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Autore: Kim WinterNight    28/08/2020    7 recensioni
Joe si risveglia in modo traumatico all'interno della tenda da campeggio.
Martin, già dalle prime ore del mattino, capisce che la giornata sarà molto lunga, dura e stancante.
Lui e Joe sono partiti in vacanza, eppure sembra che tutto si metta contro di loro per evitare che si rilassino.
Tra bestie feroci che vogliono attentare alla loro vita, sfide improbabili, giudici di parte, vento di tempesta e sole apparentemente innocuo, la loro permanenza sulla spiaggia si trasformerà in un'apocalisse senza eguali.
- TERZA CLASSIFICATA a pari merito alla seconda edizione del contest "Seasons Die One After Another" indetto da Laila_Dahl sul forum di EFP.
- Partecipa alla "Real Life Challenge" organizzata da ilminipony sul forum di EFP.
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Martin&Joe'
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Mess On The Beach
 
 
 
 
 
 
La fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo – e spesso prende anche la mira.
[Roberto “Freak” Antoni]
 
 
 
 
 
 
Un grido acuto e stridulo squarcia l’aria, rompendo il silenzio che aleggia nel campeggio di primo mattino.
Mi sveglio di soprassalto, frastornato da quel fracasso improvviso; mi metto di scatto a sedere e subito mi accorgo che Joe non è sdraiato accanto a me. Mi stropiccio rapidamente gli occhi e realizzo che il mio ragazzo è rannicchiato in un angolo della tenda, le mani a coprire il viso terrorizzato e le ginocchia strette al petto.
«Sei sveglio? Martin, ti prego, aiutami!»
Sbadiglio e mi inginocchio sul materassino, avanzando lentamente verso la valigia spalancata e disordinata di fronte a Joe; mi sembra strano che il suo bagaglio sia in quelle condizioni, solitamente è molto ordinato e puntiglioso, ma stavolta qualcosa dev’essere andato storto.
Aggrotto la fronte e cerco di scrutare nella penombra all’interno della tenda.
«Martin, cazzo!» strilla ancora Joe, la voce tremante e il respiro affannato.
«Ah, sono formiche… oh merda, la tua valigia è piena di…»
«F-formiche?! Porca puttana, Martin, fa’ qualcosa! Quei… quei… mostri stanno mangiando i miei vestiti, oddio, devo uscire da questa tenda del cazzo!» Joe, pietrificato, si preme le mani sul petto e sbianca, mentre il suo respiro accelera ancora di più.
«Calmati» gli sussurro leggermente in apprensione, passandogli una mano sulla fronte madida di sudore.
«Calmarmi? Devo calmarmi quando ci sono delle bestiacce orribili nella mia valigia?!» Mi si butta letteralmente addosso, ormai preda di un vero e proprio attacco di panico.
Lo stringo a me con la mano sinistra, mentre con la destra cerco maldestramente di abbassare la zip della tenda da campeggio; quando ci riesco, trascino Joe all’esterno e lo aiuto a mettersi in piedi.
Lui si appoggia a me e respira a fondo, mentre io gli accarezzo i capelli ricci e scarmigliati, intrisi dello stesso sudore che gli imperla il viso.
«Dio, quanto le odio! Sono silenziose, camminano in branco, si insinuano ovunque…» biascica, mentre lo sento rabbrividire tra le mie braccia.
Ridacchio. «Joe, le formiche non fanno branco.»
«Beh, che importa?» Si scosta da me e scuote il capo. «Io quelle cose le odio! Poi non riesco a vederle, non posso accorgermi se ci sono… me le sono ritrovate tra le mani e… e… oh merda, me le sento camminare addosso, oddio che schifo!»
Lo afferro saldamente per le spalle e lo scuoto appena. «Ehi, ehi, piantala! Non hai nessun insetto addosso! Su, respira.» Sposto una mano ad accarezzargli il viso. «Calmati, adesso vediamo cosa si può fare, okay? Però smettila di urlare, mi sta venendo il mal di testa…»
Joe annuisce e incrocia le braccia al petto. «E va bene, rimango fermo qui finché non le uccidi tutte!»
Sospiro e mi porto una mano tra i capelli. Capisco che Joe abbia paura, però certe volte è davvero esasperante.
Mi affaccio nella tenda e per prima cosa trascino fuori la valigia. La esamino e in effetti fa un po’ impressione notare tutti quei minuscoli insetti che brulicano tra le pieghe dei vestiti.
Poi i miei occhi intravedono qualcosa che ha attirato l’attenzione delle formiche e aggrotto la fronte. «Hai messo del cibo in valigia?»
«Io? No, ma sei scemo?» ribatte.
Mi chino e prendo tra le mani un pacchetto di biscotti, portando via con me un grande numero di piccoli animaletti affamati. Lascio cadere la confezione sul terriccio e scuoto il capo.
«Martin, non…»
«Allora mi spieghi come ci è finito un pacco di biscotti dentro il tuo bagaglio?»
Lui avvampa appena e si gratta la fronte. «Ah, quelli…» Scrolla le spalle. «Ho pensato che fosse opportuno portare qualcosa da sgranocchiare se ci viene fame durante la notte!»
Alzo gli occhi al cielo. «Che intelligente!»
«Ma erano chiusi, come hanno fatto quei mostri a sentire l’odore?»
«Magari c’è un buco nella confezione, che ne so!» Mi chino nuovamente sulla valigia e comincio ad afferrare gli abiti di Joe, scuotendoli poco lontano per scacciare gli insetti superstiti.
«Io quelli non me li metto, ti avviso!»
Sbuffo. «Sto togliendo le formiche, non rompere. La maggior parte è rimasta attaccata ai biscotti.»
«E se ne rimane qualcuna? Oddio, non verrò mai più in campeggio!» Con fare melodrammatico, Joe si passa le mani sul viso e fa scorrere le dita tra i ricci chiari.
Evito di rispondergli perché mi sta facendo innervosire e non mi va di litigare; avverto un leggero solletico sul braccio, così abbasso lo sguardo e noto una formica che mi cammina sulla pelle. Con un gesto secco la schiaccio e continuo a scuotere gli abiti del mio ragazzo.
Improvvisamente scoppio a ridere.
«Che cazzo hai?»
«Se hai paura delle formiche, sicuramente andranno a cercarti» lo prendo in giro, finendo di ripulire i vestiti. Li infilo nella tenda, ai piedi del materassino, poi afferro la valigia e la capovolgo, scuotendola con forza. La osservo con attenzione, poi rifletto per un istante e alla fine rimetto a posto il contenuto.
«Hai finito?»
«Sì.»
«Mettiamo l’insetticida nella tenda? Così siamo sicuri che quelle bestie moriranno!» esclama Joe, allungando la mano sinistra e trovando a tentoni il mio braccio.
«Guarda che non ce ne sono più, ho controllato bene» tento di convincerlo.
«Che ne sai? Ti prego!» Mi si piazza di fronte e inclina la testa verso sinistra, assumendo quell’espressione da cucciolo a cui raramente posso resistere. Se i suoi occhi non fossero vuoti e privi di vita, sono certo che li userebbe come arma per convincermi a fare tutto ciò che vuole.
Come se gli servissero due pupille funzionanti per annientare ogni mia volontà.
 
