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Autore: EmsEms    27/07/2020    0 recensioni
Quando l’agente lo aveva chiamato quella mattina, spiegandogli che un giornalista del Ring voleva intervistarlo, Tsukishima aveva subito opposto resistenza. Si era fatto abbastanza docce di flash durante il processo, non ci teneva a vedere il suo brutto muso di nuovo in prima pagina. Il problema era che i soldi cominciavano a scarseggiare, tanto che Tsukishima non poteva più permettersi di disdegnare un’intervista con uno dei più celebri magazine di pugilato.
[TsuruTsuki] [Boxer AU]
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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“Ecco qua, caffè macchiato con due cucchiaini di zucchero per il signore.”

“Gentilissima.”

“Posso portarle qualcos’altro? Un biscottino? Hajime ci prende sempre un biscotto col caffè.”

“A posto così, non si preoccupi.”

“Va bene, allora se avete bisogno io sono di là in cucina. In bagno ho cambiato gli asciugamani, ho messo quelli rossi per il signore. Se c’è da rifare il letto-”

“Nonna, è un giornalista, non si ferma a dormire,” sospirò Tsukishima in italiano.

 

Tsurumi Tokushirou, reporter di una rinomata rivista sportiva, osservò la stella del pugilato scortare l’amabile vecchietta in cucina e chiudere dolcemente la porta.

“Scusi, mia nonna si agita un po’ quando ci sono ospiti,” mormorò timidamente il campione di pesi medi, sedendosi su una poltrona rivestita da un telo di plastica trasparente. 

Tsurumi si guardò intorno mentre beveva il suo caffè macchiato. Erano seduti in un piccolo salottino all’occidentale con una serie di vedute di Venezia appese al muro nei punti in cui la carta da parati si stava sbucciando. Le mensole erano cariche di piattini raffiguranti scene bucoliche del settecento europeo e, qua e là, s’affacciava l’occasionale paperina di ceramica col cappello di paglia. Tsurumi posò il caffè sul tavolino davanti a sé ed estrasse penna e carta dalla ventiquattrore. 

“Le dispiace se registro?” chiese, impostando il registratore vocale sul cellulare. 

“Faccia pure,” borbottò Tsukishima, grattandosi la nuca per l’imbarazzo.

Tsurumi fece per premere play, ma il dito gli rimase sospeso sul tasto. La differenza fra l’uomo che aveva visto anni addietro sul ring e quello seduto davanti a lui era così abissale, da fargli dubitare di essersi recato all’indirizzo giusto. Il posto, però, non poteva che essere quello: i tassisti di Tokyo non sbagliano mai. Eppure non riusciva a trovare il collegamento fra uno dei boxeur più micidiali della scena del pugilato e il trentenne impacciato che tentava invano di farsi piccolo nella poltrona a motivo floreale di sua nonna. 

“Posso chiederle una cosa prima di iniziare l’intervista?”

“Dica.”

“Lei vive qui?”

“Sì. Mia nonna non è autonoma, ha bisogno di qualcuno che la aiuti.”

“Capisco.”

“Dopo mio padre... Beh, la storia la sa, no? Ne avete scritte di tutti i colori, sui giornali.”

“Mi dispiace. Le faccio le mie condoglianze.”

“Fa nulla,” rispose Tsukishima. “Il mio unico rimpianto è di non averglielo dato io il colpo di grazia.”

 

Tsurumi non si occupava di gossip, il suo giornale non era un tabloid, ma la notizia aveva sollevato un polverone tale da arrivare in ogni angolo del Giappone. Tsukishima aveva massacrato di botte il padre alcolizzato dopo anni di abusi a danni di tutta la famiglia, in particolare della moglie e della suocera. L’uomo era stato ricoverato d’urgenza all’ospedale, ma non ce l’aveva fatta. Cedimento del fegato. L’autopsia aveva puntato il dito contro l’alcol, così Tsukishima se l’era cavata con una condanna breve ed era stato rilasciato prima per buona condotta. Una volta fuori era tornato quasi subito sul ring, ma il suo nome era già scomparso da tutte le gazzette sportive. Ormai tutti i professionisti storcevano il naso al solo nominarlo e i giornalisti avevano trovato nuova carne su cui ronzare. Perfino Tsurumi, pioniere del giornalismo sportivo, si era dimenticato del suo puncher prediletto, un uomo su cui aveva scritto pagine e pagine di commenti adoranti. 

