Anime & Manga > Captain Tsubasa
Segui la storia  |       
Autore: SusanTheGentle    19/08/2020    4 recensioni
Ricordo il periodo delle medie…
Nella mia scuola c’era un ragazzo che non parlava quasi con nessuno. Era diverso da tutti i miei compagni, privo di quell’aria anonima tipica degli studenti della Toho, la carnagione un po’ più scura di un comune giapponese, come se avesse passato tutta la vita sotto il sole. E, come il sole, brillava di luce propria. Fu per questo che attirò la mia attenzione.
Lui spiccava prepotente tra la folla, simile a un felino dentro un recinto di pecore tutte maledettamente uguali.
Genere: Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Danny Mellow/Takeshi Sawada, Ed Warner/Ken Wakashimazu, Kojiro Hyuga/Mark, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 
20. Vittorie e sconfitte
  
 
 
Durante le vacanze estive, molti dei club sportivi della Toho rimanevano aperti benché la scuola fosse chiusa. Gli atleti avevano il permesso di continuare gli allenamenti, alcune squadre dovevano sostenere incontri importanti. Quella di calcio pensava al match finale del campionato nazionale.
Erano l’ultimo club a chiudere la stagione; il team di pattinaggio artistico, invece, si preparava ad aprire la nuova.
Le gare cominciavano intorno ai primi di ottobre, ma i pattinatori dovevano preparare due nuovi programmi da presentare davanti ai membri della Japan Skating Federation entro settembre. Ciò valeva soprattutto per chi era in lista per le competizioni nazionali.
L’ultimo giorno di luglio, letteralmente al limite delle possibilità umane, Kira aspettava ancora una risposta.
Seduta rigidamente davanti al tavolo dell’ufficio dei suoi coach, aspettava che Kanagawa e Fukushima si decidessero a parlarle invece di continuare a girare fogli e borbottare tra loro. Sapeva perfettamente cosa stava per succedere, il problema era rimarginare la ferita che si sarebbe aperta dopo il no. In caso contrario, sarebbe corsa per il cortile ad annunciare ai suoi amici la sua felicità.
Il suo stomaco si era tramutato in un pezzo di marmo, la stessa sensazione che si ha quando si è mangiato qualcosa di molto pesante o di indigesto. Deglutì un paio di volte, scoprendo di non avere saliva.
«Allora, Brighton…» esordì Kanagawa.
Al suo cognome, Kira raddrizzò la schiena, rigida come un ciocco di legno. 
«Respira, ragazza mia, non stai andando al patibolo» la rimproverò bonariamente il coach.
«Mi scusi…» esalò lei, liberandosi dell’aria in eccesso. Sentiva il petto pesante.
«Visto che sei così nervosa, il resto te lo dico dopo», disse ancora Kanagawa richiudendo la cartelletta color senape. «Sei ufficialmente ammessa ai campionati nazionali»
Kira schizzò in piedi emettendo un grido. «Scusate, scusate…» disse subito, riprendendo posto sulla sedia. Il sangue prese a scorrere più veloce per l’eccitazione, facendola fremere fin nelle ossa.
Kanagawa e Fukushima si scambiarono un sorriso compiaciuto.
«I membri della nostra federazione hanno valutato i tuoi risultati della scorsa stagione regionale», disse la Fukushima, che come il suo collega mostrava in volto un’espressione fiera. «Nonostante tu non abbia sfiorato neanche il bronzo hai totalizzato un punteggio complessivo che, in base alle regole, può essere considerato sufficiente per qualificarti. Ora, i tuoi compagni di club avranno un paio di mesi di riposo, ma tu dovrai continuare ad allenarti.»
«Certo, signorina!»
«Quest’anno compirai un percorso diverso dai tuoi compagni» riprese Kanagawa.
Kira notò che il suo viso si era fatto di nuovo serio, severo.
«Dovrai lavorare separatamente, e potrebbero nascere delle gelosie». Il coach fece una pausa. «So che hai avuto dei problemi con delle compagne, ma ti chiedo di lasciare i malanimi da parte, qualsiasi cosa possa succedere.»
«Non si preoccupi, coach. È una storia dimenticata» disse Kira con sicurezza. I litigi con Milly erano stati accantonati da tempo. Qualche volta pensarci le faceva male, ma non molto di più che un sassolino in una scarpa. Un po’ appuntito ma sopportabile.
«Mi fa piacere saperlo, Brighton, però ho esperienza in queste cose e so che possono nascere gelosie fastidiose. Ho allenato parecchi ragazzi: non sarebbe né la prima né l’ultima volta.»
«Non succederà» assicuro nuovamente Kira. «Tutto quello che voglio è partecipare a questi campionati. Non mi lascerò distrarre da niente.»
Kanagawa si scambiò uno sguardo con la Fukushima e annuì. «Mi fa piacere sentirlo. Hai una grande responsabilità, Brighton; tutta la scuola si aspetterà di vederci sul podio, visti i precedenti atleti che hanno trionfato grazie al nostro team. Abbiamo piena fiducia in te e sappiamo quanto tu sia determinata.»
«Mi impegnerò al massimo, coach. Lo prometto!»
«Su questo non abbiamo dubbi» disse la Fukushima, regalandole uno sorriso complice.
Oh, sì, nessuno l’avrebbe fermata, si disse Kira. Dovevano solo provare a metterle i bastoni tra le ruote. Questa volta non avrebbe ascoltato nessuno che si fosse intromesso tra lei e i suoi propositi, al contrario! Lo avrebbe invece mandato al diavolo ancor prima di cominciare a discuterne.
Kanagawa si abbandonò contro lo schienale della sedia e un sorriso gli attraversò il viso da una parte all’altra. «Ottimo! Da domani comincerai a lavorare sul nuovo programma. Per adesso puoi andare.»
 
