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Autore: benedetta_02    19/08/2020    0 recensioni
Agata Giordano è una giovanissima ragazza che ha avuto l'onore di partecipare alla resistenza italiana che ora però ha solo bisogno di tornare nella sua città, Torino, per ricongiungersi con la sua famiglia e le sue vecchie conoscenze. Ma quello che troverà sarà solo morte, fame, terrore e così decide di ripercorrere passo passo la sua esperienza da partigiana attraverso i ricordi. Amori impossibili, segreti inconfessabili e un ruolo della donna sempre più di maggiore spicco, una donna stanca del passato e che ha un solo sogno: andare via.
Genere: Guerra, Malinconico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bologna, 13 Dicembre 1944
 
Sotto Natale la guerra mi sembrava sempre più dura, non per questioni religiose o etiche, anzi più il tempo andava avanti e più la guerra diventava straziante e più rimanevo ferma sulle mie posizioni alquanto anticonformiste in merito a quei discorsi. Sebbene cercassi di dare coraggio a tutti quanti, nonostante fossi visibilmente stanca di tutto, ero rammaricata. Mi mancava casa mia, il calore di un fuoco, le compere per i regali di Natale, il cenone e soprattutto un amico pronto a confortarmi. Sicuramente avevo trovato persone più care di una vera famiglia, ma l’odore di casa era una mancanza che non riuscivo più a sostenere.
 
Rispetto all’anno precedente, quest’anno, il Natale era molto più scarso, l’Italia stava crollando. Non sapevamo più se ce la avremmo fatta, se ci avrebbero preso prima, se ci avrebbero seviziato, torturato o ucciso e non sapevamo nemmeno se saremmo arrivati tutti sani e salvi alla fine della gara. Ormai questo era diventata, una gara crudele dove non poteva finire con un pareggio, doveva esserci un vinto e doveva esserci un vincitore. In quel momento non eravamo in grado di poter capire il punteggio, non sapevamo nemmeno se ci fosse qualcuno sugli spalti ad acclamarci per come stessimo giocando.
 
La maggior parte delle famiglie italiane era ridotta alla fame, infatti il cibo era sempre di più un privilegio di pochi, perlopiù per i ricchi, mentre i poveri dovevano arrangiarsi con il poco che erano in grado di procurarsi, altrimenti sarebbero morti di fame. Nel frattempo, nelle prigioni, nei campi di lavoro, nei campi diretti dai nazisti la gente continuava a morire senza un’apparente motivo, pativa la fame, il freddo, le condizioni igieniche erano ridotte al minimo. Proprio per questo si scatenarono numerose epidemie di malattie abbastanza contagiose, come il tifo. Il nostro terrore era che potessimo prenderlo anche noi, ma era da un po’ che non ci muovevamo più con molta tranquillità.
 
“Come abbiamo intenzione di fare?”Sentii la voce di Rocco provenire dalla cucina, mentre io e Lila ci stavamo spazzolando i capelli in bagno.

”Non lo so, siamo messi abbastanza male”Crusca esitò un momento, lo vidi stringere con il pollici e l’indice della mano destro le sue tempie. Era esausto.
 
“Ma qual è il problema principale?” Disse Terùn accedendosi una sigaretta.
 
“Che non abbiamo più un cazzo!” Disse Crusca sbattendo le mani sul tavolo, facendolo quasi traballare.
 
Stava sudando. Le sue mani ,ancora poggiate su quel tavolo di legno finto, tremavano. Era stanco e non aveva vergogna nel mostrarlo a tutti noi. Era come se indirettamente Crusca ci stesse chiedendo soccorso, ma nessuno di noi era in grado di agire in maniera semplice e veloce come solo lui sapeva fare. Ma se non avremmo fatto qualcosa, sarebbe stato il primo a cadere e se Crusca cade, cadiamo tutti.
 
Mi sistemai la giacca color panna sulle spalle, facendo un semplice risvoltino ai polsi per stare più comoda, poi uscii velocemente dal bagno. Presi il coltello che era sul tavolo, e strappai lo scotch da pacchi dalle mani di Sandokan per attaccare il coltello alla mia coscia.
 
