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Autore: Adeia Di Elferas    02/08/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Tra le stanze del Vaticano, in quei giorni non si parlava d'altro di quello che stava accadendo in Lombardia. La seconda, fragorosissima, caduta di Ludovico Sforza aveva agitato non poco le acque, e chi più, chi meno, tutti cercavano di tenersi a galla in quel mare agitato facendo del proprio meglio per capire da che parte stesse tirando realmente il vento.

Il Cardinale Sansoni Riario, per esempio, sentendosi imparentato, seppur alla lunga, con gli Sforza, stava tentando di mantenere un basso profilo, rinunciando, almeno in quei giorni, a fare qualcosa per aiutare la cugina Caterina, ancora rinchiusa in Belvedere e, dacché se ne diceva, ancora febbricitante.

Il Cardinale Giovanni Medici aveva visto nella disfatta di Novara un'opportunità. Anche se, sulla carta, quella sconfitta indeboliva anche la Tigre di Forlì, in un certo senso l'andava a favorire. Era ormai una figura sempre meno pericolosa, senza più una famiglia alle spalle, né uno Stato forte e potente com'era stato il Ducato di Milano a farle da balia in caso di necessità. Ormai era solo una donna tenuta in catene per il capriccio del Duca Valentino. In quell'ottica, il Cardinale, che si era preso a cuore la situazione e voleva a tutti i costi liberare la madre di un Medici – perché non poteva scordare che la Leonessa di Romagna aveva dato un figlio alla loro gloriosa famiglia – vedeva grandi spazi di manovra, per ammorbidire un po' le posizioni del papa.

Rodrigo Borja, invece, stava soffiando sulla fiamma, vantandosi con chiunque del successo, chiaramente non suo, avuto in Lombardia. Continuava a ripetere che quello era un ringraziamento di Dio per la magnificenza del Giubileo Straordinario che aveva indetto, e che presto suo figlio avrebbe ripreso in mano la spada, andando a finire quello che aveva iniziato.

Lucrecia ascoltava quelle parole a ogni cena, a ogni ritrovo con il padre, e sperava in cuor suo che il pontefice stesse parlando seriamente. Non le importava delle conquiste di Cesare in Romagna, o chissà dove altro. A lei bastava saperlo lontano da Roma. Finché fosse rimasto nell'Urbe, lei sarebbe stata attanagliata da un'inquietudine costante che era andata acuendosi negli ultimi giorni, per colpa di un fatto che aveva teso suo marito Alfonso come una corda d'arco.

Si era infatti venuto a sapere che il papa aveva appena annullato il matrimonio tra Ladislao d'Ungheria e Beatrice d'Aragona, di cui Alfonso era nipote. Beatrice era stata prima la moglie del re Mattia Corvino, un uomo giusto e illuminato, ma poi, rimasta vedova, non volendo lasciare il trono a un figlio illegittimo del primo marito, era stata trascinata da Ladislao Jagellone in un matrimonio che in pochi anni si era dimostrato una vera e propria truffa. Non solo le nozze non erano state legali, dato che Jagellone era ancora formalmente sposato con la prima moglie, ma il re di Boemia, e ormai re anche dell'Ungheria, aveva fatto in modo di chiedere al papa l'annullamento, in modo da liberarsi di una moglie che non aveva mai voluto, ma tenersi lo Stato.

Alessandro VI non solo aveva annullato il primo matrimonio di Ladislao, ma aveva anche accettato di annullare il secondo sposalizio, e così a Beatrice d'Aragona non era rimasto altro che lo scorno di aver perso tutto: il titolo, lo Stato e perfino il marito, benché non le fosse mai piaciuto davvero.

Da quando l'aveva saputo, Alfonso era diventato schiumante di rabbia. Tutto, per lui, era passato in secondo piano. Anche se la sua parentela con Beatrice gli era sempre sembrata lontana, e lei era per lui una parente quasi sconosciuta, ormai, in quei giorni non poteva fare a meno di pensare al modo in cui il papa l'aveva trattata.

Ogni volta che a corte si parlava di quel caso, lui si accendeva, e prendeva strenuamente le difese dell'Aragona, anche a costo di sentirsi apostrofare in modo sgradevole. Aveva avuto anche il coraggio di dire chiaramente che trovava quella scelta del pontefice un chiaro attacco alla sua famiglia.

