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Autore: Cladzky    11/08/2020    2 recensioni
Un cavaliere di ventura, dell'inizio del XII secolo, di ritorno dalle crociate, s'imbarca per andare a chiedere un feudo tutto per sé dopo il servizio reso in Terrasanta. Ma svariate figure sembrano frapporsi al suo cammino, fra cui un bel balivo biondo ligio al dovere e un cavaliere d'argento senza voce, che sembra deciso a reclamargli la testa. Ma la trama, in verità, è solo una scusa per la messa in scena di baruffe, complicazioni, intrecci d'amore, creature fantastiche, visioni celestiali e grandi mangiate. Un'opera anacronistica che si propone come un poema epico cavalleresco, buffonesco e cialtrone, che prende a piene mani dai capisaldi del genere per il solo gusto di giocare con i tópoi e rigirarli per far ridere o, si spera, anche emozionare.
Genere: Avventura, Comico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Ad un crocevia della strada che portava al feudo verso cui era diretto, Gattapelata, cavalier di ventura, scorse in lontananza il baluginar di luci provenire da una locanda, nel bel mezzo d'una vallata calata nella notte. Si fece allegro alla vista e spronò la sua bestia ad accelerare esclamando per l'appunto "Avanti bestia!" e mollandogli, senza tanti complimenti, una tallonata ai reni. 

Ora, la bestia di cui si parla era un baio dallo sguardo perennemente assonnato e tinto di pesca, sotto uno spesso strato di fango secco, polvere e insetti. Anche se nato baio aveva l'ego di un urosangue e il nobile equino si risentì non poco ad essere nominato in tal maniera e l'unica delle due bestie ad andare in avanti fu il cavaliere, che venne disarcionato di sella dall'animale che si impennò sulle zampe anteriori. Fece un volo che neanche il cristo quando ascese, ma dopo il volo ripiombò a terra e come corpo morto cadde fra le frasche d'un cespuglio d'ortiche. Il cavallo si avvicinò,  impaurito di aver esagerato e seccato il padrone, ma quando infilò il muso per verificare la salute del suo cavaliere, ci mancò poco che il tondo dritto d'una lama non lo decapitò.

Infuriato come una biscia, si levò dalle piante il suo cavaliere, brandendo lo spadone con ambedue le mani, con tanta rabbia che il suo elmo gli fremeva sul capo.

"Bestia ti ho detto e bestia sei! Ora vola svelto, prima che al tuo fantino cresca un grosso interesse per il filetto equino!" Lo spronò una seconda volta il suo padrone, con ben più decisione di prima. Il cavallo però lo prese in parola fin troppo e si mise a galoppare veloce giù per la strada fino alla locanda, lasciando indietro il povero cavaliere, che presto si ritrovò a corrergli dietro, volteggiando lo spadone in aria e lanciando dannazioni fino alle stelle.

***

Giunto alla locanda, dopo una lunga corsa, il cavalier Gattapelata non aveva più il fiato per dare una lezione al suo destriero traditore, dunque si limitò ad entrare nell'accogliente locanda, dove fu investito dal calor del caminetto, tanto che gli parve d'essere in primavera. Il proprietario del posto, un signorotto adorabile, basso e tarchiato, con due guanciotte che gli pendevano come quelle d'un molosso, vedendo un tale in armatura entrare nella sua modesta attività, gli si fece incontro per cogliere la splendida occasione di profitto che gli si presentò quella notte.

"Buongiorno a voi cavaliere" Gli disse, quindi, con voce melliflua "Immagino siate ben conosciuto, ma io, purtroppo, sono un povero ignorante non vi riconosco. Con chi ho il piacere di parlare?".

"Gattapelata!" Rispose egli fra un sospiro e un altro "vassallo di nessuno e signore del mio cammino".

"Grandioso!" Esclamò il signorotto pur non avendo capito una cicca "Gradite un tavolo?"

"Lo accetterei ben volentieri".

"Da questa parte allora, cavalier Gattapelata".