 

Il giornalista smise di guardarsi intorno e spostò lo sguardo sul pugile. Era un uomo dai lineamenti decisi, tracciati con lo scalpello. Portava una felpa che vestiva larga, i pantaloncini al ginocchio e un paio di scarpe da boxe alte, con le stringhe allacciate fino in cima. Tsurumi aveva assistito ai suoi incontri in prima fila e sapeva bene che sotto a quella mise casual si nascondevano muscoli di discrete dimensioni, se ci è concesso l’eufemismo.

 

“E’ Venezia?” chiese Tsurumi, cercando di strappare un sorriso all’interlocutore. Gli piaceva mettere a proprio agio i suoi intervistati, ma Tsukishima Hajime, espressione torva dipinta in volto, sembrava concentrato a diventare tutt’uno con la poltrona. Il modo in cui eludeva ogni suo sguardo, poi, era un chiaro indice che desiderava trovarsi dappertutto fuorché lì.  

“Sì.”

“Ci sono stato in vacanza. L’ho trovata stupenda. So che anche lei ha soggiornato all’estero.”

Nessuna reazione. Tsurumi inspirò a fondo e fece scattare la penna. I secondi sul registratore vocale cominciarono a scorrere. 

 

* * *

 

Quando l’agente lo aveva chiamato quella mattina, spiegandogli che un giornalista del Ring voleva intervistarlo, Tsukishima aveva subito opposto resistenza. Si era fatto abbastanza docce di flash durante il processo, non ci teneva a vedere il suo brutto muso di nuovo in prima pagina. Il problema era che i soldi cominciavano a scarseggiare, tanto che Tsukishima non poteva più permettersi di disdegnare un’intervista con uno dei più celebri magazine di pugilato. Così aveva accettato di ricevere il giornalista lì a casa sua, giusto per non far venire un esaurimento nervoso al suo agente. Per come stavano le cose, era già difficile partecipare agli incontri, figuriamoci procacciarsi interviste che non ruotassero intorno al tentato parricidio. Era rimasto perplesso quando l’agente gli aveva menzionato nientemeno che Tsurumi Tokushirou, un giornalista d’alto calibro. Cosa poteva mai volere da un astro tramontato come lui? La sua carriera era già un ricordo, una vecchia figurina incollata all’armadio che non si ha né tempo né voglia di grattare via. Perché mai un giornalista così richiesto si era ritrovato a scrivere un articolo che gli avrebbe occupato all’incirca una colonna?

 

“Scusi la domanda schietta, ma lei cosa ci è venuto a fare qui?” domandò Tsukishima, rigirandosi il filtro della sigaretta fra indice e pollice.

L’intervista era ormai terminata da qualche minuto e Tsurumi stava riponendo i fogli in una cartellina. Alzò lo sguardo, un sopracciglio arricciato, l’altro indeciso sul da farsi.  

“Con tutto il rispetto, ma non sono scemo. Non c’è nessun articolo, vero? Non per il Ring, almeno.”

Il gancio della ventiquattrore si chiuse con uno schiocco metallico. Tsurumi fece un cenno verso il pacchetto di sigarette. Tsukishima gliene offrì una. 

“No, non c’è,” ammise il giornalista, con un sorriso amaro sulle labbra. 

Tsukishima incrociò i palmi dietro la nuca e si piegò in avanti in modo da toccare le ginocchia coi gomiti. Non gli dispiaceva molto che l’avessero fregato, solo che quei soldi gli avrebbero fatto comodo. 

“A chi pensava di venderla? Un giornale scandalistico?”

“A nessuno.”

Di male in peggio.  

“Sto scrivendo un libro,” spiegò Tsurumi, accendendosi la sigaretta.

“Scusi, ma perché non l’ha detto subito. Non c’era bisogno di tutti questi sotterfugi.”