Lucrecia aveva un bel da fare a provare a calmarlo, ma il giovane era tutto un fuoco e quella vicenda pareva aver aperto in lui una valvola, lasciando uscire, tutta d'un colpo, l'acredine che provava nei confronti dei Borja.

Quel giorno, mentre fuori pioveva a dirotto e nei palazzi vaticani si erano dovute accendere le candele, perché il brutto tempo aveva oscurato tutto, Alfonso incontrò l'ambasciatore di Napoli, che stava uscendo dagli alloggi del papa.

Erano nella camera del Pappagallo, quando l'Aragona, infischiandosene del rischio di poter essere sentito da qualcuno, esclamò, con tutta la voce che aveva in corpo: “Sono così disgustato e avvilito per il torto che il Santo Padre ha osato fare alla povera Beatrice! Che razza di uomo può assecondare un simile imbroglio? Un papa, poi, che tra noi dovrebbe essere il più santo! Che pugnalata, che hanno dato a me e alla mia famiglia! Non mi sento un figlio, per il pontefice, ma un nemico!”

L'ambasciatore, che sapeva bene quante orecchie fossero in ascolto tra quelle pareti, cercò subito di calmare l'accaldato diciannovenne, ma non ci fu verso di farlo tacere.

“Il mio rammarico per l'ingiustizia perpetrata dal Santo Padre mio suocero – precisò l'Aragona, scandendo bene le parole – è secondo solo al ribrezzo che mi danno certe abitudini malate e insane di questa corte.”

Il messo di Napoli scosse piano la testa, e poi, parlando in un soffio appena udibile, lo pregò: “Ora basta così.”

Alfonso, che pure avrebbe voluto proseguire ancora a lungo, si spaventò, suo malgrado, nel leggere nelle iridi del diplomatico un avvertimento accorato, quasi dolente, che stava a dirgli che andando a avanti avrebbe solo reso vedova sua moglie anzitempo.

L'Aragona, ancora furente e distratto, non si accorse del fruscio appena percettibile di un mantello verso la porte dell'appartamento del papa. Se solo se ne fosse avveduto, forse non si sarebbe lasciato sfuggire un ultimo inciso.

Parlando, questa volta, con voce un po' più bassa, per farsi udire – almeno così credeva – solo dall'ambasciatore, concluse: “Tra il papa e suo figlio non so proprio dire che io detesti di più.”

 

Caterina schiuse gli occhi con fatica, mentre un tuono faceva vibrare la finestra. Per qualche secondo, non fu abbastanza lucida da ricordare dove fosse e perché.

Vedeva dei volti, davanti a sé, ma anche in quel caso la sua memoria sembrava congelata, incapace di collegare un viso a un nome e viceversa.

Aveva tutto il corpo intorpidito, e la sensazione di avere tutte le ossa rotte, come se fosse stata presa a martellate per giorni. Sentiva la cicatrice sulla gamba tirare, bruciare e pizzicare. Quello fu il primo elemento reale che riuscì a cogliere.

Mentre ricordava, come una stilettata al cuore, l'assedio alla rocca e tutto quello che ne era seguito, avvertì l'odore di stoffa impregnata di pioggia, e si rese conto che arrivava dal mantello di uno degli uomini che la circondavano. Anzi, per la precisione, a circondarla erano tre uomini e una donna.

“Sembra stia riprendendo conoscenza.” stava dicendo quello che odorava di umido: “Speriamo riesca a mangiare qualcosa...”

la Tigre provò a parlare, ma la voce le morì in gola. Finalmente aveva riconosciuto, più grazie alla voce che altro, Francesco Fortunati. Avrebbe voluto chiedergli cosa fosse successo, ma, per quanto si sforzasse, dalle labbra non le usciva nemmeno una parola.

“Mia signora...” questa volta a parlare era stata Argentina, e si stava protendendo verso di lei con un cucchiaio: “Vi prego mangiate un po' di questo, siete allo stremo...”

Sentendo il sapore dolce del miele, la Sforza fece una smorfia, trovandolo nauseante. Tuttavia capì dal tono accorato della serva quanto fosse importante e così, in più riprese, mangiò tutto il cucchiaio di miele.

“Adesso dobbiamo solo avere pazienza. Vedrete che si riprenderà.” questa volta la voce era quella di frate Lauro.

Caterina l'aveva riconosciuta ancor più facilmente che le altre. Anche se era quella che, in vita sua, aveva udito meno, aveva una punta di compiaciuto ottimismo che le dava sui nervi anche in un momento di confusione interiore come quello.

