II
♦ … L’Anima Mia Perché Non Si
Smarrisse
Richmond,
Virginia.
Villa degli Allan.
Quella casa era
sempre
uguale: vuota, solitaria e in qualche modo lontana dal resto della
realtà, come
congelata nel momento in cui le aveva dato le spalle per unirsi alla
Gilda. Da
una parte, non poteva che ringraziare la sua immobilità
— gli regalava un
accenno di menzogna, e se avesse potuto lui se la
sarebbe presa intera;
dall’altra, ogni istante che passava lo rendeva consapevole
del perché tra
quelle pareti si fosse sempre sentito un estraneo, un irrisolvibile
mistero con
un cuore che chiedeva affetto.
Il fatto che gli Allan
non lo avessero mai visto e trattato come un altro figlio —
solamente più
sfortunato e ombroso —, le continue discussioni con i
fratelli adottivi e il
silenzio raramente spezzato erano mere conseguenze della colpa che
era la
sua vera eredità, il marchio impresso con le proprie azioni.
Ma la villa aveva avuto anche
malinconia di lui, o non lo avrebbe riaccolto: invece ogni pietra che
la
componeva aveva cercato lo sguardo del giovane per poi riaprirgli le
braccia,
mentre John Allan, dal piano superiore della medesima struttura, non
aveva
fatto altro che osservarlo avanzare sul viale d’accesso,
troppo distante per guardarlo
davvero. Nei due giorni che aveva già passato
lì non era comparso davanti a
lui nemmeno per sbaglio; Poe era re e fantasma in un regno di penombra
e
assenza, dove niente che fosse esterno alla villa resisteva per molto.
Il muoversi irrequieto di
Karl e il suo saltare in braccio all’amico per osservarne il
volto o fargli il
solletico erano l’unico mutamento che coinvolgeva
l’ambiente, una pallida
rimanenza dei giorni di sole durati troppo a lungo per non far male.
Ma era quello il suo
posto: la solitudine, la lontananza,
l’impossibilità di uscire dal labirinto di
pensieri e perdonarsi. Per tanto, tantissimo tempo l’oblio di
quanto aveva
fatto lo aveva allontanato dalla responsabilità, ma alla
fine la verità era
ritornata a galla; e non rimanevano che pochi istanti da passare nella
casa
dov’era cresciuto solo ma protetto, un
ultimo attimo di respiro e una
preparazione al dopo, prima che John lo mettesse
alla porta e il suo futuro
divenisse puro vuoto.
Non avrebbe implorato l’uomo,
ma accettato ogni sua decisione: aveva già avuto molto senza
averne diritto,
non era così che vivevano i mostri.
Che cosa poteva
aspettarsi? Aveva compiuto un crimine e questi non era ancora stato
espiato,
non poteva pretendere di dimenticare di nuovo: la sua ombra gridava, lei
che
riposava sotto la fredda terra faceva lo stesso, e dopo aver
corso a lungo
era arrivato il momento di raggiungere la meta finale, lasciando andare
tutto
il resto.
Solamente una domanda attendeva
risposta: dove lei fosse sepolta per
causa sua, dove si trovasse
quella che sarebbe divenuta l’ultima casa.
Dopo di questo, ciò che
la vita e la morte avrebbero deciso.
«Perdonami, Karl: a John
sei sempre piaciuto, quindi di certo acconsentirà a tenerti
con sé. Non puoi
venire con me, non lo posso permettere… ma tu te la
caverai.»
In risposta, il procione
gli morse un dito e saltò a terra; poi gli si
riavvicinò e si appoggiò contro
il fianco, guardandolo come se gli rimproverasse ogni parola.
Donandogli un triste
sorriso, Edgar prese in braccio il caro amico e affondò il
viso nel suo pelo, per
poi rannicchiarsi sul pavimento dell’andito e chiudere gli
occhi. Presto le
stelle sarebbero giunte a fargli da coperta e compagnia, e dopo qualche
settimana la luna sarebbe cresciuta nuovamente; forse sarebbe riuscito
a
vederla, con niente sopra di sé se non il cielo, e a
salutare anche lei.
Un
addio, già… molti non
li hai neppure detti. Continua a non pensare a chi hai lasciato
indietro, non
cedere: ormai non ha più senso.
Era
tutto come sei anni
prima, quando a causa di un fallimento il mondo era crollato e poi
risorto su nuove
basi; ma a differenza di allora, non sarebbe giunta quella forza che
gli aveva
consentito di superare il buio — a differenza di allora, si
era ritirato dalla
realtà per proteggere, non per
proteggersi. Nessuna energia, nessun
spirito di rivalsa: contro chi si doveva battere? Le colpe andavano
accettate e
purificate, non ci si opponeva a esse; si seguivano fino a quando
queste non ne
avrebbero avuto abbastanza.
Era già stato un errore
ritornare alla villa e credere di potervi trovare un estremo alito di
pace: ma
quello sarebbe stato l’ultimo, e poi…
… E poi, finalmente
avrebbe reso giustizia, ristabilendo l’equilibrio che aveva
spezzato anni prima.
In quello stesso attimo,
il placido pomeriggio aveva già disperso molte delle sue
energie, e il vento
che giunse si prese tutte quelle che rimanevano.
Alle orecchie di Poe giunse
il suono di un lieve respiro, come se per un secondo qualcuno gli fosse
stato accanto;
ma niente e nessuno incontrò il suo sguardo grigio[1]
quando sollevò
le palpebre, passando da un fantasma all’altro.
