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Autore: FrenzIsInfected    03/08/2020    3 recensioni
Ucraina, 2009.
Un'apocalisse zombie costringe sei persone a trovare rifugio nella Zona di Esclusione di Chernobyl. Quello che sembrava una normale missione di salvataggio, però, si rivelerà per alcuni di loro un ritorno al passato.
- Seconda classificata e vincitrice del premio "Survival" al contest "Gli ultimi di noi" indetto da zenzero91 sul forum di EFP.
Genere: Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Primo capitolo

5

 

 

 

Zona di Esclusione di Chernobyl, Ucraina.

8 Novembre 2009.

Ex base militare sovietica Chernobyl-2.

10:34.

Anatoli Zelenko, Boris Volkov, Vassili Karavaev, Serg. Olga Petrova, Sergei Kabakov, Irina Kabakova.

Il gruppo deve raggiungere Pripyat.

 

 

Le nuvole continuavano ad aleggiare nel cielo sopra la Zona. Il gruppo di sopravvissuti si stava preparando a lasciare la base di Chernobyl-2, controllando armi, munizioni e provviste. Ad attenderli, al cancello, c’erano Yaremchuk, Kovalenko e Svatok, vicino a un furgone modello UAZ-452 già carico e un pick-up modello Tarpan Honker.

«Signori, quando volete, i miei uomini sono pronti a partire» annunciò il capitano. «Non volevo rimandare Kovalenko fuori, dopo quello che ha passato, ma ha insistito per voler ricambiare il favore. Svatok invece conosce la Zona meglio di tutti noi. Un suo vecchio amico era una guida turistica, ed è venuto qui spesso.»

L’uomo salutò il gruppo, augurando buona fortuna a tutti.

«Un’ultima cosa. Arrivano rapporti da Pripyat che parlando di non morti provenienti dalla Foresta Rossa con livelli di radioattività elevata. Se i dosimetri iniziano a urlare più del solito, correte» aggiunse, prima di andarsene.

Feodor si fece avanti.

«Svatok, prendi con te Irina, Sergei e Boris nell’Honker, e vai in testa. Sergente Petrova, agente Karavaev, Anatoli, voi verrete con me sull’UAZ» disse, entrando nel mezzo.

Il gruppo prese posto nei mezzi assegnati, poi i due soldati fecero cenno ai commilitoni di aprire il cancello, lasciandosi l’imponente antenna alle spalle.

 

 

«Irina… cosa ricordi di Pripyat?» domandò Boris, poco dopo aver lasciato la base.

«Poco o nulla. Avevo tre anni quando ce ne siamo andati.»

«Probabilmente ti ricordi il Palazzo della Cultura, l’hotel, la piscina e il luna park.» intervenne Svatok.

«Sì, ora che ci penso. L’Hotel Polyssia e il Palazzo della Cultura, l’Energetyk… erano enormi. E papà mi portava spesso alla piscina Lazurny, dove c’era la vasca olimpionica. Facevamo certe nuotate… e dopo, con mamma, andavo al Raduga, il centro commerciale, a fare la spesa. Del luna park ricordo solo la ruota panoramica, che sarebbe dovuta aprire in occasione della Festa del Lavoro. Volevo farci un giro, e papà non faceva altro che ripetermi “ci andremo quando torneremo”. Senza sapere che non saremmo più tornati.»

«Bei tempi, Boris… erano bei tempi» sospirò Sergei, guardando fuori dal finestrino.

«Avete avuto modo di ritornarci?»

«Ci sono famiglie di ex abitanti che visitano Pripyat nella ricorrenza dell’anniversario. Ma io e Irina non ci abbiamo più messo piede dal 1986. Era una bella città… e non ho voluto rovinare i miei ricordi.»

«Ti piacerà anche la Pripyat del 2009. Vedrai.»