“Allora si salverà?” questa terza voce maschile era sicuramente di Baccino, riconoscibilissima, benché strozzata, forse dal pianto o dall'ansia.

“Speriamo...” sussurrò il piovano.

“Voglio dormire...” si schermì Caterina: “Sono stanca...”

Quell'abbattimento fisico era più forte di tutto il resto, perfino delle sue preoccupazioni, dei fantasmi del passato e della voglia di capire che fosse successo.

“Prima mangiate ancora un po'...” la incoraggiò Argentina e le mise in bocca quasi con la forza altri quattro cucchiai colmi di miele, uno dopo l'altro.

Solo dopo l'ultimo, la Leonessa trovò il tempo di dire: “Vi prego, voglio dormire...” e questa volta nessuno si oppose, e le permisero di riposare un po'.

 

Raffaello Maffei non sapeva darsi pace. Il suo amico Michele Marulli era stato visto mentre il fiume lo inghiottiva ormai da una settimana, ma ancora non poteva dirsi certa la sua morte, perché il corpo non era stato ritrovato.

La speranza intima del letterato era quella di scoprire che il bizantino fosse rocambolescamente riuscito a salvarsi e che in quel momento fosse al sicuro e in salute, del tutto ignaro dell'allarme che aveva involontariamente procurato.

Maffei aveva fatto pressioni, appena saputo dell'incidente sul Cecina, per cominciare subito le ricerche. Aveva deciso di pagare tutto di tasca propria, e si era rifiutato di mandare notizia di un accadimento tanto increscioso a Firenze, convinto che, prima di allarmare Madonna Alessandra, fosse necessario accertarsi in modo incontrovertibile dei fatti.

Malgrado avesse offerto ottime paghe e la sua eterna gratitudine, però, non aveva trovato nessuno disposto ad aiutarlo, almeno non finché la furia della pioggia non si era placata. Avevano perso giorni cruciali, e Raffaello cominciava a temere che ormai, per ritrovare il cadavere, sempre che Michele fosse davvero morto, fosse tardi.

Il volterrino continuava ad asciugarsi la fronte con il dorso della mano, mentre seguiva a cavallo i manovali che aveva ingaggiato per cercare di dragare il fiume in ogni suo angolo. Faceva caldo, anche se il cielo era ancora coperto da spesse nuvole scure, e proprio quell'afa fuori stagione faceva temere a Maffei di dover interrompere presto le ricerche per colpa di una nuova tempesta. Avevano già percorso parecchia strada, andando verso valle, ma per il momento non avevano trovato nulla, nemmeno un oggetto appartenuto a Marulli.

“Mio signore!” gridò uno degli uomini che stavano controllando le pozze che si erano formate ai lati degli argini: “Mio signore! Forse ho trovato qualcosa!”

Con il cuore che schizzava in gola, Raffaello deglutì e diede un colpetto con i tacchi ai fianchi del suo cavallo. Si trovava in uno stato d'animo difficile da descrivere: da un lato sperava che il manovale non avesse trovato nulla di importante, magari che avesse preso un abbaglio scambiando un ramo o un pesce morto per il resti di Michele o della sua cavalcatura, mentre dall'altro lato desiderava con tutto se stesso di sciogliere i dubbi ritrovando il corpo senza vita del bizantino.

Sentendosi un mostro per essere così dibattuto tra due contrastanti posizioni, l'uomo raggiunse la pozza – che scoprì subito essere molto profonda – e smontò immediatamente di sella. Andando a chinarsi laddove già stava chinato il suo stipendiato, Maffei trattenne il fiato.

Il corpo che galleggiava dava loro le spalle, ma i pezzi dell'armatura che ancora indossava e che lo tenevano appena sotto il pelo dell'acqua, e il borsone che portava a tracolla, in cui custodiva gelosamente l'opera omnia di Lucrezio, erano inconfondibili, così come i capelli un po' crespi, portati lunghi fino alle spalle.

Scoppiando istintivamente a piangere come un bambino, Raffaello si ritrasse e balbettò: “Io... Io glielo avevo detto! Glielo avevo detto di non... Che pioveva... Che il fiume... Dio... Io glielo avevo detto...”

“Cosa facciamo adesso, mio signore?” gli chiese l'uomo che aveva ritrovato il corpo di Marulli.