Tutt’intorno
s’inseguivano suoni smorzati, echi e richiami più
frequenti di quelli che aveva
udito nelle ore precedenti; forse John Allan stava venendo a chiarire
le cose,
forse voleva dargli solamente uno sguardo di pena prima di condensare
la loro
disconnessione in poche frasi, forse…
I rumori divennero più
nitidi e si rivelarono passi veloci e leggeri, molto diversi da quelli
dell’uomo;
Edgar alzò appena il capo per capire che cosa stesse
accadendo, e dopo alcuni momenti
la porta d’ingresso venne scossa da un sonoro bussare.
Il ragazzo rimase
immobile, senza rispondere, e dall’esterno provenne una voce
squillante che gli
fece correre un brivido lungo tutta la schiena. «Mi aspettavo
che andasse così…
chiedo permesso ai signori ed entro!»
L’uscio si spalancò
dietro all’eco di tali parole, inondando tutta la villa di
aria fresca.
«… Non pensavo tu fossi
in grado di ridurti così. Cos’è tutto
questo buio? Dico, come fai anche solo a
pensare di respirare, chiuso qua dentro?»
Poe si portò una mano
davanti agli occhi, colpito in pieno dal sole ruggente che aveva
riempito l’andito.
A qualche passo al di qua della soglia, ritto in mezzo alla luce, si
ergeva una
figura smilza che avanzava fino a lui. «Te la stai passando
veramente male, e
per cosa? Prova ad alzarti, avanti, lo so che sei più forte
di così.»
Il giovane si mise in
ginocchio appena prima che una mano gli si avvicinasse per
allontanargli i
capelli dal viso, ritraendosi come scottato quando dita altrui gli
toccarono la
fronte. «Le tue occhiaie sono ancora più scure! Se
non riesci a dormire bene nell’oscurità,
prova a utilizzare una luce artificiale[2]. Con
me funziona!»
Edgar prese un grosso respiro.
Ogni parte del suo corpo tremava, lo percepiva, e non poteva farci
niente. «Ra…
Ranpo-kun», sussurrò agli occhi
che lo osservavano con una nota di disappunto.
«E chi, se no? Almeno mi
hai riconosciuto, anche se faccio fatica a fare lo stesso con
te… Oh, ciao
Karl, stai bene? Lo so, il tuo padrone ha fatto una sciocchezza ed
eccoci qui,
ma un modo per fargliela pagare si trova…»
«Ranpo-kun…»
«Per esempio potremmo
prenderlo per i capelli e trascinarlo per la città fino a
quando non si decide
a camminare con le proprie gambe e ci chiede scusa,
e…»
«Hey.»
«Pensa se gli portiamo
via tutti i suoi preziosi volumi e lo lasciamo gridare un po’
mentre minacciamo
di bruciarli, quindi…»
«Dimmi perché sei qui.»
Edogawa smise di
interessarsi a Karl e si voltò verso l’amico,
guardandolo con gli occhi
sbarrati per la sorpresa. «Mi pare ovvio: sono venuto per
riportarti in
Giappone, a casa. Sei diventato stupido, forse?»
Lo
vorrei; forse le cose
andrebbero meglio. «Ti
ringrazio per lo sforzo e mi dispiace,
ma non tornerò in Giappone. Ora lascia la villa, per favore;
non saresti dovuto
nemmeno entrare.»
«Da quando usi questo
tono verso gli altri? Andiamo nel parco, il sole ti farà
bene.»
«Io non vado da nessuna
parte; sei tu quello che se ne andrà.» La voce di
Poe si faceva più agitata a
mano a mano che i secondi passavano, così come lo sguardo di
Ranpo si
assottigliava e acquistava vivida luce. «Non hai pensato
nemmeno per un istante
che potessi venire da te? Davvero?», disse questi dopo un
pesante silenzio.
Edgar abbassò il capo.
Per qualche attimo ci aveva pensato, lo aveva sperato
e quasi sentito;
ma… ma ormai può bastare. Quel tempo
è finito.
«Sei pallido.»
«Ti prego, vattene.»
Senza rispondere né
ubbidire, Edogawa si avvicinò di più, e a quel
punto Poe balzò in piedi. Karl
gli saltò sulle spalle mentre retrocedeva, gli occhi
stravolti da una paura che
poteva sfociare in pazzia, mentre la testa si popolava di troppi
pensieri e
voci.
Che
cosa vuole fare?
Non sperare più.
Devi pagare.
Devi chiedere scusa.
Mandalo via.
Non puoi permetterti di
cedere.
Non…
«Non
scappare più.»
«Lasciami solo!»
Ranpo avanzò verso di
lui.
«Stammi lontano, Ranpo-kun!»
Nessuno lo ascoltò.
«Ho detto di… di…
LASCIARMI SOLO! TUTTI QUANTI, ANDATEVENE VIA!» Prendendosi la
testa tra le
mani, Poe crollò in ginocchio sul pavimento e chiuse gli
occhi con tale forza
da non essere più sicuro di poterli riaprire. Il mondo
tacque, dalle persone a
ciò che udiva nella mente, e solamente allora gli parve di
poter riprendere a
respirare. Quando ritrovò la forza di sollevare le palpebre,
Ranpo gli era
seduto davanti ma a una distanza tale da permettergli di ascoltare
senza opprimerlo,
in attesa.
Tutto, nel detective, era
silenzio: non era il suo turno per parlare. Gli stava dando la
possibilità di liberare
i tremiti che si erano presi la veglia e il sonno, e anche se niente
sarebbe
cambiato perché il passato non poteva disfarsi come i
desideri avrebbero voluto,
il giovane era venuto per ascoltare — era così, no?