 
***
 
 
Gli spogliatoi della squadra di calcio erano di per sé un luogo chiassoso, spesso teatro di scherzi, battute illogiche tra maschi e palleggi a casaccio che finivano quasi sempre dentro l’ufficio di Kitazume, il quale aveva l’abitudine di lasciare una fessura nella porta per controllare ciò che avveniva in corridoio.
Negli ultimi giorni, però, le battute e gli schiamazzi si erano ridotti. I ragazzi della squadra erano molto tesi per via dell’imminente finale di campionato e se ne stavano nelle docce quasi totalmente in silenzio, la mente concentrata sugli allenamenti e i suggerimenti del mister.
In quell’anomala e piacevole quiete, proprio Kitazume stava chino sul tracciato del campo da gioco dispiegato sopra la scrivania. Rifletteva sugli ultimi possibili cambiamenti disegnando linee di diverso colore, cancellando, riscrivendo… quando il silenzio venne infranto da un uragano che irruppe negli spogliatoi scardinando la porta.
«MARK! MI HANNO PRESA!»
La punta della matita con cui il mister stava scrivendo scivolò sul foglio, prima tracciando una spessa linea nera e infine spezzandosi.
«Cosa succede?! Chi è che urla?!». Kitazume, gli occhiali storti sul naso, si precipitò fuori dal suo ufficio per capire cosa o chi facesse tanto baccano. «Brighton! Cosa fai qui?!», barrì quando la vide.
Giunta in fondo al corridoio d’ingresso, già con la mano sulla maniglia della porta dello spogliato, Kira si voltò facendo un rapido inchino. «Oh-ehm, buon pomeriggio Kitazume-sama…»
«Buon pomeriggio un’accidenti! Come osi urlare come se fossimo al mercato?! Non ti hanno insegnato l’educazione?»
«Scusi, scusi, ma devo assolutamente dire una cosa a Mark»
«Brighton!» gridò ancora Kitazume, il viso dell’uomo deformato dall’indignazione. «Quello è lo spogliatoio dei maschi
Kira fissò la porta davanti a sé e solo allora realizzò che Kitazume aveva ragione: non poteva entrare là dentro per nessuna ragione al mondo. Staccò la mano dalla maniglia come fosse arroventata e fece per allontanarsi, quando la porta le si spalancò di fronte.
«Chi fa tutto questo casino?»
Mark.
Quando lo vide, Kira gli balzò davanti afferrandolo per le spalle. «Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta!» ripeté per diverse volte, scuotendolo un poco.
Lui aveva sempre saputo che fosse un po’ matta, poi vide l’espressione di lei cambiare da imbarazzata a sorridente, euforica, raggiante. E capì.
«Avevi il colloquio coi tuoi coach, oggi.»
Kira annuì con energia.
«Vuoi dire che…?»
«Esatto! Tieniti forte, perché hai davanti a te la futura campionessa nazionale di pattinaggio su ghiaccio!»
Mark mollò il borsone da palestra che aveva in mano e l’afferrò per le spalle a sua volta. «Ma è magnifico! Sapevo che ce l’avresti fatta!»
«Io ancora non ci credo!» strillò la ragazza, colma di un’incontenibile euforia tanto da gettare le braccia al collo di Mark. Si sentì sollevare di poco da terra…
Come quella volta alla festa dello sport.
Lo stomaco di Kira sussultò.
Lui profumava di buono, le punte dei capelli ancora umide dopo la doccia, le spalle forti sotto le dita. Prima di rendersene conto si svincolò gentilmente dalla presa delle sue braccia, cercando di darsi un contegno. Non stava bene abbracciarsi in pubblico, lo sapeva e poteva infastidire anche Mark. Lui la guardava in modo strano, quasi deluso. Ma durò poco, perché di lì a un momento anche gli altri ragazzi della squadra vennero a congratularsi con lei. Non la conoscevano bene, ma era pur sempre un’atleta della scuola.
«Congratulazioni, Kira!» esclamò Ed. «Sapevamo che ce l’avresti fatta!»
«L’ho già detto io» puntualizzò Mark spingendolo indietro. Per qualche motivo si era rabbuiato.
«Cerca di vincere, Brighton! Facciamo il tifo per te e per la scuola!» disse Eddie.
«Vogliamo assolutamente avere una campionessa alla Toho!» disse Ian.
«Ci sono già tanti altri campioni qui, ma grazie del sostegno!» rispose Kira sorridendo a tutti loro.
«Adesso basta con questo chiasso!» esclamò Kitazume facendo trasalire tutti.«Tutti fuori se avete finito di cambiarvi! Tu per prima, Brighton, screanzata che non sei altro!»
Kira non se lo fece ripetere due volte e fuggì in un lampo al di là della porta principale. Attese Mark fuori sul campo, risalendo insieme a lui e Ed il breve declivio erboso.
La pattinatrice ricominciò a parlare a raffica, a gesticolare ampiamente raccontando loro l’incontro con i suoi coach e tutto ciò di cui avevano parlato, delle idee che aveva per i suoi programmi, della voglia di farsi valere.
Mark l’ascoltava con in volto un sorriso misurato ma solidale. Lei era al settimo cielo e il ragazzo si ritrovò a condividere ogni più piccola emozione, paura e aspettativa.
«Promettiamo» disse poi Kira quando riprese fiato, fissandoli entrambi con decisione. «Promettiamo di impegnarci al massimo per vincere, tutti e tre.»
Mark e Ed la guardarono alzare una mano e tenderla in avanti. Un attimo dopo fecero lo stesso, Mark la mano sopra quella di Kira e Ed sopra quella di Mark.
«Promessa» pronunciarono a una voce.
 
 
 
