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Autore: Lacus Clyne    05/08/2020    4 recensioni
Una notte d'inverno. La città che non dorme mai.
Un'ombra oscura al di là della strada, qualcosa di rosso. Rosso il sangue della piccola Daisy.
Kate Hastings si ritrova suo malgrado testimone di un efferato omicidio.
E la sua vita cambia per sempre, nel momento in cui la sua strada incrocia quella di Alexander Graham, detective capo del V Dipartimento, che ha giurato di catturare il Mago a qualunque costo.
Fino a che punto l'essere umano può spingersi per ottenere ciò che vuole? Dove ha inizio il male?
Per Kate, una sola consapevolezza: "Quella notte maledetta in cui la mia vita cambiò per sempre, compresi finalmente cosa fare di essa. Per la piccola Daisy. Per chi resta. Per sopravvivere al dolore."
Attenzione: Dark Circus è una storia originale pubblicata esclusivamente su EFP. Qualunque sottrazione e ripubblicazione su piattaforme differenti (compresi siti a pagamento) NON è mai stata autorizzata dall'autrice medesima e si considera illegale e passibile di denuncia presso autorità competenti.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Buonasera lettori! Prima parte del VI capitolo che, come vedrete, è piuttosto lungo. Al termine della lettura, qualche spiegazione! :) 

 

 

 

VI ◊

 

 

 

 

 

Nel corso della mia vita avevo avuto modo di viaggiare almeno tre o quattro volte l’anno. Qualche uscita fuori porta con i compagni di scuola, viaggi dai nonni materni in Virginia o mete che credevo casuali (per magia di papà) sulla mappa degli USA per festeggiare l’anniversario di matrimonio dei miei genitori o i miei compleanni. Avevo alloggiato in albergo la maggior parte delle volte, ma mai nulla di particolarmente eclatante, dato che ciò che interessava era il posto da visitare. E nonostante vivessi a Boston da qualche anno ormai, e avessi imparato a conoscere quantomeno i nomi e la reputazione dei luoghi, mi resi conto che nulla mi avrebbe preparato al Four Seasons Hotel. A parte Google, certo. Ma Google non rendeva così tanto quanto il trovarsi, accompagnata da una limousine di proprietà del dottor Howell, davanti a tanto lusso. Vicino al Public Garden, il maggior giardino botanico di tutti gli States, rinomato anche per le passeggiate acquatiche sulle Swan Boats, suggestivo oltre ogni misura nell'eleganza delle enormi sale e l'efficienza dei servizi offerti.

Mi servì un colpetto da parte di Selina per rendermi conto che non stavo sognando.

– Capisco che tu sia sorpresa, Kate, ma non farti prendere dall’emozione. Siamo qui per lavoro. – mi redarguì.

Non che non lo sapessi, dato che avevo trascorso buona parte della notte insonne, con buona pace di Trevor, costretto a sorbirsi i miei rivoltamenti da ansia nel letto, ma in quel momento ero seriamente meravigliata da quanto quel posto sprizzasse ricchezza. Selina, al contrario di me, era perfettamente a suo agio e, a dirla tutta, altrettanto perfettamente incastonata nel quadro. Ero abituata a vederla impeccabile, ma stavolta, si era addirittura superata. E se in passato avevo pensato che somigliasse ad Anne Hathaway, adesso cominciavo a pensare che fossero gemelle separate alla nascita. Osservava con fare curioso negli occhi ambrati bordati di lunghissime ciglia nere le persone che continuavano ad affluire nella hall. Pensai che stesse cercando qualcuno in particolare, perché ogni tanto, fissava lo sguardo sulla gente di passaggio. Quando il dottor Howell tornò dopo aver sbrigato le formalità in reception, ebbi conferma, dato che ci comunicò di aver già intravisto alcuni colleghi del padre, che ricordavo essere uno psichiatra, così come il già noto rettore Chambers.

Fu così che prendemmo un primo congedo in attesa dell’inizio del meeting. Dei facchini in livrea ci accompagnarono nelle stanze prenotate in precedenza dal detective Graham. Selina ridacchiò al pensiero che se la suite riservata non fosse stata quella che pensava, avrebbe costretto il capo ad offrirle il pranzo per un mese in un tre stelle Michelin a sua scelta. Il dottor Howell che, diversamente dalla compagna, tradiva un certo nervosismo, si limitò a dire che ciò che contava era Graham non desse spettacolo. A volte mi chiedevo se l’opinione che aveva di lui non fosse fin troppo influenzata dagli eventi del passato. E quel passato sembrava aleggiare su di noi, stampato su degli inviti che avevano fin troppo di intenzionale. Chiunque si nascondesse dietro quell’Ad maiora semper di certo ci stava aspettando.

Quando finalmente arrivai davanti alla porta della mia stanza, che, ironicamente, era una comune stanza, per quanto comune fosse comunque inappropriato, dato il luogo in cui ci trovavamo, tuttavia, il facchino si limitò a bussare.

– Mi scusi, deve esserci un errore. Ho una prenotazione. – feci notare.

L’uomo si limitò a un cenno. – Nessun errore, signorina. Questa è la stanza prenotata. –

Compresi il motivo della sua sicurezza quando ad aprirci fu un ultra-inedito Alexander Graham in completo dal taglio sartoriale classico, blu di Prussia, cravatta ancora allentata di un tono più acceso e camicia bianchissima. A corredo, i suoi folti capelli ribelli erano ordinati in un perfetto taglio con frangia laterale che incorniciava perfettamente il suo volto per nulla sorpreso, a differenza del mio.

– Sei in ritardo. – mi accolse, congedando il facchino con una mancia e scostandosi per farmi entrare.

Mi ci volle qualche istante per rendermi conto che quell’uomo che avevo davanti, impeccabile tanto quanto la nostra royal couple, come Jace definiva il dottor Howell e Selina, era il mio capo.

– Vuoi rimanere lì a fissarmi per tutto il tempo? – domandò.

Mi affrettai a distogliere lo sguardo e ad entrare, attendendo che richiudesse la porta dietro di noi. La stanza era la Deluxe City-View, in stile moderno, senza fronzoli, ma di classe nella sua essenzialità. Proprio come lui.