I due mezzi impiegarono una decina di minuti prima di reimmettersi sulla strada principale, mettendo a dura prova gli ammortizzatori in quel viale che non riceveva manutenzione dall’abbandono della stazione radio, nel 1989. Una volta arrivati alla fine di esso, Svatok diede una rapida occhiata in giro.

«Zombie!» fece Sergei, indicando verso destra.

Un gruppetto di non morti, provenienti probabilmente da Chernobyl, vagava in lontananza.

«Non sembrano essersi ancora accorti di noi. Ma faremo bene a stare all’erta. Gli uomini hanno paura delle radiazioni, gli zombie no» disse Svatok, voltando a sinistra.

«Che intendi dire?» chiese Boris.

«L’area che stiamo per attraversare è altamente contaminata. Passeremo a pochi metri dalla Foresta Rossa, dove, nel giorno del disastro, gli alberi subirono un fallout radioattivo. Il colore delle foglie divenne rosso, e le piante morirono. Anche oggi, a distanza di ventitré anni, l’area presenta livelli di radioattività eccessivamente alti.»

I passeggeri dell’Honker continuarono a osservare guardinghi il circondario. La fitta vegetazione ai lati della strada poteva nascondere senza problemi un ingente numero di zombie.

Un chilometro dopo, la strada iniziò a curvare, fino a diventare nuovamente un rettilineo. Ai lati di essa, la vegetazione iniziò a farsi meno fitta, lasciando spazio ad ettari di campi incolti puntellati da alberi. All’orizzonte, qualcosa catturò l’attenzione di Boris.

«Laggiù! La centrale nucleare!»

Col passare dei secondi, i quattro videro sempre più nitidamente il monumentale camino rosso e bianco della centrale di Chernobyl. Sotto di esso, chiusi nel Sarcofago, c’erano i resti del reattore numero 4.

Sergei strinse la mano a Irina, che teneva come sempre Masha tra le mani. Non erano mai stati così vicini a casa da anni.

 

«Non penso sia stata una buona idea.»

Vassili aveva rotto il silenzio. Kovalenko guardava nervoso i lati della strada, gettando occhiate fugaci sullo specchietto retrovisore, alla ricerca di zombie.

«Che cosa?» biascicò Olga, col lecca-lecca rigorosamente in bocca.

«Mandare Sergei nell’Honker. Se gli zombie ci attaccano, spetta a loro difenderci. E quel tizio non ha mai sparato un colpo in vita sua.»

«Non penso che sia una cattiva persona.» intervenne Anatoli. «Scommetto che, nel momento del bisogno, saprà sorprendere chi non gli ha dato fiducia.»

«Lo spero per lui. Quell’uomo merita un po’ di redenzio…»

La radio di Feodor si accese, propagando la voce di Svatok.

«ARRIVANO!»

Dal lato sinistro della strada uscirono una ventina di zombie urlanti, che iniziarono a seguire i due veicoli.

«Non sparate!» continuò il conducente dell’Honker via radio. «Possiamo seminarli, non sono tanti. Il problema, forse, verrà tra poco, quando arriveremo ai ruderi di Kopachi.»

Arrivati nei pressi del villaggio parzialmente demolito, le paure del soldato si rivelarono fondate. All’altezza del memoriale eretto a ricordo del paese che non c’era più, i soldati e i civili trovarono decine di zombie che, alla vista dei mezzi, si lanciarono all’inseguimento, unendosi ai precedenti inseguitori.

«Kovalenko, sorpassami! Se le cose dovessero mettersi peggio di così, fungeremo da esca» ordinò il conducente dell’Honker, che venne sorpassato dopo pochi secondi dall’UAZ.

Col passare dei secondi, il numero dei non morti che gli stavano alle calcagna aumentava. A momenti, i loro versi sovrastavano il rumore dei mezzi.

Poco dopo aver oltrepassato il cartello che indicava la fine dell’ex villaggio, un bivio apparve agli occhi di Feodor.