«Mi devi una risposta»,
lo incitò poi Ranpo, «è da ore che
l’attendo. Mi hai lasciato davanti a un
palazzo in fiamme, sei scappato senza nemmeno salutarmi; per quanto sia
arrabbiato, potrei perdonarti… al prezzo di una storia. Ci
siamo solamente noi,
io e te, e ciò che ti tormenta.»
Arrendendosi, Edgar si
sedette a propria volta e sospirò. Con sua sorpresa,
iniziare a raccontare non
fu così difficile. «Lo so che sai già
ogni cosa che dirò, quindi mi chiedo
perché tu voglia ascoltarmi. Conosci il motivo per cui
l’incendio che ci ha
quasi ucciso mi ha spaventato talmente tanto da lasciare Yokohama: ha
risvegliato
una realtà che mi porto dentro da tempo.» Una
breve pausa. «Quando abitavo qui
la vedevo sempre: chiamala ombra, sensazione o come vuoi, ma quella
era
sempre presente, in tutto ciò che mi circondava. Rimaneva
tacita negli sguardi
degli Allan o scivolava in qualche discorso che sfuggiva a tavola, si
addormentava nel mio letto per svegliarsi insieme a me,
s’intrufolava dietro ai
mobili e tra i quadri per corrermi davanti quando il vento faceva
danzare il
fuoco dei camini e io vedevo qualcosa, in esso, che non riuscivo a
trattenere —
è per il tuo bene, sussurrava.
Quando iniziai a scrivere
e la mia abilità si manifestò, quella presenza
cambiò mondo per infilarsi nei
primi racconti che creai: storie dove membri di una famiglia
svaniscono,
persone care non ritornano più ed è tutta colpa
di chi è loro vicino, rimorsi e
accuse che hanno radici antiche, discese nell’animo di un
inconsapevole
criminale… lavori che ho sempre considerato come primi passi
di uno scrittore
che sa esprimere le proprie capacità solo costruendo misteri
e rompicapi, ma
senza vedervi la verità che declamavano con disperazione. La
definii una
sensibilità anormale, un diverso modo di leggere la
realtà e cercarla; ed era unicamente
cecità.
Intanto, il silenzio degli
Allan continuava a tenermi lontano dal mio passato, gli scontri tra noi
non
scalfivano la superficie sotto il quale esso riposava: probabilmente
questo era
il loro modo di volermi bene.
La mia vita avrebbe
potuto svolgersi così per sempre, inconsapevole e ignara di
cosa portasse nelle
radici; ma l’incendio a Yokohama ha messo a nudo ogni singolo
atto della
tragedia che ho portato sulla mia famiglia naturale.
Non ricordo nemmeno
quanti anni avessi in quel momento, ma ero tanto piccolo da non
trattenere
molti ricordi; eppure ciò che accadde in quelle
ore… ecco, ora lo vedo bene
davanti a me.» Un secondo silenzio; il ragazzo strinse appena
i denti e Ranpo
rimase immobile, senza forzare né le parole né la
tenebra che le accompagnava.
«Era una notte così
tranquilla da sembrare irreale: i miei — nostri
— genitori erano ancora intenti
a discutere faccende da adulti, mentre io, mio fratello e mia sorella
ci
eravamo rintanati nel loro letto, a contare le stelle e leggerci
qualcosa a
vicenda mentre attendevamo il sonno. Io fui l’ultimo a
prendere in mano il
libro che avevamo scelto; e mentre la mia voce inseguiva le lettere, il
tempo
iniziò a correre più veloce, così che
neanche mi accorsi che gli altri dormivano
da parecchi minuti.
Lessi per forse due ore,
incantato e desideroso di non fermarmi; ma anche per me c’era
in attesa la pace,
che calò improvvisa e prima che ebbi il tempo di sistemarmi.
Successe questo: mi
addormentai di colpo e con ancora il lume stretto tra le dita.
Sì, a causa di
un piccolo guasto elettrico era ormai da una settimana che al piano
superiore
non andava più alcuna luce e dovevamo orientarci nel buio
con delle candele.
Papà ci aveva
raccomandato di non portarle nel letto con noi, ma quella volta
disubbidii per
poter leggere più chiaramente… e ciò
scatenò quanto accadde dopo.
Il lume, infatti, seguì il
mio corpo e si rovesciò: la fiamma non ci mise che pochi
attimi a scivolare su
lenzuola e coperte, iniziando a crearci una trappola mortale.
Fu nostra madre a
scoprire il disastro, allarmata dal fumo che invadeva la stanza e
fuggiva nel
corridoio: le sue urla penetrarono l’incoscienza fino a farmi
svegliare e comprendere
con orrore che il letto stava andando a fuoco.
Mio fratello fu lesto a
buttarsi a terra e a lasciare la stanza; la mia sorellina,
invece… lei non si
mosse. Prima che mamma mi gridasse di correre fuori, la vidi sollevare
quel
corpicino da bambola e scuoterlo, ripetendo il nome della sua bambina
come una
nenia.
Nostro padre mi prese in
braccio mentre ero impietrito a fissare
l’immobilità di Rosalie, mi salvò
coprendomi il viso e portandomi fuori dalla casa: le fiamme avevano
raggiunto
anche il piano inferiore e rosseggiavano attraverso le imposte delle
finestre,
la via era tutta in allarme.
Un buio caritatevole calò
su di me, impedendomi di vedere e sentire oltre; ma la colpa si era
ormai
impressa nel cuore, così che quando mi riebbi sentii la mia
stessa voce
chiamare Rosalie. Ero in una macchina che non riconobbi insieme al
resto della
famiglia; o quasi, perché di mia sorella non c’era
traccia.
Quando chiesi dove fosse,
mamma abbassò lo sguardo per fissarmi e contrasse la bocca
in una smorfia di
dolore. Non parlare più di lei,
ordinò, per nessuna ragione. È
andata.