– Questa me la spiega. Prima che trovi da ridire, abbiamo almeno mezz’ora prima del meeting. – dissi, sperando di risultare sufficientemente risoluta. Dividere la stanza andava contro ogni etica, senza contare il fatto che mi metteva a disagio anche solo pensare che Trevor potesse sapere una cosa del genere, né riuscivo a capire che diavolo avesse in mente.

Graham fece spallucce, oltrepassandomi per posizionarsi davanti allo specchio e riprendendo a sistemare la cravatta. – Peccato. Pensavo volessi approfittarne. Questa stanza è perfetta per sperimentare qualcosa di diverso dal solito. Considerando i diversi punti d'appoggio, il risultato può essere davvero... immersivo. – spiegò, continuando a darmi le spalle.

Le sue parole mi fecero avvampare. Avevo capito bene? Gli aveva dato di volta il cervello quando aveva cambiato pettinatura e mise? Considerando che l'ultima esperienza immersiva aveva visto protagonisti me, Trevor e una Jacuzzi con idromassaggio, mi ritrovai a sudare freddo al pensiero del sostituire un termine nell'equazione.

– Sta scherzando, spero!! Per chi diavolo mi ha preso?! – sbraitai imbarazzata.

Finì di tirar su il nodo della cravatta, poi si voltò a guardarmi, inarcando un sopracciglio. Dovevo ammettere che, nonostante la gran faccia tosta, l’indole da stronzo e la propensione a scioccarmi, era dannatamente un bell’uomo. E quella considerazione, sommata al mio senso di colpa, mi faceva sentire tremendamente a disagio. Decisi di non stare al suo gioco e gettai la mia borsa sulla cassettiera. Ne tirai fuori un tubino classico al ginocchio di un sobrio beige, stretto da cintura in vita e dopo aver scoccato al mio capo un’occhiataccia, andai a cambiarmi in bagno, avendo cura di chiudere a chiave. Tsk. Mai nella vita! Io ho Trevor!, continuavo a ripetermi, nel cambiarmi. Tirai su i capelli in un’alta coda ordinata, poi uscii per prendere le décolleté nere con plateau che avevo da parte.

Intanto, Graham si era spostato e, seduto sul grande letto candido sormontato da una parete con un motivo floreale in oro, sistemava un auricolare, con il suo laptop davanti.

– Che sta facendo? –

– Provo un aggeggio che mi ha dato Jace. Sto cercando di equalizzare i livelli dell’audio, ma non riesco ancora a trovare quello giusto senza evitare di diventare sordo per il ritorno. Immersivo un accidente. E la chiamano tecnologia. Dal mio punto di vista è solo una gran seccatura, ma lui ha insistito. – mi spiegò, alzandosi e spostandosi in diversi punti della stanza, facendo al tempo stesso, delle prove vocali.

La consapevolezza di ciò che aveva inteso con le parole di poco prima mi colpì all’improvviso, non meno intensamente dell’aver realizzato di aver creduto che avesse intenzione di approfittare della situazione. Ecco il potere di Graham. Farti sentire un’idiota con lo sguardo.

– L’altro giorno sentivo Jace parlare di una distanza non inferiore a due metri e mezzo dal punto d’appoggio principale… non ho capito cosa intendesse, ma magari era per quello… – dissi, ostentando nonchalance mentre raccoglievo le mie scarpe.

Si guardò intorno e si spostò in fondo alla stanza, poi ripetè la prova, ottenendo effetto positivo. Poi tolse tutto e rimise ogni cosa a posto, riponendo nel suo piccolo trolley l’apparecchiatura. Passò poi a sistemare la manica della sua giacca e si dette un'ultima occhiata allo specchio.

– Non la facevo così vanitoso. – commentai, di sottecchi.

Si limitò a un sorrisetto, poi finalmente mi raggiunse e si fermò davanti a me. Nonostante i miei tacchi, era comunque decisamente più alto di me.

– C-Che c’è? – domandai, nel sentire il suo sguardo da detective addosso. Sospirò, poi mi mise le mani sulle spalle. Un contatto del genere non era affatto da lui, tanto che mi venne istintivo sobbalzare. Se ne rese conto, ma non mi lasciò andare.

– Ascolta. So che tutto questo ti sembra strano. E lo capisco, perché lo sembrerebbe anche a me se fossi al tuo posto. Anzi no, pensandoci, a me divertirebbe. Comunque sia… Tu non avevi un invito, ciononostante sei una di noi, motivo per cui ho ritenuto opportuno che non rimanessi sola. E dato che Selina e Marcus, così come Elizabeth e Maximilian hanno una prenotazione doppia, ho immaginato che non avessi molta voglia di fare da terzo incomodo. –

Battei le palpebre qualche volta, pensando che dovesse essere un marchio di fabbrica il pensare sempre al posto degli altri. Per qualche ragione, tutto questo mi fece venire in mente che Trevor mi rimproverava lo stesso comportamento. Sbuffai. La frittata ormai era fatta.

– In ogni caso… – continuò, prendendo l’IPhone dalla tasca interna della giacca e mostrandomi la lista degli invitati con annesse foto (ultimo remind, dato che già avevamo avuto giorni interi per studiare il tutto) – … tieni d’occhio il rettore Chambers. L’ho incrociato prima nella hall e mi è sembrato un po’ troppo stupito di vedermi qui. Oltretutto, promettimi che non prenderai iniziative e sarai sempre dove posso vederti. –

– È un modo gentile per dirmi che non potrò usare la toilet se dovessi averne bisogno? –

La mia domanda sembrò sorprenderlo sinceramente, ma non servì ad allentare la tensione che sentivo.

– Non sto scherzando. Chiunque abbia inviato quei biglietti deve essere qui in questo momento. E tempo fa ho promesso al signor Lynch che ti avrei protetto. –

Il rossore sulle mie guance aumentò e sentii un’improvvisa stretta al cuore. Deglutii, avvertendo la bocca secca. E i suoi occhi… dovetti distogliere nuovamente i miei.

– N-Non… non sono una sprovveduta, o non avrebbe accettato che prendessi parte a questa operazione… –

– Lo so. Ed è per questo che ti chiedo di esser ragionevole e fare attenzione, va bene? –

– Va bene… – acconsentii, senza riuscire a guardarlo.

Solo allora Graham mi lasciò andare, poi si fece indietro di qualche passo e fu allora che permisi a me stessa di respirare di nuovo.

Abbottonò la giacca, che ne mise in risalto tutta la sua figura, poi si allontanò verso la porta.