Lo accompagnò ad un grazioso tavolo in un angolo del locale, sistemato sotto il trofeo d'una testa di cervo. Il signorotto mise la tovaglia, accese una candela profumata e gli si piazzò davanti.

"Allora, cosa gradisce?"

"Fieno e avena".

"Fieno e avena?"

"Per il mio cavallo si intende."

"Oh, bene. E voi cavaliere?"

"Mah, non ho granché fame stasera".

Sicché non aveva granché fame egli si limitò a ordinare un antipasto di salumi e formaggio, seguito poi da una bistecca di manzo alta tre pollici, un secondo di polenta e salsicce e, per concludere, una salutare mela.

"Signore" lo interruppe l'oste nel mentre Gattapelata addentava il pomo "voi avete una gran fame, ma non avete bevuto nulla".

"Per Giove, avete ben donde a farmelo notare. Dite, avete del vino?"

"Il migliore della regione!"

"E sia. Portatemene una damigiana".

"Intenderete un fiasco".

"Affatto. Intendo proprio una damigiana".

L'oste borbottando scese in cantina e risalì con un suo assistente a trasportare una pesante damigiana di buon vino, sbattendola sul tavolo del cavaliere.

"Ecco a voi la vostra damigiana cavaliere, scusate il ritardo".

"Nessun disturbo gentil signore. Mi avete appena reso l'uomo più felice del mondo!"

E, afferrata la damigiana con le mani possenti, il cavalier Gattapelata diede gran prova di forza quando se la sollevò alla bocca e, come nulla fosse, iniziò a sbevazzare finché non la vuotò.
Quando il cavaliere riposò la damigiana, ora ben più leggera di prima, gli occhi di tutto il locale eran rivolti verso di lui.

"Padre" disse lo sguattero al proprietario, di cui era figlio "Il suo nome mi era vago, ma la sua fame è leggendaria e ora ricordo. Credo che egli sia lo stesso cavalier di ventura che anni fa si era fatto nomea di cialtrone da queste parti e che, per diverse storie di cui non oso parlare, sia stato esiliato dal signore. Se fosse lui?"

"Figliolo, cialtrone o meno questo Crapapelata pare possedere grandi somme vista l'armatura che indossa. Dai retta a me, finché ha il danaro il cliente ha sempre ragione".

Rincuorato il figliolo e speditolo amorevolmente a calci in cucina per evitare che rompesse ancora, il signorotto dalle guanciotte pendetti si avvicinò al valente cavaliere, che si era appena sbafato mezza dispensa sena neppure togliersi l'armatura. Egli giaceva sulla sediolina con la visiera che si alzava e abbassava a seconda del suo russare. Con un gentile tocco sulla spalla l'oste lo destò.

"Chi è là? Salgiuchidi? Mammalucchi? Ungheresi? O ancor peggio Reggiani?" S'agitò Gattapelata dal suo sedile.

"Cavaliere calmatevi, sono solo l'oste della locanda e vi porto il conto".

"Ohibò, allora è ancor peggio. E sia, ciò che è giusto è giusto, mi dica ciò che le devo".

"Sono duecento danari esimio cavaliere".

Dalle fessure dell'elmo il proprietario poté ben vedere gli occhi stralunati del possentecavaliere innanzi a lui.

"Duecento danari?" Ripetette sconvolto.

"Esimio cavaliere, la maggior parte è il costo del vino".

"Ma il costo del vino nel menù non pareva tanto alto".

"È vero, ma voi non avete preso un fiasco, ma tutta una damigiana che pesa tanto quanto me!"

Dopo un attimo di esitazione il cavaliere si arrese e, alzando una mano, abbassò il capo.

"Ancora una volta avete ben donde in ciò che dite. E io vi dico che adesso vi darò quanto vi devo".

Si mise mano ad una cintura e il signorotto poteva già sentire il tintinnio del danaro. Ma ecco che di fronte a sé vide il cavaliere farsi pietra.

"Embè cavaliere? Dove sono i danari?".

"In tutta onestà" replicò imbarazzato il cavaliere, gesticolando "ho paura d'aver perso la mia sacca".