Dato che persi nuovamente
conoscenza, il resto mi venne riferito dagli Allan: il mattino dopo
tali
eventi, nello studio di John giunse una chiamata anonima che lo
informava della
presenza di un bambino nelle vecchie scuderie della villa.
Lui le raggiunse e trovò
me: ero avvolto in una coperta con appuntata sopra una lettera da parte
dei nostri
genitori, i quali pregavano il loro amico di prendermi in casa sua e
dicevano
di avermi abbandonato a causa di un “incidente che
nessuno deve sapere”.
Come biasimare la loro
azione? Rosalie era morta per colpa mia, avevo rischiato di mandare
anche il
resto della famiglia nella tomba e la nostra casa era bruciata
completamente; mamma
e papà erano rimasti senza mezzi e non potevano
più occuparsi di noi, era
normale che mi avessero lasciato indietro — pur implorando
gli Allan di
prendersi cura di me.
Dopo tali eventi e
passati altri due giorni, mi risvegliai in quella che per anni sarebbe
stata la
mia camera; ero affamato, triste e incapace di ricordare cosa fosse
successo tre
notti prima. Il dolore e il rimorso si erano talmente espansi che la
lucidità,
per salvarmi, aveva imprigionato l’incidente, il fuoco e il
corpo di mia
sorella lontano dalla coscienza, lasciandoli echeggiare solamente in
idee
passeggere e invenzioni letterarie.
Gli Allan, che pur
dovettero venire a conoscenza di quanto successo, mi spiegarono che da
quel
momento avrei vissuto con loro per via della povertà dei
nostri genitori, che
li aveva costretti ad abbandonarci presso famiglie in grado di poterci
dare un
futuro; io accettai la mia sorte e loro non mi chiesero mai nulla dei
Poe, né osai
farlo io.
Come ho detto, se non
fosse stato per l’incendio di Yokohama forse sarei arrivato
fino alla morte
senza conoscere il mio segreto; ora che ne sono consapevole,
però, non riesco a
sottrarmi al senso di colpa, a pensare che se solamente avessi dato
retta a
nostro padre e fatto attenzione con quel lume, Rosalie sarebbe ancora
in vita e
io avrei vissuto… diversamente. Il pensiero di
ciò che ho fatto non mi lascia
in pace, so che non riuscirei a resistere per molto con tale peso; la
morte
avrebbe dovuto prendere me, dovevo essere io a pagare per il mio errore.
La più innocente tra noi
ha avuto la sorte peggiore: nessun altro può darle
giustizia, se non il
colpevole stesso… anche se questi ha paura e non vorrebbe
che finisse così.»
Edgar tacque, esausto:
aveva espresso il suo tormento e dato voce al caos che si agitava
nell’anima, la
storia poteva definirsi conclusa. Che cosa doveva aggiungere, quando
nemmeno
lui sapeva ciò che sarebbe accaduto da lì in poi?
Serioso, Ranpo annuì. «Sì,
è così.»
L’altro rispose a sua
volta con un assenso. «Sono un mostro,
sì… la morte conosce già il mio
nome.»
Edogawa guardò l’amico
per un altro attimo, poi abbassò il capo come se stesse
pensando; quindi
accennò un sorriso che via via si allargò nel
volto.
«Ranpo-kun…?», lo
chiamò Poe, fissandolo, ma l’amico si espresse
prima di lui. «Non hai capito
nulla, Poe-kun: non ti stavo dando ragione, ma
parlando a me stesso.
Ero
sicuro che tu credessi
a questa versione della storia.»
Edgar si sporse verso il
detective, confuso. «Che cosa… che cosa stai
dicendo?»
Balzando in piedi, Ranpo
iniziò a stirarsi le braccia senza perdere il sorriso.
«Aaaaah! È un bel
pavimento, sì, ma preferisco il parco! Però
questa è casa tua — di John Allan,
scusa. Beh, finché non ti caccia definitivamente
è anche tua —, quindi mi
adatto all’altrui volere. Non credo che il tuo padre adottivo
si sia
preoccupato di renderti la permanenza piacevole, così evito
di chiederti dove
siano le cucine… e, da bravo ospite, ti dono io
qualcosa.»
Poe non seppe come
rispondere allo sguardo smeraldino che luccicava poco lontano da
sé, quindi
attese.
Da parte sua, Edogawa
iniziò a girovagare per l’andito e a curiosare tra
quello che presentava, per
poi iniziare: «Questa villa è quasi bella quanto
quella che ti sei fatto
costruire a Yokohama, e che io preferisco: là
c’è ancora più spazio e tanta
luce, è raffinata ed elegante, oltre che silenziosa. Ma
anche il silenzio sa
parlare, se gli si domanda a modo ti può rivelare tutto
ciò che trattiene, e
nel tuo caso non ha fatto eccezione, quando gli ho chiesto che cosa
fosse
successo nell’incendio.
Mi ha detto che nella tua
casa ci sono alcuni oggetti che portano il nome di John Allan, ma senza
essere
seguiti da un Poe; e mi ha fatto capire che porti due cognomi diversi,
non uno
doppio. Mi ha detto che sei partito per non tornare, perché
tra quelle mura non
è rimasto niente da cui non ti separeresti mai; e che una
persona che teme le
grandi altezze ha preso un aereo, perché spinto da una
motivazione più forte della
paura.
Chiaramente tu sei stato
turbato dall’incendio per una causa profonda —
qualcosa vissuto durante
l’infanzia o la prima giovinezza, per esempio, magari legato
a uno dei due
cognomi che porti: sono vari i motivi che spingono una persona ad
abbandonare
un luogo tanto in fretta, ma quelli famigliari sono tra i
più importanti.
