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Autore: Gwen Chan    26/07/2020    0 recensioni
"Uno di questi giorni finiremo col dimenticarti indietro"
Matthew, l'invisibile, la giungla, l'inferno di Guadalcanal e la morale della guerra, sulla linea sottile tra uomini e nemici.
Genere: Angst, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Canada/Matthew Williams, Giappone/Kiku Honda
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Un giorno o l'altro finiremo col dimenticarti indietro.
 
Da quando lo avevano conosciuto, quella era presto diventata la frase preferita dei suoi compagni. Non smettevano di ripeterlo, scherzando. Matthew aveva riso un po' meno, perché sin dall'infanzia poteva passare ore in una stanza prima che ci si accorgesse di lui. 
Qualcuno sobbalzava in sua presenza, chiedendo mano al cuore da dove diamine fosse spuntato, sebbene Matthew fosse sempre stato lì, in piena vista. Anche a mesi dall'inizio dell'addestramento, i superiori continuavano a sbraitare quando, alle ispezioni, non lo vedevano al suo posto, chiedendo a squarciagola dove diamine si fosse cacciato e minacciando le peggiori punizioni; salvo scoprire, a un controllo più attento, che era proprio sotto i loro occhi, nemmeno fosse apparso dal nulla con uno schiocco di dita.
 
Matthew si stringeva nelle spalle, sforzandosi di sorridere per la battuta. Sapeva che i suoi compagni non lo avrebbero abbandonato. Dopotutto, non era davvero invisibile.
 
Invece alla fine era successo, lo scherzo era diventato ironica realtà. Di colpo era solo, in mezzo a un inferno di cenere ancora bollente e cadaveri ormai irriconoscibili tanto erano lordi di sangue e fango. 
 
Gli altri avevano fatto la conta, avevano spuntato i superstiti e lo avevano lasciato fuori dalla lista, uno dei tanti numeri che alla fine di tutto quel caos qualcuno avrebbe messo in un libro di Storia. Non c'era stato tempo per guardarsi indietro, raccogliere i feriti, controllare che qualche morto respirasse ancora. 
Matthew ricordava appena l'impressione di qualcuno che gli afferrava il polso per quei pochi secondi sufficienti a stabilire che anche lui aveva tolto il disturbo da questo mondo; che fosse svenuto subito dopo o fosse stato solo troppo debole per protestare contro il verdetto, aveva poca importanza. Qualcuno aveva stabilito la sua esclusione dai vivi e lui era rimasto lì - la necessità di salvare il salvabile più forte della regola implicita di non abbandonare nessuno.
 
Metà del viso sembrava avvolta dalle fiamme. Le ossa prudevano. Qualcosa premeva sulla schiena. Matthew se la scrollò di dosso con un movimento di brusco istinto. Vide quello che restava di uno degli altri soldati rotolare via, a faccia in giù. L’odore tremendo della carne bruciata parve volergli strappare direttamente lo stomaco e quel poco che ancora conteneva. Un improvviso fiotto di acido gli invase la bocca, colando sul mento e sull’uniforme. 
Almeno il cadavere girato di schiena gli risparmiò il sopportare l’ennesimo spettacolo di carne maciullata. Si sforzò di non pensare a come la differenza tra lui e l’altro stesse in pochi centimetri di distanza. 
Persino la Morte non l’aveva notato, distratta com’era in quella bolgia. Pochi centimetri più in qua, giusto uno scambio di posizioni, e la granata lo avrebbe preso in pieno. Nei suoi ricordi annacquati dall’adrenalina del momento, Matthew rivide l’ordigno disegnare un arco proprio di fronte a lui, le urla di avvertimento tardive, il corpo che si muoveva d’istinto. 
Il soldato davanti a lui gli aveva fatto da ignaro scudo, proteggendolo dalle schegge e smorzando l’onda di calore che pure lo aveva investito. 
 
