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Autore: Soul Mancini    30/08/2020    7 recensioni
[La prima storia della serie narrata dal POV Bess.]
Sono passati sei anni da quando Bess ha lasciato Los Angeles per trasferirsi in Inghilterra, ma quando la ragazza fa ritorno nella città californiana nulla sembra essere cambiato: l’Alibi, il locale che frequentava quando era una ragazzina e che l’ha vista crescere, è sempre al suo posto e ospita sempre le stesse persone – i suoi vecchi amici.
Ma quando si ritrova a incrociare lo sguardo di Ethan, Bess realizza quanto la vita si sia impegnata per spezzare gli equilibri, per stravolgere le loro esistenze, per farli crescere – forse troppo in fretta – e corrompere i loro sogni.
E capisce che non esistono distanze temporali e spaziali in grado di cancellare dalla sua memoria e dal suo cuore quelle iridi così scure e imperscrutabili, ora piene di un inspiegabile dolore che le infrange l’anima.
- TERZA CLASSIFICATA al contest "Immergersi nell'immaginazione" indetto da Artnifa sul forum di EFP.
- SETTIMA CLASSIFICATA al contest "Pranzo senza dessert" indetto da Freya_Melyor sul forum di EFP.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Incompiuta
- Questa storia fa parte della serie 'Needles'
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bess
Nobody can save me now
 
 
 
 
Just one more time before I go
I'll let you know
That all this time I've been afraid
Wouldn't let it show
Nobody can save me now, no
Nobody can save me now
[Imagine Dragons – Battle Cry]
 
 
 
 
 
15 dicembre 1992
 
 
Mi guardo attorno e constato che durante questi anni di assenza non è cambiato niente: sulla porta d’ingresso dai vetri sudici svetta la solita insegna sinistramente illuminata da una luce grigiastra, su cui a malapena si possono leggere cinque lettere scrostate dal tempo: Alibi.
Sembra essere passata un’eternità da quando ho messo piede per l’ultima volta in questo locale: il luogo in cui ho trascorso la mia adolescenza, in cui mi sono bagnata per la prima volta le labbra con l’alcol, in cui ho fatto il primo tiro di sigaretta, in cui ho fatto a pugni con la vita e mi sono procurata i primi lividi.
Mentre spingo la pesante porta a vetri, all’improvviso mi sento di nuovo una ragazzina incazzata col mondo che va a rifugiarsi dai suoi amici, incazzati e frustrati come lei. Chissà se qua dentro troverò le stesse persone di sei anni fa, chissà se le regole del gioco sono rimaste le stesse.
Vengo avvolta da una nuvola di calore talmente pressante da risultare fastidioso, frammista all’odore di tabacco stantio, alcol e corpi – ed è tutto così familiare, esattamente come lo ricordavo; è come fare un salto indietro nel tempo. Il solito vecchio stereo diffonde nell’aria della musica rock, sottofondo per il chiacchiericcio allegro dei clienti, e sul palchetto all’angolo sono ammassati alcuni amplificatori.
Mi guardo attorno e quasi resto a bocca aperta: nulla è cambiato, nulla. Ci sono ancora i vinili dei Rolling Stones e dei Pink Floyd appesi alle pareti, c’è la vecchia lampada in un angolo del bancone che proietta la sua luce aranciata, ci sono i tavolini incrostati di birra attorno a cui gruppi di ragazzi dai capelli lunghi e ragazze dal trucco pesante ridono e affogano il loro dolore in bicchieri pieni d’alcol e schiuma.
Faccio scorrere lo sguardo tra i volti che affollano il locale in cerca di qualcuno di conosciuto; ho quasi paura di rivedere uno dei miei vecchi amici, sono passati così tanti anni che non saprei nemmeno che dire o cosa aspettarmi.
“Ehi ragazzina, levati dal cazzo!” sento gridare alle mie spalle, prima che qualcuno mi spinga con forza in avanti, rischiando di farmi perdere l’equilibrio.
Mi volto di scatto e incenerisco con lo sguardo l’artefice del gesto: è un ragazzino che avrà all’incirca sedici anni, con lo sguardo strafottente e un sorrisetto da padrone del mondo.
Ragazzina lo dici a tua madre, stronzo” ribatto in tono acido, prima di dargli le spalle e dirigermi in fretta verso il bancone. D’accordo che mi trovavo impalata di fronte alla porta e ostruivo il passaggio, ma c’è modo e modo di rivolgersi al prossimo.