Quando ho dedotto questo,
si è posto il problema di dove tu fossi andato: se a Boston
o Richmond, le due
città in cui hai dei legami fin da piccolo… e la
soluzione è stata raggiungere
entrambe e ascoltarle.
La tua casa di Boston mi
ha confermato quello che avevo già intuito e tu stesso mi
hai raccontato:
l’incendio di Yokohama ha fatto riaffiorare il ricordo
dell’incidente in cui tu
e la tua famiglia avete perso ogni cosa. Ora l’edificio
è completamente
abbandonato perché la vicenda non gli ha portato di certo
fortuna, quindi tutto
ciò che il fuoco ha risparmiato è rimasto al suo
posto, così come è stato lasciato;
ed è per questo che ora ti posso raccontare la vera
storia su cosa
accadde quella notte.» Piantandosi ben davanti a Poe, Edogawa
gli puntò un dito
contro con fare teatrale e sorrise di nuovo. «Signorino Poe,
stia tranquillo:
non la considero uno stupido nonostante la banalità di un
mistero che mistero
non è mai stato, perché, se lei potesse ritornare
alla sua vecchia dimora e avere il
coraggio di entrarvi, certamente giungerebbe alle mie stesse
conclusioni.
Concorderai con me che
dopo aver incendiato il letto dei tuoi genitori, le fiamme avrebbero
dovuto
allargarsi al resto della camera e, in seguito, all’intera
struttura: mi hai detto
di aver visto il fuoco attraverso le imposte delle finestre del piano
inferiore,
e infatti questo risulta devastato… ma né le
scale che collegano i due piani,
il corridoio a cui giungono e la camera da letto dei bambini,
antistante a
quella dei coniugi Poe, sono così danneggiate.
Avrebbe dovuto essere il
contrario: il piano superiore distrutto e quello inferiore o
completamente
bruciato anch’esso, o in maniera parziale. Perché,
invece, la situazione si
mostra così? Perché quella notte fu
più movimentata di quanto tu possa
immaginare e ci fu una tremenda coincidenza.»
Ranpo fece una piccola
pausa, il tempo necessario per frugare nelle tasche dei pantaloni e
porgere,
infine, un piccolo involto a Poe. «I tuoi genitori erano
degli attori, e anche
parecchio famosi: a Boston ci sono vari teatri che riportano targhe con
i nomi
di David Poe Jr. e di sua moglie Elizabeth, e i libri che li citano non
sono in
numero minore.
Tanta gente se li ricorda
ancora, così come parla della loro ultima comparsa sulle
scene: una tragedia
che aveva smosso gli animi e portato molti alla commozione, infiammando
la
città per vari giorni, ma che non era stata pensata per
attirare minacce o
pericoli. Si dice, però, che spesso le doti artistiche e il
genio di chi le
mostra sappiano anticipare i tempi o penetrare a fondo la
realtà e svelare,
anche inconsapevolmente, quello che non si dovrebbe: ed ecco che
un’innocente
battuta o dialogo assume una luce sinistra, uno sguardo o
un’intonazione
particolare si carica di un significato completamente opposto a quello
originario, e a un uomo carico di ombre si ghiaccia il sangue nelle
vene per il
terrore che improvvisamente tutti sappiano quanto doveva rimanere
nascosto.
Nell’ultimo spettacolo,
il teatro era gremito delle più alte autorità
della città; tra queste vi era
una persona del genere, pericolosa e dai mille volti e segreti, potente.
Elizabeth, per pura
fatalità, pronunciò una frase davanti a tale
figura, guardandola con un
sorriso; e mentre il pubblico rumoreggiava d’entusiasmo e si
apriva in applausi
per la bravura della donna, nell’animo di chi le stava
innanzi si scatenava
l’inferno. Come aveva fatto, quell’attrice, a sapere?
Chi l’aveva
informata, chi le aveva detto di esporre la verità
all’intera città? E di certo
anche suo marito ne era al corrente!
Quindi, nel giro di un
attimo i coniugi Poe divennero persone scomode, che dovevano essere
eliminate a
ogni costo per coprire i segreti di qualcuno più in alto di
loro; e quale
momento migliore per aggredirle, se non durante la notte?»
Edgar spalancò gli occhi,
mentre il fiato gli si mozzava in gola via via che comprendeva dove
Ranpo
volesse giungere.
«Parliamo un attimo delle
finestre del piano inferiore: sono tutte danneggiate e le imposte sono
rovinate,
di certo il fuoco fece un ottimo lavoro con loro… ma in due
casi restarono delle
tracce parecchio interessanti: ho trovato frammenti di vetro vicino
alla parete
opposta alle finestre, come se fossero stati proiettati
dall’esterno verso l’interno
a causa dell’impatto con qualcosa di pesante. Non conosco i
gusti artistici dei
tuoi genitori, ma dubito che si tenessero come soprammobile una grossa
pietra;
è più facile che questa aprì la via,
rompendo i vetri e spalancando le imposte,
a qualcosa di ben più pericoloso… una bottiglia
incendiaria potrebbe essere
un’idea, il che porta direttamente a un’altra
evidenza: la tua famiglia venne
attaccata.
Ecco la coincidenza che
ti ha dannato fino a ora: la stessa notte in cui il letto prese fuoco,
non
tanto tempo dopo qualcuno venne mandato a uccidere i Poe.
Le fiamme che divampavano
al piano inferiore non erano le stesse che divoravano la camera dei
tuoi
genitori, ma le aveva portate una mano molto più spietata.