“Avrebbe accettato di vedermi se le avessi detto che stavo scrivendo un libro su di lei?” 

Tsukishima ci pensò un attimo. Non aveva tutti i torti… L’ultima cosa che voleva era un resoconto su carta di quell’autentico disastro che era la sua vita. 

“Un libro? Su di me?”

“Beh, che male c’è? D’altronde, mi sono innamorato.”

Tsukishima non aveva mai visto uno stalker così da vicino. I pugili tendono ad avere fan più discreti, del genere che si limita a spedire lettere straripanti d’amore a debita distanza. Anche gli ammiratori più sfegatati non se la sentono di assediare la residenza di uno che per professione gonfia di botte il prossimo. E poi, era di Tsurumi Tokushirou che stavamo parlando. Doveva essere uno scherzo. 

“Temo che le serva il mio consenso, sa? Questioni di privacy.”

“Acconsente al trattamento di dati sens-”

“No.”

Tsurumi si grattò il mento col mignolo, sovrappensiero. Spense la sigaretta appena iniziata nel posacenere ed estrasse una custodia di plastica rigida dalla ventiquattrore. 

“Le dispiace se uso il bagno?” 

Tsukishima scosse la testa. Una volta solo nella stanza, sbirciò l’involucro di plastica posato sul tavolino da caffè. Era una normalissima custodia per occhiali, priva di logo. Non c’era motivo di pensare che all’interno ci fosse qualcosa di diverso da un paio di lenti su una montatura qualsiasi, eppure era stata piazzata lì con una tale teatralità, che Tsukishima si sentiva in diritto d’intenderlo come un sinistro presagio. 

 

Tsurumi tornò dal bagno dopo un lasso di tempo che non giustificava nessuna delle classiche attività ivi svolte. Tsukishima cominciava a sospettare che volesse soffiarsi qualcosa, ma in casa non c’era nulla che valesse la pena rubare, a parte qualche dozzina di statuine che avrebbero fatto gola solo ad un collezionista di ninnoli di rara orrendezza. 

Quando il giornalista si sedette sulla poltrona dirimpetto, però, gli fu tutto più chiaro. 

“Ho preso in prestito la schiuma da barba. Per il rasoio, ne avevo uno e getta io,” lo rassicurò subito Tsurumi, battendosi il taschino della giacca col palmo e strizzandogli l’occhio. Tsukishima deliberò che fosse quello il momento giusto per chiamare la polizia: un giornalista con qualche rotella fuori posto gli aveva estrapolato informazioni con la scusa di un’intervista ufficiale e come se non bastasse si era fatto baffi e pizzetto nel suo bagno. “Forse bastavano gli occhiali, ma non volevo correre il rischio. D’altra parte, sono passati dieci anni,” sospirò Tsurumi, indossando l’oggetto incriminato.

Il giornalista fece sfoggio di una pazienza certosina e aspettò che Tsukishima, pietrificato sul posto, articolasse mezza parola. Una volta constatato che il pugile era ammutolito per lo sbalordimento e di conseguenza non avrebbe dato voce ai suoi pensieri, decise di venirgli incontro.   

“Tsurumi Tokushirou è una specie di nome d’arte. Quella volta le diedi il nome vero.”

“Hasegawa,” sussultò Tsukishima. 

“Ah, quindi si ricorda…”

A Tsukishima cadde la sigaretta dalle labbra. Si affrettò subito a raccoglierla e rimase lì, inginocchiato sul tappeto e intento a sfregare via la bruciatura mentre il suo cuore correva all’impazzata giù per una strada di ricordi molto… privati.  