A quella risposta, al signorotto, rimasto fino ad allora gentile e  affabile, risalì per la gola una vociona roca che pareva provenisse dall'oltretomba e iniziò a sbraitare.

"Ma insomma, che storielle son queste? Voi venite a mangiare pensando di non dover pagare? Ma lo sapete che anch'io devo campare?"

"Voi equivocate. Io pensavo di pagare, ma mi rendo conto solo ora di aver perso il mio portamonete. Deve essere avvenuto quando fui disarcionato da cavallo".
L'oste, che ormai aveva perso ogni riguardo per il cavaliere, continuò a infuriarsi in maniera crescente.

"Insomma, vi fate fuori mezza dispensa e ora pensate di cavarvela con questa ridicola scusa?"

"Ma no, lasciatemi andare, giuro che troverò il portamonete e tornerò a pagarvi".

"Ah, certo e io vi lascio scappare così e oltre che rapinato son pure preso per il naso? Ah no, non se ne parla proprio! Mi pigliate per scemo?"

"Mai detto nulla di simile".

"E allora rendetemi qualcosa di vostro in cambio per risarcirmi".

"Risarcirla? E con che cosa?"

L'oste ci ponderò un po' su. Poi adocchiò una parte dell'armamento del cavaliere che lo interessò non poco. Il brando che Gattapelata si portava appresso, legato con una spessa cintura alla vita, gli arrivava quasi fino al piede e, quando camminava, si sentiva sbattere il fodero sulla coscia come mestolo sulla scodella.

"La vostra spada pare proprio di buon fabbro, tanto quanto il mio vino era di buona vigna" si espresse il il proprietario, tornando alla sua voce melliflua "Saprei rivenderla ad un buon prezzo e voi ve ne riacquisterete tranquillamente un'altra con i soldi di cui andate cianciando".

"Il mio spadone?" Il cavaliere reagì scomposto quasi gli avessero chiesto invece la testa "Giammai! Non sarei più il cavalier Gattapelata senza di esso".

A quel punto l'oste perse le staffe, sbatté il piede in terra e gli sbraitò contro.

"Macché cavaliere! Io vi ho trattato da gran signore perché ne avevate l'aria, ma ora mi rendo conto che mio figlio aveva proprio ragione: siete solo un gran cialtrone dalla pancia ad otre!"

"Vostro figlio ha detto cosa?" Sbraitò di rimando il nerboruto cavaliere, e di nuovo gli fremeva l'elmo in capo. Le sue mani stritolavano l'aria quasi da renderla solida "Nessuno può chiamare il cavalier Gattapelata un cialtrone e camminare ancora; è una macchia che va lavata col sangue! Volevate la mia spada? Ve la mostro ora. A noi!"

Ma il cavaliere era ancora ubriaco fradicio dopo essersi scolato per intero quella damigiana e, quando cercò di estrarre la sua lama, essa gli sfuggì ed il suo pomello d'ottone atterrò diritto in fronte ad un tranquillo avventore seduto al tavolo di fronte, che crollò a gambe all'aria.

Fu allora che si scatenò un putiferio. Il gestore della locanda richiamò a sé inservienti, amici, clienti, vicini di casa e già che c'era un'individuo che passeggiava per caso lì di fronte. Presto una moltitudine di contadini, pastori, artigiani, mercanti e fannulloni circondarono l'alta figura del cavaliere e gli si avventarono addosso, decisi a scaraventar l'ingombrante e sgradito ospite fuori dalla porta. Il nostro cavalier Gattapelata diede allora un'altra prova della sua tremenda forza. Il primo che gli si fece avanti non fece neppure in tempo a tentare un colpo che subito fu agguantato saldo e sbattuto come un sacco di tuberi sopra il tavolo su cui il nuovo arrivato aveva consumato il lauto pasto dopo un lungo digiuno, sfondando aggressore e mobile. Ecco gli si parò davanti il secondo, che teneva sopra la testa minacciosamente una sedia, e alle spalle il terzo. Uno ricevette un pugno del suo guantone di ferro, da farlo volare fin sopra il lampadario e l'altro, che aveva cercato di prenderlo alle sue cavalleresche spalle, ricevette un cavalleresco calcione nelle terga, proiettandolo fuori dalla finestra.