Poggio i gomiti sulla lastra in marmo – quante persone hanno tirato su strisce di coca su questo lurido bancone quando frequentavo abitualmente l’Alibi! – e rifletto se sia il caso di scaldare i motori con una birra o passare direttamente a qualcosa di più forte, quando una figura a qualche metro da me attira la mia attenzione e mi ritrovo a osservarla con la coda dell’occhio. Si tratta di un ragazzo alto e asciutto con indosso una t-shirt nera – alla faccia del freddo di dicembre – che mette in risalto le sue spalle larghe ma non troppo imponenti; il suo viso, dalla carnagione olivastra e i lineamenti marcati, mi colpisce come un pugno nello stomaco, ma sono i suoi occhi ad annientarmi definitivamente e aprirmi una voragine nel petto. Quegli occhi enormi, talmente neri che l’iride si fonde con la pupilla, così profondi e imperscrutabili ma in cui io ho sempre letto un dolore troppo grande per essere espresso.
Quegli stessi occhi che ora, probabilmente annebbiati dall’alcol, scorrono per un attimo su di me senza realmente vedermi, mentre il loro proprietario continua a chiacchierare con i suoi due amici, la schiena poggiata contro il bancone e un’intera bottiglia di Jack Daniel’s stretta tra le mani.
Ethan.
Oh, non è cambiato per niente. È sempre stato un grande amante del Jack Daniel’s.
A quel pensiero, le labbra mi si increspano in un sorriso amaro. Dovevo immaginare che non avrebbe mai cambiato le sue cattive abitudini… quante volte gli avrò ripetuto che stava esagerando con l’alcol?
È talmente tanto sbronzo che non mi ha riconosciuto. Non ci posso credere.
Mi soffermo per un istante a osservare i due ragazzi con cui sta chiacchierando. Uno dei due, dai capelli a spazzola biondo scuro, lo ricordo molto bene: si tratta di Oliver, il cantante del gruppo in cui Ethan suonava – suona ancora? – la chitarra, mentre l’altro è un tipo minuto che faceva parte della nostra cerchia ma con cui non ho mai avuto molto a che fare, mi pare si chiamasse Jeff.
Aggrotto le sopracciglia e scruto attentamente nelle vicinanze. È davvero strano che Ethan non sia insieme ad Ives, il suo migliore amico; quei due erano inseparabili, quando li ho conosciuti si spostavano sempre in simbiosi e faccio fatica a credere che abbiano avuto qualche discussione.
Ma in fondo che ne so? In sei anni possono cambiare tante cose.
Stufa di stare nell’ombra – tanto Ethan non mi riconoscerà mai senza un piccolo aiuto – decido di agire: faccio qualche passo avanti, piazzandomi proprio accanto a lui, e mi schiarisco teatralmente la gola.
Il primo a posare lo sguardo su di me è Oliver, che sgrana i suoi occhi verdi – avevo un debole per i suoi occhi da ragazzina – con stupore. “Tu?! Sto avendo un’allucinazione?”
“Dipende da quanta coca hai tirato su” ribatto prontamente, stringendomi nelle spalle.
Lui scoppia a ridere e mi batte una pacca sulla spalla. “Non sei cambiata di una virgola, stronzetta!”
Jeff invece fa un passo indietro, quasi intimidito dalla mia presenza. Ricordavo che non fosse un tipo molto loquace.
Quando finalmente incrocio lo sguardo di Ethan, lo trovo che mi squadra da capo a piedi, confuso e annebbiato dall’alcol. “Tu sei Bess” afferma infine, lentamente, e anche la sua voce profonda e calda è rimasta esattamente come la ricordavo.
“Sì. E tu sei Ethan” constato io con ovvietà, in tono sicuro.
In realtà sono molto più agitata di quanto do a vedere.
“Ti stanno bene i capelli di questo colore” biascica in tono piatto; è palese che non sa come portare avanti la conversazione, non sa che dirmi. Del resto non è mai stato un tipo loquace.
D’istinto mi porto una mano tra le ciocche lisce. “Ce li avevo blu anche nell’86, quando sono partita. Vedo che la memoria non è il tuo forte.”
“Certo, è talmente sbronzo che è già tanto se riesce ancora a parlare!” interviene Oliver.
“Fottiti” ribatte prontamente Ethan, prendendo poi un lungo sorso dalla sua bottiglia.
