Capitolo 7
La pietra
vichinga
There's no
saving anything
Now we're
swallowing the shine of the sun
There's no
saving anything
How we
swallow the sun
But I
won't be no runaway
'Cause I
won't run
No, I
won't be no runaway
(The National,
Runaways)
“Credi
che siano stati
gli dèi di Asgard a salvare il conte?” La carrozza
si sarebbe fermata di lì a
pochi minuti. Se ci fosse stato il sole, dai finestrini avrebbero
già potuto
scorgere l’ombra delle lapidi che circondavano la chiesetta
dalla guglia stretta,
dove li attendeva il sacerdote. Loki teneva la fronte poggiata contro
il vetro
freddo.
“Pensi
che il dio
dell’inganno abbia regalato alla strega una pozione o
suggerito un’erba capace
di riportare il suo amante in vita?” insistette Sigyn.
Era pallida e
bellissima.
Cercava di mantenere un contegno aristocratico, ma i suoi occhi grigi
lo
fissavano spaventati e lucenti. L’alchimista le prese la mano
inanellata,
sfiorando la bella pietra chiara e il dorso liscio e morbido.
“Forse.
Ma ora gli dèi di
Asgard sono morti, Sigyn. Il Ragnarok li ha spazzati via, cancellati.
Il dio
delle forche è stato sbranato dal lupo Fenrir, quello del
tuono è stato ucciso
dal serpente che avvolge il mondo. Il dio dell’inganno
è morto uccidendo il
guardiano degli dèi. Asgard è
bruciata,” disse, senza alcuna emozione nella
voce appena svagata. “Forse erano già morti quando
la strega li ha pregati,”
spiegò. “O, forse, se ne sono andati
perché nessuno credeva più in loro,”
sorrise mestamente. “Deve aver usato un’erba o una
pozione,” concluse ad alta
voce, cambiando tono. Si concentrò sul proprio respiro,
sforzandosi di
mantenerlo lento e regolare, di imbrigliare il presentimento che gli
mordeva i
sensi. Era una notte fatale e Laufey gli aveva giurato di seppellirlo
vivo, se
solo l’avesse tradito. Lui, con le labbra che sapevano di
rum, si era limitato
e ridere e ad annuire, ma quella minaccia gli si era ficcata nelle
ossa,
raggelandolo, come se evocasse ben più di un avvertimento.
Il suo mentore non
parlava mai a vuoto. Le sue frasi erano secche sentenze, ponderate con
voce
cattiva. Gli aveva promesso una morte orribile e
gliel’avrebbe data. A patto
che.
“Tu
vuoi salvarmi, ma non
sai se salverai te stesso,” sibilò Sigyn.
“Ci
troverà. E non ha
niente, niente da perdere,” ammise l’alchimista
lentamente. La carrozza si
fermò. “Per qualche giorno sono riuscito ad
allontanare i suoi sospetti, ma per
liberarmi devo ucciderlo.”
Se non
l’avesse sposata e
Laufey non fosse esistito, o se, pure morendo, l’avesse
trascinato con sé
nell’Oltretomba, lei, ripudiata dalla famiglia, sarebbe
finita in una di quelle
stanzette dei sobborghi che si affittavano già ammobiliate
per pochi soldi.
L’innata eleganza con cui l’aveva vista muoversi
nei salotti della Londra
aristocratica sarebbe stata sprecata su un marciapiede male illuminato
da un
lampione a gas; il suo viso delicato, con le labbra morbide e rosate e
il naso
dalla punta diritta e stretta, leggermente
all’insù, si sarebbe sciupato per il
cibo pessimo e scarso, per il belletto troppo vistoso.
L’avrebbero avuta altri
– tutti quelli in grado di pagarla,
almeno. E le viscere gli si
contrassero dalla gelosia e da un dolore fisico e acuto, al pensiero
che fosse
di estranei disgustosi e non più sua – che
diventasse preda di clienti rapaci,
sola, morendo, infine, tisica e infelice chissà dove. Laufey
era un rischio
calcolato e necessario, uno che doveva correre per dare un senso ai
compromessi
cui si era piegato, per rendere meno ignobile l’inganno
perpetrato a danno di
lei. Non gli interessava affatto espiare le proprie azioni,
perché erano il
frutto studiato della sete bruciante di conoscere e di sapere. E Sigyn
non
poteva più indossare l’abito di raso verde, ma
sarebbe diventata sua moglie con
un vestito chiaro, color avorio, con i bordi dorati. Prima
di aiutarla a scendere, la strinse a sé per baciarle le
labbra e non farle dire
quant’era tragico il destino di quegli dèi che
sapevano di non essere immortali
per davvero, condannati dalla Voluspa a conoscere il modo in cui
sarebbero
morti. Erano stati in grado di riportare in vita il conte, suggerendo
alla
strega la pozione o l’incanto giusto da utilizzare, ma non
avevano saputo o voluto
salvare se stessi. E poi, anche quei due amanti lontani
erano morti e, per
qualche ragione che né l’alchimista né
la ragazza conoscevano, non riposavano
insieme, nello stesso tumulo. Lei era tornata nella sua terra aspra e
selvaggia, bagnata dai fiordi, lui dimorava sotto il pavimento di
pietra di una
chiesa normanna. C’era qualcosa di terribilmente ingiusto e
crudele nel destino
della coppia antica, caduta nel sonno eterno in luoghi e tempi diversi.
Loki si
chiese se, in qualche modo, dando a Sigyn la gemma che teneva al collo,
stava
affondando in una maledizione di cui non conosceva i termini o le
parole,
stesse invischiandosi in una storia di altri, iniziata per ragioni
diverse, ormai
dimenticate.
E le labbra di
Sigyn
erano dolci e salate, bagnate di lacrime silenziose di cui non si era
accorto:
lo amava e non avrebbe dovuto farlo, così come lui non
sarebbe dovuto cadere
preda di un desiderio che lo aveva infiammato e inebriato
finché non era stata
sua completamente, totalmente. Ripensò con un brivido alla
sera in cui l’aveva
avuta e a quelle prima ancora, in cui le sue dita l’avevano
accarezzata sotto
la seta e il raso e il velluto, insinuandole nella mente che la voleva,
fissandola
con sguardi rapaci, baciandola come se da quella bocca dipendesse la
sua vita,
il suo respiro, il battito che martellava nel suo petto. Laufey
l’avrebbe
seppellito vivo, sì, vendicandosi per un tradimento
più doloroso di una picca
conficcata nella schiena, ma gliel’aveva portata via e,
insieme a lei, sarebbe
riuscito a sottrargli anche il segreto che circondava come un velo la
morte.
Gli
dèi di Asgard, che
forse lo conoscevano, avevano scelto di non salvarsi, però.
Con fierezza o
stolidità, si erano convinti che era meglio accettare il
Ragnarok che
impedirlo, consci non solo del come sarebbero morti, ma anche per mano
di chi. Perché?