Ebbene sì, sporadici ma carissimi lettori che vi siete imbattuti in questa storia. Benché fino ad ora il nostro eroico cavaliere abbia fatto una figura ben grama e sia stato chiamato cialtrone dal figlio del proprietario, egli e anche voi a quanto pare, ignoravate le sue vere doti. Dopotutto non si diventa cavalieri di ventura per nulla. Il grande Gattapelata, seppur non particolarmente brillante né sia il più dritto dei dritti, se spronato dalla giusta motivazione sa tirare fuori la forza di un leone come avete potuto vedere. Certo, sperimentarla su dei poveri diavoli ignari non é certo la migliore dimostrazione, ma credetemi se vi dico che egli é un uomo di buon cuore. Cercate di capirlo, è molto suscettibile alle offese rivolte alla sua persona, peggio ancora se colto quando é sbronzo marcio, come ebbero modo di confermare il quarto ed il quinto, che, rispettivamente, uno prese una ferrea testata del suo elmo da lasciargli l'impronta della visiera sul muso e l'altro una cinquina tanto forte da farlo ribaltare, fare il giro a mezz'aria e atterrare in piedi, dove si inchinò fra gli applausi e stramazzò a terra. Insomma, Gattapelata sembrava un novello Carlo Martello, protagonista della sua personale battaglia di Poiters.

Nel frattempo, il terzo assalitore, che, qualora ve lo foste scordati, era stato spedito con un calcio fuori dalla finestra, rientrò armato di un randello abbastanza nodoso e gli corse incontro per restituirgli qualche batosta. L'abile cavaliere, abituato ad essere preso di mira da più lati, sistemò velocemente il sesto, mandandolo oltre il bancone semplicemente pigliandolo per il naso e si voltò verso il tenace avversario. Vedendo vibrare il colpo sollevò il braccio, contro cui armatura il bastone si schiantò, finendo in pezzi, inondando l'aria di segatura. L'uomo rimase sgomento ad osservare la metà di bastone che gli era rimasta in mano, mentre il cavaliere, prontamente, gli assestò un gancio tanto poderoso da farlo volare per tutta la stanza e ributtarlo di nuovo fuori dalla porta, da cui era tornato. Sperando di coglierlo distratto, un particolarmente audace cliente regolare, si alzò dalla sedia, la sollevò sopra la propria testa, e gli corse incontro, ancora voltato, brandendola e desideroso a farne uso non ortodosso. La calò sopra il celato setto nasale del Gattapelata come avrebbe calato una zappa, ma quello gli arrestò il tragitto prematuramente, alzando solo la mano sinistra e serrandola sul legno del sedile. Gliela strappò di mano e la poggiò alla sua sinistra, mentre il cliente già preparava un diretto destro. Gattapelata però blocco anche quello a mezz'aria ancor più facilmente, ci chiuse intorno alle dita, intrappolandogli il pugno e con quella mano che era un maglio d'acciaio ci giocherellò, torcendoglielo e rigirandolo. L'audace, ma sfortunato, ululò dal dolore, fino a che il bruto in armatura si stancò di quel verso e, sollevando minaccioso la mano destra, la richiuse a cazzotto e gli calò un piccione sulla fronte, che rintoccò a batacchio di campana. Quello prese a brancolare sperduto come un ignavo, ma premuroso, Gattapelata, lo indirizzò, con uno spintone, a sedersi sulla sedia che aveva preparato antecedentemente. Nuovamente ricondotto da dove si era alzato, Gattapelata la sollevò, con lui ancora rintronato sopra e scaraventò sedia e sedente sulla folla.