***
 
 
L’ultima settimana prima della partita, la squadra di calcio entrava in ritiro e i ragazzi si fermavano a dormire nel dormitorio scolastico. Era un modo per agevolare chi arrivava da fuori città, di modo che non ci fossero ritardi la mattina agli allenamenti. Il mister li faceva alzare all’alba per conquistare le ore più fresche del mattino, intercalando le ore di lavoro sul campo a pause più o meno lunghe per mangiare e fare i compiti delle vacanze.
Niente svaghi, niente incontri con gli amici o le ragazze.
Mark vedeva Kira ogni giorno passare davanti al campo per andare al palaghiaccio, ma non si fermavano mai a parlare, al massimo un ciao gridato da lontano.
Calma, concentrata, Kira pareva stesse preparandosi per una semplice scampagnata invece che in attesa di una serie di competizioni che potevano cambiare il suo futuro.
Mark avrebbe voluto saper mantenere la calma al pari di lei. Kira rilasciava gli accumuli di stress attraverso l’esercizio fisico. Lo faceva dopo una sessione di studio particolarmente pesante o in qualsiasi altra situazione snervante. Lui, al contrario, pur riuscendo ad allentare la pressione rimaneva sempre troppo teso. Prima di una partita importante raggiungeva livelli di suscettibilità tremende e solo l’isolamento riusciva ad aiutarlo. Invidiava Ed, il quale riusciva a vincere l’irrequietezza pre-partita adottando la pratica della meditazione insegnatagli da bambino. I karateka ne facevano uso ogni volta che dovevano prepararsi per un incontro. Non era raro trovare Ed in un angolo tranquillo per permettere a mente, corpo e spirito di liberarsi dall’energia negativa. Anche Mark cercava di imitarlo ma non sempre funzionava. 
La sera prima della finale Kitazume fece un discorso alla squadra sull’importanza del gioco di squadra. Secondo lui, contro Hutton e compagni la tecnica migliore era la compattezza. Li mandò tutti a letto presto e il mattino dopo li svegliò di buon’ora per allenarsi ancora. Nel pomeriggio, all’ora stabilita, i ragazzi salirono accompagnati da un teso silenzio sul pullman della scuola, che li avrebbe portati allo stadio in cui si sarebbe giocata la finale. Lo scorso anno avevano giocato alla Toho.
Mark segnava una media di tre goal a partita, ma la New Team aveva rafforzato la difesa. Nei primi venti minuti di gioco lo marcarono così strettamente che non gli fu possibile ricevere nessun pallone. Dei quattro difensori che la squadra avversaria schierava sul perimetro, due di essi si occupavano esclusivamente di lui. Bob Denver e Bruce Harper non gli lasciavano spazi, quasi non difendevano la porta lasciando quel compito ad altri compagni. Il loro gioco era concentrato esclusivamente sul non far passare lui. Denver, alto e possente, faceva per due.
Intanto, gli altri ragazzi della Toho perdevano tutti i duelli a centrocampo a causa della perfetta regia di Holly.
Mark fremeva per la rabbia. Non era quasi riuscito a toccare palla da quando era iniziato l’incontro. I compagni schierati al centro non trovavano sbocchi per passargli il pallone. Mark si voltò verso la panchina. Kitazume gli fece cenno di mantenere la calma: niente azioni impulsive, nemmeno per smarcarsi. Il ragazzo strinse i denti, impotente, non potendo fare a meno di pensare che se ci fosse stato Jeff Turner non gli avrebbe detto di calmarsi, ma di rompere con la forza la strettissima opposizione dei difensori o di chiunque altro, e andare in rete senza pensare a niente.
E intanto, Holly segnava il primo goal.
Patty, sugli spalti, saltellava accanto al solito gruppo di amici e sostenitori più accaniti della New Team, incitando il suo Holly sopra tutti. Sull’altra curva, Kira si accasciava sul suo sedile imprecando a bassa voce.
Il gioco riprese e lo svantaggio smosse gli animi dei ragazzi della Toho. Eddie Bright intercettò un pallone eludendo l’intenzione di Hutton di passare a Ted Carter sulla fascia. Eddie si lanciò come un razzo in direzione della porta avversaria, seguito da Nicholas Loson, Henry Sail e Lucas Milton. Il quartetto mise in piedi un’azione straordinaria di cui Kitazume sarebbe stato fiero: era puro gioco di squadra. Eddie scattò a destra e scivolò via da un assalto avversario, passando a Lucas così che la Toho non perdesse possesso di palla. Lucas avanzò ancora e lanciò a Henry, che lanciò a Nicholas, che la ripassò a Eddie davanti all’area di rigore.
Qui, Bruce fu costretto ad andare in aiuto del terzo difensore della New Team, rimasto l’unico contro i quattro avversari, lasciando Bob da solo ad occuparsi di Lenders.
Vedendo che Harper si spostava in sua direzione, Eddie Bright si lasciò andare a un ghigno soddisfatto. Era quello che volevano: costringere uno dei due difensori ad allontanarsi da Mark. Nel frattempo erano accorsi in difesa anche Paul, Johnny e Ted. Ma prima che i tre ebbero tempo di fare qualcosa, Eddie li lasciò tutti di stucco passando all’indietro, deponendo la palla tra i piedi del suo capitano.
Mark non ebbe quasi bisogno di correre verso la porta. Con un destro poderoso tirò dritto in rete. Alan Crocker alzò entrambe le braccia per fermarla ma nemmeno la sfiorò.
Uno a uno.
La curva nera e bianca esplose d’entusiasmo per le prodezze del suo capitano, mentre la massa bianca e azzurra si profuse in fischi di disapprovazione.
Il gioco ricominciò e dopo una punizione Mark ebbe un brutto scontro con Paul Diamond a centro campo. L’arbitro fischiò e i tifosi della Toho emisero esclamazioni di protesta quando estrasse il cartellino giallo.
Lenders era stato ammonito.
Mark si rialzò alla svelta mentre Eddie Bright gli si avvicinava. «Non importa, capitano. Non te la prendere» gli disse mettendogli una mano sulla spalla come per impedirgli di commettere un altro errore.
«Lasciami, Eddie»
Bright esitò, ma in seguitò decise di dargli ascolto. Aveva imparato a convivere con gli scatti d’ira di Mark in quei due anni, così come gli altri compagni. «Il mister ci aveva avvertito: gli arbitri quest’anno sono veramente severi»
Mark non disse nulla, si limitò ad annuire con la testa, lo sguardo fisso su Lucas Milton e Justin Filler che cercavano di ragionare con il giudice di gara. Serrò i pugni, sedando la rabbia che gli montava dentro. Per una volta che non lo aveva fatto intenzionalmente…
In ogni caso, anche se moriva dalla voglia di protestare, non aveva intenzione di correre dall’arbitro e mettersi a discutere, né di fare nient’altro che avrebbe potuto compromettere la squadra.
«Dì a quei due di piantarla o verranno ammoniti anche loro» disse a Eddie, facendo un cenno con la testa verso Lucas e Justin.