L'aria crepitava dell'innaturale energia di un campo dopo la battaglia. Matthew lottò per mettersi a sedere. Contando sulle dita sporche, asserì la situazione come gli era stato insegnato. 
Era solo, era ferito ed era l'unico sopravvissuto.  Quando si toccò la guancia, la fonte principale del suo fastidio, ritirò le dita umide di sangue, sporco e carne viva. Metà della bocca tirava verso il basso e faticava a mettere a fuoco dall’occhio destro. Eppure provava meno dolore di quello che sapeva avrebbe dovuto sentire.  Doveva essere l’adrenalina o forse tutti i colpi presi quando giocava a hockey gli avevano davvero intontito i recettori. 
Nell’esaminare prima le dita poi il massacro attorno a lui lo colse la tentazione di appallottolarsi lì dove si trovava, chiudere gli occhi e addormentarsi finché non si fosse svegliato in un letto dalle lenzuola pulite, con una pila di pancake al burro in cucina e magari una medaglia sul comodino. 
 
Aveva desiderato a lungo una medaglia. Magari con una cerimonia di consegna e una medaglia appuntata al petto si sarebbero infine accorti di lui. Matthew il salvatore. Fantasticava di quando non sarebbe più stato all'ombra di qualcuno. La realtà non ci aveva impiegato molto per sbattergli in faccia come solo alcune persone fossero fatte per le medaglie e lui non erano tra quelli. Persino con i trofei di hockey che pure aveva accumulato durante gli anni delle superiori, lui era solo un elemento della squadra. 
 
Il pensiero, invece di dargli il colpo di grazia, fu l’inaspettata spinta verso l’azione.
 
Ricordava perfettamente l’addestramento per la situazione, la precisa e ordinata sequenza di azioni da compiere per sperare di sopravvivere. Si trattava solo di seguirla e pregare i santi che la ferita non si infettasse fino alla setticemia, anche se Matthew dovette ammettere con sé stesso di non nutrire molte aspettative. Fare lo spaccone non era mai stato il suo dipartimento. 
Nel fare queste considerazioni, stava già reprimendo l’inevitabile disgusto verso la morte per  controllare i cadaveri casomai portassero qualcosa di utile. 
 
Se credeva di aver dato fondo a quanto aveva in pancia, dovette ripensarci, anche se aveva uno stomaco forte addestrato da anni di astruse ricette che sarebbero state anche passabili se zio Arthur avesse avuto un rapporto migliore con i fornelli. Gli altri ragazzi al campo si meravigliavano sempre della facilità con cui Matthew ingeriva la sbobba del rancio. 
 
Si pulì la bocca con la manica già sporca e continuò a cercare. Ogni oggetto che trovava era un chance in più per vivere fino a domani. Ogni gavetta che non fosse vuota o distrutta era una benedizione. Più proseguiva, con tocchi che via via abbandonavano la delicatezza della pietà verso i morti, più la ricerca diventava facile. Giunto al decimo cadavere, Matthew si muoveva ormai con anestetizzata sicurezza, entrambe le orecchie all’erta per qualsiasi rumore improvviso e inusuale. I vivi erano molto più pericolosi del morti, perfettamente immobili sotto il suo tocco.
 
Finché uno dei cadaveri non si mosse.
 
Poteva essere stato impercettibile, ma Matthew non aveva dubbi. Il cuore che saltava, infilò la punta dell’anfibio sotto il corpo e, con la massima cura data dal momento e dalla trepidazione, lo girò. La gioia di non essere l’unico sopravvissuto si dissipò in fretta: era uno dei loro. 
 
L’unico buon giapponese è un giapponese morto. Gliel'avevano ripetuto fino alla nausea, urlato nelle orecchie perché il messaggio si incidesse a vita in ogni piega del cervello, usato come frase celebrativa alla conta dei morti dopo ogni scontro.
Uno in meno per loro. Uno in più per noi. 
 