– Mi dà ancora qualche minuto? Devo finire di sistemarmi. –

Sollevò la mano a mezz’aria. – Non più di cinque, Katherine. –

– Solo cinque? – domandai, affrettandomi a prendere la pochette nera dalla borsa. Poi notai che mi aveva appena chiamata col mio nome. – Mi ha chiamato per nome? –

Si voltò e sorrise, stavolta. – Credo di aver scordato di dirti che per oggi sarai la mia compagna. Per cui, sei autorizzata a chiamarmi per nome anche tu. –

La pochette mi cadde di mano, finendo dritta sulla moquette stringata. – Adesso sta scherzando, vero? Prima i doppi sensi, ora questo… lei ha bisogno di uno psichiatra. Lo sa, no? –

Quel commento, stranamente, lo fece ridere. Era la prima volta che, in tutto quel tempo, lo sentivo ridere divertito. – Mi accontento della mia terapeuta, che non devo pagare di tasca mia, grazie. –

Arrossii di nuovo, odiandolo per la spocchia, e mi chinai a raccogliere le mie cose.

– Dico davvero! Lei non può farmi questo, detective Graham! –

– Alexander. – mi corresse.

– Non ce la faccio a chiamarla per nome! – protestai.

Incurante del mio disagio, cavalcò l’onda. – Che strano, ti viene difficile chiamarmi per nome, ma non il pensare che faremo coppia. Ah, per la cronaca, non avevo in mente alcun doppio senso prima. Sei tu che hai pensato male. –

Avvampai, colpita e affondata. Ma non avevo intenzione di dargliela vinta. Mollai la pochette e lo raggiunsi. – Sa cosa penso? Penso che lei giochi col fuoco! E penso anche che in fondo, questa situazione la diverta, detective Gr--

– Alexander. – puntualizzò, senza scomporsi di un millimetro.

Alzai gli occhi al cielo, esasperata. – Alexander! Sei contento ora?! – esclamai. Un secondo, in cui lo vidi rompere la compostezza, e mi resi conto che l’avevo chiamato per nome e gli avevo dato del tu. – Oddio… s-scusi… –

Il suo sguardo si fece più rilassato, poi annuì. – Consideralo un effetto collaterale, ok? Da domani potrai tornare a chiamarmi come credi, se ti può servire a rimanere concentrata. –

Assentii, poi mi comunicò che mi avrebbe atteso per altri cinque minuti fuori dalla stanza e andò via. Ebbi bisogno di almeno metà del tempo per ritornare in me.

– Alexander… – sussurrai tra me e me, riflettendo sul suono di quel nome pronunciato direttamente. Che diavolo sto facendo?

 

***

 

Quando lo raggiunsi, dopo aver ritrovato un minimo di autocontrollo per un messaggio speranzoso di Trevor prima di spegnere il mio smartphone, Graham stava chiacchierando con il detective Wheeler e con Elizabeth. E se Wheeler non si discostava particolarmente dalla sua solita tenuta formale, Elizabeth era davvero stupenda. Anche lei, come me, aveva acconciato i capelli, ma essendo più corti, aveva optato per uno chignon. Addosso, un tubino blu Tiffany che avrebbe potuto tranquillamente essere di completamento con la cravatta di Graham. Vederli insieme in qualche modo mi aiutò a superare l’imbarazzo di quanto accaduto in precedenza, perché sapevo fin troppo bene quanto il mio capo tenesse ancora alla sua ex moglie. E pensai anche che dovesse essere una sofferenza per lui vederla mano nella mano con un altro uomo. Quando mi videro, sia Elizabeth che Wheeler non nascosero la sorpresa.

– Sei impazzito, Alexander? Coinvolgere lei! E Marcus ha accettato? – protestò il detective. Elizabeth mi guardò con aria preoccupata, ma quando raggiunsi Graham, fui io stessa a rispondere.

– Ho chiesto io di farne parte. E sì, il dottor Howell ha accettato, perché mi ritiene una persona competente abbastanza da partecipare. Detto questo, felice anch’io di vederla, detective Wheeler. Signora Dekker. –

Wheeler mise una mano in faccia, mentre Elizabeth sospirò. – Dottoressa Hastings. –

– Kate. Mi chiami Kate… o Katherine, visto che oggi siamo tutti sulla stessa barca. – punzecchiai, lanciando un’occhiata a Graham. Il passaggio non sfuggì alla donna, che comprese al volo.

– Cerca almeno di non metterla nei guai. – intimò al suo ex marito, prima di rivolgersi nuovamente a me. – Date le circostanze, immagino che una ex moglie e una nuova compagna nella stessa stanza siano abbastanza per dare chiacchiere in pasto ai curiosi… credo che sia meglio non attirare l’attenzione più del dovuto. Ad ogni modo, sappi che sono sorpresa dal tuo coraggio, cara Kate. –

Le sue parole mi sorpresero. – Mi lusinga, davvero… –

– Va bene. Appurato che nutrite stima e ammirazione reciproca, torniamo a noi. Tutto come concordato, si comincia ora. Andiamo. – tagliò corto Graham, prendendomi per mano. A quel contatto dovetti fare un enorme sforzo per non girarmi verso Elizabeth e così, mentre ci allontanavamo precedendoli, la prima parte dell'operazione ebbe inizio.

 

***

 

La sala che ospitava il Charity Meeting accoglieva circa un centinaio di persone. Facoltosi membri del jet set, volti noti del cinema e della TV, professionisti, tutti accomunati dalla filantropia. Secondo Trevor si trattava di scena, ma per essere la prima volta che prendevo parte a un evento del genere, non potevo non notare che le donazioni erano certamente più che reali. Prestai attenzione agli interventi in programma. Molti di essi riguardavano denunce sociali e la presentazione di progetti a favore degli indigenti, sebbene mi venisse difficile immaginare gente del genere recarsi in prima persona nei sobborghi o nelle case famiglia, se non a favor di telecamere. Ogni tanto osservavo anche i miei colleghi. Selina ed Elizabeth, i cui posti erano vicini, si ritrovavano spesso a chiacchierare sottovoce, mentre sia il detective Wheeler che il dottor Howell tendevano a tener d’occhio il tutto con discrezione. Ad occhio inesperto, nessuno avrebbe mai potuto sospettare il vero motivo della loro presenza in quel luogo. Anche il detective Graham, che era seduto accanto a me, sembrava genuinamente interessato all’evento. A volte dava un’occhiata al programma, altre chiacchierava con il vicino, un tale Fabian Giles, AD di una multinazionale manifatturiera, prima scherzando all’idea che la cifra incassata dall’inaugurazione della sala casinò sarebbe stata maggiore rispetto alle donazioni, poi chiedendo delle curiosità, alle orecchie di Giles innocue, sugli illustri intervenuti.