Mark si allontanò per recuperare la palla, camminando lentamente. Incrociò una volta lo sguardo di Ed, fermo in mezzo ai pali. Fra i due vi fu uno scambio di cenni d’assenso, come a dire che era tutto okay. Ignorò gli avversari che lo guardavano stupiti, probabilmente chiedendosi perché non avesse reagito in alcun modo. In verità, Mark ribolliva dentro.
Era tutta la partita che si tratteneva dal far saggiare alla New Team una delle sue famose scivolate, ma no. Doveva tenere a bada l’istinto e seguire alla lettera le indicazioni di Kitazume.
Per questo alla fine del primo tempo, mentre il risultato rimaneva fermo sull'uno a uno e lui aveva evitato d’un soffio una seconda ammonizione per un altro paio di entrate troppo irruente, Kitazume annunciò che nel secondo tempo Lenders avrebbe giocato nello stesso ruolo di Hutton.
«Vuole mettere Mark a centrocampo?» chiese un basito Ed Warner, dando voce all’unanime pensiero della squadra. Gli altri erano ammutoliti per il troppo stupore.
«Mark rischia l’espulsione» tagliò corto Kitazume, «non posso espormi e farvi giocare in dieci contro la New Team. Lenders, giocherai a centrocampo.»
«Ma mister…»
«E non tenterai più di andare al goal, Lenders. Voglio che ti occupi esclusivamente di marcare Hutton impedendogli di passare la palla ai suoi compagni. Mi hai capito?»
Mark rimase senza parole al pari dei compagni.
«Lenders, ti ho chiesto se hai capito.»
«S-sì, mister.»
«Bene. Tornate in campo, adesso, svelti.»
Non appena Kitazume ebbe voltato loro le spalle, Warner, Bright, Mellin, Loson e tutti gli altri si fecero intorno al loro capitano.
«Cercheremo ugualmente di passarti il pallone» lo rassicurò Lucas Milton.
«Giusto. E poi», rincarò Ian Mellin «sono sicuro che prima della fine dell’incontro Kitazume ti riporterà in attacco. Vedrai che…»
«State zitti» ordinò bruscamente Mark, voltando nuovamente le spalle. Uscì dall’ombra della panchina e strinse gli occhi alla luce accecante del sole. In quel modo non poté vedere gli sguardi attoniti degli avversari e dei tifosi.
Tutti si chiedevano se l’allenatore della Toho fosse pazzo o cosa: fare arretrare Lenders sarebbe stato come premere un simbolico tasto di autodistruzione. Ciononostante, le grida d’incoraggiamento della Toho continuavano a riecheggiare per tutto lo stadio.
Nei primi minuti del secondo tempo la New Team rallentò il suo gioco. Con Mark a centrocampo, Holly incontrò non poche difficoltà a dirigere la sua squadra. Lenders gli stava alle costole senza mai lasciargli un piccolo spazio, senza dargli tregua.
Poi Hutton fece una finta per eludere la marcatura di Mark e quasi segnò un goal che solo grazie ai riflessi di Ed non entrò in rete. Dandosi uno slancio impossibile Warner acciuffò il pallone uscendo dai pali, regalando a Hutton uno sguardo compiaciuto.
«Di qui non passi» lo avvertì, per poi rilanciare con forza verso i compagni.
Il pallone, catturato dai ragazzi della Toho, finì di nuovo tra i piedi di Mark, il quale partì da metà campo fino a ricoprire una buona fetta di terreno.
Quasi al limite dell’area avversaria Lenders vide Eddie arrivare sulla fascia destra. Gli passò la palla quando i difensori della New Team gli si gettarono praticamente addosso. Volendo avrebbe potuto benissimo eliminarli tutti e quattro, ma aveva già disobbedito al mister lasciando il centrocampo, non era il caso di farlo infuriare gettando giocatori gambe all’aria come solo lui sapeva fare…
La partita era agli sgoccioli.
In area di rigore, Mark dribblò Bruce Harper, Bob Denver e gli altri due difensori della New Team, per poi scontrarsi con il suo nemico di sempre.
Holly lo accolse quasi serenamente, Mancavano pochi minuti e se Mark non fosse riuscito a segnare un altro goal tutto sarebbe andato perduto.
Lenders si guardò attorno per cercare un compagno, ma tutti erano marcati strettamente.
Con una serie di finte si liberò di Hutton, ma prima che potesse raggiungere la porta, Johnny Mason arrivò alle sue spalle e gli rubò la palla per poi passare ad Holly. Il capitano della New Team corse velocemente nell'altra metà del campo, passando a Paul che passò a Ted sulla fascia, allontanando sempre più il pallone da Mark. Poi Ted ripassò a Holly in prossimità dell’aera della Toho. Ed scattò fuori dai pali per intercettare il tiro ma lo mancò di pochi centimetri.
Fu un tripudio di urla ed acclamazioni.
Mark si morse un labbro rabbiosamente. Il tiro di Holly era un tiro ad effetto e Ed era riuscito a fermarlo per ben tre volte in quella partita. Questa volta non ce l’aveva fatta. Vide il portiere piegato sulle ginocchia scuotere la testa in sua direzione. Mark fissò uno sguardo determinato in quello dell’amico: non era ancora finita. Fino alla fine non bisognava mai arrendersi.
Si voltò verso Holly e restò qualche secondo ad osservarlo pensando a come fermarlo. Il gioco riprese e di nuovo i difensori della New Team gli furono addosso. Ebbe l’impulso di sfondare la difesa come sapeva fare ma un’occhiata fugace verso il mister frenò la sua iniziativa.
Niente falli, aveva detto Kitazume, bensì gioco di squadra.
E gioco di squadra sia, pensò.
Mark corse con tutte le sue forze verso il portiere avversario dopo aver abilmente recuperato il pallone in scivolata. I difensori gli si gettarono di nuovo addosso e fu allora che passò il pallone a Nicholas Loson. Inaspettato per i giocatori della new Team, a un comando di Holly cercarono di ricompattarsi in direzione di Loson che all’ultimo secondo passò a Eddie Bright che si produsse un assist pazzesco verso Mark in un tiro diagonale davanti alla porta. Alan Crocker, il portiere della New Team, non era pronto e la palla calciata da Mark si incassò in rete.
Un tripudio di voci esultò stavolta dalla curva della Toho. Pochi secondi di gloria, ma l’arbitro fischiò.
Goal non valido.
«CHE COSA?!» fu il ruggito di Mark, che sovrastò le urla della squadra intera. I ragazzi si strinsero attorno all’arbitro un’altra volta. Egli gesticolò per ripristinare l’ordine e fu irremovibile sulla sua decisione.
Mark sputò a terra un eccesso di saliva, il respiro affannoso. La partita era quasi terminata e la fatica accresciuta dal caldo iniziava a farsi sentire.
Gli occhi neri del capitano si concentrarono sulla New Team, su facce sorridenti di chi sa già di avere la vittoria in pugno.
L’incontro riprese ma si era ormai ai minuti di recupero. Solo due, nei quali Mark si lanciò in un’impresa impossibile. Spedì Ted Carter gambe all’aria in una scivolata che non venne fischiata come fallosa, riprese palla e corse, corse e dribblò lasciando la posizione a centro campo per riperdersi il suo ruolo di attaccante. Arrivò di fronte all’area di rigore, ma prima di riuscire a tirare il fischio dell’arbitro risuonò tre volte nell’aria.