Matthew si accovacciò sui calcagni e si infilò le dita tra i capelli fino a stringersi le tempie. 
Aveva già ucciso. Ovvio, a mitragliare all'impazzata contro ogni cosa si muovesse, era impossibile che non avesse già ammazzato qualcuno. 
Questo però era diverso. Questo non era uccidere a distanza, senza nemmeno pensare a cosa si colpiva perché non se ne aveva il tempo, con il fracasso dei macchinari e delle urla ad attutire il rumore della singola morte e ad anestetizzare il cervello. Questo era uccidere un singolo uomo - un nemico - ed essere abbastanza vicini da avvertire il suono del suo respiro fino alla sua fine, il silenzio del cuore quando avrebbe cessato di battere. Era sentire ogni spasmo del suo corpo. Non era una collettività cui si potesse attaccare una maschera di terrore, era singolo e vivente. 
 
Allo stesso tempo, il dovere verso i suoi compagni, verso il Paese e verso la causa superavano la sua necessità di salvare una coscienza già sporca. Prendersi cura dell’altro finché non si fosse rimesso era fuori discussione. Alla base, anche ad immaginare di tornarci, non c'era spazio per i prigionieri. A pensare a mente fredda, i benefici di una fonte di informazioni sul nemico erano troppo limitati per lo sforzo e loro non si potevano permettere un’altra bocca da sfamare. 
Se anche avesse voluto anteporre gentilezza o una presunta morale a ciò che avevano voluto inculcargli da quando aveva firmato il proprio arruolamento, la sua pietà avrebbe solo peggiorato la situazione. L’altro era ormai spacciato, lo sentiva dal rantolo del respiro. A quel punto sarebbe stato più umano dargli il colpo di grazia.
 
Matthew aveva ancora il proprio coltello appeso alla cintura. Tecnicamente uccidere sarebbe stato facile. Un colpo alla gola o al cuore, carico della fatica, della rabbia, del dolore accumulato da settimane, e ce ne sarebbe stato uno in meno. Del resto, non era quello che volevano? Gli avrebbe anche fatto un favore. 
 
Qualcuno avrebbe detto che una morte pulita era anche troppo gentile. Avrebbero suggerito di lasciarlo lì per i vermi e il marciume.
 
Matthew inspirò un paio di volte per calmarsi. Premette la lama contro la gola esposta, le mani scosse da un tremito che i giorni di guerriglia avrebbero dovuto cancellare da tempo. Sarebbe bastato un solo gesto. Per pietà o dolore gli lacrimarono gli occhi, il sale tremendo sulla carne viva. Strinse la presa sull’impugnatura del coltello, scivolosa di sangue e sudore, e voltò la testa dall’altra parte. 
 
Il rosso che gli schizzò addosso fu uno strano diversivo in una mare di verde.
 
 
Se avesse potuto, Matthew si sarebbe strappato la faccia a mani nude e solo l’averle  impegnate a reggere il fucile, pronto a scattare, gli aveva finora impedito di grattarsi furiosamente fino alle ossa. Il sudore dell’umido e della febbre continuava a cadergli sugli occhi e per ogni passo serviva il doppio della convinzione di quello precedente.
Muoversi con lentezza poteva aiutare a conservare le energie, ma alla fine contribuiva solo ad aumentare il tempo in cui rimaneva nella giungla. 
 
Quando inciampò nell’ennesima radice, seppe che non si sarebbe rialzato. Anche nell’hockey si arrivava a un punto in cui bisognava alzare bandiera bianca, accettare la sconfitta e recarsi in pronto soccorso se non si voleva che quella fosse l’ultima partita. La febbre gli aveva ormai accecato anche l’occhio buono e avanzava a tentoni in uno sfocato ammasso di verde, mentre la bocca si spaccava di sete nonostante l’umidità pesante al punto da soffocarlo. 
Peccato, non avrebbe mai ricevuto alcuna medaglia. Sarebbe già stato un miracolo se qualcuno avesse ritrovato il suo corpo, un giorno, quando la guerra avesse lasciato il tempo di radunare i morti. Considerati i suoi trascorsi, si sarebbe mimetizzato con l’ambiente per l’eternità. Nel cedere infine alla fatica, gli venne da pensare a casa
 
Casa era stata un bella villa dai muri dipinti di azzurro e una donna dai capelli corvini che lo teneva sulle ginocchia e gli cantava la ninnananna; i lettini gemelli e i continui calci di Alfred sotto le coperte. 
 