Già in allarme per quello
che avevi causato, i Poe riuscirono a salvare te e gli altri da
entrambi i
pericoli; una volta abbandonata la casa, però, i problemi
non finirono. Ci fu
una seconda aggressione, al quale tuo padre rispose; e mentre Elizabeth
scappava con i figli, David si macchiò di omicidio.
Nessuno sapeva che la vittima
di tale gesto era stata mandata per portare la morte; agli occhi degli
ignari
testimoni, quindi, tuo padre era impazzito per l’incendio
della propria casa e
aveva ucciso un innocente. In poco tempo l’uomo si
trovò contro due figure: chi
voleva la sua testa e la polizia di Boston, entrambe sulle sue tracce.
Dopo essersi riuniti, marito
e moglie presero una decisione sofferta: separarsi dai propri
bambini
affidandoli a delle famiglie che potessero proteggerli, e solamente
allora
accettare quello che il destino avrebbe scelto per loro.
Ricercati dalla polizia e
braccati dagli assassini, i Poe non sapevano da chi dovessero guardarsi
le
spalle, ma solamente che qualcuno voleva la loro rovina: era allora
necessario
dividervi e nascondervi fino a quando la situazione non fosse mutata,
in un
modo o nell’altro. Perciò cambiarono stato e, nel
tuo caso, ti portarono dagli
Allan, commettendo pure una violazione di domicilio pur di porti sotto
la loro
protezione.»
«I miei genitori non mi
hanno abbandonato per quello che ho causato, dunque, ma per
salvarmi», sussurrò
Poe appena Ranpo fece una pausa. Rimase un attimo come trasognato,
quindi il
volto si coprì nuovamente di un’ombra.
«Però ciò non cambia il fatto che abbia
causato la morte di Rosalie, e—»
«Baam, errore! Grosso
sbaglio pensarlo!» Facendo sobbalzare l’amico,
Edogawa gli si avvicinò e gli
prese di mano l’involto che gli aveva consegnato, aprendolo
per lui e
mostrandogli ciò che conteneva.
Edgar rimase immobile,
quindi dilatò gli occhi nella sorpresa e afferrò
l’oggetto con dita tremanti:
un elegante fermaglio a forma di rosa, che sul lato interno portava
inciso un
nome: Rosalie Mackenzie Poe.
«Questo l’ho trovato a
Boston, poco oltre la porta della vostra casa: era appoggiato al suolo
e
spiccava in mezzo alla desolazione come un faro nella notte.
Trovare il numero dei
Mackenzie non è stato difficile, né cercare una
scusa per chiedere di Rosalie;
ha una voce dolce e ride spesso, è piacevole da
ascoltare.»
«Ma… ma quindi…»
«Ma quindi devi
perdonarti, Poe-kun; smetterla di darti la colpa per
qualcosa che non
hai fatto e ascoltare l’ultima parte del racconto.
Rosalie non è morta
nell’incendio: ci ho parlato per quasi un’ora
mentre venivo qui! E mi ha
raccontato che cosa successe mentre tu eri incosciente.
Fu la prima a essere
affidata, proprio ai Mackenzie; ed ecco perché non era in
macchina con voi
quando tu ti svegliasti. Anche a lei venne detto di non nominare
più i suoi
fratelli, di fare come se non fossero mai esistiti: dovevate
proteggervi a
vicenda ed evitare che chi inseguiva i coniugi Poe arrivasse anche a
voi.
Potevate essere prede ed
esche perfette, ma con il vostro silenzio e la protezione delle
famiglie
adottive non sarebbe accaduto nulla. “L’incidente
di cui nessuno deve parlare”
è l’attacco alla vostra casa, non la morte di
Rosalie.» Ranpo emise uno sbuffo,
quindi si sedette a terra. «È dura parlare tanto a
lungo con lo stomaco vuoto!
Anche se è stato sorprendentemente facile risolvere il
mistero, mi sento
esausto.»
Edgar non rispose subito,
ma prima si rigirò tra le mani il fermaglio di Rosalie.
«Queste notizie su ciò
che accadde davvero quella notte… tutto ciò che
mi hai detto… sarei riuscito a
scoprirlo anche io, vero?»
«Certo che sì: per molte
cose è bastato fare una piccola ricerca in rete, tra
giornali e archivi, anche
se il grosso del lavoro lo ha fatto Kuniki—»
«Quindi avrei potuto farcela
da solo.»
«Ovvio, a patto di
risvegliare quei ricordi assopiti. Lo hai detto tu stesso: la mente ha
attivato
un meccanismo di rimozione per proteggerti dalla follia che il dolore
avrebbe
causato, e tutto per una colpa che non ha mai visto la luce: il mistero
era dentro di
te, non fuori.
Sapevo che eri stato
accecato da una falsa certezza e che la fatalità aveva
voluto unire due eventi
che non sarebbero mai dovuti andare insieme, ed ero determinato a
mostrare la
verità a una persona capace di fronteggiare un palazzo in
fiamme per salvare
delle vite, donando speranza ad altri e perdendo la propria…
e a dirgli che la
sua adorata sorellina lo sta attendendo a non tanta distanza da qui,
viva e non
dentro una fossa.» Edogawa si alzò nuovamente in
piedi e andò alla porta,
guardò il sole che scendeva verso le cime degli alberi e poi
si girò e rivolse
all’amico con tono posato. «Pensavi di ucciderti su
una tomba vuota, espiare la
colpa morendo d’inedia; una fine insensata.
Tu non porti la morte,
Poe-kun; tu non distruggi, crei.
Qualunque cosa tu faccia, questa
dà la vita: alle tue storie, al mondo che ti circonda, a chi
t’incontra. Non
dimenticarlo mai, è il tuo vero dono.