“Comunque,” mi si rivolge nuovamente il biondo, “come mai di nuovo a Los Angeles? Com’era l’Inghilterra?”
Mi stringo nelle spalle, come a voler liquidare l’argomento; Oliver è quasi un completo sconosciuto per me, di certo non mi confiderò con lui. “Londra è una città un po’ stronzetta: vuole farti credere di essere normale, ma a una seconda occhiata capisci che è solo una facciata. Comunque la mia giungla è qui, in California.”
“Ammettilo, ti mancavamo troppo” soffia Ethan strascicando le parole, e il suo alito pesante di whiskey mi accarezza la guancia.
Rabbrividisco appena, cercando di non darlo a vedere, e mi volto a osservarlo con le sopracciglia aggrottate; quelle non sembrano nemmeno parole sue. C’è qualcosa di veramente strano in lui: lo conosco abbastanza bene da sapere che regge molto bene l’alcol, quanto deve aver bevuto per ridursi così? Ricordo anche che detestava perdere eccessivamente il controllo su di sé, stava sempre attento a mantenere quel briciolo di lucidità necessaria a capire cosa stesse succedendo; in genere era lui a dover assistere Ives quando si sballava troppo e usciva fuori di testa.
“Cosa cazzo ti è successo, Ethan?” mormoro tra me, talmente piano che lui non sembra udirmi, mentre lo scruto bene in volto. Davanti a me non c’è più quel ragazzo sicuro di sé e in grado di trasmettere un senso di protezione con la sua sola presenza, ma c’è un giovane uomo dalle iridi tristi che implorano aiuto, e l’unico suo appiglio per non sprofondare è una bottiglia vuota per metà. Solo ora, leggendo quel viso contratto da chissà quale pesante preoccupazione, mi rendo conto che in sei anni è cambiato tutto.
“Ehi, Bess” mi richiama Jeff, riportandomi bruscamente alla realtà; il ragazzo sembra finalmente aver preso coraggio dopo aver ascoltato tutta la conversazione in silenzio. “Non hai ancora bevuto niente, vero? Possiamo offrirti qualcosa noi!”
“No, grazie, non serve” mi affretto a dire, poi mi volto nuovamente verso Ethan e con uno scatto fulmineo gli strappo la bottiglia dalle mani; lui cerca di opporre resistenza, ma è talmente intorpidito che molla subito la presa. “Almeno non lo bevi tutto da solo. Sei già abbastanza ubriaco così” affermo con un sorrisetto beffardo, prima di prendere un sorso di Jack Daniel’s.
Ethan aggrotta le sopracciglia scure e spesse, indurendo ancora di più i suoi lineamenti. “Sei rimasta la solita stronzetta, eh? Rendimi la bottiglia” sibila in tono ostile.
“Quanto sei egoista, non vuoi condividere niente con la tua vecchia amica?” lo punzecchio, ma in realtà sono preoccupata dalla sua reazione così irritata.
“Rendimela, cazzo” ripete, sollevando appena il tono della voce e muovendo un passo verso di me; siamo occhi dentro occhi, sento il suo fiato caldo sul viso e il suo odore forte e mascolino – credevo di essermelo dimenticato, invece è come se non fosse passato nemmeno un giorno – mi pizzica le narici.
“Altrimenti che mi fai?” lo sfido, portandomi la bottiglia dietro la schiena per impedirgli di arrivarci.
“Bess…” Mi afferra il braccio destro nel tentativo di raggiungere l’oggetto dei suoi desideri e mi strattona leggermente, ma contemporaneamente io mi volto per cercare di sfuggirgli e finisco con la schiena premuta contro il suo petto bollente e avverto il suo respiro tra i capelli.
Ma soprattutto col bacino premuto contro di me.
E sento il suo corpo reagire non appena entra in contatto col mio.
E mi rendo spaventosamente conto che, nonostante siano passati tanti anni, lo desidero esattamente come lui desidera me.
E mi sento nuovamente una dodicenne alle prime armi, che fingeva di essere tanto sicura di sé ma si scioglieva tra le mani del suo primo ragazzo.
Dura solo qualche istante, poi Ethan si stacca da me quasi disgustato – ha sempre detestato i contatti fisici troppo affettuosi e le effusioni – e, nello sciogliere il nostro strano abbraccio, mi sfila la bottiglia dalle dita ancora prima che io possa accorgermene.
