CAPITOLO QUINDICI
“Hai dei nemici? Bene.
Questo significa che
hai lottato per qualcosa, a volte,
nella tua vita”.
Winston Churchill.
“Chi si innamora si
innamora di sé stesso”.
Tonino Guerra.
Sono un ostaggio, senza
ombra di dubbio.
Cerco di divincolarmi
agli energumeni, non mi frega un accidente di quello che quella matta ha detto.
Sono furioso, ma anche
sbigottito. Cosa vorrà farmi quella donna? Davvero crede di potermi utilizzare
in qualche modo?
Penso di essere passato
dalla padella alla brace.
I miei rapitori, come
tali li considero ormai, mi obbligano a tenere le braccia incrociate dietro la
schiena e mi spingono dentro a una berlina nera dai vetri oscurati.
Alcune macchine
transitano a tutta velocità, spero che abbiano notato quel che sta accadendo e
che si fermino magari per aiutarmi o quanto meno denunciare il fatto, ma tutti
tirano dritto. È buio, forse a quella velocità nemmeno si concentrano sui
dettagli a margine della carreggiata.
Noto che uno degli
omaccioni è salito a bordo della mia auto e si accinge a guidarla, per portarla
chissà dove. Smanetta pure con il mio cellulare, sporco bastardo…
“State commettendo un brutto
errore” sancisco, rivolgendomi ai due energumeni che si sono seduti ciascuno a
un mio fianco e all’anonimo guidatore.
Nessuno risponde o fa
una piega. La berlina schizza via, con la mia automobile che apre la strada.
Non ci vuole molto
prima di giungere alla meta; villa Stradford.
L’avevo visitata solo
una volta di giorno, e devo ammettere che tra batticuore e buio mi sento
avvolto in una atmosfera degli orrori. Mi rassicura solo la consapevolezza che
la signorina ha commesso uno sbaglio così immenso da metterla nei guai per
prima, soprattutto portandomi pure a casa sua. Va bene che la residenza ha un
buon livello di isolamento, ma neanche troppo eccessivo.
Sono comunque convinto
che sarà il primo posto nel quale mi cercheranno l’indomani.
La berlina si ferma e
vengo spinto a scendere; al cospetto del monumentale ingresso, la signorina
Stradoford mi aspetta con tutta la sua spocchiosa eleganza. A passi lenti
scende la breve scalinata e si posiziona a fianco della mia macchina, anch’essa
portata lì.
“I miei ragazzi non le
hanno fatto mancare niente, vero, agente?”
“Non faccia
dell’ironia, per favore. La situazione è gravissima!” quasi l’attacco,
furibondo.
“Lasciatelo
immediatamente” riprende gli energumeni con severità, per poi avvicinarsi a me.
Mi passo le mani sulla
divisa, provando a rivitalizzare gli arti indolenziti dalla scomoda posizione
che ero stato costretto ad assumere, mentre penso a come attaccare verbalmente
la donna, al fine di andarmene al più presto e di farla ragionare. Lei però mi
sorprende; si avvicina a passo felpato e con una familiarità naturale mi
appoggia entrambe le mani sulle spalle.
“Venga in casa, la cena
l’aspetta”.
“La cena…” m’interrompo
un attimo, quasi balbetto e m’inceppo, perché da una parte vorrei aggredirla,
ma dall’altra il contatto mi ha trasmesso un senso di smarrimento, “…la cena me
l’ha preparata mia moglie. I miei figli mi attendono”.
“Per favore” infine
sussurro, quasi pietosamente.
La signorina mi
sorride, e il suo viso s’illumina grazie al bagliore soffuso di una lampada da
giardino posizionata a poca distanza.
“La sua famiglia è al
sicuro e al corrente di tutto, presto potrà contattare sua moglie e domani
tornerà da lei. Però questa notte abbiamo alcune cose su cui parlare”.
“Non mi rassicura,
così. Si sta comportando in modo scorretto, oltre che violando tutte le leggi
civili”.