Del canto mio, notavo che il rettore Chambers, presente in rappresentanza di Harvard assieme a degli studenti che avevano relazionato su un progetto di recupero delle aree verdi a favore dei bambini in periferia, tendeva a guardare spesso il suo orologio. Graham mi aveva anticipato dell’apparenza nervosa e in effetti, sembrava palesemente a disagio. Difatti, a conclusione del meeting, qualche ora più tardi, riuscimmo ad avvicinarlo durante il ricco brunch cui prendemmo parte, non prima di aver scorto l’uomo chiacchierare con una hostess bionda tra quelle che gestivano gli ingressi.

Lo feci presente al capitano Graham, che mi aspettava con un flute di champagne in mano.

– Non mi dica che ora beve anche. – mormorai, puntando quel lungo bicchiere mezzo pieno.

Lui mi rivolse un sorrisetto. – Solo roba di prima qualità, mia cara. –

Percepii il rossore inondare le mie guance con la stessa urgenza del volerlo prendere a pugni per quel tono suadente. Sapevo che dovevamo fingere, ma le allusioni ai suoi discutibili gusti e l’idea che mi trattasse da fidanzata erano davvero snervanti. Del canto suo, il mio capo, a sua discolpa estremamente professionale, fu magistrale nel portare avanti la finzione anche per me, ma non mi sfuggiva come ogni tanto il suo sguardo vagasse più lontano, raggiungendo una Elizabeth lontana.

– Rettore Chambers. Che ne dice di farmi compagnia con dello champagne? È un Brut Armand de Brignac Gold straordinario. – esordì, quando il Rettore si trovò a passare dalle nostre parti.

Dovevo ammettere che l’idea che avevo di Hector Chambers era quella di un uomo rigido e schiacciato dal peso degli eventi. Non doveva avere ancora sessant’anni, ed era distinto e serio come il suo ruolo, d’altronde, imponeva. Guardò Graham dopo aver risistemato gli occhiali da vista, poi fece un cenno con la testa.

– Spiacente di dover declinare, ispettore. Oltre all'aver rischiato un infarto, di recente, ho scoperto di soffrire di gastrite e mi è stato tassativamente vietato di bere alcolici. – spiegò, mentre il capo, alle sue parole, posò il calice su un vassoio di passaggio.

– Fa bene. La salute prima di tutto. –

Senti da che pulpito viene la predica. Detti un colpetto di tosse che richiamò lo sguardo incuriosito del Rettore su di me. Presi sottobraccio Graham, sorridendo al nostro interlocutore e cercai di impegnarmi al massimo per sembrare sicura.

– … Alexander dovrebbe curare di più la sua… vero, mio caro? – feci eco, rivolgendo uno sguardo al mio capo, che ricambiò il sorriso con un candore che mi provocò il batticuore.

– Hai ragione. – rispose, per poi rivolgersi al Rettore. – Me lo dice sempre, ma ci sono certi piaceri che sono difficili da rifiutare. –

Le sue parole volontariamente equivoche sembrarono smuovere qualcosa nel nostro interlocutore, sulla cui tempia comparve un rivoletto di sudore. Aveva decisamente qualcosa da nascondere. Tirò fuori dalla tasca un fazzoletto ricamato e tamponò il rivolo.

– Tutto bene? – domandai.

– Più o meno. Temo di aver bisogno di una boccata d’aria. – rispose, facendo un cenno di scuse per allontanarsi.

– Ah, Rettore. – incalzò Graham, mentre Chambers girava i tacchi. Era davvero impaziente di andar via. E sì, stava nascondendo qualcosa con una tale incapacità da essere ai limiti del ridicolo. Non c’era certo bisogno di una laurea in Psicologia per rendersi conto che, nella più plausibile delle ipotesi, avesse un’amante. Quando alzò lo sguardo, il capo sorrise nuovamente. Non era il suo sorriso di cortesia, quello che aveva sfoggiato ogni tanto durante il meeting. Era il sogghigno di quando sapeva di avere in pugno qualcuno. Sperai che non desse spettacolo, e, comprendendo le parole del dottor Howell, mi ritrovai a stringergli con più forza il braccio. Se ne accorse, ma fece finta di nulla.

– Sì? –

Graham attese qualche interminabile istante prima di dargli risposta. Si stava divertendo.

– Nulla. Pensavo solo che non vedo l’ora di sfidarla a poker, stasera. So che lei non rifiuta mai un invito del genere. –

E rieccolo, ad annunciare trionfalmente la sua intenzione di dare spettacolo. Alzai lo sguardo per incontrarlo. Alexander Graham era sicuro di sé e quella determinazione era palpabile tanto quanto lo era lo stupore del Rettore in quel momento. Eppure, per qualche ragione, servì a far riprendere quell’uomo, che accettò, prima di allontanarsi nel mucchio. Non appena scomparve dalla nostra vista, lasciai la presa, guardando di sottecchi Graham.

– Lo sa che la ludopatia è una patologia riconosciuta dal DSM-V, vero? –

– E tu sai che non ho mai perso una partita a poker in vita mia? –

Sospirai. – Piuttosto, credo che il Rett--

Fui interrotta dal suo braccio, stavolta, che senza troppi problemi scese a cingermi la vita. Senza che me ne rendessi conto, il mio corpo si tese al contatto, soprattutto quando sentii che mi stava avvicinando a sé. Con la mano libera mi prese il viso e mi ritrovai a guardarlo, preda di una sensazione assolutamente inaspettata. Confusione, batticuore, tensione. I suoi occhi erano così concentrati che mi ritrovai a chiudere i miei istintivamente. Sentivo il fiato corto, così come la pressione del palmo della sua mano sulla mia guancia. Quando sentii la sua voce all’orecchio, sussurrante, dovetti fare un enorme sforzo per comprendere cosa stesse dicendo, perché tutto intorno, l’eco della mia reazione aveva cancellato il resto.