 
Dopo aver disinfestato la tenda e aver fatto colazione al bar del campeggio, io e Joe ci dirigiamo verso la spiaggia.
Il mio ragazzo cammina in silenzio, il bastone bianco nella mano sinistra e un ombrellone nella destra; è stranamente silenzioso, il che mi preoccupa perché non è proprio da lui.
«Si può sapere cos’hai?» gli chiedo, trascinandomi dietro una piccola borsa frigo contenente il nostro pranzo, mentre sento il mio telo penzolare dalla spalla sinistra.
«Niente» grugnisce Joe, passeggiando tranquillo sulla passerella in legno che conduce alla spiaggia.
«Non ti credo.»
«Pazienza.»
Sospiro. «Dai, Joe… sei ancora nervoso per quelle stupide formiche?»
«No» sbotta.
«Sì, ho capito. Però…»
Un’improvvisa folata di vento ci investe, scompigliandoci i capelli e lanciandoci addosso un po’ di sabbia.
«Ah, che palle!» esclama Joe infastidito.
«Oggi ti sei svegliato di malumore, eh?»
«Vedi un po’ tu…»
«Dai, rilassati. Siamo in vacanza, ieri abbiamo festeggiato il tuo compleanno…»
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile, mentre la rotella del bastone si incastra in una fessura decisamente troppo larga tra una tavola di legno e l’altra. Lo tengo d’occhio ma non lo tocco, è piuttosto nervoso e so che mi si rivolterebbe contro.
Imprecando, Joe riesce a proseguire.
Raggiungiamo in silenzio la spiaggia e ci fermiamo; cerco con lo sguardo un punto libero dove poterci sistemare, poi sfioro il braccio di Joe e lo guido verso sinistra, dopo aver avvistato uno spiazzo abbastanza grande e spazioso.
«La prossima volta cerchiamo un campeggio con gli ombrelloni e le sdraio inclusi!» esclamo allegro, aiutando il mio ragazzo a schivare i piedi di una signora intenta a prendere il sole.
«Sì, forse è meglio…»
Ci arrestiamo e appoggiamo sulla sabbia i nostri bagagli. Subito mi accovaccio e comincio a scavare un fosso dove inserire il tubo dell’ombrellone.
«Speriamo che questo vento non ce lo porti via» bofonchia Joe, scacciando alcune ciocche dei propri capelli che mulinano di fronte al viso.
Ridacchio. «Almeno non ci saranno insetti. Contento?» lo punzecchio.
Lascia cadere le braccia lungo i fianchi e sospira esasperato. «Me lo auguro, sto impazzendo in questo posto infernale…»
«Sei stato tu a insistere per venire in campeggio» gli faccio notare, allungando la mano per afferrare il tubo in alluminio.
«Ma io non pensavo che sarebbe stato così!» protesta, inginocchiandosi accanto a me.
Gli scompiglio i capelli. «Non preoccuparti, ti proteggo io!» scherzo.
«Allora siamo a posto…» Sorride, finalmente sembra più rilassato.
«Non prendermi in giro, ragazzino» ribatto, lasciandogli un bacio sulla tempia. Mi metto in piedi e scalcio un bel po’ di sabbia per richiudere il buco, poi finisco di montare l’ombrellone e indietreggio di un paio di passi. Osservo il mio lavoro e sospiro appena: non sono certo che il vento ci lascerà tregua, le stecche in plastica cigolano e la stoffa rossa e sbiadita viene frustata da intense folate bollenti.
«Per il momento sembra tutto a posto.» Detto questo, mi sfilo la t-shirt e la incastro tra le stecche dell’ombrellone, per poi voltarmi a osservare l’immensa distesa azzurra che ha un aspetto decisamente invitante.
Adoro nuotare, l’ho sempre amato fin da quando ero piccolo; crescere in una cittadina che si affaccia sull’Oceano ha fin da subito sortito un certo fascino in me.
«Andiamo a fare il bagno? Muoio di caldo» propone Joe, sfilandosi a sua volta la canottiera verde che indossa.
«Dai qua» dico, prendendogli l’indumento di mano e sistemandolo come ho fatto con il mio.
Joe si mette in piedi, ma nel farlo va a sbattere con la fronte contro l’ombrellone. «Ahi, cazzo!»
«Attento! Segui la mia voce…» gli suggerisco, poi lo prendo per mano e insieme ci dirigiamo verso il bagnasciuga.
Il vento non fa che aumentare d’intensità, eppure cerco di non pensarci troppo: non vedo l’ora di buttarmi in acqua.
Quando i nostri piedi toccano la sabbia umida e una piccola onda li bagna, entrambi rabbrividiamo per la sorpresa.
«Oggi è anche più fredda di ieri!» esclama Joe.
Do le spalle al mare e lo osservo, mentre nella mia mente si fa largo una strana sensazione: ho come l’impressione che ci sia qualcosa fuori posto, eppure non riesco a capire di cosa si tratta.
Joe è davvero tenero, mentre si irrigidisce per il freddo e la sua pelle chiara si increspa di brividi. I capelli castano chiaro, frustati dal vento, gli piovono scompigliati attorno al viso delicato, mentre assume un’espressione concentrata. È intento ad ascoltare i suoni che lo circondano, vivendo quel momento in un modo tutto suo.
Gli prendo le mani tra le mie e lentamente indietreggio; l’acqua gelida mi morde i polpacci e il rumore delle onde che si infrangono nel bagnasciuga riempie l’aria insieme alle risate e alle voci dei presenti.
Joe lascia andare le mie mani e sul suo volto si dipinge un’espressione enigmatica; non faccio in tempo ad aprir bocca che in un istante i suoi palmi sono sul mio petto: mi sento spingere con forza all’indietro e, mentre un grido mi sfugge dalle labbra, perdo l’equilibrio e crollo dentro l’acqua.
Vengo investito da quel getto ghiacciato e subito riemergo, rimettendomi bruscamente in piedi.
Joe se la ride, tentando di fare qualche passo indietro come se volesse sfuggirmi.
«Dove credi di scappare, Joseph Guy Sandys?» sbraito, saltando rapidamente verso di lui. Con le braccia e con i piedi sollevo un’infinità di acqua, schizzandolo e infradiciandolo come merita.
Lui strilla e vorrebbe scappare, ma non può. Forse mi sto approfittando della sua disabilità in questo momento, ma è tutta colpa sua.
«Non vale, io non posso difendermi!» urla, stringendosi le braccia attorno al corpo tremante.
«Hai cominciato tu, genio! Vieni qui!» Lo agguanto per le spalle e me lo stringo addosso, facendolo ricadere insieme a me dentro l’acqua.
Tremiamo di freddo e ridiamo sguaiatamente, mentre lui cerca di liberarsi e mi graffia la schiena per ripicca.
«Ahi, mi lasci i segni!» fingo di protestare.
«Cazzi tuoi!»
«O la smetti o ti affogo!» lo minaccio scherzosamente.
«Non ti conviene, è pieno di testimoni! L’unico a non vedere un cazzo qui sono io!»
Ora sì che lo riconosco: ride, scherza e si abbandona tra le mie braccia, mentre il gelo dell’acqua in cui siamo immersi pian piano diventa sempre più accogliente.
«E comunque prima mi hai chiamato ragazzino… come osi? Ho due anni in più di te, Harris!»
«Ah sì? Beh, rimani pur sempre un marmocchio magro e fragile!» lo schernisco, lasciandolo andare. Mi tuffo di testa sott’acqua e nuoto per qualche metro, per poi riemergere un po’ più al largo.
«Facciamo una gara?» mi propone Joe.
Torno nuovamente verso di lui e lo agguanto per una caviglia, facendolo cadere di schiena; rido, mentre lui protesta, e me lo trascino dietro per un po’.
So che molti dei presenti potrebbero pensare che siamo due ritardati, ma a me non importa: mi sto divertendo e sono contento che il mio ragazzo si sia rasserenato dopo il drammatico risveglio che abbiamo avuto entrambi.
«Sei un idiota, aiuto, affogo!»
Lo tiro verso di me e gli circondo la vita con un braccio. «Smetti subito di fare tutte queste storie e parlami della gara! Sai che non mi batterai, non hai speranze!» lo canzono, tirandogli i capelli con la mano libera.
Mi molla un pugno sul petto. «Come no, ma chi ti credi di essere? Pallone gonfiato!»
Scoppio a ridere. «Pallone gonfiato? Questa non la sentivo da molto, da dove l’hai portata fuori?»
«Dalla mia mente eccelsa!» si pavoneggia, assumendo un’espressione altezzosa.
«Mi dici o no di questa dannata gara?»
Joe ridacchia. «Ah, sì! Andiamo sulla riva e ci prendiamo per mano. Poi corriamo verso l’acqua: il primo che cade, ha perso! Ci stai?»
«Che sfida di merda…» borbotto.
«Che c’è, Harris, hai paura della sconfitta?»
Ghigno divertito. «Certo che no! Cosa si vince?»
Joe ci pensa su per un attimo, porta una delle sue mani sul mio fianco e mi attira un po’ più vicino. «Se vinci, ti darò un premio speciale» ammicca, per poi sfiorarmi accidentalmente all’altezza dell’inguine.
Sgrano gli occhi. «E se vinci tu, dovrei ricambiare?»
«Certamente.»
Gli do uno scappellotto. «Fatti sotto, cretino.» Prima di trascinarlo verso la riva, mi accosto al suo orecchio e sussurro: «Sei un porco».
«Orgoglioso di esserlo!» esclama.
Ci avviamo in fretta verso la riva e, tenendoci per mano, cominciamo a contare.
«Uno…» inizio.
«Aspetta, aspetta…»
«Che c’è, ci hai ripensato? Codardo!» lo sbeffeggio.
Joe conficca le unghie nel palmo della mia mano.
«Ahi.»
«No, dicevo… ma dobbiamo partire al tre o dobbiamo prima dire via?» chiede dubbioso.
«Che ne so, la sfida l’hai lanciata tu!» gli faccio notare.
«E va bene, allora partiamo al via!» decreta.
«Okay. Uno, due…»
«No, Martin, ma senti…» mi interrompe ancora.
«Mi prendi per il culo?»
Joe sembra pensieroso. «Come facciamo a sapere chi cade prima? Ci serve un arbitro, anche perché io non mi fido di te… magari mi imbrogli perché non vedo e giochi sporco per ottenere il premio!» spiega, gesticolando con la mano libera.
Lo fulmino con un’occhiata: anche se so che non può scorgermi, Joe ha l’incredibile capacità di avvertire i cambiamenti delle mie espressioni e riesce comunque a leggermi dentro.
«E non fare quella faccia!» esclama infatti.
«Mi stai dando del disonesto?»
«Sai com’è…» Fa spallucce. «Il premio è troppo succulento, capisco che tu voglia ottenerlo a tutti i costi» sghignazza in tono malizioso.
«Che stronzo, ma per chi mi hai preso?» Gli lascio la mano. «E dove lo trovo un giudice o arbitro o quello che è?»
«È pieno di gente qui intorno. O cerchi qualcuno, o non se ne fa niente.»
Alzo gli occhi al cielo e mi guardo intorno, profondamente imbarazzato: sono piuttosto timido e non sono abituato ad attaccare bottone con chiunque, per di più per motivi così tanto stupidi.
Adocchio un paio di bambini che litigano sul bagnasciuga a pochi metri da noi, intenti a decidere quale castello di sabbia sia il più grande e il più bello.
«Sto aspettando…» cantilena Joe.
Sospiro e decido di abbordare i bambini. Mi accosto a loro e sorrido, leggermente a disagio. «Wow, che bei castelli!» esordisco.
Loro mi guardano dal basso, poi quello che pare essere più grande salta in piedi e mi regala un sorriso sdentato. «Ci fai da giudice? Io dico che il mio castello è più bello, ma Daniel dice di no! Ma hai visto quanto fa schifo il suo?»
«Non è vero!» strepita l’altro, mollandogli una gomitata. «È il suo che fa più schifo di tutti!»
Sollevo le mani in segno di resa. «Va bene, faccio da giudice!» Fingo di osservare con attenzione i due castelli, entrambi sghembi e quasi completamente distrutti dalle onde, poi ne indico uno a caso. «Quello è più bello. Chi l’ha fatto?»
«Io, io!» strilla Daniel, mentre l’altro bambino si arrabbia e corre a distruggere il lavoro dell’avversario.
«No, cos’hai fatto? Tommy, sei cattivo!» piagnucola il vincitore.
«Non fare così, ometto. Visto che hai perso, mi fai un favore? Ti va?» gli propongo.
Lui rimane imbronciato per un po’.
«Vedi quel ragazzo riccio? Io e lui dobbiamo fare una gara e ci serve un giudice! Vuoi esserlo tu?»
Tommy si apre in un sorriso radioso e rivolge una linguaccia a Daniel, seguendomi accanto a Joe. Anche l’amichetto ci raggiunge e alla fine decidono di fare insieme il lavoro che gli ho proposto.
«Joe, ci sono qui due bambini che ci faranno da giuria! Quindi, ometti…» Afferro nuovamente la mano del mio ragazzo e sorrido ai due ragazzini. «Il primo che cade, perde! Guardateci con attenzione, mi raccomando!»
«E cosa si vince?» chiede Daniel tutto entusiasta.
«Niente, niente!» si affretta a rispondere Joe, stringendo più forte le mie dita.
Ridacchio e mi preparo a partire, mentre il vento continua a sferzare i nostri corpi e ormai ha quasi del tutto asciugato la nostra pelle e i nostri costumi. Il nuovo impatto con l’acqua gelida sarà terribile.
«Uno… due… tre…» conto.
«Via!» strilla Joe insieme ai due bambini.
Schizziamo subito in avanti, strattonandoci a vicenda e incespicando nell’acqua bassa e ghiacciata.
Chiudo gli occhi e decido di godermi quel momento esattamente come sta facendo il mio ragazzo.
Non so chi tra noi due cade per primo, siamo un groviglio informe di risate, grida e gambe che si intrecciano e sbattono contro la sabbia.
Le nostre mani si separano e ognuno riemerge per conto suo: respiriamo affannosamente a qualche metro di distanza l’uno dall’altro, non riuscendo più a smettere di ridere.
Noto i bambini saltellare e gridare dalla riva, così li raggiungo a nuoto, portandomi dietro Joe dopo averlo afferrato per un polso.
«Allora?» li interrogo.
«Ha vinto il tuo amico riccio!» esclama Tommy.
«Non è vero, hai vinto tu!» ribatte Daniel.
«No, ha vinto il riccio!»
«Lo dici solo perché lui ha detto che il mio castello era più bello» lo accusa Daniel, additandomi.
«Ha vinto e basta!»
«Invece ha perso!»
Continuando a litigare e urlarsi contro, si allontanano in fretta da noi e si dimenticano immediatamente della nostra esistenza, rincorrendosi per diversi metri.
«E adesso come facciamo a decretare il vincitore?» sbuffa Joe.
«Non c’è nessun vincitore» dico con ovvietà.
«Dannati marmocchi…» borbotta il mio ragazzo. Poi il viso gli si illumina e un ghigno malizioso gli increspa le labbra. «E se invece avessimo vinto entrambi?»
«Ecco, lo sapevo. Ripeto: sei un porco.»
«Non vedo l’ora di dimostrarti quanto hai ragione!»
Scoppio a ridere e mi sollevo dall’acqua. «Dai, usciamo un po’, comincio ad avere freddo.»
Joe annuisce e si aggrappa al mio polso per mettersi in piedi.
 