Un giorno la mamma era caduta a terra e non si era più alzata. 
 
Allora per qualche settimana casa era stato l'orfanotrofio con le camerate da trenta bambini, finché una delle signorine non aveva chiamato lui e Alfred una mattina, li aveva condotti al porto e caricati su una nave senza troppe spiegazioni. Li aveva consegnati entrambi a un giovanotto le cui folte sopracciglia lo facevano sembrare perennemente corrucciato. Alfred ne aveva riso. Matthew si era nascosto dietro la signorina. 
Casa era diventata un cottage troppo grande nella campagna inglese, un posto con tanto spazio per correre ma non un solo bambino con cui giocare. Pioveva sempre, un'acquerugiola leggera e fredda  che entrava nelle ossa.  C’era troppo silenzio.  
Matthew stringeva il proprio orsetto di pezza e pregava la mamma di venirli a prendere presto, anche se gli avevano detto che la mamma non sarebbe più tornata. Alfred pestava i piedi, faceva i capricci e lo prendeva in giro, ma Matthew sapeva che di notte piangeva anche lui.  
 
Alfred aveva insistito tanto per tornare in America che l'aveva avuta vinta. Era bravo a ottenere quello che voleva.
 
Allora casa era diventata l'appartamento fatiscente in New Jersey, le fiabe di zio Arthur, che sotto sotto non era poi così terribile, le tazzone di tè al latte e miele prima di andare a dormire e il cibo sempre un po' bruciacchiato, ma che divoravano senza battere ciglio perché sarebbe potuto andare molto peggio. Qualche volta, quando la crisi aveva iniziato a farsi un po’ meno pesante, se si comportavano bene a colazione c’erano le frittelle con giusto un cucchiaio di sciroppo. Tutto sommato Matthew aveva avuto un’infanzia felice.
 
Non si poteva dire lo stesso dell’adolescenza.
 
Casa era stata riempita dalle urla da spaccare i timpani e dal fracasso delle porte sbattute a notte fonda; zio Arthur che singhiozzava in cucina, la puzza di gin, le macchie di inchiostro sul tavolo e la pila di lettere
Matthew ricordava gli sguardi di disappunto a ogni missiva che tornava sigillata, quasi che fosse lui quello da biasimare per il comportamento del fratello. 
Si era stancato presto del fare la spola tra i due litiganti, che pretendevano ciascuno il suo più totale appoggio. Uno avrebbe anche potuto essere un poco più permissivo, rendersi conto che, per quanto si ostinasse a negare la realtà, non erano più bambini; l’altro avrebbe dovuto limare quel suo desiderio di libertà che a volte sfociava nell’egoismo. Peccato fossero entrambi troppo cocciuti per la loro stessa sopravvivenza. 
 
 
La scelta di andarsene a sua volta era scoppiata dopo mesi di silenziosa maturazione, per quanto a un occhio esterno sarebbe potuto sembrare un’improvvisata. A ripensarci, la spinta finale era stata l’accorgersi, in un attimo di improvvisa chiarezza, che sarebbe sempre vissuto all'ombra del fratello, un'ombra che l'assenza aveva se possibile reso ancora più grande. 
Ai tempi della mamma aveva ricevuto tutte le attenzioni che desiderava, ma sapeva bene chi era sempre stato il preferito di zio Arthur. Nei momenti di lucidità lo riempiva di complimenti, perché era quello calmo, obbediente e beneducato e meno male che c’era. Il più delle volte, invece, si limitava a scambiarlo per il fratello, in una patetica alternanza di affetto esagerato e odio improvviso.
Un pomeriggio aveva scritto le sue ragioni, buttato in valigia quel poco che serviva per sopravvivere i primi giorni ed era uscito dalla porta senza l’intenzione di tornare. L’orsetto di pezza in valigia aveva cementato la sua decisione: Matthew lo portava ovunque andasse. 
 