La partita era finita. La New Team aveva vinto.
Senza fermarsi, Mark calciò il pallone con rabbia. La sfera andò comunque a incassarsi in porta. Alan protestò ma lui non lo udì neppure.
Gli faceva male il petto, il fiato corto, la delusione cocente che gli bruciava la gola arida e gli occhi.
Per il secondo anno di seguito, la Toho arrivò seconda ai campionati nazionali delle scuole medie.
«Complimenti ragazzi, avete giocato bene» disse loro la signorina Daisy Osbourne, talent scout e presidentessa del club di calcio.
Era stata lei a caldeggiare l’ingaggio di Mark nella scuola e il ragazzo aveva sempre avuto massima stima per la donna. Ma in quel momento non ebbe nemmeno il coraggio né la voglia di darle retta e salutarla, chiedendosi perché mai lo avesse scelto.
Kitazume, si limitò a dare una pacca sulle spalle a tutti i suoi giocatori. Negli spogliatoi sarebbe seguito un discorso deluso ma più o meno incoraggiante.
Prima di prendere posto in panchina in attesa della premiazione, Mark si scostò la frangia bagnata di sudore dagli occhi con uno scatto della testa, guardando in su verso le tribune. Sua madre, i suoi fratelli, tutta la scuola, lo avevano visto perdere. Di nuovo. Non importava quante partite avesse vinto nel corso dell’anno, la finale era perduta.
E poi c’era Kira. Kira che, mani e mento appoggiate sulla sbarra dove, appena sopra il campo, occupava il posto il fan club della Toho, lo fissava con i suoi grandi occhi così espressivi.
Troppo.
Mark distolse lo sguardo anche da lei, proprio nel momento in cui gli parve di vederla accennare un sorriso. Non aveva affatto voglia di ricevere sorrisi.
Mentre la New Team festeggiava e ritirava – si riappropriava – lo stendardo del campionato, le squadre che avevano partecipato si schierarono in campo per applaudire.
Quanta ipocrisia…
Fingere di ringraziare il presidente della lega calcio giovanile, fingere di essere comunque soddisfatti per il secondo posto, fingere di congratularsi con i vincitori. Fingere, fingere, fingere, quando avrebbe solo voluto prendere a calci qualcosa e romperla, sfogare la rabbia e gridare perché.
Fu ciò che fece quella sera, l’ultima nel dormitorio.
Gli altri avevano preferito rintanarsi nelle camere a riposare o discutere, provati dalle prestazioni fisiche del pomeriggio. Lui invece scese al campo, gridando contro il nulla la sua rabbia, colpendo la palla ancora e ancora, fino ad esaurire di nuovo le forze.
Per quale motivo continuava a perdere contro la New Team e Holly? Essere un campione di calcio era il suo sogno, come mai non riusciva a realizzarlo?
«Perché urli tanto quando calci il pallone?» domandò a un tratto una voce.
Mark sollevò lentamente lo sguardo, per nulla sorpreso di vederla.
Kira era ferma in un punto poco lontano da lui; un’intromissione desiderata che stupì lui stesso. La parte di sé che avrebbe voluto chiederle di lasciarlo in pace combatté contro il sollievo che provò solo sapendola lì, nei suoi shorts di jeans e una semplice maglietta nera.
Kira ricoprì la distanza in pochi passi, rimanendo immobile fino a quando lui non pronunciò in un borbottio poche parole. «Non te ne torni a casa?»
«Non c’è nessuno a casa, adesso». Ferma sul prato, Kira osservò Mark prendere un altro pallone, posizionarlo sul limite dell’area e tirare un bolide che si incassò in rete con una forza pazzesca.
Alle loro spalle, il sole morente proiettava lunghe ombre sull’erba tinta un arancione vivo.
«Mi dispiace per com’è andata» riprovò la ragazza.
Mark ricominciò a calciare con la medesima intensità di poco prima, ignorandola. Kira si morse la lingua per non commettere errori e dire qualcosa che l’avrebbe portata a discutere con lui. Non era venuta per quello.
«Scusa. Se vuoi ti lascio solo.» Non ricevendo risposta gli voltò lentamente le spalle, amareggiata.
«Ferma.»
Kira si girò all’istante. Non si mosse finché Mark non parlò di nuovo.
«Perché non sei tornata a casa dopo la partita?» ripeté il calciatore.
«Volevo stare un po’ con te» rispose lei con una semplicità disarmante.
Mark la guardò negli occhi, mentre riconoscenza e rabbia si mischiavano. «Non ho bisogno di essere consolato» protestò dandole le spalle.
Kira sorrise senza essere vista; un sorriso fiacco ma condiscendente. Quando qualcosa lo affliggeva, Mark tendeva a non parlarne. Ma Mark aveva un bisogno disperato di parlare, sfogarsi, buttare fuori la rabbia e gridare. Purtroppo non poteva obbligarlo, doveva capirlo da solo.
«Vuoi che vada via, allora?». Lo guardò chinarsi e preparare qualche palla per altri, innumerevoli tiri. «Se vuoi me ne starò in silenzio e immobile a guardarti calciare quei palloni. Non farò nient’altro.»
«Fa come vuoi» bofonchiò Mark, posizionandosi davanti alla porta vuota.
Sul suo viso contratto nello sforzo di non dare libertà alle emozioni, Kira riconobbe lacrime occultate dall’orgoglio di un guerriero sconfitto, lacrime che non sarebbero scivolate da quegli occhi neri nemmeno per sbaglio. Entrambi sapevano che nel momento in cui Mark lo avesse permesso, avrebbe perso per davvero.
Kira non fiatò nemmeno per sbaglio quella sera. Una volta tanto cercò di comportarsi da buona amica e fu pronta all’ascolto nel caso Mark avesse deciso di spezzare il suo forzato silenzio. Per lunghi minuti, però, ascoltò solo il rumore del cuoio percosso dai calci di Mark, i ringhi rabbiosi di una tigre ferita gli salivano dalla gola. Rimase dietro di lui, passandogli nuove palle, recuperando quelle che finivano troppo lontano. La violenza con cui Mark si gettava contro quel pallone smosse qualcosa dentro di lei rassomigliante alla paura. Ma comprendeva che quello era l’unico modo in cui lui riusciva a reagire. Era come se lui stesse cercando di replicare alcune azioni compiute durante l’incontro, nel tentativo di capire dove avesse sbagliato e perché. Non c’erano perché, e Kira lo trovò un inutile e doloroso auto-infliggimento di domande senza risposta. Era andata così e prima Mark lo avesse capito, prima sarebbe uscito da quello stato di furioso sconforto.
Stanco, lui si lasciò infine cadere sull’erba. «Basta. Non serve a niente» ansimò, passandosi un braccio sulla fronte sudata.
Kira gli sedette accanto qualche secondo dopo. «Va un po’ meglio ora che ti sei sfogato?» domandò.
«No». Mark si passò una mano sul viso in un gesto esausto, poi la guardò. Si guardarono.