“Dimmi cosa devo fare e io la faccio.” Porsi la mani verso Crusca come se stessimo per stipulare un accordo.
 
Crusca si spostò i capelli sudati che gli cadevano sulla fronte e mi guardò per un attimo in maniera sconcertata. Poi si guardò intorno come se volesse meditare un secondo sulla proposta che gli avevo appena fatto. Aveva capito che avrei voluto prendere le redini solo per quel giorno, per farlo stare tranquillo. Crusca sospirò profondamente, come se non avesse altra scelta. Mi prese la mano e me la strinse.
 
“Va bene. Vai al Partito. Con discrezione, devi dire che ti manda Valente. Ti daranno armi, munizioni, bomba carta. Tutto quello che serve insomma.” Disse Crusca senza smettere di tenermi la mano. Poi me la lasciò.
 
“Io vengo con te.” Disse Sandokan infilandosi una pistola nella parte posteriore del pantalone.
 
“No. Vado da sola. Ce la faccio.” Replicai io, avviandomi verso la porta prima che potessero fermarmi di nuovo.
 
Ma prima che potetti afferrare la maniglia per uscire di casa, sentii due mani grandi bloccarmi le spalle e da lì le sentii scendere sulle braccia per arrivare ai polsi, bloccandomeli. Ero sicura che fosse Sandokan, non c’era nemmeno bisogno che mi girassi per confermarlo. Sapevo che voleva proteggermi, ma invece di intenerirmi, quel gesto mi fece solo innervosire. Mi girai di scatto urlando senza freni.
 
“Basta. Basta. Basta.”Continuai a ripetere questa parola urlando, ero stanca e avevo bisogno di sfogare la mia rabbia repressa.
 
“Tu la devi smettere!”Urlai contro Sandokan puntandogli il dito contro “Non sono una bambina che ha bisogno di essere protetta. Ho la bellezza di 20 anni, sono abbastanza adulta da poter decidere da sola cosa è meglio fare. Devi smetterla di starmi sempre intorno come una guardia, so badare benissimo a me stessa da sola. Se volevi un’anima stracciata da difendere, trovati un’altra.”
 
Me ne andai verso l’esterno, sbattendo la porta alle mie spalle. Cercai di camminare velocemente onde evitare che qualcuno potesse seguirmi per farmi calmare perché quello che mi serviva era proprio la rabbia in corpo. Camminai per la strada senza una meta, non sapevo dove stessi andando. Sapevo solo che avevo bisogno di camminare, e ripensando a come avevo reagito tirai ripetutamente pugni contro il muro, come se avessi perso il controllo. Vidi il sangue scendere dalle nocche ormai distrutte, ma nonostante le lacrime per il dolore stessero scendendo, lì per lì non fui capace di sentire nessuna sofferenza, avevo troppa adrenalina in corpo. Ero come neve al sole, non sapevo che destino avrei avuto, ma ero sicura dell’amore di Sandokan e nonostante questo io continuavo a trattarlo male.
 
Emisi un urlo atroce, per poi rimanere a bocca aperta con la mano sinistra poggiata sulle nocche scartavetrate della mano destra. Persi la lucidità, mi poggiai contro il muro con tutte le spalle, avevo gli occhi dei passanti addosso, ma non ero capace nemmeno di guardare un punto fisso. Lentamente scivolai lungo la parete per poi cadere a terra, con le ginocchia poggiate al petto. Iniziai a piangere, per la rabbia, per il dolore, per la tristezza, per il freddo, per la fame. Non lo so per cosa stessi piangendo, ma lo feci.
 
Poi iniziai a dimenarmi senza motivo a terra, come se stessi combattendo contro qualche nemico immaginario, e poi ripresi a piangere e ad urlare. Ero stanca. Presi il coltello che avevo legato alla coscia e me lo passai tra le mani che ancora sanguinavano. Osservavo la lama lucente ed affilata. Potevo quasi specchiarmi in quella lama così limpida, i miei occhi lucidi riflettevano come il sole sulle onde del mare.
Poi senza pensarci due volte, con un movimento quasi inesistente all’occhio umano, me lo infilzai nella coscia sinistra. Emisi un ulteriore urlo. Ma questa volta qualcuno si curò di me. Vidi un uomo avvicinarsi a me. Estrassi il coltello dalla coscia come se lo togliessi da un pezzo di carne appena tolto dalla brace e vidi l’uomo prendere immediatamente un tovagliolo di pezza e poggiarlo sulla ferita ,che mi ero causata senza motivo, per fermare il flusso. Poi gli porsi il coltello insanguinato e lo guardai come se avessi visto un cadavere.
 