Sigyn
sollevò la gonna
per non macchiare l’orlo e lo seguì sotto la
pioggia, verso la chiesa dal tetto
appuntito.
♥
Il duca
d’Asgardshire non
uscì dalla casa di lord Vanir con il cuore leggero. Aveva
stipulato a favore
della futura cognata e dei suoi figli una vantaggiosa assicurazione e,
seguendo
il desiderio di suo padre e dei suoi antenati tutti, era riuscito a
proteggere
il buon nome della famiglia Odinson, ma sulla soglia era stato
raggiunto da un
messaggio che gli aveva gelato il sangue nelle vene. Uno dei suoi
servitori più
anziani era riuscito a rintracciare la casa dove si nascondevano suo
fratello e
Sigyn, avvertendolo di aver visto i due amanti salire su una carrozza.
Stavano
andando a sposarsi da qualche parte, da soli, di notte, per tornare in
società
solamente con un certificato di matrimonio in mano? Era possibile,
probabile.
Auspicabile, persino, perché Sigyn Vanir non meritava di
finire come le donne
perdute che circolavano ai margini della società o nei
bordelli, rovinate
dall’illusione un amore lontano e perduto cui si erano
dedicate anima e cuore.
Era giovane, bella e intelligente e le spettava un marito altrettanto
acuto e
brillante. Un Loki al meglio delle sue possibilità, lontano
dai ragionamenti
oscuri e contorti che gli avvelenavano il petto. Un gentiluomo
coltissimo,
ricco e sagace, che avrebbe potuto avere una vita felice e agiata, a
condizione
che. Eppure, il messaggio rapido, che si era ritrovato ad
ascoltare sulla
porta di una casa divenuta appena meno estranea, lo turbò.
Sentì che quella era
una notte fatale, in cui il destino della sua famiglia si sarebbe
spiegato.
♥
L’immaginazione
è una
creatura strana, è un drago che spesso si avvolge nelle sue
stesse spire
creando mondi possibili, aprendo porte affacciate sulle scelte che non
abbiamo
fatto. La chiesa era buia, a eccezione di un paio di candele fioche e
lontane,
che tremavano sotto le raffiche che qualche vecchio infisso lasciava
trapelare.
Sigyn si tolse il mantello zuppo e tirò indietro una delle
sue ciocche chiare,
sfuggite all’acconciatura. I suoi passi echeggiarono tetri
lungo la navata
centrale, accanto a quelli, decisi e marziali, di lord Odinson. Nella
penombra,
la sua bellezza le sembrò totale, assoluta.
Studiò il profilo diritto e virile
dell’alchimista, seguendo la linea tagliente del naso ben
fatto, la piega che
assumevano le labbra sottili segnate da una cicatrice ormai bianca, gli
zigomi
affilati e alteri. Tutto, nella sua figura, esprimeva forza ed
eleganza:
camminava come se il mondo gli spettasse di diritto, calpestando il
pavimento
di pietra con la sicurezza dei condottieri di cui aveva ereditato il
sangue. Il
prete li attendeva e pareva avere la loro stessa identica fretta.
Sigyn non si
chiese se
lord Odinson l’avesse pagato o si fosse messo a promettere
donazioni e aiuti;
si domandò cosa vedesse quel vecchio con le spalle ricurve e
gli occhi scuri in
loro. Che impressione dessero, di fronte all’altare avvolto
nella tenebra. Due
amanti fuggiaschi in rotta col mondo, che volevano riparare un torto?
Una
coppia già formata nella sostanza, che chiedeva di piegare
la passione alle
regole? Il prete la guardò con insistenza.
“Siete
qui di vostra
spontanea volontà?” le chiese, e dal modo in cui
scandì le parole e dall’incertezza
nel suo sguardo, Sigyn capì che il religioso le aveva
già posto la stessa
domanda e lei non aveva ascoltato.
“Desidero
essere sua
moglie,” confermò con una voce più
solenne e decisa di quanto si aspettasse.
Per un momento le sembrò di essere fuori dal tempo e di
osservare la scena come
se fosse seduta a teatro. Lei non era lì, accanto a Loki,
davanti all’altare,
ma nel suo palco, chiedendosi se i due innamorati avrebbero coronato il
loro
sogno. Ascoltò l’alchimista che pronunciava i voti
con tono secco e deciso –
per lui il rito era una formalità, rappresentava un modo per
muoversi più
liberamente, visse come in un sogno il momento in cui i loro nomi
vennero
scritti sul certificato. Lo stava sposando nella tenebra, di nascosto,
senza
feste né invitati, ma il suo abito era candido e incantevole
e non avrebbe
desiderato niente di diverso, per sé. Purché ci
fosse lui a stringerle le mani
fredde, a lambirle con feroce delicatezza le labbra sussurrandole di fidarsi,
qualunque cosa fosse avvenuta.
Era
ciò che aveva sempre
desiderato, del resto. Un matrimonio d’amore, con un uomo
capace di farla
sussultare solo con uno sguardo, di capirla con un’occhiata[1].
Sagace e insolente nelle discussioni, ma di quell’irriverenza
giocosa che si
concede agli avversari che si considerano nostri pari. Se ne rese conto
mentre
il viso ragnesco del prete si addolciva in un’espressione
più mite e rilassata,
nel momento in cui l’espressione severa
dell’alchimista si piegava in un ghigno
furbo e, finalmente, soddisfatto.
Erano
marito e moglie. Firmò e, nel farlo,
macchiò il foglio. Spaventata, soffiò che era un
cattivo presagio. Loki rise e
la baciò ancora, rapace, stringendo a sé il suo
corpo avvolto nella seta
candida, ma non priva di ombre, figlie della notte.
Fu quello il
momento in
cui Laufey scelse di palesarsi, entrando da una porticina laterale. Lo
fece
seguito da alcuni suoi uomini, avanzando tremante verso la navata. In
mano
stringeva una pistola. Sparò due colpi senza dire una
parola. Il primo mancò il
bersaglio, andandosi a conficcare in una delle antiche colonne che
risalivano
al tempo in cui la chiesa non era ancora tale – forse era
stata qualcos’altro,
e le sue fondamenta si fondevano con quelle di un tempio di qualche
religione
perduta e dimenticata. L’altro, invece, andò a
segno, anche se non esattamente
nel modo in cui Laufey sperava. Era destinato a Sigyn, solo
che.
Lord Odinson
aveva visto
il sacerdote impallidire e fissare un punto dietro di lui e, intuendo
il
pericolo, si era gettato sulla ragazza – su sua moglie
– facendole da scudo col
proprio corpo. Assecondò l’istinto atavico di
proteggere lei, che, tra le sue
braccia, era seta delicata e pelle morbida e profumo di miele[2].