Ormai nessuno cercava più uno scontro diretto e tutti i rimasti cominciarono a buttargli addosso tutto quello che avevano. Incurante delle bottiglie, sedie e sassi che gli rimbalzavano e infrangevano per tutta l'armatura, il cavaliere si piegò su una panca su cui potevano sedersi cinque persone, la sollevò come un fuscello sopra la propria testa e la lanciò verso la folla tiratrice, che arretrò verso le pareti per evitare di venirne schiacciati.
Dopo questa ennesima prova di forza erculea, regnava un tremendo silenzio nel salone. Ormai alla folla era passata interamente la voglia di misurarsi con un mostro del genere e si limitava a guardarlo con occhi impauriti.

Allora una tremenda risata risuonò per tutta la stanza, proveniente dall'elmo di cavalier Gattapelata, una risata sprezzante interrotta da singhiozzi da ubriaco e frasi di gloria.

"Allora gentaglia, vi siete arresi? Vi è passata la voglia di scherzare, branco di conigli? Avete capito con chi avete a che fare, pusillanimi? Avete innanzi a voi l'uomo che vi ha sbaragliato tutti da solo, disarmato e senza perder fiato. Non riuscirono i mori e pensate di impensierirmi voi? Altro che cialtrone, io sono il tremendo Gattapelata! Tenetelo bene in testa quando vi lavorerò per bene le facce, perché quando vi chiederanno della vostra salute voglio che sappiate chi ringraziare!"

Detto questo cominciò ad avanzare verso le povere anime, che tremavano, facendo tremare il pavimento coi suoi pesanti passi di ferro. Quell'armatura spaventosa pareva proprio inarrestabile, ma l'apparenza fu dissolta da un gran baccano. Fra lo stupore di tutti i presenti il potente Gattapelata si fermò, traballò e cadde in avanti spalmando la faccia a terra, rivelando dietro di lui l'oste della locanda, con in mano un pesante mattarello ancora pieno di farina, con cui aveva vibrato il colpo provvidenziale.

"Legno di stagione. Anche il più valoroso condottiero può piegarsi con del buon legno di stagione".

Per tutta la folla si sparsero esclamazioni di gioia e complimenti e il nome di Giorgione, l'oste appunto, si sparse per tutta la locanda in festa.

"Bravo Giorgione!"

"Irreprensibile Giorgione!"

"Portiamolo in trionfo!"

E appunto erano già pronti a trascinarlo per il paese e organizzare seduta stante una processione in suo onore, ma con gran severità Giorgione li portò all'ordine e con un gesto indicò il corpo esanime del Gattapelata.

"Signori, vi ringrazio, ma avete forse dimenticato il motivo per cui ha avuto inizio questa rissa? Questo tale, Crapapelata, ha fatto lo gnorri invece di pagare onestamente la sua cena ben sostanziosa. Ebbene, ora che ha avuto la sua lezione è il momento di saldare il conto".

Facendosi strada fra la folla attorno a lui, Giorgione si avvicinò al corpo esanime del cavaliere e gli si chinò sopra. Lo prese per le spalle e lo ribaltò con l'aiuto dei presenti, come una tartaruga e una volta fatto gli levò l'elmo dal capo. Si trovò di fronte alla faccia di un omone con un naso largo, fronte sporgente e sopracciglia spessissime, la cui faccia era incorniciata dai riccioli di barba e capelli rossi come il sangue.

"Che faccia spaventosa" commentò il terzo assalitore, chiamato Goffredo, rientrato di nuovo nella locanda ormai pesto "se lo lasciamo andare questo qui combinerà solo guai. Io dico di buttarlo nel fiume!"

Questa proposta provocò molti assensi fra i presenti e presto iniziarono ad urlare a gran voce "nel fiume! Nel fiume!" Ogni animo fu però zittito da Giorgione che sbatté il mattarello per terra come un comandante ai suoi uomini.

"Amici, capisco la vostra rabbia, ma una giusta pena è equivalente al crimine. Oggi non annegherà nessuno".

"Ma non possiamo lasciarlo così!" Protestò il figlio, sbucando dalla cucina "era già stato esiliato una volta da queste terre per le sue malefatte ed ora è tornato. Non possiamo lasciarlo libero".

