parve di sentire dei respiri strozzati. Con cautela aprii la porta ed entrai lentamente, e rimasi immobile: il capitano era seduto in un angolo, il volto rigato di lacrime, e un paio di stemmi insanguinati tra le mani. Non sapevo di chi potessero essere; erano solo due.
Feci un passo e si accorse della mia presenza: alzò di scatto lo sguardo su di me e vederlo così sofferente mi spezzò il cuore. Poi il suo volto divenne una maschera di collera – Non ti hanno insegnato l’educazione mocciosa?-.
Ma i suoi modi non mi scalfivano. Mi avvicinai a lui e l’uomo si alzò. Mi fermai di fronte a lui e lo guardai negli occhi senza rispondere al commento acido di poco prima, studiando il suo volto, e lui distolse lo sguardo per non permettermi di leggerlo oltre – Non l’avresti mai detto eh? Anche il capitano Levi ha delle emozioni. Sarà stato sconvolgente scoprire che non sono un mostro senza cuore o sensibilità- disse amaramente.
Queste parole ricalcavano ciò che avevano detto dei cadetti qualche giorno prima: un gruppo di idioti, che lamentandosi dei turni di pulizia del capitano l’avevano chiamato “mostro insensibile senza cuore”. Mi ero arrabbiata a morte quel giorno, ed ero uscita fumante di rabbia dalla sala comune. Il capitano doveva averli sentiti.
- Ma io lo sapevo già capitano- dissi con un sorriso dolce guardandolo. Lui alzò lo sguardo nuovamente su di me con un misto di sorpresa e confusione negli occhi, aprì la bocca per parlare ma poi la richiuse e deglutì a fatica probabilmente il groppo alla gola che lo aveva spezzato. Feci un passo verso di lui – So che non è un uomo senza cuore. La conosco bene ormai. È un uomo buono, a cui sono successe troppe cose. Non so cosa, e non voglio saperlo; mi basta vedere la sua sofferenza per immaginarlo-.
Il capitano mi guardava con occhi sgranati, come se non potesse credere alle sue orecchie. Poi chinò lo sguardo e due lacrime gli rigarono nuovamente il viso. Posai le mani sulle sue spalle leggermente, e sentii l’uomo sussultare e fare un “tch” irritato, ma non mi scrollò. Lo sentivo tremare sotto le mie mani, e mi si spezzò il cuore a quella vista, quindi non ci pensai due volte prima di avvolgergli le braccia la collo e stringerlo in un abbraccio.
L’uomo sussultò e puntò le mani sulle mie costole per spingermi via, quasi impaurito: ma non lo fece troppo forte, ne troppo a lungo, perché poi si arrese e mi avvolse le braccia intorno alla vita e affondò il volto sulla mia spalla. Sospirai e gli carezzai lentamente la schiena poco sotto il collo, tra le scapole. Non c’erano parole per lenire quel dolore, potevo solo offrirgli il conforto della mia vicinanza. Sentii la mia maglia del pigiama bagnarsi di lacrime, e il corpo del capitano scosso per i suoi singhiozzi silenziosi.
Continuai a tenerlo stretto in quel modo, e la sua stretta su di me si fece quasi soffocante, ma non mi lamentai e non parlai per non rompere quel momento, limitandomi a carezzargli la schiena.
Lo lasciai libero di essere debole, e lui lo fece, perché in qualche modo avevo guadagnato la sua fiducia: forse con le lunghe nottate a bere il tè, o forse condividendo il silenzio e il dolore.
Quell’uomo non era più semplicemente il mio capitano; era anche un amico.
Poco dopo i singhiozzi si fermarono, il suo corpo smise di tremare, ma la sua stretta su di me non si sciolse subito, e io non premetti per farglielo fare. Aveva braccia forti, e farsi stritolare da lui non era così male.
Infine però tolse le braccia da intorno a me e io feci lo stesso, allontanandomi di un passo da lui e guardandolo con un sorriso in volto. Lui mi guardò e sospirò, e mi rivolse un sorriso a sua volta. Poi lo sguardo cadde sulla spalla dove si era appoggiato e sospirò – Ti ho bagnato la spalla- disse tirando su col naso. Alzai le spalle – Si asciugherà- mormorai. Lui annuì e si asciugò il viso con le mani, ricomponendosi, quindi mi guardò – Un tè?-.
- Lo gradirei molto capitano-
   
 
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