Fragile eppure potente – così tanto da spingerlo a
rompere un patto tremendo
col mentore che aveva seguito da un capo all’altro del mondo,
da fargli
rischiare di perdere anni interi di ricerche per avvinghiarsi a lei e
farla sua
nelle ore più buie della notte, e svegliarsi, infine, con la
sua testa posata
sul petto. Amante incantevole, che lui avrebbe dovuto irretire e
ingannare per
gioco e che, invece, alla fine aveva preteso per sé,
bramandola con lo
spasmodico desiderio di un drago verso l’oro. Il dolore lo
colse all’improvviso,
stupendolo con la sua bruciante intensità.
Lui e Sigyn
erano a
terra, il prete non c’era più – forse
era riuscito a mettersi in salvo, spinto
dall’occhiata rapida che si erano scambiati. La prima cosa
che notò fu il
sangue. Imbrattava il vestito candido di Sigyn, il suo seno diafano che
si
alzava e abbassava irregolare, sconvolto dal terrore. Lei
iniziò a tastarlo,
troppo disperata persino per singhiozzare o lasciare che le lacrime le
rigassero le guance pallide, gli occhi sgranati e persi. Poi
capì –
capirono – e lo sorpresero il dolore lancinante della fitta
che gli trapassava
la spalla, acuto e terribile, il calore del sangue che sgorgava dalla
ferita.
Lei era salva – lui no, e il passo irregolare di Laufey era
sempre più vicino.
“Tu
sei un traditore, un
ingrato, un bugiardo,” soffiò il vecchio
puntandogli nuovamente contro la
pistola. La canna era talmente vicina che sarebbe stato impossibile
sbagliare
il colpo e non ucciderlo. “Ti farò saltare il
cervello,” promise. La mano
ossuta e nodosa gli tremava per l’ira, gli occhi freddi non
esprimevano alcuna
pietà, né Loki la voleva, del resto. Aveva
un’arma, nascosta nel cappotto: un
lungo pugnale indiano dall’elsa finemente intarsiata,
eredità dei suoi viaggi
negli angoli più remoti dell’impero britannico
– del mondo. La sua pistola,
invece, era rimasta nella carrozza, ma non faceva alcuna differenza.
Non
sarebbe mai riuscito a estrarre il coltello prima che Laufey gli
sparasse. Il
vecchio lo avrebbe sacrificato senza problemi sull’altare
della conoscenza o di
qualunque altra cosa ben prima che lui gli rubasse Sigyn. Non si
sarebbe fatto
alcuno scrupolo nell’abbandonarlo a una morte impietosa, e
gliel’aveva detto
molte volte. Non importava che fosse un allievo e la cosa
più vicina a un
figlio che avesse mai avuto in vita. Aveva osato intralciare i suoi
piani,
portandosi via l’unica donna, al mondo, il cui volto
ricordava, con dolorosa
precisione, quello di un fantasma.
Loki riconobbe
che lui e
Laufey avevano in comune la spietatezza, oltre a Sigyn. Fu per questo
che
scelse di provocarlo. Era l’unico modo per prendere tempo e
distrarlo
abbastanza da tirare fuori quel pugnale o fare in modo che la
pallottola non
gli fracassasse la testa.
“È
stato più forte di
me,” ghignò. Con una mano proteggeva Sigyn, ancora
stesa sotto di lui, con
l’altra premeva il fianco offeso. Se allungava le dita,
poteva sentire il
metallo freddo dell’elsa, nascosta in una tasca della giacca.
“Come potevi
pensare che te la lasciassi? Che permettessi a un orribile vecchio come
te di…
di fare cosa, Laufey? Sua madre non ti amava da viva e non ti
amerà nemmeno da
morta, neppure se riuscissi davvero a farla tornare!”
Il vecchio
strinse le
labbra e strabuzzò gli occhi, offeso dalla beffarda
canzonatura dell’altro.
Sparò prima che Loki potesse sfoderare il pugnale,
comprendendo, per la prima
volta nella sua vita e con una chiarezza livida ed estrema, la tragedia
della
propria esistenza e il suo amore patetico per una ragazzina di nemmeno
vent’anni che lo fissava con orrore e si aggrappava disperata
al collo
dell’uomo che amava. Per tutta la vita, Laufey aveva lottato
contro il destino
e la morte. Non riusciva ad accettare l’idea che fosse
condannato a morire come
tutti, così come non era stato in grado, in
gioventù, di sopportare il peso del
rifiuto dell’incantevole e divertente ragazza che lo aveva
allontanato per poi
morire nemmeno dieci anni dopo. Sigyn era il ritratto di quella donna.
Al
contrario di lei, non lo fissava con divertita supponenza, ma con
orrore.
Eppure si affidava a un uomo, Loki, che gli assomigliava per
temperamento,
ideali, spietatezza, intelligenza. Come lui, anche il figlio cadetto
del duca
Odino era ossessionato dalla morte e desiderava scoprirne i segreti. Lo
sconcertava la paura gelida di non lasciare segni del suo passaggio
sulla
terra, di diventare polvere che si sarebbe mischiata ad altra polvere,
in un
ciclo senza fine e senso. Lo raggelava il vuoto che c’era
stato prima di lui e
che ci sarebbe stato dopo: un baratro immenso in cui la sua essenza
sarebbe
svanita. Era ossessionato da una febbre interiore e perenne, che lo
spingeva a
desiderare di poter gettare nel caos l’ordine in cui si
spiegava la vita di
ogni uomo, perché solo distruggendo è possibile
ricostruire. E desiderava
osservare quelle rovine dall’alto, studiarle e manipolarle
come la creta,
piegarle al suo volere, assoluto e dispotico. Loki voleva sfuggire alla
rete
che ingabbiava l’esistenza in un processo che, partendo dalla
nascita, arrivava
alla maturità, alla vecchiaia e alla morte. Sebbene fosse
ancora giovane,
Laufey aveva riconosciuto in lui l’ansia che assale
l’animo degli uomini quando
si accorgono che la maturità sta cedendo il passo alla
senilità e alla perdita
della forza fisica e mentale. Eppure, Sigyn lo amava, tanto da aver
risposto
con uno slancio trepidante alla domanda del prete. Entrambi erano
corrotti e,
in un altro tempo, sarebbero stati chiamati stregoni, eppure Sigyn
avrebbe
potuto amare uno solo di loro: Loki dallo sguardo fiero e quasi
trasparente,
Loki che piegava le labbra strette in un sorriso feroce, Loki col suo
portamento altero e principesco, coi suoi modi di fare sicuri e precisi.
Laufey premette
il
grilletto desiderando con ogni fibra del suo essere di uccidere quel
suo figlio
putativo che gli aveva strappato le migliori conoscenze e si presentava
al
mondo come una versione più carismatica e affascinante di
lui, ma la vecchia
pistola, forse per la troppa umidità,
s’inceppò[3].