“Uccidimi.”Gli dissi con un filo di voce.
 
“Come ti chiami?” Disse lui, come se non gli importasse cosa stessi dicendo.
 
“Uccidimi. Mettimi questo coltello nella pancia.” Continuai io che ormai stavo per svenire.
 
“Andiamo a casa mia.” Disse lui prendendomi di forza come se avesse in braccio un morto.
 
Poi ricordo solo di essermi addormentata e di essermi risvegliata in una casa che era fin troppo decorata per essere la nostra, aveva persino l’albero di Natale vicino ad un camino. Girai il capo per osservare tutta la stanza e vicino alla finestra vidi una nuvola di fumo e un uomo vestito fin troppo elegante per essere un compagno. Mi tirai su in quel divano blu per mettermi seduta, ma appena feci peso sulle braccia sentii il dolore provenire dalla coscia e gemetti. Vidi l’uomo girarsi di scatto e venire verso di me.
 
“Come stai? Fammi vedere la ferita.” Disse l’uomo mettendosi seduto accanto a me sul divano e mettendo una mano alla fine della gonna.
 
Lo osservai stranita, come quasi a non ricordare se con quel tizio fosse successo qualcosa che gli aveva dato l’autorizzazione a sollevarmi la gonna. Lui notò la mia espressione stranita.
 
“Posso?” Mi disse lui rendendosi conto del mio imbarazzo ed io annuii.
 
Mi sollevò la gonna delicatamente quasi come se potesse temere di farmi male. Continuava a guardarmi in una maniera dolce e amichevole, non era cattivo, si vedeva. Ormai avevo imparato a riconoscere le caratteristiche principali di ogni persona, anche solo guardandola. Sollevò piano la garza che, suppongo, mi aveva messo lui.
 
“Ancora è buona. Ma appena ritorni a casa, controllala.” Mi disse lui riabbassandomi la gonna e guardandomi negli occhi.
 
“Che ore sono?”Chiesi io che ormai avevo perso la cognizione del tempo e dello spazio.
 
“Non troppo tardi per andare via.” Disse lui sorridendomi.
Adesso iniziavo a spaventarmi.
 
“No, seriamente. Sto vagando da stamattina, sono sicura che i miei...i miei...genitori siano in pensiero per me.”Dissi la prima cosa che mi passò per la testa e sono sicura di aver fatto bene.
 
“Permettimi di chiacchierare un po’.” Disse lui, accomodandosi al posto di prima, accanto a me.
 
“Ho altra scelta?”Chiesi io, quasi impaurita.
 
“Non credo.” Disse lui ridendo e riempendosi un bicchiere di vetro pieno di un liquido giallastro e poi ne riempì un altro. Potevo fidarmi?
 
“Scotch?” Mi chiese lui porgendomi il bicchiere. ‘Ma si.’ Pensai.
 
“Allora, signorina suicida, mi dica qualcosa di lei.” Disse lui, ridendo, e sorseggiando il suo drink.
 
“Cosa vuole che le dica?”
 
“Per cominciare, mi piacerebbe attribuire un nome a questo bel viso.”
 
“Eccoci, ci siamo, come sospettavo, un altro marpione. Alba, piacere.”Allungai la mano verso di lui, me la baciò.
“Ma assolutamente. Non mi permetterei mai. Ha un nome veramente bello. E' un nome latino che significa 'bianca'.Una persona che nutre molta speranza nel futuro e nella vita in generale; è gentile, ubbidiente e fiduciosa, cosa che la fa risultare un po' immatura, ma altre sì ricca di fascino a cui molte persone non sapranno resistere.”
 