Per un fugace istante il ragazzo si domandò perché lei continuasse a stargli accanto. Nemmeno Ed insisteva tanto, al contrario, sapeva lasciargli i suoi spazi comprendendo il suo bisogno di solitudine. Kira invece era venuta lì a offrirgli un sostegno non richiesto, perseverante anche nel silenzio, con quei suoi grandi occhi che lo scrutavano attenti come se accertarsi che stesse bene fosse per lei la cosa più importante al mondo.
«Smetti di fissarmi in quel modo, mi dà fastidio» disse, distogliendo lo sguardo.
«In quale modo?»
«Come se dovessi crollare da un momento all’altro.»
«Cerco solo di capire se stai bene.»
«Sto da schifo, come vuoi che stia?»
Le sopracciglia della ragazza crearono un arco di contrarietà.
Mark represse uno sbuffo. Lei faceva sempre così quando qualcosa non le andava, inarcava le sopracciglia e ti guardava in un modo che…
Gli faceva saltare i nervi.
Mark capiva perché era lì ma non le avrebbe dato soddisfazione: non si sarebbe lasciato andare allo sconforto, non voleva che lei vedesse la sua debolezza. Si sentiva un perdente, e un bruciante buco nero che gli si era aperto dentro il petto gli ricordava quanto doveva apparire penoso il suo atteggiamento agli occhi altrui. Per questo aveva rifuggito la compagnia di Ed e dei compagni preferendo scendere al campo da solo.
«Sai che c’è?» riprese dopo lunghi minuti di silenzio. «Che tutti alla Toho credevano in me e io li ho delusi. Non sono riuscito a portare in trionfo la squadra nemmeno quest’anno.»
Kira lo squadrò con rimprovero. «Eravate in undici su quel campo, non giocavi da solo.»
«Già. Hai centrato il punto». Mark si passò le dita nei capelli, sulla fronte, e lì le tenne. «Io sono un individualista, credo tu lo abbia capito. Ho cercato di fare gioco di squadra come ha detto il mister, e va bene, posso farlo, non è un problema. Ma essere messo a centrocampo no. Questo non lo accetto.»
Kira rifletté bene prima di parlare. «Non prenderla come un affronto personale. Il tuo allenatore sa cosa è meglio per la squadra. Può darsi veda in te altre potenzialità e stia cercando di sfruttarle.»
«Che si fotta quello stronzo! Non ha capito un cazzo di me né di come si allena una squadra!»
Mark scattò in piedi, lasciando Kira da sola sull’erba.
Lei lo seguì con lo sguardo, turbata. Era la prima volta che vedeva il suo amico così sottosopra.
«Mark…»
«Va a casa» quasi le ordinò, marciando in fretta verso l’uscita del campo.
«Aspetta!» lo chiamò lei senza successo. Si rimise in piedi a sua volta, indecisa su cosa fare.
Le ci vollero due secondi per decidere.
Lo seguì a passo spedito fino all’ingresso del tunnel da cui uscivano i giocatori. Mark era scivolato contro il muro in ombra, le braccia abbandonate sulle ginocchia e il capo chino tra di esse.
Kira rimase a fissarlo per qualche secondo. Tutte le parole che aveva deciso di usare per farlo star meglio le apparvero improvvisamente troppo deboli.
Si chinò in ginocchio di fronte a lui, lentamente. Sentì il lieve respiro accelerato di lui sopra il frinire dei primi insetti della sera. Non era venuta per imporsi su di lui, perciò non disse niente. Semplicemente aspettò.
Gli posò una mano sopra un ginocchio, cauta, come se stesse toccando una bomba pronta a esplodere.
«Senti, spesso nemmeno io comprendo le decisioni dei miei coach» tentò Kira, sistemandosi meglio sui talloni. «Alla scuola di pattinaggio in cui andavo prima avevano tutto un modo diverso di insegnarci, però cerco di adeguarmi»
Mark girò la testa, fulminandola. «Certo, tu ti adegui perché ti va bene! Perché tu parteciperai ai tuoi campionati e probabilmente li vincerai anche. Ma a me non va bene affatto!» Mark picchiò un pugno a terra. Ignorò il dolore sordo. La sua voce si alzò di diversi toni, graffiando l’aria. «Non capisci? Non posso giocare in un altro ruolo solo perché Kitazume lo vuole. Lui sa benissimo che sono il giocatore con il tiro più potente e cosa fa? Mi fa indietreggiare? No! È escluso, Kira!»
«Mark, lo ha fatto per evitarti un altro cartellino giallo!»
«Sì, e questo è il risultato! Eddie, Lucas e gli altri sono stati bravi, però non hanno avuto la prontezza di andare in rete come l’avrei avuta io. Hanno sprecato un sacco di occasioni, per non parlare dei palloni che si sono fatti soffiare da Holly a centrocampo perché Kitazume ha ordinato di non esagerare in fase d’attacco. Ma non ci si può frenare: la palla la devi recuperare e correre, attaccare, sempre, non solo quando hai la strada spianata; devi andare dritto verso la porta e fare qualsiasi cosa per vincere! Se non lo facciamo rimarremo sempre secondi e io sono… stanco.»
Mark liberò un respiro, asciugandosi una lacrima che gli bagnava il volto. Lanciò un’altra occhiata a Kira, immobile e silenziosa ancora inginocchiata davanti a lui.
Lentamente lei si alzò da terra ma solo per risedersi un istante dopo al fianco del ragazzo.
«Non vergognarti se piangi» Gli posò una mano sui capelli che lo indussero ad alzare il viso e voltarsi.
«Potresti non farmelo notare? È già abbastanza umiliante che tu sia qui»
«Oh, smettila, Lenders. Piangere è assolutamente normale dopo una delusione come questa. E comunque, non andrò a raccontarlo in giro»
Il ragazzo espirò seccamente. «Non è questo il punto. Io non ho bisogno…»
«…di me. Va bene. Ma non puoi costringermi ad andar via.»
«No, non intendevo…». Lui non voleva consolazioni e frasi fatte ma voleva lei lì. Non riuscì a dirglielo ma Kira capì ugualmente.
«Anche l’anno scorso mi cacciasti via quando cercai di parlarti dopo la finale. Dev’essere un tuo vizio» tentò di ironizzare, ma nella sua voce c’era del sarcasmo.
«L’anno scorso non volevo nemmeno vederti, ero incazzato con te»
«Vero. Quindi è già la seconda volta che tenti di cacciarmi, ma stavolta non vale la regola del ‘non c’è due senza tre’»
«Kira…»
«No!» rispose lei, secca. «Tu vuoi che me ne vada solo perché non vuoi che ti veda piangere, ma è una motivazione stupida.»
Mark voltò la faccia dall’altra parte e lei lo udì sbuffare. Ringhiare per meglio dire. «Sei tremendamente fastidiosa»
«Prima mi hai detto che posso fare come voglio» puntualizzò lei. «Perciò faccio ciò che voglio e resto. Ma se proprio detesti la mia presenza, guardami in faccia e dimmelo».
Mark affondò lo sguardo dentro al suo per un attimo lungo milioni di secondi, e ancora non riuscì a capacitarsi di come averla vicina lo facesse stare bene anche in un momento in cui odiava il mondo intero.
Rimasero per lunghi minuti seduti l’uno accanto all’altra, quasi immobili, silenziosi.
Mark tenne gli occhi fermi sul suo viso, rivivendo un ricordo amaro. Kira sembrò quasi leggergli dentro e riviverlo con lui…
 