Nei mesi successivi si era scoperto a mantenere rapporti tutto sommato amichevoli con lo zio e le occasioni di visita non erano mancate. Sulla scelta di tornare, tuttavia, era rimasto irremovibile.
 
Per sei mesi casa era stata una stanza così piccola da non avere nemmeno lo spazio per un vero letto, con l’umidità che filtrava dalle pareti e gocciolava sulla testa. La muffa aveva impregnato ogni cosa, orsetto di pezza compreso.
 
Alfred gli aveva scritto di andare a stare da lui, affermando con sicurezza che, a muovere qualche filo, un letto allo studentato lo avrebbero trovato. La risposta di Matthew era stata cortese ma negativa. Accettare l’offerta avrebbe significato solo tornare a essere il secondo, l’altro, il fratello di e non aveva abbandonato una situazione per ritrovarsi in un’altra gemella. Anche lui sapeva come cavarsela. Aveva sentito che a una delle squadre locali di hockey mancava un giocatore. Era bravo a giocare a hockey e passare le selezioni fu solo una formalità.
 
Era giorno di allenamenti, in campo già di mattina presto per giri di pista di riscaldamento, quando la radio iniziò a trasmettere le prime notizie di Pearl Harbour. 
Quando era stato il momento, tutta la squadra si era riunita per ascoltare il discorso di Roosevelt. Si erano guardati ed era stato chiaro che nessuno di loro avrebbe rifiutato l’appello. Matthew aveva avuto qualche dubbio in più. Fuori dal campo da hockey la violenza fisica tendeva a essergli estranea, fatta eccezione per qualche rara volta che portato al limite era finito ad azzuffarsi con Alfred sul pavimento della cucina.
 
Lui si era arruolato, alla fine, ai primi di gennaio. Matthew aveva letto la breve lettera senza esserne troppo sorpreso. Quindi si era recato al campo da hockey dove ormai erano rimasti solo lui e un giovane che era stato rifiutato al servizio per un difetto al cuore. L’allenatore gli aveva detto senza troppi giri di parole che non ci sarebbe stato bisogno di tornare anche le volte successive. Tanto non c’era più una squadra da allenare. 
 
Era stata la telefonata di zio Arthur a dargli l’ultima spinta. Tuttavia, non avrebbe saputo dire  se fosse stata l’ennesima richiesta di far ragionare il fratello o il sentire, nonostante tutto, che nella voce dello zio rimaneva quella punta di orgoglio che aveva sempre quando parlava di Alfred. 
 
E Matthew sarebbe stato l’eterno secondo. Era andato ad arruolarsi la settimana successiva, il tempo di chiudere un paio di faccende. Del resto, alla fine si erano arruolati tutti.
In fondo ai bagagli aveva infilato l’orsetto di pezza. 
 
 
Matthew si svegliò al suono di una voce straniera ma dalle sonorità ormai divenute familiari, sebbene non bene accolte, che lo chiamava. 
Pareva un po’ la voce di zio Arthur quando c’era da andare a fare le commissioni il sabato mattina e lui non si decideva a rotolare fuori dalle coperte, sebbene le due voci in realtà non avessero niente a che spartire. Doveva essere colpa dello stato sospeso tra la realtà e il sogno in cui ancora si trovava. Quindi la voce si fece più pressante e a Matthew ricordò lo sbraitare del sergente che aveva preso in addestramento il suo gruppo durante i primi giorni da recluta, lo stesso a cui il ragazzo aveva quasi fatto venire un paio di infarti perché compariva dal nulla, testuali parole. 
 
Per qualche secondo considerò seriamente la possibilità di essere morto e che si trattasse della voce di chi accoglieva le anime nell’aldilà. Magari a tapparsi le orecchie e a fingere di non sentire, alla fine si sarebbero stancati e lo avrebbero rimandato indietro. Le mani però erano troppo pesanti e l’idea di alzarle per premerle contro le orecchie gli sembrò uno sforzo impossibile. Infine l’addestramento ebbe la meglio. 
 