“Lei ha inventato ora queste cose, vero?”
 
“No. Sono un appassionato della psiche e delle caratteristiche umane. Non a caso, sono uno psicologo. Piacere, Ivano Reggiani. Romano di nascita, Bolognese di adozione.”
 
“Psicologo eh? Fa lo strizzacervelli. Mi analizzi allora.”
 
“Ti ho analizzata da subito. Da quando ti ho vista con quel coltello conficcato nella pelle, con il viso completamente bianco e le labbra di un rosso acceso simile a delle ciliege. Stava tremando e le lacrime erano mischiate al sudore, aveva paura di quello che stava facendo, per questo ho deciso di aiutarla. Ma perché signorina? Perché un gesto così? Non so se si ricorda, ma lei mi ha chiesto di ucciderla.”
 
Me lo ricordavo. Lo ricordavo eccome. Non potevo più gestire questa situazione, non ero capace. Ero diventata una semplice pedina del sistema anche io. Io, che avevo fatto tanto per non farmi scoprire. Avrei voluto dirgli tutto, raccontare a questo perfetto sconosciuto tutte le mie turbe, le mie preoccupazioni, i miei mostri. Ma come avrei potuto? Poteva essere chiunque, e anche se questa esperienza sia sta devastante, una cosa me la aveva insegnata. Non fidarsi di nessuno. Mai e poi mai. Anche il più sincero degli amici, avrebbe potuto consegnarti alle autorità tedesche e saresti diventata carne da macello.
 
“Problemi vari che sono tramutati in questo. La guerra di certo non aiuta. Gli incubi, l’ansia, ma immagino che lei possa capirmi.” La prova del nove. La sua risposta avrebbe fatto intendere tanto su di lui.
 
Diede l’ultimo sorso al suo bicchiere di scotch e riprese a parlare “Immagino, immagino. Le dico una cosa. Io questa tortura la sto vivendo da vicino. Prima ero nei campi di prigionia a “studiare”l’uomo e il cervello umano con altri “studiosi”. Ma erano veri macellai, arrivavano cose in quei laboratori che lei nemmeno immagina. Per fortuna, non ho dovuto torcere un capello a nessuno in quei campi. Anzi, mi piaceva tanto una ragazza. Penso non avesse più di 16 anni, ma era bella, non avevo mai osato avvicinarmi a lei, avrei messo nei guai entrambi. Avevo imparato il suo numero a memoria. 039472. Ma un giorno 039472 sparì dal campo. Ero dispiaciuto nel non poterla vedere più, ma io sapevo cosa le fosse successo, e in qualche modo con la sua morte centro anche io.”
 
“E ora cosa sta facendo?”
 
“Sopravvivo. Continuo a collaborare con i tedeschi. Mussolini si è rivelato per quello che è sempre stato, ma che l’Italia non ha mai capito.”
 
“Va ancora nei campi di prigionia?”
 
“Sì. Nei campi di lavoro. Infatti, ora è come se fossi in vacanza. Cerco di ascoltare di nascosto i bambini, le donne incinte o comunque un po’tutti. Si scoprono delle storie incredibili, quelle persone hanno bisogno di parlare, di far uscire tutto fuori.”
 
“Ma non le fa neanche un po’rabbia tutto questo?”
 
“Certo che mi fa rabbia. Mi fa schifo, tristezza. Ma devo vivere, il mio lavoro lo so fare,ed anche bene. Ma ci dobbiamo accontentare.”
 
“Non bisogna mai accontentarsi. Ma apprezzo il suo disappunto.”
 
Mi sorrise. E io gli contraccambiai il sorriso, abbassando leggermente il capo dato il mio imbarazzo.
 
“Sei bella Alba.”
 
Alzai lo sguardo, arrossendo sulle guance. “Grazie.”
 
Si avvicinò leggermente a me, mi tolse il bicchiere dalle mani e lo poggiò sul tavolino di fronte il divano. Mi prese le mani ed iniziò ad accarezzarmi le nocche rovinate dal sangue.
 
“Alba, posso chiederti se vuoi uscire a cena con me?”
 