“Altri l’hanno già
fatto in modo più grave, agente. E si fidi di me, una buona volta; sto facendo
tutto questo per il bene comune”.
“Mi sta sequestrando.
Le sembra una correttezza?”
“Forse sì, forse no.
Non lo so” sorride, “credo che sia meglio chiacchierare un attimo, prima di
cenare. Che ne pensa?”
“Posso scegliere?” le
domando, ironico e abbattuto.
Gli energumeni restano
a un paio di centimetri da me, pronti a fermarmi al primo movimento.
“Direi di no” risponde
lei, non senza una pacata vena ironica.
La villa della famiglia
Stradford mi pare più cupa del giardino. Se fuori almeno c’è un lampioncino che
illumina la prossimità dell’ampio ingresso, tra le mura domestiche solo delle
lampadine allungate si prendono cura della luminosità dei vari ambienti. Di
quelle lampadine di una volta, dalle forme arzigogolate e dal colore caldo, non
certo a led.
Questo getta ombre di
svariati generi un po’ dappertutto.
La signorina mi fa accomodare
in un ampio salotto e mi indica una poltroncina di velluto; di fronte a me, un
tavolino di vetro. Con sopra… sta a vedere…
“No” mormoro,
bloccandomi sul posto.
Sul tavolino ci sono le
prove e i documenti che avevo lasciato a casa quella stessa mattina. Alzo lo
sguardo verso la Stradford e mi sento afferrare di nuovo dai due bastardi,
prima che possa compiere qualche avventatezza.
“Agente, deve smetterla
di essere così irascibile. Gliel’ho detto, qui siamo tra amici, inoltre le
posso garantire e continuerò a spergiurarglielo che la sua famiglia è protetta
e tranquilla. Però queste prove dovevo riprendermele, altrimenti le
troveranno”.
Angelina si siede
davanti a me e ancora una volta si dimostra di una tranquillità impeccabile.
Mi sbollisco un attimo,
consapevole di essere ormai impotente.
“Spero veramente che
sia così” riesco a dire solo questo. Ora penso solo alla mia famiglia, al
diavolo questo caso.
“E’ così, glielo giuro”
ribadisce, più seria che mai, prima di compiere un ampio gesto categorico con
le mani, “ma adesso andiamo al punto, prima che le prenda un infarto”.
Si siede e i due
energumeni mi obbligano a farlo a mia volta. Non oppongo alcuna resistenza,
prima si sfoga la pazza e prima sarò libero di tornare a casa, almeno spero.
“Tutto questo sta
succedendo perché io le permetterò di tornare ad essere un agente speciale”
afferma dopo un attimo di silenzio.
“Questo non è affatto
possibile, signorina. Sa che ho perso la carica, me l’ha confermato lo sceriffo
poco fa…”.
Lei banalizza ancora con
un gesto repentino delle mani e mi interrompe senza troppi rimorsi.
“Sa che esistono
cariche superiori allo sceriffo. Domattina nell’ufficio di questo signore,
appunto, giungerà la richiesta di riaffidarle di nuovo il distintivo speciale e
il caso”.
“Non…” balbetto, “non
posso. Non ne sono convinto. Questa storia non mi piace…”.
“Le piace, le piace”
torna ad interrompermi di nuovo, “perché lei è la persona giusta per me. Potrei
trovare un’infinità di agenti pronti a un pericoloso ruolo di primo piano, ma
nessuno è dotato della sua matura saggezza e della sua cautela. Agente Barley,
lei mi aiuterà a distruggere i piani della Saint Mary House e la corruzione
della polizia locale, vendicando mio padre”.
“Io…”.
“Si farà tanti nemici,
questo lo sa, vero? Da domattina nulla sarà più come prima, ma la sua famiglia
e la sua casa saranno protette a mie spese e sempre a mie spese avrà libero
accesso a ogni luogo dello Stato. Dovrà solo fidarsi di me e lasciare che
un’altra persona fidata l’aiuti”.