– Va’ in camera e aspettami lì. –

Deglutii, completamente disconnessa. – Eh? – fu il solo suono che riuscii ad articolare.

– Hastings, va’ in camera. Ora! – sibilò.

Il suo tono imperativo e allarmato fu la doccia fredda di cui avevo bisogno. Riaprii immediatamente gli occhi e mi scostai da lui.

– Perché? – chiesi, nel vedere il suo volto, improvvisamente sconvolto. Avevo sbagliato qualcosa? Capivo di aver reagito come una deficiente, ma non credevo fino al punto da liquidarmi in quel modo.

– Vai, ho detto! – ordinò a voce bassa, senza troppo ritegno, per poi spingermi senza troppa grazia verso la porta e facendosi strada tra i presenti. Non riuscivo a capirlo. Cercai tra quella gente il volto dei miei colleghi, ma non vedevo nessuno. Quindi era da escludere che si trattasse di Elizabeth o degli altri, ma anche fosse, sapevano che eravamo sotto copertura. Un moto di lacrime e di vergogna mi sopraffece. Cercai di ricacciare indietro almeno il primo e mi morsi le labbra, prima di lasciare la sala e i suoi ospiti, ma soprattutto, quel grande stronzo.

Mi affrettai ad allontanarmi. Cominciai a pentirmi di aver accettato di prender parte a quell'operazione, anche perché, nell’arco di poche ore, stava tirando fuori aspetti e sensazioni che non avevo fatto altro che rifuggire, perché odiavo l’effetto che Graham mi faceva, dal primo momento in cui l’avevo incontrato. Odiavo il sentirmi vulnerabile. Odiavo il fatto che fosse assolutamente sbagliato che permettessi a me stessa di dargli potere.

Non riuscii nemmeno a imboccare il corridoio giusto e mi ritrovai a singhiozzare in uno dei pochi angoli solitari vicino all’entrata ancora sigillata della sala casinò. Appoggiai la schiena al muro, lasciandomi scivolare per sedermi. Tutto intorno, in quel via vai di volti, c’era silenzio, motivo per cui cercai di soffocare i singhiozzi con la mano pressata sulla bocca. Quanto avrei voluto che ci fosse Lucy. Quante volte avevamo pianto insieme, abbracciate in un plaid, con tisane calde e film da manuale. Ero figlia unica, per questo non potevo capire a pieno il legame che univa due sorelle, ma per me Lucy lo era, nel bene e nel male. E Trevor… Dio mio, che vergogna…

– Signora, tutto bene? – una voce maschile preoccupata mi fece sobbalzare. Mi affrettai a cercare di darmi contegno, prima di alzare lo sguardo e incrociare quello di un addetto alla sicurezza.

– S-Sì… sono solo… ecco… –

– … Un po’ confusa. – rispose per me un’altra voce, quella di un uomo che, a giudicare dall’abbigliamento ricercato, doveva essere un altro dei pezzi grossi intervenuti al meeting. Perfetto, la mia sequela di figuracce continuava.

L’addetto alla sicurezza si fece indietro al cenno del nuovo arrivato, che mi tese la mano. Portava un Rolex al polso, particolare che mi colpì. Accettai il suo aiuto e in un attimo mi ritrovai di nuovo in piedi, davanti all’uomo dalla barba curata che mi guardava con curiosi occhi scuri.

– Signor Bradley. – salutò il primo.

Quest’ultimo sorrise cordiale. – Può andare, riaccompagno io la signora. Se me lo permette, certo. –

Abbassai lo sguardo. Portava scarpe nere perfettamente lustrate. Sospirai, poi tornai a guardarlo.

– Posso andare da sola, la ringrazio. Mi spiace aver dato spettacolo. – dissi, sfilando la mano dalla sua. Alla fine, ero io quella che aveva messo in atto le paure del dottor Howell. Il signor Bradley portò la mano sul petto, poi tirò fuori dal taschino interno della sua giacca nera un fazzoletto che mi porse, con le iniziali ricamate.

– La prego almeno di accettare questo. Mi sentirei a disagio nel lasciarla andare senza aver almeno potuto cercare di rimediare in qualche modo. –

Sussultai. – N-Non è colpa sua… –

Fece spallucce. – Piange davanti alla mia sala dei giochi, un luogo pensato per far divertire. Il minimo che possa fare è cercare di fare ammenda. –

Sgranai gli occhi, voltandomi verso la grande porta in vetro con voluttuosi intrecci intagliati.

– Oddio… – sussurrai, tornando a guardarlo.

– Aaron Bradley. – si presentò.

– Katherine. Katherine Hastings. – risposi.

Aaron Bradley mi sorrise. – Spero di vederla stasera. Si consideri mia ospite d’onore, signorina Hastings. –

Annuii appena, consapevole che tutto desideravo, tranne che di divertirmi in una sala casinò, ma avevamo un’indagine da portare avanti e questa prevedeva anche di infiltrarci tra gli ospiti. Così, raccolto il fazzoletto, presi congedo da entrambi, tornando verso la mia stanza, in attesa di Graham.