“Ma siamo nel bel mezzo di una guerra.”
 
“E allora? Viviamo ora, prima che domani sia troppo tardi.”
 
“Non lo so...”
 
“Dimmi di sì Alba e mi renderai un uomo felice. Domani sera. Al Palace. Ore 20. Dimmi di si.”
 
“Non posso.”
 
“Questo lo vedremo.” Stava sorridendo. Come facevo a dirlo agli altri? Come facevo a dirlo a Sandokan? Cazzo, gli altri. Cazzo, le armi.
 
Mi alzai di scatto, cercai le mie cose, ma mi resi subito conto che non avevo abbastanza forze per muovermi ancora. Lui mi prese da un braccio e mi porse la mia giacca.
 
“Ti porto in macchina a casa.”
 
“Che cosa? No, no. È meglio di no.”
 
“Perché?”
 
“Perché...perché...perché io sono povera, e mi vergogno.”
 
“Ma su dai, andiamo”
 
Ci infilammo nella sua macchina e proseguimmo poco più giù di casa mia, quando arrivammo speravo che già tutti loro dormissero. Scesi dalla macchina, ma Ivano spense i motori e mi si avvicinò.
 
“Alba.” Disse prendendomi le mani e proseguendo “Tu non hai idea della fortuna che ho avuto oggi nell’incontrarti. Mi sai di una persona buona e che soffre anche troppo. Permettimi di aiutarti e di conoscerti bene.”
 
“Ivano, io sono fidanzata.”
 
Mi guardò le mani. “Ma non hai l’anello.”
 
“Lo so. Ancora non è nulla di ufficiale, ma stiamo insieme. “
 
“Io fino a quando non vedrò una fede nuziale, non mollerò. Ti prego, concedimi un solo appuntamento. Vivi Alba.”
 
“Buonanotte Ivano. E grazie per tutto.”Dissi io iniziando ad entrare nel portone di casa.
 
“Domani alle 20 sarò qui giù, ti aspetterò dovessi odiarti. Buonanotte.” Disse infilandosi nell’auto.
 
Mi venne da ridere. Quello che avevo vissuto oggi era una storia che se la avessi raccontata a chiunque non ci avrebbe mai creduto. Io nemmeno lo avrei fatto. Salendo le scale del palazzo, mi sentii di nuovo una ragazza della mia età che vive i suoi 20 anni, corteggiata da un bel ragazzo. Ivano era un bellissimo uomo: capelli corti scuri, occhi nerissimi, occhiali da vista, baffetto che lo rende quasi un duro, alto e magro ma al punto giusto. Se non ci fosse stato Sandokan, lo avrei notato sicuro.
 
Entrai in casa e come ben sospettavo, trovai tutti svegli. Anna e Lila mi vennero incontro immediatamente per abbracciarmi. Mentre gli altri mi guardarono scioccati. Scommetto che erano più preoccupati per le armi che per che fine avessi fatto.
 
“Dove sono le armi?”Rocco venne verso di me immediatamente. Guardando la mia espressione da cagnolino bastonato, iniziò a ridere e a ridere e a ridere sempre più forte. Prese un piatto che era sul tavolo e lo lanciò vicino a me, distruggendolo in mille pezzi.
 
“Dove cazzo sono le armi Agata?”Questa volta venne verso di me però urlando e stringendomi le braccia. Ma Crusca e Lupo riuscirono a staccarlo. E Lila lo prese per mano, portandolo nell’altra stanza.
 
“Cosa hai fatto alla mano?” Mi chiese Harlem, prendendola nella sua per guardarla più da vicino.
 
“Niente.”Dissi io, per non far preoccupare Sandokan che era poggiato al balcone da quando ero entrata ma non aveva osato avvicinarsi.
 
“Va beh, questa giornata è andata. Non abbiamo risolto nulla. L’importante è che tu sia a casa. Viva. Domani se ne parla. Io vado a dormire. Buonanotte.”Disse Crusca con un tono stanco, quasi come se non avesse nè la forza e tanto meno la voglia di sentirci litigare.
 