Una luce
sinistra
barbagliò negli occhi di lord Odinson: era la sua occasione
per ribaltare la
situazione. Estrasse il pugnale, incurante di stare trascurando la
ferita, e
tentò di colpire il vecchio mentore, ma nemmeno questo colpo
era destinato ad
andare a segno; due degli uomini che accompagnavano Laufey scansarono
l’uomo
appena prima che la lama affondasse nella carne, facendo rimediare al
loro capo
una ferita di striscio. E Loki fu raggiunto dalla consapevolezza,
esatta come
una freccia conficcata nel bersaglio, di aver fallito. Gli sgherri si
accanirono contro di lui, prendendolo a calci sulle costole, mentre il
vecchio
mago gli strappava Sigyn dalle braccia. Lei urlava e scalciava e
graffiava – e
lui non poteva fare niente altro che immaginare il seguito con la
spietata
acutezza che lo contraddistingueva. L’alchimista si
augurò, di nuovo, che il
prete fosse fuggito e avesse raggiunto la sua carrozza: lì,
avrebbe potuto, con
l’aiuto del cocchiere, chiamare aiuto –
rintracciare suo fratello. In un altro
momento, il pensiero di doversi far salvare da Thor lo avrebbe
disturbato,
facendogli increspare le labbra in una smorfia
d’insofferenza, ma la ferita
alla spalla bruciava e il pestaggio inferto senza pietà non
gli lasciava
possibilità di alzarsi o di difendersi. Poi, fu il buio.
♥
C’era
una donna, a
Londra. Una che fingeva di credere agli spiriti, perché sua
nonna, una volta,
le aveva detto di avere il dono di parlare con i morti. Guadagnava
raccontando
alla gente quello che voleva sentirsi dire, fingendo di riportare un
messaggio dall’Aldilà.
Consolava mogli che si ritrovavano vedove troppo presto e madri che
desideravano solo poter sentire sotto le dita le guance paffute dei
loro
bambini perduti. Lavorava creando atmosfere fatte di sussurri, sospiri
e mani
che si muovevano appena, divertendo e spaventando il bel mondo
facilmente
impressionabile dell’aristocrazia inglese. A volte,
però, qualcosa c’era davvero.
Capitava raramente – la donna non ne contava più
di due o tre in tutta la sua
luminosa carriera – eppure, quelle rare manifestazioni
bastavano a farle salire
un dubbio atroce: che l’inganno perpetrato a danno delle sue
amiche e clienti,
spesso le cose si confondevano, contenesse, al suo interno, una
spaventosa
traccia di verità. La medium, però, non era come
il sagace lord Odinson o il
lugubre Laufey. Non desiderava conoscere l’inconoscibile, non
le interessava
sollevare il velo che divide le anime dei vivi da quelle, a volte
tormentate,
dei morti. Quasi un anno prima, aveva annullato una seduta
perché colta da un
fremito inspiegabile, da un freddo che nemmeno gli inverni
più rigidi le
avevano mai instillato. Un gelo sinistro, che si era acuito quando, al
suo
cospetto, era arrivata una ragazzina dell’alta
società dai capelli d’oro. Non
aveva nulla di particolare a parte un viso grazioso e un sorriso
trascinante e
luminoso, eppure, attorno a lei – a loro, per un terrificante
momento, si erano
accalcate voci che parlavano in una lingua sconosciuta. Le era sembrato
che una
delle ombre si staccasse dalla parete per ghermirla la vita sottile, il
collo abbellito
con una sottile collanina di perle, come se fosse l’ostaggio
o la preda di
qualcosa di oscuro e crudele. L’aveva mandata via e si era
impegnata a non
rivederla mai più, certa che nel destino della giovane donna
si celasse una
futura tragedia. Quella notte, alzandosi dal letto, provò la
stessa sensazione
di freddo estremo provata mesi prima, ma non volle chiedersi
perché, né ebbe la
forza di pregare. Solo di attendere, seduta sul letto, in camicia da
notte, che
il gelo passasse.
♥
“Loki!”
L’ultimo calcio
ricevuto sulle costole lo aveva quasi tramortito, offuscandogli la
vista. Si
rese conto di aver perso i sensi forse per un paio di minuti, ma
sentiva la
testa vuota. La ferita pulsava. Distintamente avvertì che
gli spietati colpi
capaci di mozzargli il respiro erano cessati; la navata della chiesa
era
tornata a riempirsi di passi, grida, movimento. Lord Odinson si
sollevò appena
e, ansante, riconobbe la voce e il volto preoccupato di suo fratello.
“Sei
ferito.” La terribile
constatazione era stata pronunciata da Thor, che, dopo averlo liberato
dal suo
aggressore, stava tentando di soccorrerlo come poteva, cercando di
capire
quanto fossero gravi le sue condizioni. Loki si riscosse,
deglutì, bevve un
sorso di whisky da una fiaschetta che gli porse il duca.
Quest’ultimo, spinto
da un presentimento inspiegabile, aveva deciso di raggiungere
l’unica chiesa il
cui sacerdote non temesse suo fratello; era giunto in tempo per
incrociare la
carrozza dove il religioso e il cocchiere stavano salendo per andare a
chiamarlo. Una circostanza così fortunata riaccese, in Loki,
la necessità di
provare a impedire che il destino terribile di Sigyn si compisse.
Immaginò che,
nel brevissimo tratto fatto insieme, il prete avesse raccontato a suo
fratello
i dettagli dell’assalto che avevano subìto.
“Lei
è ancora qui. Non
può averla portata lontano,” ragionò
– boccheggiò.
Thor lo
aiutò a sollevarsi.
“Hai perso
molto sangue.”
“Laufey
è un mostro,” fu
la replica detta senza badargli, ma aggrappandosi alla spalla robusta
dell’altro. E, nel dirlo, Loki riconobbe freddamente che le
differenze tra lui
e il mentore erano quasi insignificanti: se il vecchio non era degno di
essere
annoverato in altro modo, privo di umanità e di coscienza
com’era, cosa poteva
dire di se stesso il figlio cadetto del duca Odino Odinson? Al
contrario di
quest’ultimo, che si era pentito poco prima di raggiungere il
letto di morte,
Loki non aveva mai nemmeno pensato di rinnegare la propria natura
insaziabile.
Conoscere qualcosa equivaleva a possederla, a
saperne – condividerne – i
più reconditi segreti: lui desiderava questo, svelare i
misteri più oscuri e
indicibili del mondo, levargli la pelle, svuotarli della loro aria di
impenetrabilità, violarli. Mentre abbandonava la navata
tranquillizzando il
fratello sulle proprie condizioni, negli istanti in cui
intuì che Laufey si era
rifugiato, certamente, nella cripta nascosta sotto la chiesa, non
poté
soffocare un brivido maligno: davvero il vecchio mentore aveva trovato
la
formula per riportare indietro le anime dei defunti e sconfiggere,
così, la
mortalità che calava, come una maledizione, su tutta
l’umanità, rendendola
troppo lontana da Dio? Dubitava che l’intruglio che Sigyn
avrebbe dovuto bere
non avrebbe avuto conseguenze sul suo fisico delicato; gli esperimenti
fatti in
tal senso si erano risolti in modo orrendo, tutti. E ora lei stava per
accostare a un calice tanto venefico le labbra dolci e morbide che lui
aveva
lambito, conosciuto, sfiorato col trasporto che hanno i desideri
intoccabili
quando vengono rapiti e, finalmente, posseduti.