Si costrinse a schiudere l’occhio buono, sbattendo la palpebre fino a mettere a fuoco. Schizzò a sedere, nonostante le proteste altrui di stare giù. 
 
Non era possibile. Non poteva essere vivo. Lo aveva ucciso. Gli aveva ficcato un coltello in gola e lo aveva ucciso. Forse le leggende che circolavano erano vere. Forse come diceva qualcuno i giapponesi erano davvero dei demoni; oppure, lui faceva schifo a uccidere. Il bendaggio di fortuna attorno al collo dell'uomo lo confermava. Fantastico, altro che medaglia.  Le mani corsero al fucile più per abitudine che per necessità e il non trovarlo fu sufficiente per spingerlo a mettersi in piedi sulle gambe malferme. Il Giapponese lo imitò, accennando un passo in avanti. Matthew reagì con un altro indietro, inciampò in una radice e cadde. Lo straniero si fermò a sua volta e si mise seduto, con un viso che esprimeva più preoccupazione che odio. 
 
Matthew lo studiò dalla distanza di sicurezza che aveva stabilito, il corpo pronto a scattare e la mente in piena confusione. 
Da quel giorno d’infamia, il soldato davanti a lui e tutti i suoi simili erano stati nemici, solo nemici e nient’altro. Eppure non aveva ancora dato segno di volerlo attaccare in alcun modo; anzi, fino a prova contraria doveva averlo accudito fino alla sua ripresa. Uno sforzo inutile, se lo avesse voluto morto. Non che Matthew si facesse illusioni. Probabilmente si progettava di condurlo al primo campo base nipponico per tirargli fuori tutte le informazioni possibili a suon di torture. Strano allora che non lo stesse già trascinando verso uno dei loro campi.
In tutto quello, il Giapponese si ostinava a stare immobile nella sua attesa, i capelli e gli occhi scuri sotto gli strati di fango, tanto solo quanto lo era lui. Soprattutto, non lo aveva ucciso. 
La prima crepa di dubbio incrinò le certezze di Matthew. Se anche il Giapponese lo avesse voluto costringere a essere una guida fino alla base americana più vicina, non sarebbe vissuto abbastanza a lungo per raccontarlo.
 
La base, già, doveva tornare alla base. Scuotendo appena la testa, si preoccupò di cercare il proprio zaino. Dopo un rapido esame, notò che era rimasto appoggiato a un tronco d’albero poco distante. Senza smettere di tenere il Giapponese sotto controllo, si mosse con la difficoltà di chi è rimasto fermo per troppo tempo. Lo zaino era più leggero di quanto si ricordasse e per un attimo Matthew valutò la possibilità di controllare quanto mancasse del contenuto. La scartò per fretta. 
 
Giusto il tempo di un paio di passi, il viso fu di nuovo in fiamme. Un capogiro lo costrinse a terra, le mani che correvano a tastare zigomi e guance nell’ingenua convinzione che il gesto potesse essere di un qualche aiuto. Sentì dei passii nel rumore del fogliame umido che faceva da tappeto al terreno.
Di nuovo quel tono preoccupato quando non sarebbe dovuto esserlo. Di nuovo quella voce troppo cortese e gentile per il contesto. 
 
Un tempo Matthew era stato così, educato e silenzioso, incapace di articolare una singola protesta, con l’hockey e il ghiaccio come uniche valvole di sfogo. I mesi di addestramento si erano impegnati a spremere ogni goccia di compassione fuori dal suo corpo. Gli altri non avrebbero avuto alcuna compassione. Con la compassione non sarebbe tornato a casa vivo. 
 
Se non fosse stato per la compassione, sarebbe già stato cibo per i vermi. 
 