Tutti lo seguirono a ruota. Dovevano essere svegli da chissà quanto. Avevo fatto preoccupare tutti inutilmente. In realtà ero in buone mani. Al pensiero di Ivano che si prende cura di me, mi viene spontaneo accennare un mezzo sorriso. Che sfortunatamente Sandokan, che era ancora poggiato lì e che continuava a fissarmi, notò. Feci finta di non vederlo e cercai di andare verso il mio letto passandogli davanti ma lui mi afferrò dal braccio e mi trascinò fuori sul terrazzo.
 
“Ora tu mi dici cosa hai fatto oggi. Nocche sfregiate, occhi stanchi, ritardo stranissimo. Cos’altro Alba? Eh?” Mi disse Sandokan urlando. Era arrabbiato ed aveva ragione.
 
Per rincarare la dose, sollevai la gonna e gli mostrai la ferita. “Mi sono infilzata un coltello nella coscia. Mi sono frenata. Volevo uccidermi. Ma non ho avuto le palle.”
 
Sandokan rimase allibito e rimase a fissare la ferita ma non ebbe il coraggio di toccarla. Solo al pensiero che fossi potuta morire per causa mia, lui si stava lacerando dentro. Era profondamente innamorato di me, ma io ancora non lo avevo capito del tutto. Lui mi prese la testa e me la spinse contro il suo petto, poggiandomi le mani sui capelli ed iniziando ad accarezzarmi i capelli. Io gli avvolsi le braccia intorno al petto. Mi era mancato.
 
“Alba. Io non sono il prototipo del ragazzo modello, ma se tu me lo farai fare a modo mio, saprò essere il fidanzato che ogni ragazza vorrebbe. Ma tu devi giurarmi, che non proverai più a fare una cosa del genere. Mai più, Alba.”
 
“Devo dirti una cosa importante Sandokan”
 
“Dimmi.”
 
“Oggi mi ha salvato un uomo. Mi ha portato a casa sua, mi ha curata, si è preoccupato per me. Abbiamo parlato un po’. Ovviamente non gli ho detto nulla, ma ho potuto evincere che lui è una brava persona. E domani ci esco a cena.”
 
Sandokan si staccò immediatamente da me. “Tu che cosa fai?”
 
“Esco a cena con lui. È un amico. Me lo ha chiesto e gli ho detto di sì.”
 
“Lo vedi Alba? Stare con te è come stare sulle montagne russe, per un momento siamo altissimi, penso che siamo pronti per vivere una vita normale, in una normalissima casetta con dei problemi normali, come la canzone che ti dedicai quella sera, che se non ti ricordi è Mille Lire Al Mese. E un attimo dopo, siamo a terra, abbiamo quasi paura di risalire perché nonostante conosciamo l’ebbrezza dell’essere su, conosciamo anche il dolore e la paura di una brusca discesa. Ora tu dimmi Alba, la nostra relazione ti annoia? Cercare di arrivare alla fine di una guerra per sposarti secondo te è noioso?”
 
“Senti, prima cosa non scendere nel vittimismo perché mi da fastidio e lo sai. Seconda cosa, io non capisco perché te la prendi tanto, non ti ho mica detto che ci siamo baciati o chissà cosa sia successo. Terzo, a me dispiace Sandokan ma io sono così, io non voglio più catene, non voglio più gente che mi dice cosa fare, io ora voglio solo essere libera e mi dispiace se pensi che io sia uno stupido gioco pericoloso per bambini, ma se hai paura dell’altezza e della velocità, sulle montagne russe non puoi salire.”
 
“Alba ma ti senti quando parli? Questo non ti ha invitato a cena per essere un tuo amico. Questo vuole mettersi con te o nel peggiore dei casi vuole portarti a letto e basta. Apri gli occhi e smettila. E poi io sono sicuro che tu lo fai solo per darmi fastidio e non perché ti piace davvero. Abbi un po’ di dignità, scema che non sei altro.”
 
“Come scusa?”
 
“ Abbi un po’ di dignità, scema che non sei altro. Lo ripeto all’infinito se serve.”
 
“Non considerarti più impegnato da ora in poi.”
 
“Ah perché lo ero?”
 
Colpo basso Sandokan. 
   
 
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