Le nostre colpe, i nostri
errori non ci devono annientare: è solamente vivendo che ci
possiamo redimere,
è insieme agli altri che impariamo a perdonarci. Tu vali
più di un rimorso, non
sei mai stato quella voce che ti chiamava mostro: intelligenza e cuore
ti
proteggeranno sempre, e se ciò non
bastasse…» Un largo sorriso, contenente ogni
bellezza, tutto per Edgar. «… hai un amico in
me.» Senza dare tempo all’altro
di replicare, Ranpo corse fuori. «Da qui in poi tocca a te:
alzati e vai a
trovare Rosalie, poi cercate insieme la vostra famiglia, intrecciate le
vite
l’uno con l’altra e recuperate gli anni perduti;
per voi nessuna storia buia
all’orizzonte… meritate ben altro.»
Silenzioso, discreto, fu solo
un bagliore quello che scivolò lungo una guancia di Poe, la
cortina dei capelli
che impediva di scorgere quante scintille fossero pronte a liberarsi.
«Ah, però non credere che
mi dimenticherò del modo in cui te ne sei andato! Non si
trattano così i propri
rivali! E per questo…»
«Ranpo-san!»
Edogawa si voltò verso il
cancello della villa, stupito; al di là di esso, Kunikida si
sbracciava per
avere la sua attenzione, visibilmente stremato.
«Oh, Kunikida! Sei qui,
finalmente!»
«Dopo essere rimasto due
ore in un ingorgo! … Come hai fatto ad arrivare prima di me?
Hai preso anche
l’autobus sbagliato!»
«Ho convinto il
conducente a cambiare percorso e a portarmi qui.»
«Convinto?»
«Sì, minacciando di
rivelare a tutti i passeggeri, tra cui la moglie, delle sue tre
amanti.»
«Ma… ma non è questo il
modo di comportarsi!»
«Non ho fatto del male a
nessuno! E poi avevo già perso troppo tempo!»
Mentre
la sempre più assurda
discussione risuonava ovunque, Edgar si alzò e
uscì dalla villa, si avvicinò ai
due detective e li superò. Tutto ciò che lo
circondava stava riprendendo
colore, caricandosi di luce e riflettendola ovunque.
Per un tempo infinito si
era tormentato, coscientemente e non, e aveva sofferto, incapace di
scappare
dalla gabbia del trauma; si era creduto finito, mentre era stato solo
vittima
di uno spettro. Sembrava destinato a cadere… e invece si
stava rialzando
ancora, questa volta senza dolore.
Il nero velo dell’annientamento
scivolava via da lui mentre un lento tramonto gli scaldava il volto e
le
lacrime si fermarono ancor prima di cadere, per lasciar spazio
unicamente al
sorriso. I pensieri si trasformavano, non era più il tempo
di trattenersi nei
freddi abbracci del vuoto: c’era qualcuno che lo aspettava al
di là della paura.
Era questo ciò che lo
chiamava; ed era la vita che, legandolo a doppio filo con il soffio
della
morte, lo aveva cambiato ancora, insegnandogli la dura lezione della
solitudine
e la sottile arte del perdono — specialmente verso
sé stesso.
Ma non era più
solo, non così lontano da casa; questa era venuta da lui per
prenderlo per mano
e risvegliare la sua anima, per scacciare da lei tutti i demoni e
condurlo là
dove i sogni potevano abitare. La tempesta era passata grazie alla
mente più
geniale che avesse mai incontrato e alla grande persona che tramite
essa
proteggeva i tristi e gli abbandonati: da Ranpo aveva imparato ancora
una volta,
nuovamente il detective gli aveva cambiato l’esistenza in
meglio, strappandolo
al baratro.
«Grazie, Ranpo-kun»,
mormorò con tutto sé stesso mentre si fermava sui
gradini davanti all’ingresso
e chiudeva gli occhi sotto la benedizione del cielo, lasciando che Karl
gli
abbandonasse la spalla per rannicchiarsi nel suo grembo e trovare la
quiete
insieme a lui, «per merito tuo, la mezzanotte è
ormai lontana… amico mio.»
♦
C’era
pace nel cielo, e
così sulla terra.
Era ormai sera quando
Edgar raggiunse la casa che sorgeva vicino a un ampio prato ricolmo di
fiori e
profumi, là dove il viola della volta celeste si fondeva con
il verdeggiante
mare ai suoi piedi. Il vento correva senza gridare e lo guidava avanti,
un
altro passo ancora, mentre il cuore aumentava i battiti.
La dimora era
completamente illuminata, chi l’abitava era già
tra le sue stanze; e come se
fosse stata evocata, un’esile figura chiara come
un’alba apparve sulla porta a
guardare la luna, per poi abbassare il capo.
Lui la vide bloccarsi un
attimo, quindi muoversi e avanzare verso la sua direzione, e il ragazzo
strinse
a sé Karl mentre accelerava il passo e quella iniziava a
correre.
Sempre
più lontano dal
buio.
«Edgar,
sei tu… Edgar!»
«Rosalie… Rose!
Sorellina!»
La bella Rosalie era più
piccola di lui e gli arrivava appena al mento con la testa, tuttavia
quasi lo
gettò al suolo quando gli saltò tra le braccia.
Edgar la strinse
immediatamente a sé con ogni forza che aveva, senza lasciare
che nemmeno una
stella si frapponesse tra loro, e la udì ridere
così come gli aveva detto
Ranpo: con dolcezza, con il trasporto che lui ricordava. Ed era tutto
così
perfetto, delicato, giusto per entrambi.