Alle sue spalle emerge
gradualmente una figura, dalla penombra. Si tratta di un uomo.
Appena la luce illumina
il suo volto, non stento a riconoscere quel signore che ho urtato per errore
all’ingresso della clinica qualche giorno prima.
“Mi ha riconosciuto,
vero?” chiede, sorridendo.
Annuisco.
“Sono il detective
Jerry Dalton, e non per vantarmene, ma sono il migliore di tutto l’Ohio. La sto
aiutando a raccogliere decine di prove e a far parlare chi sa. D’ora in poi
sarò un suo alleato fedele e saprà che in ogni caso potrà fidarsi di me”.
Sono confuso e non so
bene cosa dire; sembra che mi stia precipitando il mondo addosso. Credo infine
che quelli siano tutti dei pazzi che non sanno quel che dicono.
“Avete tutte le prove
tra le mani, avete una testimone e pure alte cariche delle Forze dell’Ordine
dalla vostra parte. Sono inutile per questa causa, come ho dimostrato. Rifiuto,
se posso” cerco razionalmente di dire. Un mio diniego, tuttavia, non fa
cambiare idea alla Stradford.
“Non può” afferma,
infatti, “e si ricordi di queste nostre parole. Lei domattina si sveglierà e
sarà in pericolo; avrà tutti contro, soprattutto i suoi superiori locali. Ma
saprà di chi fidarsi. Il numero è quello che le ho lasciato, la linea protetta è
il canale più sicuro per comunicare liberamente. Le chiedo solamente di recarsi
al commissariato e di tornare a prendere in mano il distintivo, prima di
tornare a fare un bel giretto alla clinica…”
“No!” grido.
“Con lei non si può
parlare, credevo fosse più ragionevole. Tuttavia so che domattina lei agirà
come le ho detto, non ha altre occasioni per aver salva la pelle, la famiglia e
la carriera… stia al gioco, per favore; avrà anche un amico ad aiutarla, da ora
in poi”.
Cerco di rispondere
ancora mentre il mio cuore accelera ulteriormente i battiti, ma una mano mi
comprime sul naso e sulla bocca un fazzoletto umido.
Sono costretto a
inspirare il sonnifero, nonostante mi dibatta il forzuto che mi opprime non mi
lascia scampo. Presto vengo avvolto dal nulla.
A Sud-Est di Cesena, ci sono decine di paesini strani.
Ci vivono poche persone, si tratta per lo più di borghetti
affacciati su strade provinciali dalle buche profonde, carreggiate ampliate in
fretta e furia sul finire degli anni Novanta e poi lasciate al loro destino.
Sono pochi i centri abitati degni di rilievo. Eppure, una
cosa che mi ha sempre affascinato di questa porzione di Romagna è che lì tutto
all’improvviso cambia; nei nomi delle varie località spariscono i riferimenti a
santi o a centri conosciuti, è come se quel lembo di terra proteso tra le
colline e il mare Adriatico avesse scelto un destino a sé stante.
In un semplice viaggetto di meno di mezz’ora si può
attraversare Mensa, Matelica, Cannuzzo, Montaletto, Pisignano. Ancora centri
dai nomi meno assurdi. Poi, ci si addentra in quella zona che tanto mi affascina,
dove la terra diventa sabbiosa e dipende da quale direzione scegli, poiché
appunto dalla tua scelta dipende quello che vedrai.
Se scegli di andare verso il mare, devi attraversare i
dintorni di Cesenatico, e ti potrà capitare di attraversare Sala, Bagnarola,
Macerone. Se vai verso Cesena e la fascia pedemontana, Ruffio, Calabrina, Villa
Calabra, Pioppa, Bulgarnò, e…. Bulgaria. Ebbene sì, oltre a nomi strambi e a
regioni d’Italia, viene tirato in ballo pure uno Stato balcanico.