 
Osservo distrattamente l’ombrellone: sembra stabile.
Il vento soffia sempre più forte man mano che la giornata va avanti.
Dopo esserci stesi al sole per asciugarci, decidiamo di pranzare con un paio di panini che abbiamo comprato nel piccolo market del campeggio.
«Rimango al sole perché sotto quel coso ho freddo» afferma Joe, sedendosi con le gambe incrociate sul suo telo mare.
«Oh, cazzo… ecco cosa ci siamo dimenticati!»
«Eh?»
«La crema solare! Se non te la metti, diventerai un’aragosta!» esclamo, inginocchiandomi accanto allo zaino del mio ragazzo per cercare la protezione all’interno.
«Ah, macché… il sole non è poi così caldo» minimizza lui.
Sbuffo, frugando nella borsa. «Non è così, fidati di me. Ah, ma dov’è quel cazzo di tubetto?»
«Mi sa che non l’ho portato» replica Joe in tono indifferente.
«Oh no, e adesso?»
Lui fa spallucce. «Chi se ne frega? Dai, ho fame, lascia perdere la crema solare! Siamo stati al mare anche ieri, non mi ustionerò!»
«Ho i miei dubbi, hai la pelle molto chiara… mi sono bruciato io che sono olivastro» gli faccio notare, alludendo a quella volta in cui da adolescente avevo dovuto trascorrere una settimana in casa perché mia madre mi aveva impedito di andare in spiaggia per via di una scottatura epocale.
«Ma tu la crema non te la metti, quindi che vuoi?» mi accusa.
«Io sono già abbronzato, ti ricordo che sto facendo il corso da bagnino.»
«Martin.»
«Sì?»
«Non rompere il cazzo. Ho fame, mangiamo o no?» Poi sospira e aggiunge: «Speriamo non arrivi qualche ape».
Sbuffo e alzo gli occhi al cielo. «Non ricominciare, ti ho detto che con questo vento non ci sono insetti.»
Nel frattempo apro la borsa frigo e porto fuori i panini e un paio di birre; apro le lattine e ne infilo una nella mano sinistra di Joe, poi gli porgo il suo pranzo.
Proprio mentre Joe sta per portarsi la bevanda alle labbra, un’ape svolazza accanto a lui, attirata dall’odore del liquido ambrato.
«Joe, stai fermo!» gli intimo.
Lui si irrigidisce e comincia a borbottare e imprecare tra sé.
«Tranquillo, adesso se ne va…» tento di rassicurarlo, sventolando con le mani per scacciare l’insetto. «Okay, è andata via» annuncio.
«Non è possibile, cazzo, ci mancava anche questa! Tu mi hai detto che non ce n’erano!» si lamenta Joe, ancora rigido e impietrito sull’asciugamano.
«Ancora? Ti ho detto che non c’è più… no, fermo, è tornata! Vuole la tua birra!»
«Bestia schifosa, levati dal cazzo!»
Scoppio a ridere. «La attiri come il miele, dev’essere quel bagnoschiuma al cocco che ti piace tanto…» lo prendo in giro.
«Piantala, non è divertente! Ti prego, fa’ qualcosa!»
Joe comincia decisamente a innervosirsi, così mi allungo per sfilargli la lattina di mano.
«La sposto un attimo, così puoi mangiare tranquillo. Ah, adesso l’ape se n’è andata.»
«Che palle…» borbotta, per poi addentare in fretta e furia il panino. Farfuglia qualcosa di incomprensibile prima di mandare giù il primo boccone.
«Non ho capito un cazzo» dico, per poi cominciare a mangiare a mia volta.
«Controlla se torna, guardami eh!» ordina isterico, ancora immobile e lento nei movimenti.
«Non c’è, ti ho detto che se n’è andata» lo rassicuro.
Mangiamo e continuiamo a chiacchierare, anche se ogni tanto Joe mi domanda se qualche ape sia nei paraggi.
Sono a metà del mio panino quando accade l’impensabile: il vento comincia a mulinare forte, sollevando un polverone di sabbia e sradicando l’ombrellone dal buco.
Lascio cadere il panino e balzo in piedi, tentando invano di acciuffare l’oggetto prima che voli via, ma l’intensità delle folate aumenta ancora e lo trascina lontano, sbalzandolo sopra a quello dei nostri vicini.
Corro in quella direzione e inciampo nell’asciugamano di Joe, schiantandomi in avanti sulla sabbia; atterro sul ginocchio destro e scalcio goffamente per rialzarmi, ma qualcosa mi piove addosso e limita i miei movimenti.
Rotolo sulla schiena e mi accorgo che si tratta di un ombrellone a spicchi bianchi e arancioni. Lo sollevo e proprio in quel momento una ragazza mi raggiunge: ride come una matta, ma sembra anche mortificata.
Lancio una breve occhiata intorno a me: l’intera spiaggia è alle prese con oggetti che volano in ogni direzione, sabbia che si solleva in piccoli tornado e stoffa colorata che rotola ovunque.
«Scusa» grida la ragazza, mentre corre via.
Mi metto in piedi e parto nuovamente all’inseguimento del nostro ombrellone, ripescandolo dalle mani di un tizio obeso palesemente incazzato.
Evito di fargli notare che non è colpa mia se il vento ha combinato questo disastro e torno stremato da Joe.
Solo in quel momento mi accorgo che il mio ragazzo sta ridendo come un matto.
«Martin, sei tu?» domanda.
«Sì, eccomi. Forse è meglio non montare di nuovo quest’affare. Perché ridi?»
«Oddio, mi sono immaginato la scena: tutti gli ombrelloni che volano e la gente che gli corre dietro per riprenderli!» esclama, battendosi una mano sulla fronte.
Lo osservo e non posso fare a meno di lasciarmi contagiare dall’atmosfera divertita che si è creata nonostante il disastro che ancora si svolge attorno a noi. Scoppio a ridere a mia volta e mi accovaccio di fronte a Joe, passandogli affettuosamente una mano tra i capelli.
Lui sghignazza. «Ora puoi finire di mangiare.»
Lancio un’occhiata al panino abbandonato sul mio telo e sbuffo. «Mi sa di no… si è riempito di sabbia» borbotto.
Joe cerca la mia mano e vi infila un piccolo pezzo del suo. «Mangia questo, dovrebbe essere a posto. L’ho protetto con cura, visto che sono rimasto seduto qui come una mummia!»
Sorrido e lo guardo in viso: è dolce, delicato e bellissimo. Ha appena compiuto un gesto davvero tenero e avrei voglia di riempirlo di baci.
Mi trattengo e mi limito a sfiorargli la tempia con una carezza. «Sicuro?»
«Mangia e non rompere» taglia corto. «Le nostre birre dove sono?»
«Il vento le ha rovesciate e si sono riempite di sabbia anche quelle. Mi dispiace…»
«Mi dai un po’ d’acqua?»
Mentre mastico l’ultimo boccone del panino di Joe, gli posiziono di fronte la borsa frigo, poi mi alzo e richiudo con cura l’ombrellone, infilandolo nuovamente nella custodia.
 