«Santo cielo… non
sei cambiato affatto, neanche in tutti questi anni! Sempre magro e con
i
capelli troppo lunghi! E che carino il tuo piccolo amico!»,
disse lei mentre
gli riempiva il viso di baci e gli scostava i capelli per ammirargli
quegli
occhi uguali ai suoi, per poi stringerlo ancora.
«Io… io ti chiedo scusa,
Rose», mormorò il ragazzo mentre affondava il
volto nella chioma della sorella,
«non pensavo che ti avrei mai più rivisto, non in
questa vita. Sei sempre stata
così vicina a me… e io ero ignaro di
tutto.»
«Io invece sapevo che un
giorno ti avrei rincontrato», rispose la giovane,
«ho lasciato indietro il mio
fermaglio apposta. È stato il primo regalo della signora
Mackenzie, e quando me
lo ha dato mi ha detto: Ti guiderà da loro,
bambina… un giorno ti
riunirà alla tua famiglia. Mi ha già
riportato te… è un ottimo inizio.»
Edgar non disse più
nulla; chiuse gli occhi e si lasciò cadere in ginocchio,
senza staccarsi da
quel corpo tanto chiamato e pianto.
«Ben ritornato,
fratellone», mormorò lei mentre si metteva nella
stessa posizione del ragazzo e
questi le appoggiava la testa sul cuore, «ti stavo
aspettando.»
Era la sera; ed era il
tempo delle lacrime mai versate, delle preghiere esaudite e promesse
mantenute,
di curarsi a vicenda e camminare insieme.
«Stai bene, Ed?»
«Sì.» Un sorriso, sul
volto l’espressione che racchiudeva la serenità di
una vita ritrovata; era la
sera, ma, sotto la sorveglianza di due verdi gemme che osservavano
tutto con
discrezione, il buio non sarebbe calato. «Ora
sì.»
NOTE
[1] Più
precisamente, la sfumatura sarebbe “lavanda
grigia”. Nelle immagini Poe viene presentato
spesso con gli occhi grigi, ma al buio questi risultano viola.
[2] Nella
pagina wikia che tratta il personaggio di Ranpo,
viene detto che questi
non riesce a dormire se è buio pesto.
ANGOLO
DI MANTO
Non è
stato affatto
facile scrivere questa storia, inutile dire il contrario: rendere non
dico alla
perfezione, ma almeno in maniera coerente al canon due personaggi che
amo
visceralmente (esatte parole della mia anima gemella: “Penso
potresti sederti
in poltrona a vedere un’intera serie TV su di loro e non
stancarti”) e a cui
tengo veramente tanto.
Piccola confessione: la
fic è il risultato dell’amarezza nata da varie
discussioni in giro per il web,
dove si dice che Ranpo non sia capace di provare dei sentimenti e sia
solamente
un egoista e borioso, e che, con tutto quello che Poe ha fatto per lui,
almeno nei
confronti di questi dovrebbe mostrare un po’ di riconoscenza.
Personalmente mi trovo
molto in disaccordo con tale affermazione: Edogawa può
reputarsi il più grande
detective del mondo, non mostrare spesso le sue emozioni o farlo solo
quando è
al limite (come nell’avventura con Yosano
all’interno del romanzo di Edgar), ma
lui tiene alle persone (anche a chi ha appena incontrato, come Oda) e
le salva
anche: lo ha fatto con Fukuzawa (nella light novel),
con una
giovanissima Akiko, con lo stesso Poe quando gli ha confessato tutta la
sua
ammirazione per l’unica persona tanto valida e intelligente
da non dargli facile
gioco… e questi sono solo alcuni esempi. Ranpo avrebbe la
possibilità di
rovinare le vite di tutti scoprendo e rivelando segreti e debolezze,
giocando
con gli uni e le altre senza ritegno; ma non lo fa, perché
il suo grande genio
non è mai staccato dal cuore né non sa
riconoscere, o dare, gentilezza e
speranza.
A mio parere, quindi, se
si supera un’analisi tristemente superficiale e incompleta
del personaggio e si
prosegue con l’opera si vede come questo ragazzo sia un dono
per tutti; e riguardo
al fatto che Poe sia un tesoro altrettanto prezioso e meriti solo
coccole,
infinito amore e ammirazione, non penso ci siano dubbi (no, non ho una
crush
pazzesca per lui, che cosa ve lo fa pensare ♥).
Detto ciò, fremevo dalla
voglia d’inserire riferimenti biografici al vero Edgar Allan
Poe, l’autore che
mi ha accompagnato per tutta l’adolescenza e che
avrà sempre un posto speciale
nel mio cuore (anche se ho iniziato a leggere BSD perché mi
avevano riferito
che ci fosse Lovecraft e non sapevo affatto della presenza di Edgar,
quindi SORPRESA!);
il pacchetto che ho scelto per il contest mi ha dato
l’opportunità per farlo,
anche se con delle variazioni: è infatti vero che lui non si
trovò mai in
sintonia con gli Allan ed ebbe grossi scontri con John, mentre
è inventato che i
coniugi Poe siano ancora vivi quando Edgar è adulto,
perché morirono nei primi
anni di vita dei figli, i quali furono davvero separati l’uno
dall’altro e crebbero
in famiglie differenti.
Il titolo dei capitoli
compone un unico verso facente parte della poesia Inno,
del nostro caro
Poe; quello della storia riprende il testo di Blinding Lights,
di Weeknd,
perché non riesco affatto a tenere la musica lontana da
qualsiasi cosa faccia,
mai.
Sperando di non avervi
tediato, scusandomi per l’angolo autore lungo quasi quanto la
fic e
ringraziando Flos Ignis per avermi permesso di
scrivere su questo
splendido duo, vi porgo un saluto e un abbraccio *^*
Manto