Maffei, tirando su con il naso, fece del suo meglio per controllare la voce, mentre ancora qualche singhiozzo lo scuoteva: “Io... Ripescatelo... Voglio... Voglio dargli una sepoltura. Lo... Lo farò portare alla chiesa di San Giovanni Battista, a Pomarance. Pagherò tutto io. Quando... Solo quando sarà a posto, faremo in modo che Madonna Alessandra...” ma non riuscì a terminare la frase, perché di nuovo scoppiò in un pianto incontrollato.

Per quanto ci provasse, non riusciva a non dirsi che se avesse insistito un po' di più, anche solo poco, Michele Marulli non sarebbe ripartito sotto il diluvio, non avrebbe cercato di attraversare il Cecina in piena e non sarebbe morto. Con il senso di colpa che provava, pagargli una tomba e un funerale, gli sembrava il minimo, davvero il mimino.

 

L'odore di una candela che era stata spenta da poco, e che aveva lasciato il suo sentore nell'aria, risvegliò Caterina come una carezza. Era qualcosa di appena palpabile, ma, nella semi incoscienza in cui si trovava, per lei era qualcosa a cui aggrapparsi.

Non c'era nulla di più evocativo, a suo modo di vedere, di un odore o di un profumo. E così quel refolo che sapeva di cera sciolta e di stoppino bruciato l'aveva riportata indietro di anni, a quando, da bambina, spegneva le candele prima di coricarsi, aspettando con ansia che venisse il momento di svegliarsi per andare a caccia con suo padre. Di rado riusciva a dormire, in quelle notti di attesa, e quando l'andavano a chiamare, era ancora sveglia e pronta a inoltrarsi nei boschi con la luce della luna come unica guida.

Cullata da quella sensazione familiare e piacevole, la Sforza sollevò appena l'angolo delle labbra e poi, lentamente, avvertendo di colpo la pesantezza del proprio corpo e la fatica che le costava ogni singolo movimento, schiuse gli occhi.

Al suo capezzale, a differenza di quello che si era attesa, non c'era nessuno. O, almeno, quella era stata la prima impressione che aveva avuto. Infatti, quando aveva provato a sollevare una mano, per saggiare la reale difficoltà dei suoi muscoli nel rispondere a un suo comando, aveva visto uscire dalla penombra il profilo di un uomo.

La prima reazione del corpo della Tigre, del tutto indipendente dal suo pensiero, fu quella di provare a scappare. Il senso di impotenza che la pervase, nel momento stesso in cui si accorse che il suo corpo non sarebbe stato in grado, nemmeno volendo, di sottrarsi a una minaccia, la sprofondò in un panico che non sapeva come affrontare.

Stava già annaspando, respirando a fatica, sudando come mai in vita sua, quando, con le mani protese in avanti l'uomo che era nella stanza con lei, sussurrò: “Sono io...”

Con la mente annebbiata dalla paura, gli occhi della Leonessa ci misero qualche secondo, prima di mettere a fuoco il viso rassicurante di Fortunati. Malgrado fosse ormai cosciente di essere in presenza di un uomo di cui si fidava e a cui, in fondo, sapeva di voler bene, però, Caterina non riusciva a calmarsi.

“Siete sfebbrata solo da qualche ora.” disse il piovano, sedendosi sullo sgabello che era stato sistemato proprio accanto al letto: “Siete stata male per giorni...”

“Mi hanno avvelenata?” chiese la Sforza, con la voce graffiata.

Francesco si guardò alle spalle, circospetto, come temendo che nel buio della stanza che dominava il Belvedere ci fosse nascosto qualcuno pronto a sentire tutto quello che si stava dicendo.

Solo dopo un breve istante di incertezza, l'uomo rispose: “Non lo sappiamo.”

Il plurale, usato non a caso, lasciò intendere alla donna che il suo stato di salute fosse stato motivo di discussione per giorni tra i membri del suo seguito e forse non solo tra loro. In fondo, si diceva, i francesi l'avevano lasciata nelle mani di Cesare Borja, ma solo a patto che ne preservasse la salute, trattandola al pari di una nobile ospite e non di una carcerata. Non sapeva dire, però, quanto i francesi fossero intenzionati a verificare che il figlio del papa mantenesse realmente il suo impegno.

L'unica cosa di cui poteva dirsi moderatamente certa era che se fosse morta per un presunto avvelenamento, almeno uomini come Yves d'Alégre o l'Aubigny avrebbero cercato se non altro di far chiarezza.