A giudicare dall’ora, Trevor doveva aver già discusso il suo progetto e non poterlo contattare mi sembrò tremendamente ingiusto. Ma d’altro canto, cos’avrei potuto dirgli, se mi avesse chiesto come stava andando il tutto? Avrei dovuto rispondergli che il mio capo probabilmente era bipolare, passando in un attimo da dottor Jekyll a Mr. Hyde e che mi aveva rispedita in camera ad aspettare a tempo indeterminato per qualche ignota ragione. Avrei dovuto aggiungere che nell’arco di poche ore la voglia di mollare tutto era pari alla rabbia impotente che provavo perché non riuscivo a controllare le mie reazioni in presenza di quell’uomo. Continuavo a ripetermi che amavo Trevor e che, probabilmente, non stavo facendo altro che condizionarmi, perché Graham non era il tipo di persona che avrei voluto al mio fianco. Eppure, ogni volta che pensavo che così dovesse essere, il ricordo della prima volta in cui l’avevo visto, pochi giorni prima di Natale, così come il ricordo di lui che attendeva, impassibile, il mio arrivo nel Dipartimento per il mio primo giorno di lavoro, erano lì. Non ricordo di averti voluta in Dipartimento per farmi da strizzacervelli personale, mi aveva detto dopo avermi riaccompagnato a casa, la notte in cui avevamo trovato il cadavere di Alicia Bernstein. In quella stessa occasione, si era aperto con me e avevo realizzato che nonostante i suoi modi e il suo passato, c’era del buono in lui. E mi rendevo conto di aver voglia di saperne di più, sebbene sapessi che non sarebbe stato facile affrontare le conseguenze. Guardai il suo trolley, appoggiato ordinatamente in un angolo della stanza, e ripensai ai fraintendimenti. Il problema, ciò che mi mandava più in confusione, era il fatto che non riuscivo a farmelo passare come indifferente, sebbene sapessi fin troppo bene che in ogni caso, non aveva né avrebbe mai avuto occhi per qualcun’altra che non fosse la sua ex moglie. E poi, considerando che ciò che per lui contava era catturare l’assassino della sua bambina, mi risultava assolutamente impossibile anche solo pensare che avrebbe potuto desiderare un’altra relazione. Avrebbe richiesto energie che, ne ero certa, non era interessato a spendere. E io, in tutto questo, che ruolo avevo? Per Jace avrei potuto fargli bene, ma a che prezzo? Perdere Trevor per un uomo che poteva mandarmi in confusione quanto volessi, ma che non era in alcun modo interessato alla sottoscritta se non professionalmente? Mi esercitai a razionalizzare la situazione, pensando che era questo che ero: una collega. Anzi, una sottoposta. Alla fine, lui era stato il primo a tornare al cognome, poco prima, segno che nemmeno per lui era facile vedere Katherine oltre che Hastings. Eppure, il modo in cui aveva pronunciato il mio nome mi aveva colpito. Seduta a rimuginare su una delle eleganti poltroncine ocra che davano sulle ampie finestre illuminate dalla luce del pomeriggio, non mi resi conto che era rientrato.

– Hastings, dannazione! Mi senti? – domandò con urgenza, forse per la seconda volta, dato che non aveva avuto risposta. Non avevo il coraggio di guardarlo, così rimasi a guardare il panorama annebbiato. Solo quando sentii la sua mano sulla mia spalla, mi scansai e lui mi costrinse a voltarmi verso di lui. Non so cosa vide, ma sgranò sinceramente quegli occhi blu che tanto mi intrigavano e si chinò di fronte a me.

– Cos’è successo? Perché piangi? – domandò, preoccupato.

Realizzai cosa stessi facendo e distolsi lo sguardo.

– Io non… non ce la faccio. Ho sbagliato ad accettare… ho sbagliato tutto… e la cosa peggiore è che non riesco a fare a meno di pensare che sia solo colpa mia… –

Lo vidi esitare, poi mi sollevò il viso con l’indice, costringendomi a guardarlo. Il suo volto era sfocato, tra le mie lacrime. Ma la sua espressione era inequivocabile.

– Ascolta. Non ho idea di cosa tu stia parlando, ma tu non hai alcuna colpa. Se qui c’è qualcuno da biasimare, quello sono io. – esitò prima di continuare, poi sospirò. – Potessi farti rientrare ora, lo farei, ma questo manderebbe a monte la copertura, al momento. Ti chiedo solo di avere ancora qualche ora di pazienza, Hastings. –

Il mio cuore mancò un battito in risposta al tono con cui pronunciò il mio cognome.

– Scusami. Dannazione, che idiota. – borbottò. – Prima ti ho mandata qui perché mi è sembrato di vedere… un volto conosciuto. E forse sono anch’io un po’ sotto pressione, perché non avrebbe avuto alcun senso. –

Aggrottai le sopracciglia, perplessa. – Un volto? Mi ha mandata via in quel modo perché ha visto un volto inaspettato? Si rende conto che questo non è normale? –

Un fremito, poi annuì. – Lo so. Lo so bene. Ho agito d’istinto, pensando che fosse la soluzione più sicura per te. –

Scossi la testa, ancora più confusa. – Ma che diavolo sta dicendo?! –

– Richard Kenner. Ho avuto l’impressione di vedere Richard Kenner. Ma sono più che sicuro che sia morto dieci anni fa. –

Sgranai gli occhi, senza sapere cosa rispondere. Avevo letto il fascicolo e in seguito all’incidente, l’auto di Graham che Kenner guidava era esplosa, carbonizzandolo.

– C-Crede che possa aver finto la sua morte? Potrebbe essere possibile? –

Stavolta toccò a lui scuotere la testa. – No. Dall’analisi delle arcate dentali, emerse che i resti appartenevano senza ombra di dubbio a Richard. E sono abbastanza razionale da non credere ai fantasmi. Probabilmente mi sono lasciato suggestionare dal messaggio sull’invito. –

– Detective Graham… –

Mi guardò e fece per dire qualcosa, ma fu interrotto da una chiamata.

– Selina. – esordì, mettendola in viva voce.

« Kate è con te, Lex? »

Mi lanciò un’occhiata. – Sì, è tutto a posto. Hai qualcosa da dirmi? –

« Maximilian ha controllato le firme dei presenti, che corrispondono alla lista già verificata con le identificazioni in nostro possesso. Hai visto anche tu, con i controlli incrociati sull’invito, non potevano esserci altre persone imbucate illegalmente. E poi, se fosse stato Richard di certo l’avremmo visto anche noi. »

Graham portò le dita alla tempia. – Va bene. Però non abbassate la guardia. Abbiamo solo stasera per scoprire chi ci ha mandato quel messaggio. –

« Ci mancherebbe. Passami Kate, ora. »

Presi il suo IPhone non appena me lo porse. – Sono qui. –

Il tono teso di Selina cambiò in favore di uno più rilassato. « Grazie al cielo. Ti ho visto correre via, ma non sono riuscita a raggiungerti in tempo. Come stai, Kate? »

Mi venne di nuovo da piangere, ma non volevo più farlo davanti a Graham. Selina era diventata una confidente preziosa nei miei problemi con Graham, dato che lo conosceva da così tanti anni. – Sono solo un po’ stanca. Partecipare a una missione del genere richiede più energie di quanto mi aspettassi… –

« Sta’ tranquilla. Andrà tutto bene. E, se ti può far sentire meglio, sei personalmente autorizzata da Marcus a prendere a pugni Alexander. »

Due borbottii maschili di sottofondo da ambo i lati della chiamata e quelle parole mi dettero un po’ di positività. – Grazie. –

« Ci vediamo più tardi al casinò. Ah, mi son permessa di farti portare qualcosa, visto che sarebbe stato un crimine non razziare il buffet. »

Battei le palpebre, stupita, quando sentimmo entrambi bussare. Graham si alzò e andò ad aprire. Lo sentii scambiare qualche parola con un cameriere, poi richiuse la porta e lo vidi tornare spingendo un carrellino con diverse delizie che avevo giusto guardato senza toccare e una rosa rossa a corredo. Sorrisi.