 
«Joe, stai diventando un’aragosta» lo avverto, sdraiato prono sul mio telo.
Sono le quattro del pomeriggio e il sole batte impietoso su di noi, anche se il forte vento che continua a scuotere ogni cosa non lo fa percepire troppo caldo.
«Macché, stai tranquillo» mormora, rilassato supino accanto a me.
«Dico davvero: se continui a stare sotto il sole, domani non riuscirai neanche a vestirti per il dolore. Vado a prenderti la crema in tenda, che dici?»
«Lascia stare…» Si mette faticosamente a sedere e si stiracchia. «Piuttosto, perché non andiamo a fare il bagno? Tanto abbiamo mangiato pochissimo, non ci verrà mica una congestione…»
Lo guardo dubbioso dal basso, poi faccio leva sui gomiti e mi sollevo, per poi inginocchiarmi. «L’acqua è molto fredda.»
«Ma è come se non avessimo mangiato, dai!» mi implora.
Sospiro. «E va bene, andiamo!»
Ci alziamo e Joe cerca la mia mano, poi ci avviamo verso il bagnasciuga.
«È gelida!» strilla, zampettando all’indietro.
«E io cosa avevo detto?»
«Ma fuori fa cal…»
Joe non fa in tempo a finire la frase che viene colpito in pieno viso da una pallonata.
Diventa paonazzo per il dolore e per la rabbia, gli occhi cominciano a lacrimargli e imprecazioni irripetibili lasciano la sua bocca. Si porta le mani al viso e le preme sul naso e sulle labbra, tremando vistosamente.
Infuriato, raccolgo in fretta la palla e mi guardo intorno. «Di chi è questa?» sputo tra i denti.
«Martin, io gliela buco quella, dammela!» sbraita Joe, allungando un braccio per cercare il mio corpo accanto al suo.
«Scusa, me la ridai?» si fa avanti un tipo che deve avere quindici anni, i capelli rasati per mettere in mostra una raccapricciante ragnatela tatuata sulla testa.
Lo guardo in cagnesco, poi abbasso gli occhi sul pallone da calcio che ancora stringo in mano. «Ah, dici questa? Non so se mi va, amico.»
«Ma chi cazzo è tuo amico?» sbotta quello, facendo un passo in avanti.
«Te lo buco quel cazzo di pallone, pezzo di merda!» strepita Joe, stringendo i pugni.
«Ma non rompetemi le palle…»
«Lascia stare, Joe. Beh, amico…» proseguo, scoccandogli un’ultima occhiata, per poi lanciare con forza il pallone in acqua. «Vattelo a prendere, se ci tieni tanto» concludo.
L’oggetto, trascinato dalla corrente, finisce sempre più al largo e il tizio si butta in mare per riprenderlo, minacciandomi a vuoto di prendermi a calci in culo quando sarà tornato a riva.
«Ma guarda questo coglione» borbotto, accostandomi a Joe per controllare i danni sul suo viso. Il labbro superiore è leggermente spaccato e lo zigomo appena tumefatto, però non sembra essere successo niente di grave.
«Sono incazzato nero!» esclama il mio ragazzo, asciugandosi con furia le lacrime che gli sono sfuggite per via del dolore.
«Non pensarci più: a quanto vedo, il coglione dovrà fare una bella nuotata per riprendere il suo giocattolo, e quando tornerà a riva non avrà neanche la forza di respirare!»
«Speriamo che affoghi» conclude Joe, lasciandosi sfuggire una risata.
Lo imito e lo afferro per il polso, portandolo con me verso l’acqua.
Tra uno schizzo e l’altro, riusciamo a immergerci, anche se stiamo morendo di freddo e siamo costretti a uscire quasi subito.
Una volta tornati agli asciugamani, noto che il tizio del pallone sta uscendo trafelato dall’acqua; sbraita e impreca, ma subito una sua amica lo richiama e lo placa.
«Che freddo…» bofonchia Joe, avvolgendosi il corpo con l’asciugamano.
Mi stendo sul mio telo e sbadiglio. «Questa giornata mi sta stremando…» commento.
«A chi lo dici…»
 