«Sono venuta a dirti che mi dispiace. Per quello che vale»
«Non cercare di essermi amica… Fai un favore a tutti e due: sparisci»
 
Quella conversazione era avvenuta esattamente dodici mesi prima.
Quando lui aveva iniziato a considerarla un’amica e in seguito aveva creduto di essere stato sfruttato unicamente per raggiungere uno scopo infantile, Mark si era sentito trafiggere. In quei giorni si erano feriti a vicenda. Non gli era importato, nemmeno nel periodo in cui erano diventati due estranei, o se n’era voluto solo convincere. Ma ora lei era lì, per lui. Poche persone spendevano il loro tempo per lui, non aveva mai avuto molti amici e Kira aveva iniziato a diventare…preziosa.
«Perdonami» le disse, occultando il proprio viso lasciando che la lunga frangia lo coprisse. Parlò senza guardarla. «Un anno fa mi apparivi solo come una ragazzina boriosa e superficiale che non aveva niente in mente se non la sua bicicletta»
Kira gli rivolse un sorriso di scuse. «E tu come uno scimmione maleducato capace solo di giocare a pallone.»
«Abbiamo perso un mucchio di tempo ad ignorarci per niente, ma non voglio più che succeda. »Mark prese un respiro. «Va bene se resti» gli uscì detto, mentre avrebbe voluto dirle “Sono felice che tu sia qui”.
Kira sorrise, lenta. «Ti confesso una cosa»
Lui ascoltò in silenzio.
«Io non ti ho mai ignorato» disse tranquillamente. «Tu non te ne sei mai accorto ma qualche volta ti guardavo dalla finestra della mia classe mentre ti allenavi. Anzi, ti osservavo ogni volta che mi capitava l’occasione. Però se ti accorgevi di me fingevo di fare altro e cercavo di non farmi notare.» Rise di sé stessa per un attimo, poi tornò seria. «Mi mancavi, ma ero troppo orgogliosa per chiederti scusa. Qualche volta mi sono domandata se anche tu sentivi la mia mancanza. Te ne stavi quasi sempre solo, parlavi soltanto con Ed e i tuoi compagni di squadra... Certe volte avrei voluto avvicinarmi e dirti qualcosa. Ma i tuoi modi ostili mi frenavano.»
«Non hai mai avuto paura di avvicinarti a me» disse lui. La guardava, ora.
Lei scosse la testa. «Non era paura. Però mi dicevo che, se mi odiavi, non mi avresti voluta intorno e così mi sono imposta di fare lo stesso.»
«Tu non rifletti prima di parlare. È questo il tuo errore» le disse Mark, posando lo sguardo sul campo ricoperto dalle ombre. «Non pensi, sei troppo impulsiva e così finisci per ferire gli altri.»
«Lo so. Mi dispiace.»
«Non serve che tu lo dica adesso. Ma, di sicuro sei riuscita a non farti notare mentre mi spiavi, spiona.»
Lei emise una risata leggera, poi fu di nuovo il silenzio.
Mark continuò a fissare il campo, sentendo la spalla di Kira scontrarsi con la sua. «Sono cambiate diverse cose in un anno.»
«Siamo cambiati noi» disse la ragazza. «Siamo cresciuti.»
«Ma il risultato è sempre lo stesso». Mark emise un sospiro irato. «Scusami. Tu cerchi di distrarmi ma io non riesco a pensare ad altro che alla partita. Il fatto è che quest’anno ci credevo veramente»
«L’anno prossimo vincerai, Mark.» Era convinta mentre lo diceva, e lo disse tutto d’un fiato. «Hai pensato ancora una volta che Holly fosse il più forte, e questo lo ha reso realmente il più forte. Così hai perso. »
Kira irrigidì le spalle, pronta al litigio. Quelle erano le parole che avrebbe voluto rivolgergli sin dall’inizio. Sapeva benissimo che lui non avrebbe accettato una critica simile. Si stupì infatti di non vederlo lanciarsi contro di lei immediatamente, definendola una scema che parlava a vanvera e di calcio non capiva niente. Forse stava preparandosi all’attacco, mettendo assieme gli insulti più…
«Sì, hai ragione» affermò invece Mark, alzandosi in piedi, i pugni serrati.
Ancora seduta a terra, Kira lo guardò stupendosi del fatto che Mark stesse… dandole ragione. Non era una cosa che capitava spesso.
Il viso del ragazzo era teso ma non più angosciato. Una nuova luce di determinazione brillava già dentro i suoi occhi, come le prime stelle della sera che facevano capolino sopra il campo da gioco.
«Più di tutto, anche più dell’astio che nutro per il mio mister, a impedirmi di dare il meglio è stato quello». Mark abbassò il viso per guardarla. «Ma sono io il più forte!»
Kira si alzò in piedi per essergli di fronte. «L’anno prossimo crederai di più in te stesso e ce la farai. Sei tu il migliore, capitano.»
Un sorriso sincero nacque sul suo grazioso viso e contagiò anche lui.
Era la prima volta che Kira lo chiamava in quel modo. Era un appellativo che gli trasmetteva importanza, responsabilità, ma sulle labbra di lei suonò diversamente, fu…piacevole. No, più di questo...
Ebbe bisogno di fermarsi a guardarla per lunghi secondi, osservarla con più attenzione di quanto avesse mai fatto prima d’ora per cercare di capire una volta ancora cosa rappresentasse per lui quella ragazza.
Fece un passo avanti e in un attimo chiuse le braccia attorno a lei.
Kira rimase ferma con le braccia lungo i fianchi per qualche lungo secondo. Poi alzò a sua volta le braccia e gli circondò la schiena. Era una stretta che trasmetteva affetto e gratitudine. Volle dire qualcosa ma non lo fece.
Abbracciarsi in silenzio, senza dire niente e comprendere tutto, lasciando da parte ciò che non serviva, i bisticci e la vergogna, la tristezza e la rabbia.
«Grazie, Kira»
Era strano per lei non aver nulla da dire, ma non le uscì niente a parte un «Di nulla».
«Se ti incontrassi oggi per la prima volta, non credo ti detesterei.» disse Mark, accorgendosi troppo tardi di aver pensato ad alta voce.
«Co…?» Kira spalancò gli occhi e quasi le sembrò che lui stesse chinandosi in avanti verso di lei… e poi il suo orologio emise una serie di ‘bip’, segnando le otto di sera.
Gli occhi di entrambi fissarono automaticamente il quadrante illuminato.
«Caspita, è tardi» fece lei alzando il polso.
Mark si allontanò di un passo. «Vieni, ti accompagno a casa»
Lei tentennò, le guance tiepide. «Non…non devi rientrare in dormitorio?»
«Il ritiro è praticamente terminato. È l’ultima notte qui, domattina torniamo a casa»
«Va bene, ma… se il tuo mister ti becca uscire da scuola senza il permesso ti declassa a raccattapalle. Altro che cartellino giallo.»
La battuta pungente costrinse Mark a lanciarle un’occhiataccia delle sue. «Sei venuta in bici?» chiese poi.
«Sì. Ma non ti devi disturbare, Mark, davvero. »
«Non è un disturbo. »
Kira esitò. «Ce la farai a rientrare in tempo?»
«Sì, no ti preoccupare. » Mark infilò le mani nelle tasche dei calzoni della tuta. «Quanto ci si mette da qui a casa tua?»
«Se pedalo veloce, quindici minuti»
«Allora andremo velocissimo. Guido io, tu salta dietro.»
Kira non era certa che fosse una buona idea per Mark sgattaiolare fuori dalla scuola, ma lo lasciò fare perché lui fu irremovibile, e anche perché le sembrò un’avventura eccitante. Lui in sella, lei seduta sul portapacchi aggrappata alla sua vita, sfrecciarono lungo la scorciatoia rasente il fiume e giù per il viale alberato. Le luci delle case strada disegnavano sulla strada ombre rettangolari e le foglie verdi degli alberi parevano acquisire un colore bluastro nella notte che avanzava.
Mark era stato a casa di Kira solo una volta ma ricordò la direzione da prendere per arrivarci. Passarono di fronte alla stazione e poi lungo altre due lunghe vie. Una volta davanti a casa Brighton, Mark si fermò dall’altro lato del marciapiede per evitare che la madre di Kira li sentisse arrivare. Qualcosa gli diceva che non sarebbe stata felice di sapere che aveva accompagnato a casa sua figlia. Ma guardando in su, si stupì di vedere tutte le luci spente.
«Non c’è nessuno in casa?» chiese, scendendo dalla bici insieme a Kira e riconsegnandola nelle sue mani.
«Ancora no. I miei sono andati fuori a cena con dei vecchi amici. Sai sono gli ultimi giorni di licenza di papà»
«Si fidano a lasciarti sola?»
«Certo. Mia madre non rientra mai prima delle nove di sera, quando lavora»
Mark vide una strana espressione sul suo viso. «Ti dà fastidio stare sola?»
Lei alzò le spalle. «Ci sono abituata. E poi di solito c’è la nonna»
Il ragazzo osservò la grande casa deserta, i muri bianchi, il tetto color ocra. «Qualche volta vorrei poter stare un po’ da solo anch’io. A casa mia c’è sempre un tale casino…»
Kira sorrise. «Lo immagino. Con tre bambini scatenati...». Lo vide sospirare e il sorriso si ampliò. «Senti, io tra qualche giorno parto per le vacanze. Starò via un paio di settimane. »
Mark apprese la notizia solo in quel momento. Fu un attimo. Avvertì una sensazione strana dalle parti dello stomaco che subito si dissolse e che non riuscì a riconoscere come delusione.
«Allora ci vediamo quando torni.»
Lei annuì. «Quando rientrerò, mi piacerebbe passare le ultime settimane di vacanze facendo qualcosa insieme. Ti andrebbe?»
«Qualcosa di che tipo?»
«Non so, magari andare in piscina o fare una gita in bici, o andare ancora al negozio di Gary»
«Va bene» rispose lui, semplicemente. «Io devo ancora iniziare i compiti, a dire la verità; ma va bene»
Kira si grattò la punta del naso, imbarazzata. «Già, anche io devo ancora iniziarli».
Nessuno dei due aveva aperto mezzo libro da quand’era finita la scuola un mese prima.
«Che scansafatiche!» la rimproverò Mark. «Tu hai avuto un mese per farli, io avevo gli allenamenti e le partite»
«Ehi, anch’io mi sono allenata! Il nostro club è rimasto attivo tutta l’estate, cosa credi? E poi sono venuta a tutte le partite»
“Non scaricare sempre la colpa su di me» disse Mark, iniziando ad allontanarsi. “Prendi la mia bici» lo fermò Kira.
Lui squadrò la bicicletta arricciando il naso.
«Non preoccuparti, i miei non si accorgeranno che non c’è. Me la riprendo domani mattina quando vado agli allenamenti»
«Non è questo…» balbettò Mark.
«E allora cosa? Non sembri convinto»
Mark fissò ancora i fiorellini dipinti sulla canna e il manubrio. «Kira…è una bici da femmina»
«Che ti importa? Tanto non ti vede nessuno. Non puoi tornare a scuola di corsa»
«Faccio una corsa tutte le mattine dalla stazione fino a scuola, sono allenato. E poi so correre vocissimo.»
«Sì, ma casa mia è più lontana della stazione e poi è sera. E se incrociassi qualche male intenzionato?»
Mark non poté credere a ciò che sentì e quasi rise della sua preoccupazione. «Non se ne parla, non mi farò vedere in giro con quella»
«Oh, sei così cocciuto…»
«Divertiti in vacanza» disse lui abbassando la voce il più possibile, alzando una mano in segno di saluto.
«Grazie. E tu non farti beccare a rientrare» rispose Kira in un avvertimento altrettanto sommesso. Lo guardò correre veloce come il vento fino in fondo alla strada e voltare l’angolo. Allora si mosse verso casa, aprì il cancelletto dell’ingresso e trascinò la sua bici nel giardino sul retro, poi entrò in casa.
Il suo ultimo pensiero prima di andare a dormire fu per Mark, sperando che riuscisse a raggiungere il dormitorio senza avere problemi.
Era stata felice di essere riuscita a consolarlo, anche se avevano dovuto beccarsi come al solito. Credeva che quell’aspetto non sarebbe mai cambiato, lei e Mark avrebbero sempre discusso per qualcosa, però… andava bene. Se poteva stare con lui andava bene anche così.
Stava quasi per addormentarsi, i pensieri si susseguivano senza un filo logico, confondendosi, mescolandosi nella calma che precede il sonno. E tra quei pensieri rifiorì il momento in cui Mark l’aveva abbracciata. Le era piaciuto essere abbracciata, tanto, e forse aveva anche sperato, per un fugace momento, che lui si chinasse su di lei e la baciasse.
Ma quando si svegliò la mattina seguente, non rammentò affatto di averlo pensato.