E se non ci
fosse stata
lei, la sua amante, la sua meravigliosa moglie, nella cripta in fondo
ai
gradini di pietra umidi e scoscesi da cui si intravedeva già
una fioca, tetra
luce, Loki seppe che si sarebbe trovato lì, a braccia
incrociate, a osservare con
perfido interesse se era possibile ingannare la morte, dominarla,
asservirla.
Varcò un arco senza leggerne le iscrizioni, ma anche se lo
avesse fatto, le
antiche frasi latine abbreviate, come l’uso del tempo
imponeva, non gli
avrebbero suggerito nulla di rilevante.
Sì,
se non ci fosse stata
la sua incantevole Sigyn dai capelli d’oro e
l’intelligenza vivace, dal fisico
snello e flessuoso, capace di inarcarsi con tanta squisita grazia
contro il suo,
lui sarebbe stato nella cripta assieme al suo maestro, malvagio come
lui, a
fissare con morbosa curiosità una donna che beveva un
intruglio, in trepidante
attesa di scoprire se le teorie di Laufey avevano un senso. Invece lei
era
bella e, con la sua curiosità lo aveva incantato, stregato,
maledetto,
condannato a un sortilegio orribile che gli imponeva di desiderare la
conoscenza, ma di non volerla sacrificare sull’altare della
sapienza.
La cripta gli si
svelò in
tutta la sua lugubre bruttezza. “Lasciala, o ti
ucciderò come un cane!” gridò,
fissando gli occhi cattivi del vecchio. Ma se gli avesse sparato,
ragionò, il
rischio era quello di colpire lei. Era arrivato troppo tardi?
Thor, dietro di
lui,
imprecò. Armati e sgomenti, i due fratelli fissarono con
occhi mobili e
inquieti la scena. Laufey era dietro la ragazza e la stringeva. Una
mano le ghermiva
il fianco, impedendole di scappare, l’altro era
vergognosamente posato sul seno
morbido coperto dalla stoffa pregiata dell’abito. Lei non era
riuscita a
impedirsi di piangere, ma invece di supplicare, prometteva al suo
rapitore la
peggiore delle sorti: il fallimento. Vedendo, oltre il velo delle
lacrime,
Loki, singhiozzò il suo nome. Intravide il sangue, lo stesso
che le macchiava
l’abito e la pelle, e riconobbe, nello sguardo feroce e
sprezzante dell’altro,
nella smorfia d’ira che gli fece scoprire i denti bianchi,
una determinazione fatale.
Lord Odinson era un lupo pronto ad attaccare alla gola il vecchio
capobranco
per riprendersi ciò che gli spettava di diritto: lei e la
conoscenza.
♥
Laufey
assottigliò gli
occhi vedendo i due uomini. Intuì che uno dei suoi famigli
era stato ucciso
davanti l’altare e che il duca Thor avrebbe ingaggiato uno
scontro col
servitore che era rimasto con lui. Loki, il suo feroce e brillante
allievo e
confidente, aveva appena sparato all’altro e, nel giro di un
respiro, sarebbe
stato libero di sfidarlo e combatterlo, di impedirgli di portare a
termine il
piano di una vita. Aveva pochi istanti per agire. Il pallore sul viso
dell’alchimista
contrastava con gli occhi lucenti e fieri; ragionò che la
ferita dovesse essere
abbastanza grave e, forse, ciò avrebbe bilanciato le loro
forze. Strinse più
forte Sigyn e alle narici salì il profumo di lei –
fiori e miele, che inalò
mentre Loki annullava la distanza tra loro e Thor parava un pugno
lanciato dal
suo sgherro.
“Era
d’accordo con me. È
curioso quanto me,” sussurrò
all’orecchio di Sigyn. La sentì irrigidirsi,
ripugnata da tale vicinanza, offesa dalla mano che ancora le ghermiva
la vita.
L’altra no, era andata in cerca della siringa dove aveva
versato una pozione
che l’avrebbe quasi certamente uccisa, ma gli avrebbe
restituito l’altra,
quella che amava e, anni prima, lo aveva schernito, bella e crudele.
“Lo
so. Mi ha detto
tutto.” La voce di Sigyn era un sussurro quasi inudibile
– assomigliava a sua
madre nella decisione, nella schiettezza.
“E lo
ami ancora,
nonostante questo?” disse, esitando, per un momento,
nell’infilarle l’ago nella
carne, ma mostrandole lo strumento fatto di vetro e di metallo,
riempito con un
liquido venefico.
Sigyn
fissò con orrore l’oggetto.
Loki era a pochi passi da lei, con una pistola in pugno, ma non poteva
sparare
di nuovo: rischiava di colpirla. “Lo amo e tu
fallirai,” predisse.
Il vecchio
scienziato la
strinse più forte e le iniettò il veleno sul
seno, sopra il cuore, vicino a
dove aveva posato le dita nodose e adunche.
E Loki
sparò, ma nel
tentativo di salvare sua moglie, mancò il bersaglio.
Comprese che lei era la
sua debolezza, e rivisse per qualche ignota ragione lo spaventoso
incubo di
quella sepoltura da vivo che il vecchio alleato gli aveva promesso e
lui
immaginava come se l’avesse già vissuta non una,
ma mille volte.
♥
La differenza,
tra lui e
il suo carismatico allievo dall’intelligenza penetrante e il
sorriso furbo, pensò
Laufey, stava nella capacità di affascinare il prossimo,
nella fortuna di
essere amato nonostante l’oscurità. Loki aveva
mostrato a quella ragazza la
parte peggiore di sé. Il vecchio recitò poche
parole di una lingua morta mentre
Sigyn gridava, si contorceva, si accasciava. Il suo viso assunse un
colorito
terreo, il corpo fiorente e sano tremò, scosso dal dolore.
E
l’alchimista, che non
aveva fatto in tempo a salvarla, era lì, davanti a lui, con
la mascella serrata
e lo sguardo carico di un rancore antico e senza nome, la rivoltella
stretta
tra le dita, Laufey finalmente sotto tiro e senza scudi. Eppure, la
priorità
non fu di piantargli una pallottola in mezzo agli occhi, ma di
picchiarlo,
avendo cura di farlo con la pistola in mano, per infliggergli un danno
ancora
maggiore e spaccargli il naso, rovinargli lo zigomo. Il colpo fece
barcollare
violentemente il maestro e Loki ne approfittò per prendere
il corpo esamine di
Sigyn tra le braccia, posarla delicatamente a terra.
“Questo
era quello che
volevamo. Si risveglierà e la riavrò
indietro,” si compiacque il vecchio
scienziato, eppure la sua soddisfazione sapeva di fiele. Aveva portato
a
termine l’esperimento, ma Thor, ormai libero, gli puntava una
pistola alla
testa e Loki non lo avrebbe mai lasciato uscire vivo dalla cripta.