 
Sono quasi le sei quando Joe comincia a star male.
«Mi fa male lo stomaco, non lo so… ho la nausea…»
Sorrido malizioso.
«E no, Martin, non puoi neanche spaventarmi e dirmi che aspetto un bambino» mi rimbecca subito, massaggiandosi il torace con il viso distorto in una smorfia.
Mi metto a sedere e lo esamino meglio: è arrossato per via della lunga esposizione al sole, eppure trema come una foglia e ha il viso madido di sudore. Forse è arrivato il momento di andare via dalla spiaggia.
«Torniamo in tenda» decido, mettendomi in piedi e scuotendo il mio telo per rimuovere la sabbia.
«Ma magari tu volevi restare…» mugola, sedendosi a fatica.
«Non importa, e poi sono stanco. Ce la fai ad alzarti?»
Lui annuisce. «Oddio, mi gira la testa…» sussurra.
«Facciamo così: stai seduto finché non raccolgo tutto, poi ti aiuto io.»
«Va bene.»
Raccatto in fretta e furia le nostre cose, sistemo l’ombrellone sulla spalla destra e la borsa frigo sulla sinistra, poi afferro Joe per la vita e lo sollevo, lasciando che si appoggi a me.
«Oddio, Martin… sto malissimo…»
«Tranquillo, adesso andiamo via.» Scuoto con un braccio il suo telo e me lo getto sulla spalla, per poi recuperare il bastone bianco. «Ce la fai a tenere almeno questo?»
«Sì, sì… che dolore…»
Ci incamminiamo lentamente e raggiungiamo la passerella in legno, percorrendola a piccoli passi.
«Tutto bene?»
«Dev’essere la congestione… cazzo, mi viene da vomitare…»
Sospiro. «Joe, ehi… ehi!» lo richiamo, mentre si piega in due per un’improvvisa fitta allo stomaco.
Lascio cadere ombrellone e borsa frigo e lo afferro saldamente per la vita, passandogli una mano sulla fronte. «Sei bollente…»
«Sto per…»
Faccio giusto in tempo a trascinarlo giù dalla passerella, prima che si chini ancora di più in avanti e svuoti completamente il suo stomaco sulla sabbia punteggiata di alghe e vegetazione.
Gli porto indietro i capelli e lo lascio rimettere. «Tranquillo, adesso starai meglio» mormoro, sentendomi improvvisamente stremato.
Ne stanno succedendo di tutti i colori e la giornata non è ancora finita.
Joe si raddrizza lentamente, per poi abbandonarsi con la schiena contro il mio petto. «Dio, che schifo…»
«Come va?» gli chiedo, sfiorandogli il viso con le dita.
«Un po’ meglio, ma mi sento debole…»
Ridacchio. «E meno male che non ti sarebbe venuta una congestione» lo canzono, facendo qualche passo verso la borsa frigo.
«Non prendermi in giro!» piagnucola.
«Dai, scherzo. Mettiti seduto qui sulla passerella, ora prendo un fazzoletto e un po’ d’acqua.»
Joe obbedisce e si passa le mani sul viso. «Devo avere la febbre…»
«Ci manca solo questo» bofonchio, accucciato di fronte a lui.
Proprio in quel momento un gruppo di persone provenienti dalla spiaggia si accosta a noi; uno di loro si stacca dal resto della comitiva e mi si piazza di fronte. Riconosco il tizio che ha colpito Joe con il pallone e noto che tiene l’oggetto del misfatto in mano, sorridendomi con fare minaccioso.
Sbuffo e passo al mio ragazzo una bottiglietta d’acqua e un fazzoletto, per poi mettermi in piedi e ricambiare l’occhiata del ragazzino.
«Ecco qua il genio! Complimenti, stronzo, mi hai fatto quasi perdere la palla in mare!» sbraita, mentre qualcuno dei suoi amici tenta di richiamarlo e di dissuaderlo dal rivolgermi la parola.
«Quanto mi dispiace, amico» lo sbeffeggio, incrociando con calma le braccia sul petto.
«Ti avverto, testa di cazzo, questa me la paghi!»
«Quanto vuoi?» chiedo sarcastico.
«Ora le prendi, coglione!» Solleva il braccio sinistro e stringe la mano a pugno.
Io, rapidamente, gli prendo il pallone dalla destra e indietreggio, per poi lasciarlo cadere esattamente dentro la pozza che Joe ha espulso poco prima dal suo stomaco. «Il pallone è tutto tuo, bambino» concludo.
Lui comincia a imprecare e fa per saltarmi addosso, ma i suoi amici lo fermano.
Nel frattempo recupero tutte le nostre cose e aiuto Joe ad alzarsi, per poi incamminarmi con lui verso il campeggio, lasciandomi alle spalle le grida inferocite del tizio del pallone.
«Quel tipo mi ha rotto il cazzo» commento.
«Che gli hai fatto stavolta?» mormora Joe, debole e stremato.
«Ho gettato il suo giocattolino dentro il tuo vomito.»
«Sei il migliore» sghignazza.
«Lo so.»
 