– Grazie, dottoressa Clair. –

Sentii che sorrideva. « Bon apetit. » disse e chiuse la chiamata.

Graham si fermò davanti a me, posando alcuni piatti sul tavolino rotondo in mezzo alle due poltroncine.

– Lei ha mangiato? – chiesi, prendendo la rosa che spiccava sul bianco della tovaglia di lino con ricamate le iniziali dell’hotel.

– Non ho avuto tempo. – rispose.

Annusai la rosa, mentre Graham raccolse il biglietto che l’accompagnava.

– Selina? –

Aggrottò le sopracciglia, poi me lo porse. – Hai fatto nuove conoscenze? – mi domandò.

Presi il biglietto, su cui spiccava un’elegante grafia e lessi. – “Si dice che se una donna versa lacrime o è per una grande sofferenza o è per una grande gioia. Personalmente, mi auguro che le prossime lacrime che vedrò versare siano per la seconda ipotesi. Mi piacerebbe vederla sorridere. A.B.”. –

Stavolta era il suo turno di essere perplesso. Si sedette di fronte a me, in attesa. – A.B.? –

– Aaron Bradley. Il direttore della sala casinò. O ideatore, non so… mi ha aiutato prima… –

– Perché stavi piangendo? – domandò.

Rigirai il biglietto tra le dita, poi guardai la rosa. – Non è importante… –

– Hastings, io… –

Lo interruppi prima che potesse dire qualcosa. Non avevo voglia di parlare d’altro, così posai il tutto e gli porsi un piatto allungato con un tris di vol-au-vent ai gamberi in salsa Aurora. Trascorremmo almeno dieci minuti così, a mangiare in silenzio e una volta finito, lui si immerse nel lavoro, con chiamate a Wheeler, al dottor Howell e a Jace che, dal Dipartimento, eseguiva le direttive del capo, mentre io, una volta fatta mente locale, mi imposi di piantarla con l’autocompatimento e di cercare di fare un quadro della situazione. Spiegai che probabilmente il nervosismo del rettore Chambers doveva essere imputabile a una recente relazione extra-coniugale, tanto più che scoprimmo, grazie alla maestria di Jace nell'hacking, che aveva soggiornato in hotel più volte durante le ultime due settimane, incontrando una donna, Gillian Devon, che rispondeva alla descrizione della hostess con cui chiacchierava nella sala in cui l’avevamo incontrato. Probabilmente, dopo quanto accaduto col figlio e la storia di Alicia, non voleva rischiare altro clamore, ma l’atteggiamento imbarazzato non lo avrebbe aiutato a lungo. Graham fu dell’idea di monitorare la situazione. Il comportamento del Rettore gli era sembrato strano già da quando si era recato da lui, assieme al dottor Howell e al detective Wheeler.

Oltretutto, dato che chiunque avesse inviato quei messaggi non si era fatto vivo in alcun modo, brancolavamo totalmente nel buio. In più, sebbene Graham avesse ammesso di essere sotto pressione, sapevo bene che non avrebbe rischiato passi falsi se non fosse stato sicuro di quel che aveva visto. Richard Kenner, ex membro del Dark Circus, compagno della defunta Alicia Bernstein sul cui omicidio stavamo ancora indagando, sembrava una figura centrale nella vita di Graham, almeno nel passato.

– Che lei sappia, Kenner aveva, non so… un fratello gemello? – domandai, mentre l’orologio nero appeso al muro ci avvertiva dell’arrivo delle 20:00. Staccò lo sguardo dal laptop.

– Gemello? Non ne ho idea. Non mi interessava conoscere le storie precedenti dei miei compagni, allora. –

Inarcai il sopracciglio. Mi stupiva incredibilmente la noncuranza con cui spiattellava le sue mancanze. – E se fosse stata la stessa Alicia? Lei conosceva tutti voi. Potrebbe aver voluto cercare vendetta per ciò che accadde a Richard anni fa e inviato lei gli inviti, magari per spaventarvi. Ma qualcosa è andato storto e prima che potesse far qualcosa di concreto, è stata uccisa. –

– Alicia non era quel tipo di persona. Anzi, a dirla tutta, si è sempre lasciata trascinare dalla corrente. –

– Le persone cambiano. –

– Non tanto da pianificare una vendetta e finire uccisa prima di ottenere qualcosa. –

Sospirai. – Allora non ci resta che il gala. –

Graham assentì. – Sei ancora sicura di voler partecipare? –

Trattenni il respiro. La verità è che un moto d’ansia si stava facendo strada nel mio stomaco e la tensione che avevo faticosamente represso tornò a farsi sentire. Ma mi ero ripromessa di non lasciarmi vincere da me stessa. Lo dovevo soprattutto a Trevor, che mi aveva dato fiducia.

– Sono qui per una ragione. E poi, prima scopriamo il colpevole, prima torno alla mia vita. – E da Trevor, così da dimenticare quelle assurde emozioni che stavo vivendo.

L’ombra di un sorriso gli attraversò il volto. – Va bene. – disse. – Sarà il caso di prepararci, allora. –

Fui d’accordo e presi dalla mia borsa l’abito da sera che avevo portato. Non avendo mai partecipato a un evento del genere, non avevo un’idea precisa di cosa avrei dovuto indossare, per cui, avevo fatto qualche solitaria ricerca su Internet. E così, avevo acquistato online un abito corallo scuro, lungo e avvolgente, incrociato dietro la schiena, che avrei abbinato ad un tacco in raso nude. Il gala avrebbe avuto luogo intorno alle 21:00, per cui mi affrettai a prepararmi beneficiando di una veloce doccia rigenerante e del bagno tutto per me. Per fortuna, grazie alle ore trascorse a provare acconciature e make-up con Lucy, ero diventata piuttosto rapida nel sistemarmi e nel giro di tre quarti d’ora, la sola cosa che mi mancava era l’indossare le scarpe, che avevo lasciato in camera.