Così
avveniva nella natura che l’umanità tentava
inutilmente di plagiare: chi è più
forte, coraggioso e fortunato sfida il capo ormai debole, sulla cui
testa
pesano solo rimpianti. Non ultimo, quello che il giovane alchimista
l’avesse
avuta per primo, godendone, forse generando con lei persino una
scintilla di
vita. Nell’ipotesi in cui Sigyn si fosse risvegliata,
accogliendo lo spirito
che lui aveva evocato, non avrebbe potuto averla. “Tu mi hai
tradito, tu
l’hai…” iniziò, ma il sangue
sgorgava a fiotti dal naso e le forze gli venivano
meno. Era ancora in piedi perché il pensiero che Loki e
Sigyn fossero stati
amanti accendeva in lui una gelosia cieca e disperata.
La ragazza
sussultava sul
pavimento della cripta, con gli occhi rivolti verso il cielo e le
labbra
schiuse. Il rito si era compiuto. Loki si era chinato su di lei,
tastandole il
polso e il collo. Il battito era flebile, quasi impercettibile, le dita
gelate.
La stava perdendo. Infilò le dita tra sue le ciocche bionde,
in una carezza
lenta che sapeva di stupito addio. La furia sarebbe venuta, dopo.
Montava già
nel sangue, caricandosi di se stessa e delle frasi sconnesse che
l’alleato
tradito gli rivolgeva mentre si asciugava il sangue. Covavano la
medesima ira
mortale, fatta di desiderio e rancore.
“Taci,
maledetto!” Era
stato Thor a parlare. Inorridito, fissava ora la cognata in fin di
vita, ora il
profilo terreo e affilato di suo fratello. Aveva assistito al tentativo
immondo
di forzare il muro che separa le anime dei vivi da quelle dei morti e
le sue
mani erano macchiate di sangue. Disgustato, diede un calcio alla
siringa usata
su Sigyn, caduta a terra e ormai infranta, che giudicò
troppo vicina al vecchio
scienziato[4].
Il rumore del vetro e del metallo che rotolava sulla pietra umida
sembrò
riscuoterla.
Loki
s’irrigidì.
♥
Forse il rito
aveva
funzionato. Lei aprì gli occhi, li sbatté
più volte, osservò la cripta, non la
riconobbe. Si sollevò appena, guardandosi attorno. Non era
la ragazza che era
stata trascinata nel sotterraneo. C’era qualcosa, nel suo
sguardo, di antico e
sconosciuto, inconsueto. L’acconciatura aveva ceduto e i suoi
capelli le ricadevano
sciolti sulle spalle esili. Il suo sguardo grigio si posò su
Loki, pallido
quasi quanto lei, che la fissava a labbra strette, per poi spostarsi
sul
vecchio scienziato. Vide un uomo ossessionato da un sogno che non gli
era mai
appartenuto e un altro corroso dalla brama di avere tutto,
dall’incapacità di
accontentarsi che, come una maledizione, lo inseguiva ogni volta, da
sempre, spingendolo
a distruggere tutto ciò che toccava. Piegò la
testa di lato. Laufey la chiamò
con molti nomi e disse di amarla, nonostante Thor lo invitasse a non
osare
pronunciare una simile sconcezza e continuasse a tenere la rivoltella
puntata
su di lui.
Loki, invece,
rifletteva
in silenzio, notando le differenze, roso dal dubbio. Cominciava a
sentirsi
debole: forse, aveva perso troppo sangue. I begli occhi di Sigyn
tornarono a puntarsi
su di lui, lucenti e fermi, ma carichi di una dolcezza infinita.
“Cosa mi hai
fatto?” gli sussurrò. “Cosa ti
sei fatto?”
“Ti ho
avvelenata e poi
ho provato a salvarti. A proteggere la tua vita e il tuo
onore,” riconobbe lui
con un sorriso mesto. “Ma sono arrivato troppo
tardi.”
Le strinse le
mani,
fredde e incolori, e lei lo baciò sulla bocca, piano,
delicatamente, come se
volesse consolarlo o ringraziarlo, ma anche scoprirlo, ritrovarlo e
perdersi.
Uno sfioramento leggero che faceva calare, su di loro, un drappo
d’incertezza. Era
un bacio come non se lo erano mai dato, eppure avevano scambiato quella
stessa
effusione decine, centinaia di volte.
“Chi
sei?” le domandò
l’alchimista, ma una parte di lui, la più
razionale, non riusciva a credere che
l’esperimento di Laufey fosse riuscito. Pensò al
discorso che aveva fatto a
Sigyn nella carrozza, prima di sposarla: agli dèi di Asgard
che conoscevano in
anticipo la loro sorte bagnata di sangue e che, nonostante
ciò, avevano scelto
di affrontare a viso aperto la Voluspa, troppo arroganti o saggi per
cambiare
il loro destino. Pensò anche alla strega danese, che si era
messa a supplicare
i suoi dèi ormai morti di salvare la vita del conte trafitto
dalla freccia e di
come loro l’avessero ascoltata. Lui e Laufey avevano aperto
la porta proibita
della conoscenza: si erano convinti che era possibile entrare nel regno
dei
morti e strapparne via le anime, ma avrebbero dovuto ricordare che le
intrusioni di questo genere lasciavano sempre una macchia indelebile,
da
qualche parte. Chiamò sua moglie e lei abbassò le
ciglia scure sulla sua
ferita.
Lo
guardò e le sue labbra
tremarono. “Tu stai morendo,” sospirò.
“Ci ritroviamo sempre, a questo punto,” aggiunse
con tristezza, carezzandogli delicatamente il viso affilato.
Loki si
tastò la ferita,
ritraendo le dita sporche di sangue. “No che non
morirò, sono stato ferito più
gravemente, in passato,” la corresse, ma c’era,
nello sguardo della ragazza,
un’ombra antica e straniera, carica di un rimpianto sordo e
straziato.
Sigyn, o
chiunque fosse,
si alzò in piedi, lieve e decisa, mostrando
l’abito bianco macchiato di sangue.
La sua schiena era diritta come una freccia e sul viso, pallidissimo,
spiccavano
gli occhi grigi che Loki ricordava scintillare divertiti a ogni battuta
o
facezia.
“Tu
non hai risvegliato
la donna che amavi,” disse, rivolgendosi al vecchio
scienziato e muovendo un
passo verso di lui. “Ma hai commesso un errore e stanotte
morirai anche tu,”
annunciò severa.
Loki si
sollevò vincendo
il dolore, frapponendosi tra moglie e il mentore tradito, fissando con
sospetto
sia uno che l’altra.
“Chi
sei?” ripeté. Lo
trafisse l’idea che la ragazza che aveva tenuto tra le
braccia, con un vestito
di raso verde addosso, non ci fosse più e, al suo posto,
fosse stata evocata
una creatura diversa, più saggia e antica.