"Il ragazzo ha ragione! Al fiume, al fiume!" Gli diede corda Goffredo. Presto si levò un altro turbinar di incitamenti e grida per sbarazzarsi del povero, esanime, Gattapelata. Ma di nuovo ogni insurrezione fu placata quando il mattarello in legno di stagione volò e si schiantò in fronte a Goffredo che rimase steso a terra.

"Figliolo, torna in cucina o il prossimo lancio sarà a tuo indirizzo. E voi, ragazzoni, aiutatemi con questo balordo".

Presto gli uomini circondarono la figura del Gattapelata e iniziarono a spogliarlo. Così come egli aveva non solo rifiutato di pagare la cena, ma anche aveva distrutto il salone, così Giorgione non si accontentò della spada, ma gli prese tutta l'armatura. Una volta spogliatolo delle armi, delle placche, della cotta di maglia e anche la pettorina di cuoio, lasciandolo nudo e crudo, essi gli cinsero addosso una tovaglia e lo legarono con corde robuste e nodi stretti. Poi lo trasportarono fuori, svegliarono Baldobracco che dormiva accanto le ciotole di fieno e avena e ci issarono sopra il cavaliere, in maniera che non cadesse. Quindi portarono il cavallo fino in strada e con una pacca ben assestata lo mandarono al galoppo verso il confine da cui erano giunti il cavallo e il suo sgradito cavaliere, sperando di non rivederli più.

Alla fine rientrarono nel locale e indissero una festa in onore del buon vecchio Giorgione.

***

Frattanto Baldobracco continuava a correre per la strada a perdifiato fino a giungere di nuovo alla vista del crocevia. Fu allora che Gattapelata prese di nuovo conoscenza, con un brutto mal di testa, tutto indolenzito e infreddolito. Iniziarono a tornargli in mente tutti gli avvenimenti di poco fa. Si rese poi conto di essere stato spogliato della sua armatura, avvolto in una tovaglia e legato come un salame in sella al suo destriero. Che brutta situazione. Non gli ci volle molto per piantare i piedi nei fianchi del cavallo per farlo arrestare ed impennare sulle gambe posteriori, facendolo di nuovo ruzzolare a terra, fra imprecazioni, che non possiamo permetterci di riportare, a dio, alla madonna e tutti gli angeli in colonna. Anche il cavallo si dimostrò degno di tale padrone e nitrendo per il dolore ai fianchi, cominciò ad insultare nella sua lingua tutte le divinità equine.

"Perdonami Baldobracco, era necessario" si scusò il cavallerizzo, cercando di rizzarsi in piedi, ma tanto era ancora pieno in corpo d'alcol che non riusciva a reggersi in piedi. Continuando a ciondolare di qua e di là, il cavaliere si dimenava fra i nodi che quella masnada giù alla locanda gli avevano messo addosso. Lo avevano talmente conciato per le feste che la rogna lo avrebbe probabilmente accompagnato fino a Natale. Dondolava che dondolava, preso com'era a cercare di liberarsi le mani da dietro la schiena, perse l'equilibro e cadde di nuovo miseramente a terra, insultando i fautori di quel brutto scherzo fino alla settima generazione.

Ciononostante non tutto il male vien per nuocere, dice un proverbio più vecchio dell'epoca in cui è ambientata codesta storia. Difatti, da quella nuova prospettiva, il nostro valoroso cavaliere senza armatura poté vedere con chiarezza la sua maledetta sacca di iuta impigliata fra i rami di un cespuglio d'ortiche, lo stesso in cui era caduto precedentemente quella notte.
Grande fu il gaudio e la gioia che gli rinfrancarono le viscere! La sua tremenda forza lo attraversò di nuovo fremendogli il corpo. Ora che aveva trovato la sacca con le monete egli poteva ora tornare indietro e consegnare il dovuto all'oste, ripagando così il suo debito, per ottenere indietro la sua armatura e tutto l'equipaggiamento annesso e ripulire il suo nome dal marchio di cialtrone che gli era stato illecitamente attribuito. L'unico problema che si contrapponeva fra lui e la riuscita di questo piano erano solo quelle corde. Ed egli, dunque, cominciò a sforzarsi. Si mise seduto in terra e cercò d'allargare le braccia con tutte le sue forze. Le sentiva allentarsi, gli pareva di riuscire a spezzarle, ma il dolore era tanto e a forza di scavarsi i polsi non riusciva comunque liberarsi. Smise per riposare e rimase ad ansimare a lungo stando seduto. Il cavalier Gattapelata pareva essere davvero stato sconfitto da un branco di avventori di taverna. Che umiliazione insopportabile.