“Mentre ero incosciente – chiese la Tigre, masticando un po' l'aria, la gola arsa e il cuore che batteva più rapido ogni qualvolta provava a sistemarsi meglio sul cuscino – è successo qualcosa di importante?”

Francesco deglutì e poi, allungando titubante una mano verso di lei, le sfiorò la fronte, con il pretesto di accertarsi che la febbre fosse davvero scesa, e poi rispose: “Sono successe alcune cose, sì. Ma adesso è notte. Meglio riposare ancora un po'. Ne parleremo domani.”

“Ne parleremo adesso.” lo contraddisse la milanese.

“No. Dovete riposare. È fondamentale che vi riprendiate, adesso.” insistette Fortunati, sfoggiando un'autorevolezza che sapeva di non avere, dinnanzi alla sua signora.

“Invece ne parleremo adesso.” tagliò corto Caterina, indicando la brocca dell'acqua che si intravedeva nella penombra sulla scrivania: “Ho la bocca secca.”

Interpretando alla perfezione quell'ultimo inciso, il piovano si affrettò a farla bere, ma poi, appena la Leonessa si fu dissetata, l'uomo fece finta di nulla e le augurò un buon riposo.

“Non credete di fare il furbo con me.” lo riprese la Sforza: “Raccontatemi tutto.”

Suo malgrado, Fortunati, che aveva ricevuto in modo abbastanza costante notizie da Firenze sulla situazione in Lombardia, pur con riluttanza, si mise a spiegare alla sua signora cosa fosse successo a Novara.

Preferì non parlare di un altro aspetto che aveva reso per lui quei giorni molto pesanti, ovvero la presenza di Alessandro Braccio lì a Roma, come portavoce di Ottaviano Riario, e, se ben aveva capito, anche del di lui fratello Cesare. Era certo che Caterina se ne sarebbe angustiata oltre misura, perché una mossa tanto azzardata era un errore sotto ogni punto di vista. Era vero che, per il momento, Braccio era rimasto in disparte, non lasciando trapelare il vero motivo del suo arrivo nell'Urbe, ma, prima o poi, il papa avrebbe capito chi l'aveva mandato e da dove, soprattutto, era partito, e a quel punto la copertura dei figli della Tigre sarebbe saltata.

Insomma, paradossalmente, discutere della disfatta del Moro risultava molto meno spinoso.

“E i miei fratelli Ermes e Alessandro?” chiese la Leonessa, dopo che il piovano aveva finito di raccontarle di Novara, elencando i prigionieri più illustri fatti dai francesi.

Francesco sporse un po' in fuori le labbra e poi rispose: “Sembra che vostro fratello Alessandro, assieme al Cardinale Ascanio, si siano ritrovati a Milano e ne siano usciti passando per Porta Ludovica, per ritrovarsi anche con vostro fratello Ermes e con Giovanni Gonzaga.”

“Sono andati in Val Tidone?” ipotizzò Caterina, valutando le vie più facilmente raggiungibili da quella porta.

“Così sembra.” ammise Francesco, stringendosi le mani l'una nell'altra, augurandosi che le domande fossero finite così.

Ormai stava per albeggiare, e anche se il cielo era sporcato da qualche nuvola in lontananza, presto avrebbe fatto chiaro. Il fiorentino avrebbe preferito che la sua signora si prendesse ancora qualche ora per riposare, perché sapeva che, giunto il giorno, essendosi ripresa, sarebbe subito stata tempestata di domande da parte del nuovo capo dei carcerieri, un certo Aloisio, e da un medico del papa, entrambi ben determinati ad allontanare ogni ombra di sospetto dal pontefice, portando la stessa prigioniera ad ammettere che quel suo malessere era stato solo uno strano e nefasto attacco di malaria.

“Prima avete citato anche Lucio Malvezzi... Lui che fine ha fatto?” domandò la Tigre.

Le importava poco, in realtà, di quel condottiero, ma in quel momento le sembrava che tutto ciò che aveva a che fare con la disfatta di suo zio, compresa la sorte dell'ultimo dei suoi comandanti, fosse per lei fondamentale.

Fortunati aveva sentito solo della voci, sulla sorte di Malvezzi, ma, per non tirare troppo in lungo la questione, decise di riferirle come se fossero una verità assodata: “Era scappato a Milano, e da lì all'abbazia di Chiaravalle Milanese. Stava andando verso Cremona, travestito da frate francescano, ma era seguito, e quando si è fermato in una locanda per la notte, è stato arrestato.”