Sigyn sorrise
mestamente
e con le dita sfiorò la bella gemma che teneva al collo. Le
era appartenuta
molte volte, perché gli oggetti in cui vengono infusi
sentimenti, desideri e
speranze diventano amuleti, talismani che ci inseguono in questa vita e
nelle
altre. “Se te lo dicessi, amore mio, tu non
ricorderesti,” confessò.
♥
Ciò
che avvenne dopo non
fu che un ricordo confuso e troppo rapido. Uno degli uomini che
accompagnava
Laufey, rimasto stordito nella navata, si era ripreso ed era sceso
nella
cripta. Non trovò, a bloccarlo, né il prete
né il cocchiere. Erano corsi in
cerca di un medico per il fratello del duca e di rinforzi.
L’uomo raggiunse il
sotterraneo in tempo per vedere Sigyn al centro della stanza, eterea e
delicata
come un fantasma, e a sorprendere Thor, che minacciava il suo capo. I
brevi
momenti di colluttazione che lo videro, comunque, perdente, permisero a
Laufey
di lanciarsi verso la donna per abbracciarla o stringerla o chiederle
chi fosse
e dove avesse nascosto lo spirito esangue che amava. E Loki ne
approfittò per
completare il suo tradimento e infilare il pugnale, fino
all’elsa, nella
schiena del maestro che aveva intravisto per la prima volta in mezzo ai
fumi
dell’oppio. Il vecchio fu scosso da un ultimo fremito e
crollò su se stesso,
senza illudersi di aver trionfato, con in bocca una frase che rimase
lì,
congelata tra i denti e la gola. Il furbo Loki Odinson, per parte sua,
pagò caro
il suo gesto. Lo sforzo di quell’estremo affondo, inflitto
per vendetta e
precauzione, annebbiò la sua vista, ottenebrò i
suoi sensi.
Si
ritrovò steso per terra,
con la testa poggiata sulle gambe di Sigyn: aveva ragione lei, stava
morendo.
Aveva perso troppo sangue. Se ne rese conto con orrore, mentre la vita
gli
scivolava via dalle dita e lui non poteva far nulla per impedirlo. Le
notti
insonni che aveva trascorso studiando formule e testi antichi, pozioni
ed
esperimenti, gli sfilarono davanti come i grani di una collana, vacui e
inutili.
“Tu
sei la strega che
incantò il conte,” mormorò, mentre il
dolore pulsante svaniva sotto il tocco
delle mani di lei, pietose e gentili. Gli carezzava la fronte e
mormorava una
nenia sconosciuta a fior di labbra, di cui non riusciva a distinguere
le
parole.
“Io
sono stata molte
cose,” ammise lei, “anche una strega, una volta, e
tu mi hai amata,” soffiò con
orgoglio. I suoi occhi, ora, erano pieni di lacrime trattenute.
“Ma non puoi
ricordarlo, né ora né mai,”
proseguì con voce bassa, appena spezzata, “e
questo
non doveva accadere – la porta della conoscenza non va
varcata, mai.
Morirò anche io, adesso. Mi tiene in vita solo il
seiðr, il veleno che scorre nel
mio corpo è troppo potente. Mi vedi? Sto già
tremando. Siamo mortali, Loki, ma
il nostro spirito no. Ti raggiungerò presto – e ti
ritroverò, amore mio.”
Lord Odinson le
rispose
che non doveva morire, che non desiderava essere seguito nel regno
delle ombre.
Con l’ultimo barlume di lucidità rimasta, ritenne
che quelle erano le fole di
uno spettro maligno o i deliri di una donna che la paura improvvisa
aveva reso
pazza. Non era la ragazza del vestito verde. Non più.
L’intuizione che gli era
servita per collegare l’antica leggenda che circolava nella
sua famiglia con
quelle spiegazioni sconnesse gli apparve debole e inconsistente, eppure
scoprì
con orrore di avere gli occhi lucidi, mentre lei, sempre più
vicina, parlava e
gli sfiorava i capelli scuri e umidi con le ultime forze rimaste.
“Perché
la tua
maledizione è questa, Loki,” proseguì
Sigyn. “Non saprai mai chi sei, né chi
sei stato: e non conoscere, per te, è il peggiore dei
tormenti. Io lo so.
Hai vissuto centinaia di vite, ma la tua natura, a
volte, ti tradisce e
replichi gli stessi sbagli fatti in passato. E come potresti
correggerli, del
resto? La memoria di ogni esistenza viene spazzata via, cancellata.
Resta solo
la mia, che, ogni tanto, riaffiora, ma quando lo fa, è solo dolore.
Come
allora, quando indossavo questa pietra e tu eri un conte, come adesso,
che so
di averti avuto e ti sto perdendo. Passeranno anni prima che potremo
incontrarci ancora. Io sono lei. Lei era me,”
confessò chinandosi verso di lui,
e pronunciò il nome più antico che avesse mai
avuto, il primo che lui, in un
altro tempo, assottigliando appena le palpebre, aveva ascoltato e
rigirato in
bocca, assaporandone il suono dolce come l’idromele.
Poi,
asciugandosi le
lacrime, la dea della Fedeltà gli raccontò del
dio degli Inganni che tradì gli Æsir
per soddisfare la sua sete di vendetta e di come evocò il
Ragnarok che bruciò
ogni cosa, riducendo la bella Asgard dalle torri d’oro a un
cumulo di macerie e
cenere, perché così era scritto; che tutti gli
dèi morissero uccidendosi l’un
l’altro. Ma la morte non bastò a fermare i loro
fantasmi inquieti, aggiunse. Le
loro essenze continuarono a vagare e a esistere, cercandosi e
combattendosi, amandosi
e lasciandosi. Alcuni di loro avevano finito per esaurirsi,
raggiungendo il
Valhalla e ritrovando il proprio antico posto e la pace, ma loro no,
erano
incapaci di fermare la ruota che girava eternamente, trascinandoli in
ogni
parte del tempo e dello spazio. Il dio degli inganni non voleva morire,
del
resto. Pur di non farlo, aveva spinto Hela, la terribile signora del
regno dei
morti, a cancellare il proprio nome dal libro dei defunti.
Ma con questo
inganno il
dio del Caos aveva finito per intrappolare se stesso, concluse la dea
della
Fedeltà con un sorriso breve. Inconsapevole della propria
vera natura,
s’incaponiva in ogni vita cercando di aprire le porte
dell’inconoscibile e
sfidando l’ordine costituito.