 
«Ahi, fai piano, cazzo!» strilla Joe, dimenandosi sotto di me.
«Fermo, abbi pazienza…»
«Mi fai male!»
Mi chino a baciarlo sotto l’orecchio sinistro. «Ti avevo detto che ti saresti ustionato, adesso ti tocca soffrire il doppio» sussurro, per poi raddrizzarmi e spalmare lievemente un unguento a base di aloe vera sulla sua pelle arrossata e ipersensibile.
«Succedono tutte a me…» piagnucola, abbandonato prono sul materassino.
Le mie mani scivolano sul suo corpo e un sorriso malizioso si dipinge sulle mie labbra.
«Perché ridi?»
«Vorrei tanto avere il mio premio…»
Joe sbuffa indignato. «E poi sarei io il porco! Non hai un minimo di pudore, il tuo ragazzo sta male e tu pensi solo ad approfittartene!»
«Ma guarda come fa la vittima…» lo prendo in giro, solleticandogli appena la parte posteriore della coscia destra.
Joe rabbrividisce e mi molla un calcio all’indietro.
Scoppio a ridere e lo inchiodo al materassino, tenendolo fermo per i polsi. «Stai buono e lasciami finire di mettere la crema. Per fortuna che c’è una parafarmacia qui, altrimenti avresti patito le pene dell’inferno.»
Lui borbotta qualcosa di incomprensibile e si lascia curare dalle mie carezze impregnate di crema rinfrescante. Rimaniamo in silenzio mentre lo massaggio delicatamente, anche se in certi momenti lo sento irrigidirsi o lamentarsi per il dolore.
Lo aiuto a mettersi supino e ripeto l’operazione sulle braccia, sul petto asciutto e sulle gambe leggermente divaricate. Accudirlo in questo modo mi fa impazzire, vorrei tanto che il mio Joe non stesse tanto male per gettarmi a capofitto su di lui e riempirlo di baci dappertutto.
Come ultima cosa spalmo un po’ di crema sul suo viso e ne approfitto per tastargli la fronte.
«Sono ancora caldo?»
«Un po’ sì… ti senti meglio?» Mi sdraio al suo fianco e gli stringo la mano.
«Sì.» Fa una piccola pausa, poi sospira.
«Ehi, che c’è?»
«Ti ho rovinato la giornata…» mugugna in tono sconsolato.
Mi metto su un fianco e incastro il viso nell’incavo del suo collo. «Perché dici così?»
«Non ho fatto che lamentarmi e fare casino da stamattina, poi sono stato male… devi sempre accudirmi come fossi mia madre» brontola.
Ridacchio e gli accarezzo lievemente il petto, scendendo verso il ventre. «Stupido, se fossi tua madre e facessi questo…» Porto la mano sul suo inguine ed esercito una leggera pressione. «Sarebbe incesto.»
Joe si dimena e mi molla una gomitata. «Idiota!» grugnisce.
Sorrido e gli lascio un piccolo bacio sul mento, spostando la mano a cercare la sua. «Non mi hai rovinato la giornata, in fondo ci siamo divertiti.»
«Se lo dici tu…»
«E poi mi piace prendermi cura di te» mormoro, avvampando appena.
Sento le dita di Joe tra i capelli e mi rilasso nel silenzio della tenda.
A un certo punto sento la mia pancia brontolare e ridacchio. «Muoio di fame…»
«Se vuoi andare a cena, fai pure. Io sono stanco e non ho il coraggio di vestirmi. Mi fa male tutto.»
Mi scosto delicatamente da lui e gli stampo un bacio sulle labbra, poi porto le dita ad accarezzare la parte che è stata colpita dal pallone. «Non hai fame?»
«Sì, ma…»
«Ti porto qualcosa qui.»
Joe storce il naso.
«Dai, non fare quella faccia: ripuliremo tutto e non entreranno nuovamente le formiche!» esclamo, intuendo senza problemi cosa gli passa per la testa.
«E va bene!»
«Okay. Cosa vuoi mangiare?»
«Decidi tu…» sussurra.
«D’accordo.» Recupero il portafoglio e abbasso la zip della tenda; quando mi volto nuovamente verso Joe, però, mi accorgo che ha chiuso gli occhi ed è crollato in un sonno profondo.
Dev’essere sfinito dopo aver vomitato e aver avuto la febbre alta per qualche ora. Sorrido tra me: mi intenerisce l’espressione beata e tranquilla che ha assunto il suo bel viso, mentre con una mano abbandonata sul ventre e l’altra sul materassino respira piano e sembra finalmente stare bene.
Non riesco a resistere e mi chino a soffiare un bacio sulla sua fronte, poi indietreggio ed esco dalla tenda, richiudendola piano.
 