“Mi spiace.” disse piano la donna.

“Mi spiace dirlo – fece il fiorentino, quasi in un'eco delle parole della milanese – ma ormai tutti stanno abbandonando gli Sforza. Il re di Napoli ha concesso qualche giorno fa il Ducato di Bari a Isabella d'Aragona, in via ufficiale. E Giano Fregoso, malgrado la parentela che lega la sua famiglia alla vostra, per mezzo del matrimonio tra vostra sorella Chiara e Fregosino, si è messo in armi in Liguria, per impedire al Moro o a qualcuno a lui vicino di rimettere le mani su Genova...”

“Stanno spogliando un Ducato già morto.” decretò la Tigre, deglutendo a fatica e facendo segno affinché le venisse data dell'altra acqua.

Mentre le dava da bere, Francesco annuì tristemente e poi concluse: “Mi auguro solo che si possa far ancora qualcosa per voi...”

“Finché i miei figli sono al sicuro, di me non mi interessa. Sarei dovuta morire in battaglia, a gennaio, sotto il fuoco nemico. Quello che sto passando adesso, credo sia solo il preludio all'inferno che mi aspetta dall'altra parte.” la voce della Sforza era sottile, come un soffio di vento primaverile che si perdeva in mezzo ai turbini arroganti di una tempesta.

Fortunati sollevò appena un sopracciglio, ripensando all'arrivo di Braccio e ai movimenti che aveva già intravisto in Vaticano, chiedendosi per quanto i figli di Caterina si sarebbero davvero potuti dire al sicuro.

La Leonessa notò quell'espressione e, abituata com'era da anni di comando in solitaria a cercare di interpretare anche i più piccoli segnali che giungevano dai suoi collaboratori, chiese: “Mi nascondete qualcosa? È successo qualcosa ai miei figli?”

“No, no, per ora no.” rispose il piovano, andando a peggiorare i sospetti della Tigre.

“Che cosa dovrei sapere?” domandò lei, preparandosi al peggio.

“Per ora pensato solo a riposarvi ancora un po'. Saranno giorni pesanti.” si raccomandò Francesco, e, sfiorandole la fronte in modo simile a come aveva fatto all'inizio della loro conversazione, si alzò dalla sgabello e andò verso la porta.

Mentre l'uomo bussava per farsi aprire dai secondini, la Leonessa provò a richiamarlo all'ordine, esclamando: “Fortunati! Voglio una spiegazione! Voglio sapere!”

Il piovano, però, non si voltò indietro e la donna dovette restare con i suoi dubbi fino a che, un paio d'ore dopo, non arrivò Argentina, assieme ad altre due donne del seguito, per aiutarla a sistemarsi un po' meglio.

“Sai se è successo qualcosa ai miei figli?” domandò la milanese nell'orecchio della serva, mentre questa la faceva piegare un po' in avanti per detergerle la schiena con una pezza umida.

Argentina dapprima scosse il capo e poi, come ripensandoci, chiese: “Potrebbe c'entrare l'arrivo di quel Braccio che è giunto qui da Firenze?”

La Tigre sentì il sangue gelarsi nelle vene: “Ha cercato di parlare con il papa? Chi l'ha mandato? È stato mio figlio Ottaviano?”

“Non so nulla, in realtà...” ammise la serva, bisbigliando come la sua padrona: “Ma posso informarmi.”

“Sì, informati.” ordinò la Tigre e poi, docile come una bambola di pezza, lasciò che finissero di accudirla e poi tornò a coricarsi, sfinita e con la mente ancora un po' confusa, in procinto di annegare in pensieri cupi e senza soluzione.

 

“Ma sa solo piangere, quel bambino?!” Pandolfo si stava tenendo le tempie con i palmi delle mani, esasperati dal pianto dirotto e inconsolabile del piccolo Roberto, venuto al mondo da sì e no un mese: “Mi scoppia la testa!”

Violante, che teneva in braccio il piccolo, ma che non sapeva come calmarlo, dato che né voleva poppare, né riusciva a dormire, aveva assunto un'espressione severa che ben si accompagnava al tono della sua voce: “La testa ti scoppia perché questa notte hai bevuto da solo il vino che sarebbe bastato per dieci uomini, non certo per il pianto di questo bambino. Non lo senti? È come il miagolio di un gatto...”