Era una fiaba
bellissima,
decise l’alchimista. La voce della ragazza arrivava da sempre
più lontano, o
forse era lui che si stava allontanando, perdendo le forze come perdeva
il
sangue. La ascoltava, ma non sapeva, non riusciva a ricordare le storie
cui si
riferisse, né aveva idea che la terra calpestata, Midgard,
fosse il
nascondiglio e la prigione che lui stesso aveva scelto per non
desiderare, per
sempre e ormai invano, Asgard ormai fatta di cenere e rovina, canto
perduto di
un popolo che l’aveva dimenticata, la cui memoria distrutta
non era che una
fiaba da sussurrare nelle sere d’inverno. Lei gli
raccontò, in quei brevi
momenti in cui la coscienza gli scivolava via a ogni respiro, di un
fiordo
incantato illuminato da una tenue luce dorata. E lui credette di
vederla, la
luce che colorava ogni cosa con sfumature rossastre e miele, come i
capelli d’oro
di lei. Illusione, sogno e ricordo si mescolarono come le acque di
tanti fiumi
che, alla fine, si ritrovano nel mare.
Lord Odinson non
vedeva
più. Non sapeva che Sigyn, boccheggiando, era quasi stesa su
di lui, non
sentiva Thor che, stremato dall’ultima lotta, gli gridava
invano di resistere. Non
era più nella cripta e il dolore scemava, come i sensi del
gusto e del tatto.
“Fidati
di me, Loki.
Lasciati andare. In questo mondo ci incontreremo per soffrire, ci
ritroveremo
senza sapere il perché per ancora troppe volte. Raggiungimi
nel Valhalla. Torna
a essere ciò che sei, dio degli inganni, anima mia.”
Furono le ultime
parole
che sentì. Dopo, il dolore svanì e
l’alchimista scivolò nell’oblio senza
luce
né colore della morte, nel sonno senza sogni in cui
l’ultima sensazione che lo
raggiunse fu il sapore salato delle labbra di lei, fu il singhiozzare
disperato
di un corpo scosso dai tremiti del veleno e della perdita, fu la
propria mano
che cancellava, con la penna nera di un corvo, un patto antico, fu la
promessa
di ritrovarsi in un luogo che non c’era più.
Dopo il buio, fu
la luce
del sole che illuminava il fiordo, fu l’oro che barbagliava
sull’acqua e il
cielo rosso e viola.
What makes
you think I'm enjoying being led to the flood?
We've got
another thing coming undone
And it's
taking us over
We don't
bleed when we don't fight
Go ahead,
go ahead, throw your arms in the air tonight
We don't
bleed when we don't fight
Go ahead,
go ahead, lose our shirts in the fire tonight.
The
National, Runaways
Fine
L’angolo
di Shilyss
Care Lettrici e
cari Lettori,
è
particolarmente difficile
accomiatarmi da questa storia e scrivere le note. Mi
mancherà, sniff ♥.
Non è
stato un periodo semplice. Ho
avuto tante cose da fare e da pensare nella real life un paio di
momenti di
scoramento che mi hanno fatto sentire il bisogno di allontanarmi un
po’ da Efp,
ma Loki e Sigyn fanno parte di me in una maniera che non vi so
spiegare se
non scrivendone e se li ignoro per troppi giorni bussano con
altre storie o
con quelle che ho già iniziato.
Postare la fine
di una fiaba come Ombre
è stato complesso perché la stessa Barbablù
è una fiaba complessa – si trovano
poche altre storie che hanno lo stesso intreccio/senso: basandomi su
alcune
teorie psicoanalitiche (non fatte dal primo scemo che passa) di
studiosi che
hanno dedicato la vita all’argomento, ho abbracciato la tesi
che Barbablù sia
la storia della perdita dell’innocenza e
del tradimento, temi
affrontati anche qui. Nella fiaba originale, la sposa di
Barbablù viene
messa in guardia dal marito in procinto d’assentarsi: non
entrare nella stanza
di cui hai la chiave, le dice. Lei, ovviamente, entra e vede le mogli
morte e perde
l’innocenza. Sa cos’è
successo. Barbablù si accorge che la moglie ha
trasgredito, perché la chiave si macchia irrimediabilmente
di sangue. Come
avviene quando si hanno rapporti per la prima volta e si è
donne. Barbablù
muore perché non perdona la moglie e si fa ammazzare dai
fratelli di lei
Sigyn
è la moglie di Barbablù per
eccellenza: sposa quello che avrebbe dovuto essere il suo assassino, ma
che in
realtà si è invaghito di lei, ma il tema della
porta aperta che doveva rimanere
chiusa riguarda anche Loki e Laufey, ansiosi di svelare il segreto
della vita. E
questa non è una AU, ma una storia che si lega al canone e
che parla di un post
Ragnarok. Semmai è una soulmate!AU, dato
che Sigyn e Loki sono, come
sempre e per sempre, anime gemelle destinate a incontrarsi. Vi ho
spiegato
anche perché Thor e Odino sono presenti (anime non ancora
placate) e altri assenti.
E niente, spero vi sia piaciuta. Ogni dettaglio storico è
assolutamente coevo e
coerente, così come la mentalità dei personaggi.
La dedico a chi
ha letto le
anteprime, a chi mi ha sostenuta fino a questo momento e a chi
l’amerà. Grazie
di cuore ♥ a chi l’ha inserita nelle liste e a chi
lo farà ♥ – ogni volta
che listate o vi palesate m’illumino
d’immenso, per voi sembrerà una
cosa da niente, ma vi assicuro che ricevere sostegno per chi scrive ha
la sua
importanza e le leggo tutte, anche se non sempre riesco a rispondere.
Perdonatemi per
la lunghezza infame.
Generalmente i miei capitoli sono la metà esatta di questo,
ma non volevo
spezzarlo. Proprio per la lunghezza, spero non ci siano troppi refusi.
Non ho avuto
il tempo di rileggerlo più di due volte. Vi confermo fin da
ora che la storia
della strega danese e del conte verrà scritta, che adesso mi
metterà a lavorare
sull’aggiornamento di Accordo e quello di
Scintille e… chissà. **
Ricordo che il
personaggio di Sigyn,
tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su
Wikipedia, è una mia personale
interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Non vi autorizzo a
ispirarvi o
peggio a questa versione o alle altre fiabe/storie da me postate
né qui né altrove
e lo stesso vale per gli headcanon su Loki o Asgard.
A presto e
grazie per tutto
l’affetto/sostegno/cose, vi si lovva (e spero voi lovviate
me).
Shilyss
[1]
Il concetto di matrimonio d’amore, di famiglia nucleare
(cioè composta da una
giovane coppia con i figli) e tante altre amenità che adesso
appaiono scontate
non lo erano fino a pochi decenni fa.
[2]
Erano anni che volevo usare questa scena: che Loki sia cavalleresco, al
netto
della sua stron***gine, è canone: lo abbiamo proteggere Jane
in TDW.
[3]
Questo è il miracolo di San Ceppato! Le pistole
ottocentesche non erano come
quelle attuali e avevano questo difetto: s’inceppavo e spesso
ti esplodevano in
mano. In tanti mi dicevate che sarebbe stato figo se Sigyn avesse
sparato a
Loki, nello scorso capitolo. Sarebbe piaciuto anche a me, ma Loki ci
tiene a
dire che non è una fetta di groviera.
[4]
Nella metà dell’Ottocento si usano già
le siringhe.