 
 
Pics-Art-08-19-06-35-09-2 
[Immagine creata da me. Non prelevare]  

***** ***** ***** ***** *****
Note:
 
Il Japan Skating Federation, (JSF) è l’organizzazione sportiva giapponese che si occupa degli sport su ghiaccio, con la funzione di regolamentare le gare a livello nazionale. Questi organi di governo sportivo possono includere azioni disciplinari per infrazioni alle regole, o la decisione di modificare le regole nello sport che governano.
 
***** ***** ***** ***** *****
 
 
Ci ho messo un bel po’ per tornare ad aggiornare ma alla fine ce l’ho fatta, anche se a me non piace per nulla come è uscio questo capitolo... A voi sì?
 Comunque... Mi sono presa un po’ di tempo per riflettere su questa storia, che nella mia testa sta prendendo un’impronta un po’ più adulta di come l’avevo pensata all’inizio. Man mano che cresceranno ho in programma di alzare un pochino il rating, che da giallo diventerà arancione. Ma non è ancora il momento.
Per ora concentriamoci sui successi e gli insuccessi sportivi. In questo capitolo ho lasciato grande spazio alla descrizione del match Toho vs New Team. E come si sa, anche stavolta Mark e compagni hanno perso, così ho sfruttato l’occasione di un Mark sconfortato e di una Kira premurosa e un po’ più dolce rispetto al solito. Li avete trovati carini quanto me? *___* La prossima volta i ragazzi saranno ancora in vacanza, ma il nuovo trimestre è alle porte e perciò ci concentreremo su Kira e la sua ammissione alle gare nazionali, sempre ritagliando dello spazio per un po’ di fluff.
 
Vi ho lasciato un disegnino :) se volete vederne altri potete seguirmi sul mio account Instagram @susanthegentle_efp e il mio gruppo Facebook Chronicles of Queen per sapere gli aggiornamenti.
Ringrazio come sempre tutti voi che leggete, recensite e avete messo la storia nelle seguite/preferite/ricordate, e chi ha commentato lo scorso capitolo.
 
Se ci sono errori scusate, non ho riletto.
Un baciotto grande e alla prossima!

Susan <3
   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Captain Tsubasa / Vai alla pagina dell'autore: SusanTheGentle