 
«Sorridi!»
«Mi fa male la faccia a furia di sorridere!»
«Non fare tante storie… Ben vuole una foto!»
Joe sbuffa. «Ne abbiamo già fatto almeno una ventina. Mandagliene una qualsiasi!»
«Ma non si vede come ti sei ustionato! Dai, sorridi, scattiamone un’altra!»
Io e Joe ci siamo svegliati da poco e io ho deciso di far sapere al mio migliore amico Ben cosa ci è successo ieri in spiaggia; lui ha insistito per vedere in che condizioni è Joe, ma il mio ragazzo non è per niente contento della cosa: ha trascorso quasi tutta la notte insonne a causa della febbre che è salita un’altra volta e dei dolori delle ustioni. Ho dovuto spalmargli nuovamente la crema e andare a comprare del paracetamolo per aiutarlo a far scendere la temperatura.
«Deciditi» acconsente, seppur non sia del tutto convinto.
Sollevo il mio cellulare e mi assicuro che la telecamera interna ci inquadri per bene. Lo abbraccio con delicatezza a un sorriso spontaneo si dipinge sulle mie labbra.
Scatto alcune foto, poi le ricontrollo e finalmente ne trovo una da inviare a Ben.
«Abbiamo finito?» chiede Joe, mettendosi faticosamente su un fianco e chiudendo gli occhi.
«Sì.» Spedisco la foto e lascio il cellulare sul coperchio della valigia, stendendomi accanto a lui. «Dormi un po’, se riesci.»
«Spero di riuscirci… tu vai in spiaggia?» farfuglia.
«No, non ti lascio qui da solo.» Gli stringo la mano e sorrido intenerito.
«Ma non preoccuparti…»
«Certo che mi preoccupo. Rimango qui, poi se vuoi possiamo fare una passeggiata.»
Joe sbuffa e affonda il viso nel cuscino.
«Dai, non fare così.» Lo prendo delicatamente tra le braccia. «Dimmi se ti faccio male.»
«No.»
«Okay, allora resto qui. Magari dormo un po’ anch’io.»
Joe ridacchia. «Martin?»
«Dimmi» sussurro tra i suoi capelli, facendovi scorrere piano le dita.
«Non vedo l’ora di godermi il mio premio…»
Scoppio a ridere e mi sistemo meglio, permettendogli di fare lo stesso.
«Adesso non pensare a certe cose…»
«Ci penso eccome» sghignazza.
«Sei un porco anche quando stai male.»
«Beh, come si suol dire… il porco perde il pelo, ma non il vizio.»
Aggrotto la fronte. «Quello era il lupo, Joe.»
«Ah, sì… che importa? Un animale vale l’altro… insomma, hai capito.»
«Sì, ho capito.»
«Martin…» biascica ancora, a metà tra il sonno e la veglia.
«Mmh?»
«Lo sai che ti amo?»
Rido appena. «Sì che lo so.»
Si strofina piano contro la mia spalla e poco dopo il suo respiro si fa più pesante.
Mi dispiace che sia stato male proprio durante la nostra prima vacanza insieme, eppure sono contento di condividere questa esperienza con lui.
Prendermi cura di Joe per me è come respirare: mi aiuta a stare bene e mi fa sentire vivo, perché sento che per lui posso fare tanto e che in cambio ricevo tanto.
Anche io lo amo da impazzire e vorrei dirglielo, ma sta dormendo.
So che lo sa, ne è consapevole e me lo dimostra con ogni gesto, ogni risata, ogni broncio contrariato e ogni strillo isterico.
È un ragazzo unico e sa sempre come divertirmi e regalarmi esperienze ed emozioni indimenticabili.
Lo stringo un po’ più forte e mi fa piacere sentirlo riposare tra le mie braccia.
«Starai meglio e continueremo a spassarcela» sussurro, lasciandomi sfuggire un sorriso.
Ripenso alla disastrosa giornata di ieri e so che rimarrà per sempre nei nostri ricordi: ne rideremo insieme e la racconteremo durante le serate tra amici.
Il mio cellulare vibra, avvertendomi dell’arrivo di un messaggio.
Lo afferro con la mano destra, stando attento a non svegliare Joe.
È un sms di Ben che subito mi fa sorridere.
 