Anni addietro amavo questo limbo, mio padre mi ci portava
spesso a fare giretti in macchina per farmi passare il tempo. Ero un bambino
molto semplice e non mi ponevo tante domande, mi limitavo a osservare il
graduale scorrere dei piccoli centri abitati e i tramonti rossicci di quelle
aree rurali, dove i campi si estendono a vista d’occhio e le case sorgono solo
lungo le strade principali.
Nel crescere, fantasticavo su questi nomi e mi faceva ridere
Bagnarola, che mi faceva pensare subito a una barchetta mezza marcia che
imbarca acqua da tutte le parti; Macerone, che immaginavo come una macedonia di
frutta marcia. Pioppa, che immaginavo come un grande albero secolare; Sala,
come appunto una stanza di casa.
Insomma, prima che iniziassi a scrivere stronzate, la mia
mente già prendeva le sue sciocche vie.
Un giorno, nel crescere, quando l’adolescenza era ormai
finita e la barba nera già folta, mi sono reso conto che non tutto in questa
porzione di terra è dovuto al caso o alla banalità. Quei nomi assurdi e
strampalati sono infatti tutti nati da vicende storiche ben precise; Sala,
appunto dalla parola germanica probabilmente portata in Italia nel primo
medioevo, a indicare un importante centro longobardo.
Bulgaria e Bulgarnò, paesini vicini ma accomunati dall’essere
stati popolati dai Bulgari (o proto-bulgari) giunti nella penisola a più
ondate, giunti per dare man forte ai Longobardi, che donarono loro terre in
quel territorio faticosamente strappato ai bizantini.
Tutto ciò solo per fare un esempio pratico, non mi metterei
mai a fare una noiosa lezione di Storia, immaginando che a nessuno importi di
questi miei pensieri o di ciò che sto provando a cianciare.
Comunque, alla fine ho scoperto che nulla nella vita dipende
dal caso, nemmeno il nome di un paesetto insignificante immerso in campagne
sconosciute ai più. Piccole località composte da persone ormai anziane, mai uscite
da lì, e poco importa se hanno il mare a due chilometri… non ci sono mai
andati, nel migliore dei casi mai sono usciti dal cesenate.
Molte di queste persone hanno detto addio alle terre dei loro
antenati, dove per secoli le generazioni e le varie famiglie si sono
imparentate tra loro senza mai aver avuto bisogno di tanti sogni di grandezza.
Senza cellulari, senza tecnologia. E gli anziani di adesso, costretti a
lasciare Bulgarnò per finire in strutture a Cesena, in cui trascorreranno il
tramonto della loro vita, piangono e si disperano.
Non vogliono andare, sanno che non torneranno mai più. Poco
importa se le città apriranno loro le porte e li proteggeranno con strutture
attrezzate e personale medico adeguato, proprio no.
Ho visto giovani a cui fa sorridere tutto questo e provano
umanamente a incoraggiare i nonni, a dire che là staranno meglio, ma ciò non
basta. Quella è la loro casa. Nella sua infinita piccolezza.
E noi giovani, cresciuti con il mondo contenuto in un
cellulare e la geografia imbottigliata in un navigatore satellitare, sprezzanti
della morte, cosa ne sappiamo di tutto questo dolore? Cosa ne supponiamo? Che
non capiamo un emerito cazzo.
Mi rendo conto di come un paesino minuscolo e sconosciuto
come Bagnarola possa essere una capitale per qualcuno. È solo questione di
punti di vista.
Volle il Destino che, proprio da uno di questi borghi,
provenisse il mio G, ma questa, ancora una volta, è tutta un’altra storia. Adesso
che mi è passata la scottatura, sono pronto a rialzarmi ancora una volta. E ad
amarlo, nonostante tutto… e chissà quante volte ancora batterò la testa nella
mia cocciutaggine, che per lui tanto non conto una minchia, e chissà ancora quante
altre volte sarò costretto a rifugiarmi in pensieri stupidi o in storie
malsane, al fine di trastullare questa mia povera mente senza pace né gloria.