Il Malatesta mandò silenziosamente a quel paese la moglie e poi esclamò: “Non sei nemmeno capace di badare a un figlio! Se fossi una brava madre, sapresti farlo smettere!”

“Finché gridi a questo modo – sentenziò lei, guardando con distacco il piccolo Roberto – non la smetterà mai.”

“E che dovrei fare, allora?!” sbottò il Pandolfaccio, che si aggirava ancora in abiti da camera, come un pazzo, avanti e indietro davanti al letto su cui era seduta la moglie.

“Vestirti, con abiti puliti, magari...” propose Violante, gelida: “E levarti di torno.”

Per un istante, quell'inciso ebbe il potere di accendere il Malatesta, che, bellicoso, si era voltato di scatto verso di lei, con una mano sollevata. Quando, però, la donna aveva sollevato appena il bambino, usandolo di fatto come scudo vivente, il signore di Rimini era stato costretto a reprimere il proprio slancio di rabbia.

La verità era che Pandolfo non voleva incontrare nessuno. Lì a Venezia si sentiva come un pesce fuor d'acqua, del tutto inadatto e incompreso. La sera prima, poi, era stata per lui una vera e propria tragedia.

Bartolomeo d'Alviano aveva lasciato Isola della Scala ed era rientrato a Venezia. Il Doge l'aveva ricevuto immediatamente. Il Malatesta era stato presente, come invitato al banchetto, alle richieste ossequiose di Barbarigo, e non aveva potuto evitare di fare un banale confronto. Il Doge si era quasi inginocchiato davanti a un uomo da nulla come l'Alviano, chiedendogli di distaccarsi in Friuli, per arginare possibili scorribande turche, mentre a lui, che era signore di Rimini, aveva concesso a mala pena due brevi incontri, da che era lì a Venezia, e solo per ricordargli il debito di riconoscenza che i Malatesta avevano con la Serenissima.

Quel confronto spietato aveva portato il Pandolfaccio a cercare consolazione nel vino e poi, a cena finita, nelle bellissime donne di Venezia. Alla fine, senza sapere come vi fosse arrivato, si era risvegliato nel letto di sua moglie, in abiti da camera, con una fortissima nausea e la testa che pulsava come non mai.

“Come sempre – fece l'uomo, guardando di traverso Violante – non capisci assolutamente nulla...”

“Io non capirò nulla – disse lei, di rimando – ma finché ti comporti come ti stai comportando, il Doge ti stimerà sempre meno, e noi non solo non riavremo mai più il controllo diretto di Rimini, ma non avremo nemmeno più questo palazzo a Venezia. Pensaci, o finirai a pentirtene, quando saremo assieme ai nostri due figli sotto un ponte a cercare riparo per la notte.”

Siccome il piccolo Roberto sembrava aver intensificato il pianto dirotto, il Pandolfaccio decise di chiudere la questione. Si vestì in fretta, scegliendo gli abiti meno in disordine che aveva e poi, intimando alla moglie di non prendere iniziative mentre era sola, lasciò il loro alloggio.

Senza una meta precisa, camminò per le calli di Venezia, tornando, alla fine, davanti al palazzo del Doge. Dal mare spirava un'aria salmastra che al riminese pareva nauseante. La nostalgia della sua terra divenne feroce, tanto da instillare in lui un coraggio nuovo. Deciso a reiterare le sue richieste di una condotta sicura a Barbarigo, pronto a minacciare, in caso contrario, di tornare subito a Rimini, mise un piede davanti all'altro e, ormai all'ingresso del palazzo, si fece frettolosamente il segno della croce, sperando di ottenere qualcosa.

Non temeva tanto l'insuccesso, giunto a quel punto, ma la reazione di Violante una volta che ne fosse venuta a conoscenza. Anche se il Malatesta faceva finta di non tenere in minimo conto il suo giudizio, aveva capito quanto fosse l'unica, tra loro, a capire il mondo. Anche se non era all'altezza di sua madre, Elisabetta Aldrovandini, era comunque un appoggio a cui Pandolfo non voleva rinunciare. Farle capire che anche lui era in grado di fare qualcosa, oltre che combattere, gli sarebbe servito a non inimicarsela troppo e a sfruttare il suo cervello fino.

“Pandolfo Malatesta.” si annunciò, quando la guardia gli chiese chi cercava il Doge: “Signore di Rimini.”

 

 

 
   
 
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