Amico, il tuo uomo è più scuro di te lol
Un’aragosta pronta da mangiare!
 
Sghignazzo e digito rapidamente una risposta.
 
Lo mangerò non appena starà meglio…
 
E spero che accada presto.
Molto presto.
 
 
 
 
 
 
♥ ♥ ♥
 
Eccomi qui, carissimi e appassionatissimi lettori, con una nuovissima cretinata targata Martin&Joe XD
Questa volta mi sono cimentata in una disastrosissima giornata in campeggio, buttando dentro questo racconto tutte le disavventure che sono successe alla sottoscritta nel corso degli anni, concentrate tutte in un unico calderone: formiche nella valigia, ombrelloni estirpati dal vento, api rompipalle, pallonate in faccia, gare nonsense in acqua, gente disagiata, castelli di sabbia infranti dalle onde, congestioni per colpa dell’acqua troppo fredda, ustioni e febbre per via del troppo sole… ecco, mi manca solamente un Martin al mio fianco e potrei essere il Joe perfetto, dato che gli insetti li odio e la sfiga ce l’ho sempre appresso come un cagnolino fin troppo fedele XD
Devo ringraziare assolutamente Laila_Dahl per il suo magnifico contest, perché mi ha permesso di scrivere questo agglomerato di disagio XD poi ringrazio anche Soul perché i nostri vaneggi insieme partoriscono sempre idee colme di demenzialità!
Inoltre, una piccola dedica speciale va a Carmaux, che grazie al suo prompt «Mi fa male la faccia a furia di sorridere» e ai miei racconti sulle formiche nella valigia mi ha aiutato a sbloccarmi in questo periodo in cui non riuscivo a scrivere praticamente nulla, e ha completato alla perfezione le idee che ho avuto per questo racconto :3
Piccole spiegazioni per chi non conosce la serie: la storia è ambientata tra il 21 e il 22 luglio 2017, quando i miei bambini sono andati in campeggio insieme per la prima volta; in realtà erano già lì da qualche giorno, dato che il compleanno di Joe è il 20 luglio. Per scoprire altri momenti dedicati al campeggio, potete curiosare nelle mie OS Your sex takes me to paradise (la primissima storia su loro due, nata grazie al PWP Contest di fiore di girasole che non ringrazierò mai abbastanza per avermi permesso di partorire questi due personaggi di cui ormai non posso più fare a meno *-*) e E muoio felice ogni giorno della mia vita, dove si scopre come Joe festeggerà il suo compleanno :P
E a proposito di date: Joe ha compiuto 27 anni perché è nato nel 1990, mentre Martin è del ’92; ecco perché scherzano sul fatto che Joe sia più grande, anche se fisicamente rimane più mingherlino e Martin pare essere più “anziano” di lui :D
Ho nominato Ben, il migliore amico di Martin. Ho affrontato il loro primo incontro nella OS Il rosso oltre la siepe e qui verranno fuori anche i retroscena dell’ustione di Martin e di sua madre che non voleva che andasse in spiaggia per non prendere altro sole XD
Credo di non avere altro da spiegare, spero di essere riuscita, attraverso gli occhi di Martin, a raccontare anche la cecità di Joe, le sue difficoltà e le sue peculiarità.
Mi sono divertita un casino a scrivere questa storia e mi auguro vi sia piaciuta e vi abbia fatto sorridere :3
Grazie a chiunque leggerà e/o recensirà, alla prossima ♥
  
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