Zio Arthur avrebbe fatto la sua faccia seria, ricordandogli che ogni cortesia andava ripagata con i dovuti ringraziamenti. Trovarsi nel bel mezzo in un’isola infernale persa nel Pacifico non era una scusa valida per dimenticarsi le buone maniere. Prima di tutto, occorreva presentarsi. 
Indicò se stesso. Matthew. Matthew Jones, disse. Del resto era solo un nome. Uno come tanti. Matthew. L’altro fece lo stesso. Honda. Honda Kiku. Ora il nemico aveva un nome. Era difficile uccidere le persone quando avevano un volto e un nome. Gli girava la testa.
 
La sua gentilezza lo avrebbe ucciso. Si portò una mano alla fronte, la trovò bollente, l’oscurità lo avvolse. 
 
 
Per tutto il tempo della malattia, Matthew lottò oltre che per la vita, tra due certezze. La prima: Honda Kiku era un soldato giapponese e come tale il nemico contro era stato preparato. La seconda: se non fosse stato per lui, Matthew sarebbe già andato al Creatore. 
 
Per il terzo giorno la febbre era scesa sotto il livello di guardia, entro il quinto Matthew poté considerarsi fuori pericolo e ormai gli ultimi residui di dubbi circa le intenzioni di Kiku erano state fugati. 
Quando il giapponese crollò a sua volta per la fatica, Matthew ricambiò il favore. Ormai quando andava a dormire il fucile che teneva ancora a portata di mano era per difendere entrambi, non più solo se stesso casomai Kiku avesse voluto approfittare di un momento di debolezza. Nel chiudere gli occhi, cercava di venire a patti tra quello che gli diceva l’istinto e gli anni di indottrinamento. Tentava di non pensare al dopo, a quando si sarebbero trovati di nuovo ciascuno dall’altra parte della propria barricata. 
 
Quando si svegliò, rinvigorito nonostante tutto, doveva essere passata da poco l’alba e Kiku stava dividendo una galletta in due metà perfettamente uguali con una precisione che Matthew non vedeva da tempo. Gliene porse una parte con giusto un accenno di sorriso. Poi disse qualcosa che Matthew immaginò voler dire buon appetito. Nello sbocconcellare i bordi della cracker con lentezza esasperante perché il pasto durasse si ricordò di un vecchissimo episodio.
 
Era stato tantissimi anni prima, quando lui e Alfred avevano ancora l’età per farsi prendere in braccio o stringersi tutti sulla stessa poltrona ad ascoltare la radio. 
Zio Arthur li aveva guardati, con la fronte aggrottata di uno dei momenti di malinconia che ogni tanto lo coglievano, ma invece di rimproverali, li aveva abbracciati stretti dicendo che erano una delle poche cose belle in questo mondo. All’epoca sorrideva ancora. A ben pensare, ce n’erano di cose belle a cui aggrapparsi. Anche se si trattava di non avere più la febbre e potersi riempire lo stomaco con una galletta un po’ umidiccia. C’era il silenzio benedetto di una giungla che proteggeva e attutiva dal fracasso della guerra e melodie sconosciute canticchiate a mezza bocca. 
 
Kiku stava disegnando nel fango le linee di qualche ideogramma. Matthew si sporse per guardare meglio. Indicò e fece una faccia dubbiosa. Bastava per capirsi. Kiku continuò a disegnare, ma questa volta furono immagini e per ciascuna ci si poteva scambiare la traduzione.
 
Magari sarebbero potuti restare lì per sempre, novelli Robinson Crusoe, come nei romanzi di avventura che zio Arthur era solito leggergli quando era diventato troppo grande per le fiabe. Nascondersi nel folto della giungla dove la guerra non era ancora arrivata e aspettare. Aspettare la pace, o anche solo una tregua, o forse la fine del mondo. Passare il tempo a raccontarsi le rispettive vite tra disegni sulla terra e gesti dove le parole non arrivavano; a ridere suo malgrado quando riusciva finalmente a cogliere una battuta o a sorprendersi nello scoprire che Honda era molto più vecchio di quanto desse a vedere. A fare un paio di calcoli sarebbe potuto essere suo padre. 
 