«Svatok, dobbiamo dividerci! È l’occasione buona!» esclamò in radio, iniziando a voltare verso destra.

«No! Quella strada porta ai cantieri dei reattori 5 e 6. Finiremmo per portarli troppo vicini alla centrale!» urlò il commilitone, costringendolo a sterzare bruscamente per infilarsi sulla strada a sinistra.

«Allora trova una soluzione in tempo, Svatok! Se siamo così vicini alla centrale, vuol dire che non abbiamo molta strada da fare per raggiungere Pripyat.»

Kovalenko iniziò a sudare. Non intendeva morire. Non dopo esser scampato a morte certa il giorno prima.

A Olga non sfuggì lo sguardo impanicato del commilitone, che peggiorò non appena arrivarono al confine sud della Foresta Rossa, sentendo il dosimetro di Vassili iniziare a fare baccano.

«Oh, cazzo.»

Il poliziotto, tra gli alberi, vide spuntare i famigerati zombie radioattivi. Il dosimetro urlava sempre di più.

«Svatok, siamo nella merda!» urlò alla radio Kovalenko.

«Aprite il fuoco! Ho un’idea!» esclamò l’altro.

Il gruppo mise le armi fuori dai finestrini e iniziò a sparare. I passeggeri dell’Honker riuscirono a sfoltire, seppur di poco, il gruppo degli inseguitori, e, con grande sorpresa di tutti, Sergei aveva preso a sparare col suo AK-74.

«NON AVRETE MAI MIA FIGLIA, STRONZI!» urlò, accoppando uno zombie dietro l’altro.

«Che ti dicevo, Vassili?» rise Anatoli.

Due chilometri più avanti, il gruppo trovò l’ennesimo bivio, ma stavolta non avevano dubbi su quale strada prendere. Una stele di marmo bianco con la scritta Pripyat 1970 indicava verso sinistra.

L’urlo che sentì Kovalenko dalla radio qualche secondo dopo lo spaventò.

«PREMI QUELL’ACCELLERATORE E SEMINAMI! CI VEDIAMO A PRIPYAT, FRATELLO!»

Feodor non se lo fece ripetere due volte. Affondò il piede sul pedale e sfrecciò sul rettilineo. Dallo specchietto retrovisore, fece appena in tempo a vedere l’Honker svoltare a sinistra, su una strada secondaria, prima che il dosso formato dal ponte che aveva appena passato, rimasto nella leggenda come Ponte della Morte, gli ostruisse la visuale.

L’UAZ continuò a sfrecciare lungo il viale disseminato di lampioni arrugginiti, fino a quando non iniziarono a vedere la sagoma di alcuni palazzi stagliarsi sopra gli alberi.

«Che spettacolo» sussurrò Olga.

La città era stata invasa dalla foresta. La natura sovrastava il cemento, e i palazzi si ergevano in condizioni fatiscenti. All’epoca era una città modello dell’URSS, quasi un paradiso terrestre all’ombra dell’atomo. Ma ora, in pieno autunno, ventitré anni dopo il suo abbandono, Pripyat apparve ai loro occhi per com’era: lo scheletro di un’epoca passata così lontana e vicina al tempo stesso.

Un checkpoint, un cartello col nome della città, delle barriere di filo spinato e un paio di militari accolsero Feodor, Olga, Anatoli e Vassili tra le rovine dell’atomgrad rimasta ferma nel tempo alle ore 14 del 27 aprile 1986.

«Benvenuti a Pripyat, signori.»

In lontananza, si sentì un’esplosione. 

 

 

 

continua...


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Sì, signore e signori. A causa del limite di parole del contest, ho dovuto concludere col colpo di scena finale la storia.

State tranquilli, però. Il sequel è in fase di scrittura, arriverà per settembre/ottobre e sarà ancora una volta una mini-long.

Vi ringrazio infinitamente per avermi seguito fin qui.

Alla prossima,


Frenz
  
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