Fu allora che un’intensa ondata di Boss Bottled mi solleticò le narici, portandomi a seguire la scia verso l'alta figura di Graham stagliata di spalle, nude e perfettamente definite. Il tatuaggio col simbolo del Dark Circus, che avevo intravisto qualche tempo prima, si estendeva lungo la parte inferiore del collo fino ad arrivare a mezza spalla. Era molto più elegante di quanto immaginassi, ricco di dettagli inchiostrati. Deglutii, quando lo vidi chinarsi appena per prendere dal trolley sul letto la camicia bianca e indossarla, prima di voltarsi verso di me.

– Hai fi… – disse, troncando la frase non appena mi vide. A giudicare dal suo sguardo sorpreso non si era aspettato di vedermi in quel modo. Non che per me fosse diverso, d’altronde. Non aveva indossato ancora la fusciacca e la camicia, aperta sul davanti, metteva in mostra un fisico scolpito di tutto rispetto. Mi chiesi quando riuscisse a trovare il tempo per allenarsi e al tempo stesso, mi affrettai a raccogliere le scarpe, facendo qualche passo indietro.

– Ho… ho finito. Può fare il bagn--- cioè, usare il bagno. Ha già fatto la doccia? –

Stupito dalla mia domanda, tanto quanto lo fui io quando realizzai che schiocchezza gli avessi chiesto, mi rispose a sorpresa. – Ho scroccato il bagno a Maximilian e ad Elizabeth. Ci stavi mettendo troppo. –

A quel commento affilai lo sguardo. – Io? Aaaah! Lasciamo perdere! Può farmi il favore di finire di vestirsi? Mi mette a disagio il vederla… insomma… così. –

Mpf. –

Pochi minuti, che impiegai per riprendermi dalla visione e per sistemare le scarpe in camera lasciandogli il bagno libero e uscì a sua volta, ben preparato. Gli mancavano soltanto accessori e giacca. Mi avvicinai allo specchio cercando di non guardarlo troppo, concentrandomi sui miei, di accessori. Avevo una parure che mi era stata regalata dai miei genitori in occasione della mia cerimonia di laurea, che comprendeva piccoli orecchini a goccia e una collana con un ciondolo abbinato, tutto in oro bianco. Misi i primi, notando, grazie al riflesso nello specchio, che stava indossando dei gemelli dello stesso materiale dei miei gioielli. Poi passai alla collana, che mi scivolò di mano non appena lo vidi voltarsi verso di me.

– Dannazione! – sibilai, chinandomi a raccoglierla. Quando mi alzai, mi stava guardando.

– Aspetta, non indossare quella collana. –

– Perché? È in coordinato, non posso separarla dagli orecchini. –

– Allora toglili. – sentenziò e, infischiandosene del dress code, andò verso il trolley, tirandone fuori una scatolina, che mi porse. Se non fosse stato per il modo impersonale con cui me l’aveva tesa, sarebbe potuta passare per una scatolina che conteneva un anello di fidanzamento. In realtà, quando la aprii, trovai un’altra collanina, simile alla mia, ma con un più pesante ciondolo brillante a forma di cuore.

– È… pesante… –

– Colpa di Jace. Gli ho detto che doveva ridurre il peso, ma non ci è riuscito. Contiene una microspia. Sarà sufficiente che lo tocchi una volta per registrare e per inviare. –

Rigirai il ciondolo tra le dita. – Inviare dove? –

Indicò il laptop, poi scostò i capelli, per farmi vedere l’auricolare Bluetooth, per giunta invisibile se non me l’avesse fatto notare, che portava già inserito.

– Ma è legale una cosa del genere? – domandai, perplessa.

Sogghignò. – In guerra tutto è concesso. –

Sospirai. Almeno aveva evitato di tirare in ballo l'amore. – Perché lo dà a me? –

– Perché so che sarai straordinaria, stasera. –

A quelle parole, arrossii senza riuscire a controllarmi. Non sapevo se la facesse apposta o se davvero lo pensasse, ma di certo, non si era reso conto di quanto le sue parole fossero capaci di entrarmi dentro, quando voleva. Mi voltai verso lo specchio e mi apprestai a indossare la collana. Avevo tirato su i capelli in una corona, per cui sentire il suo respiro così vicino mi fece rabbrividire e mi rese goffa.

– Permetti? – si fece avanti, prendendo le estremità della collana tra le dita. Al contatto con la mia pelle, mi sentii avvampare. Strinsi gli occhi, pensando che non c’era nulla personale, ma non era facile, soprattutto quando i dorsi delle sue mani scivolarono quasi impercettibilmente nella loro rapidità lungo le mie braccia nude, prima di allontanarsi. Mentre toglievo i miei orecchini, lui si dedicò a giacca nera e papillon in tinta, poi indossò un Rolex Daytona d'oro bianco al polso. Una piccola parte del mio cervello si domandò quanti anni di lavoro gli ci fossero serviti per acquistare qualcosa del genere, ma mi guardai bene dal chiederglielo. Una volta pronto, mi tese la mano.

– Sei pronta a giocare, dottoressa Hastings? –

Respirai a fondo e posai il palmo sul suo. – Sono pronta, detective Graham. –

 

 

 

 

 


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Qualche piccola precisazione: Qui potete dare un'occhiata al vero Four Seasons Hotel che è uno degli alberghi più presigiosi di Boston (di recente e casualmente ho scoperto che fa parte di un circuito e che si trova anche in Italia XD). Potete vedere anche le stanze, tra cui la Deluxe-City View Room . 

Qui invece c'è il Public Garden. Sogno di vedere questi luoghi da quando ho cominciato a scrivere questa storia... chissà se mi sarà mai possibile, ma credo di essermi davvero appassionata tanto alla città di Boston, ha un fascino incredibile!

L'Armand de Brignac è invece un pregiatissimo champagne. Trovo alquanto divertente il fatto che la sagoma delle picche sia sulla bottiglia. Giuro, è casuale, ma pensando al fatto che Alexander ha talento nel gioco, la coincidenza è stata ancora più interessante per me.

 Precisazione sulla questione ludopatia. In effetti, il gioco d'azzardo patologico rientra nelle dipendenze e quindi, è nel DSM-V (Manuale DIagnostico Statistico) che è l'ultima versione uscita nel 2013. 

Riguardo all'orologio di Alexander e del direttore della sala casinò.. il Rolex non ha bisogno di presentazioni! XD

  
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