Fu proprio Honda a riportare Matthew alla realtà. Alla fine, Matthew aveva dovuto ammettere il proprio accordo. Erano pur sempre in guerra, senza spazio per sciocche fantasie. Per il momento, però, ci si poteva scambiare gallette e vocaboli in una tregua che aveva il sapore dell’irreale. 
 
Domani sarebbero stati di nuovo ciascuno nel proprio gruppo, con una fedeltà che andava oltre qualsiasi rapporto di stima o persino amicizia si fosse potuto creare. Allo stesso tempo, non poteva tornare a considerarlo come un semplice nemico senza volto. Si accorse di non sapere quasi nulla dell’altro, forte di una riservatezza in confronto alla quale la timidezza di Matthew impallidiva. Strinse alla memoria il nome e si disse che avrebbe cercato di più a guerra finita.
 
Non avevano stabilito un quando per andare ciascuno per la propria strada, ma il momento arrivò, senza troppi annunci, e nonostante tutto fu meno traumatica del previsto, come svegliarsi da un sogno quando anche l’ultima goccia di sonno se ne è andata. 
Discussero se rimanere insieme per guidarsi a vicenda fino ad avere conferma della sicurezza altrui, ma siccome il vantaggio di uno avrebbe significato la rovina dell’altro, decisero che fosse meglio separarsi lì dov’erano, in territorio neutrale. Matthew non avrebbe saputo dire se si fosse trattato di pietà o orgoglio. 
 
Faccia a faccia, Kiku chinò appena in avanti testa e busto alla maniera giapponese.
Matthew batté i tacchi per abitudine e, anche se non sarebbe stato opportuno, si portò la mano a taglio alla fronte e salutò.
 
 
Matthew percorse un sentiero tracciato da lui stesso senza smettere di voltarsi indietro, incapace di dire se per paura o speranza. Honda, tuttavia, sembrava aver mantenuto la propria parola. Più avanzava e più i rumori dello scontro, che il cuore della giungla aveva attutito, si facevano pressanti. Li seguì fino alle prime facce alleate. Quindi la guerra lo inglobò immediatamente nel suo meccanismo e rimandò il tempo delle spiegazioni. 
 
Ci sarebbero state, più avanti, tra battute e pacche sulle spalle. Non ci volle molto prima che qualcuno lo soprannominasse zombie, ritornato com'era dal mondo dei morti. Jungle Ghost. Lucky Boy. Burnt Face. I nomignoli si sprecavano. Sulle coste francesi, la pronuncia locale avrebbe storpiato il suo nome. A Parigi uno zio Arthur tremendamente invecchiato lo avrebbe stretto per cinque minuti buoni, in barba a ogni protocollo militare.
 
In seguito, a guerra ormai finita, avrebbe dovuto imparare a convivere con il brusco passaggio al non avere più un gemello fino alla decisione di prendere il cognome della madre per tagliare definitivamente ogni legame. A Montreal, Matthew Williams, veterano di guerra con due medaglie a suo nome e capitano di una delle squadre di hockey più forti del campionato, non aveva fratelli.
 
Per il momento c’erano le domande, riversate addosso in un unico flusso. Annuì con distrazione, forzando l'angolo buono della bocca nel solito debole e stanco sorriso di circostanza., mentre ascoltava il rumore delle onde contro lo scafo e il vociare dei compagni. 
Li stavano trasferendo altrove. Potevano aver vinto quella battaglia, ma era ancora solo una tappa nel grande schema degli eventi. Sotto di loro il mare si agitava irrequieto. Matthew aggiustò i nuovi occhiali sul naso. L’occhio destro non sarebbe più stato lo stesso. Si passò una mano tra i capelli corti, sorpreso nel trovarli puliti dopo giorni trascorsi nella sporcizia. 
Gli chiesero come avesse fatto a salvarsi.
“Un amico” rispose.

Note

Sto pulendo il pc. Avrei dovuto scrivere questa anni fa ma poi c'erano altri progetti e l'inaccuratezza storica mi bloccava. Comunque, spin-off di "Dietro il dolore".
Enjoy
   
 
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