 

Come dimenticare Hasegawa? Lo aveva incontrato in Russia durante il suo primo campionato. Tsukishima non era mai uscito dal Giappone e non parlava una parola di inglese, figuriamoci il russo. Così aveva passato i primi tre giorni senza mettere il naso fuori dall’hotel se non per andare in palestra, finché il suo allenatore non gli aveva presentato un suo compatriota, Hasegawa. Rammentava ancora il momento in cui gli aveva rivolto parola per la prima volta. Lui era seduto sulle poltroncine della hall, con le gambe accavallate e gli occhiali in cima al naso. Se ne stava lì, a pulire la lente di una macchina fotografica istantanea. Tsukishima si era presentato e Hasegawa, invece di stringergli la mano o accennare un inchino, gli aveva scattato una fotografia. Aveva atteso in silenzio che sviluppasse la polaroid, e una volta pronta gliel’aveva allungata, con la data e il suo numero di cellulare scritto in penna. Tsukishima aveva pensato che fosse un tipo stravagante, ma questo non gli aveva impedito di nutrire una curiosità quasi morbosa per l’eccentrico giapponese che usava una macchina fotografica estremamente datata per quell’epoca. Con sua grande sorpresa, il suo allenatore lo aveva assoldato per scattargli delle foto durante i match e presto Tsukishima si era trovato a passare più tempo in compagnia di Hasegawa di quanto avesse inizialmente previsto. Ogni volta che finiva il rullino di un’analogica, il fotografo, in preda all’entusiasmo, lo invitava a dare un’occhiata alle foto appena sviluppate. Tsukishima passava intere serate nell’appartamento affittato da Hasegawa e dalla sua amica, nonché collega, Fina.

 

Insieme alle fotografie più classiche, ce n’erano di sporche, con interi fasci di luce che si sovrapponevano per creare un effetto di dinamismo a cui gli occhi di Tsukishima non erano avvezzi. In poche parole, anche se non ci capiva nulla, quei grovigli d’ombra e luce avevano su di lui un impatto talmente forte, da dargli qualche preoccupazione. Si sentiva uno stupido a pensarlo, ma era come se sulla pellicola rimanesse impresso l’attimo esatto che segnava la vittoria o la sconfitta dei giocatori. A volte, guardando una fotografia, provava la stessa brutale emozione che lo coglieva sul ring quando l’avversario era a terra, inerme, coi lividi freschi e il paradenti fatto a pezzi dal morso dei denti. Attimi di pura brutalità che si avvicinavano pericolosamente alla morte.

 

Era dunque ironico che, della sera del fattaccio, Tsukishima ricordasse ben poco. Ricordava di essere arrivato a casa di Hasegawa con l’occhio pesto e il corpo tutta una contusione. Ricordava di averlo trovato solo. Fina era uscita per fare un servizio fotografico a dio sa cosa. Hasegawa si era proposto di accompagnarlo al pronto soccorso, ma Tsukishima era così abituato a quel genere di dolore, che l’idea lo fece sorridere. Mentre Hasegawa gli spalmava la crema sui lividi, Hajime gli raccontò cosa era successo. Gli amici di uno dei suoi avversari non avevano preso bene la vittoria di Hajime, così lo avevano aspettato fuori e la cosa era sfuggita di mano. Uno contro otto, per di più muniti di spranghe, non era stato esattamente fair play. Al momento la polizia stava indagando, ma Tsukishima era scappato dall’hotel. Il giorno dopo sarebbero partiti, e non voleva andarsene prima di aver salutato il suo fotografo. Hasegawa voleva fargli vedere l’ultimo rullino. Era ancora nella camera oscura. Tsukishima era rimasto sorpreso da quante cose potessero nascere in un luogo buio e umido. Muffe, fotografie… baci... 

 

Tsukishima aveva così tante domande che gli frullavano per la testa, che non sapeva nemmeno da dove cominciare. Perché Hasegawa non gli aveva più scritto da quando era tornato in Giappone? Perché non lo aveva più cercato? Perché aveva aspettato dieci anni per ricomparire nella sua vita? Che ne era stato dell’appartamento in Russia? Ci pensò sua nonna a trarlo d’impaccio.

“Si è fatto tardi, vuole rimanere a cena?”

Tsurumi tolse gli occhiali e li pulì a un lembo della camicia. 

“Molto volentieri.”

L’anziana signora passò all’attacco illustrando tutto il menù, antipasti e dolce compresi, mentre Tsukishima, caduto in trance, cercava di dare un senso a quell’improvvisa rivelazione. 

“Se l’invito è ancora valido, mi fermerei per la notte. Penso che Hajime abbia delle domande da farmi.”

 
  
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