Quand'ecco si mise all'erta quando gli parve d'udire un fruscio di foglie. E poi dopo il fruscio il rumore di rami spezzati. E poi dopo ancora delle zampe che affondavano per terra.
Questi rumori provenivano tutti dalla foresta di fronte a lui, accanto alla quale era stata scavata la strada. Si facevano sempre più forti e definiti che quasi poteva immaginare la stazza dell'animale che gli veniva incontro. La bestia camminava e camminava. Ed ecco gli apparve. Prima una figura in penombra fra le frasche e poi sempre più definita agli occhi della luna. E parlando di occhi... che occhi che aveva quella belva! Erano non due, ma tre enormi occhi gialli tagliati a lama di coltello, si cui uno sulla fronte. E la testa che li conteneva pareva un incrocio fra quella dei coccodrilli e quella d'un lupo, né completamente l'uno e né completamente l'altro e per questo ben più spaventoso di tutti e due. La bestia camminava su quattro zampe, ma un terzo paio si protraeva verso di lui per ghermirlo. Con abile scatto Gattapelata si buttò indietro, evitando di essere afferrato da quelle brutte manacce unghiate che volarono sopra la sua testa. Nel frattempo Baldobracco aveva preso a imbizzarrirsi e saltava agitato.

"Guai a te bestia! Hai di fronte il grande Gattapelata!" Esclamò minaccioso il cavaliere, con l'alito ancora al gusto di vino.

"Guai a te Gattapelata, perché stai per divenir Gattascuoiata!" Gli replicò a modo il mostro, rizzando in aria le orecchie lupine. Il baldo eroe fu colto di gran sorpresa a sentirsi rispondere dietro dalla creatura. Così, tremando e a ben ragione, decise che forse era il caso di chiedere delucidazioni.

"Chi sei tu che mi minacci?"

"Io sono Alemanno, il drago che infesta questa foresta e tu sei il primo che ha il coraggio di rivolgermi parola. Dite, non avete paura?"

"Un cavaliere che combatte per la giustizia non ha motivo d'aver paura".

"Voi avete la parlata da cavaliere" Osservò il drago "ma è difficile credervi così conciato. È forse questa tovaglia l'armatura con cui mi venite incontro?"

"Ridi pure bestia, so io come trattare razze come la tua".

"Io rido e a ben donde. Voi siete ubriaco e gli ubriachi sono il mio pasto preferito. Avete la carne bella tenera e condita quando vi piglio a tornare a casa tentennando. Ma voi, caro il mio cavaliere, o presunto tale, siete pure già legato e servito su un piatto d'argento. Sarà una cena che ricorderò finché campo vedendo quanto siete grosso".

Avanzando lentamente il drago a sei zampe gli venne incontro, spalancando una bocca tanto da farla sembrare una caverna. Aveva un alito fetido e il povero cavaliere non poteva neppure tapparsi il naso. Era troppo tardi per scappare, era vero, ma ciò non voleva dire che non avrebbe venduto cara la propria pelle.

***

Cari lettori che siete giunti sin qui.
Vi ringrazio per la lettura.
Quel che avete fatto significa molto per me e se è vero che un autore scrive per passione è anche vero che vedere che il suo lavoro venga notato porta gioia al suo cuore
Volevo solo farci sapere questo. Non ho idea di quando aggiornerò la storia, forse domani forse mai. Non ho neanche idea di come finirla, ma si direbbe che questo, data la natura della storia, non sia affatto importante.

Con tutta sincerità vi ringrazio ancora per aver letto.

 

   
 
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