“E che cazzo!” Mi volto per trucidarlo con lo sguardo e lo trovo che mi sorride sornione, con quell’espressione da ragazzino impertinente che mi ha sempre affascinato.
“Sono un ragazzo di strada, Bess. Sono un ladruncolo e in un modo o nell’altro riesco sempre a ottenere quello che voglio” afferma, prima di scolare il restante whiskey in una lunga sorsata.
Sbuffo, lancio un’occhiata a Oliver e Jeff – che hanno perso subito interesse per noi e hanno preso a parlottare tra loro – e torno a concentrarmi su Ethan. Per la prima volta da quando lo conosco non so bene cosa dire e ho l’impressione di avere a che fare con uno sconosciuto. O forse sono soltanto confusa perché ho appena realizzato che entrambi proviamo la stessa attrazione di dieci anni fa.
Tutto d’un tratto lo vedo poggiarsi pesantemente al bancone alle sue spalle e portarsi una mano alla tempia.
“Ethan?” lo richiamo, avvicinandomi e squadrandolo con attenzione: ha il volto arrossato e lo sguardo perso davanti a sé. “Ecco, lo sapevo che mandare giù tutto quel Jack in una volta ti avrebbe fatto male. Senti…” Mi mordo il labbro prima di continuare, non so se sia la cosa giusta da fare, ma ormai sono in ballo. “Come ci sei arrivato qui? Hai una macchina?”
“Non ho un cazzo.”
Bene. “Se mi dici dove abiti, posso accompagnarti io a casa.”
“Oh… fanculo.”
Sbuffo. “Benissimo, andiamo. Mi hai rovinato la serata, alla fine non ho nemmeno ordinato da bere” lo rimprovero in tono irritato, mentre gli afferro il polso per trascinarlo via – senza il supporto di qualcun altro, sembra totalmente incapace di muoversi.
Intercetto Oliver, che intanto si è avvicinato a un tavolino per chiacchierare con alcuni ragazzi, e gli faccio un cenno. “Beve sempre così tanto il tuo amico?” gli domando a gran voce.
Lui si stringe nelle spalle. “Certe volte è anche peggio. Dove lo porti?”
“A casa. Ma, dimmi una cosa…” Faccio una breve pausa, indecisa se porre quella domanda, poi prendo coraggio. “Dov’è finito Ives?”
Le iridi verdi di Oliver si rabbuiano improvvisamente, come se al loro interno si fosse scatenata una tempesta. “Ci si vede in giro, Bess” mi liquida in fretta lui, prima di distogliere lo sguardo.
Ahi.
Fuori fa un freddo pazzesco. Mi getto il cappotto sulle spalle, ma mi rendo conto che Ethan non ha appresso nessun indumento per coprirsi; eppure, nonostante indossi soltanto una maglia in cotone e un paio di jeans, non sembra particolarmente scosso dal gelo della notte, complice l’alcol che lo scalda dall’interno.
Ma, non appena ci ritroviamo sul marciapiede, il suo volto comincia a riacquistare un colorito normale e anche il suo sguardo torna a essere più lucido.
“Vivi sempre nell’appartamento a Laurel Canyon?” domando, mentre rovisto frettolosamente nella mia borsetta in cerca delle chiavi dell’auto.
Ethan sta in silenzio, sembra che si stia pian piano riprendendo e stia tornando alla realtà. Continua a tacere – ora sì che lo riconosco – finché non saliamo sulla mia auto, un pick-up scassato di seconda mano che ho preso non appena sono tornata a Los Angeles.
Metto in moto, accendo l’autoradio e mi volto verso Ethan: lo trovo rilassato sul sedile del passeggero, con quell’atteggiamento da padrone di casa che gli è sempre appartenuto e lo fa risultare così fuori luogo su questo catorcio piccolo e malconcio.
“Allora? Vivi ancora nell’appartamento con Ives?” incalzo nuovamente. Se non mi dà l’indirizzo, non lo posso accompagnare.
“No” ribatte bruscamente, poi mi comunica il nuovo domicilio.
Nell’abitacolo, come era prevedibile, cala il silenzio, reso meno pesante soltanto dalla musica in sottofondo. Mi concentro sulla guida – ancora devo ben abituarmi a pensare al contrario, dato che ho preso la patente in Inghilterra – e nel frattempo un milione di domande mi affollano la mente: vorrei sapere tante cose su Ethan, come mai ha cominciato a bere così, che fine ha fatto la sua band, come mai nessuno vuole parlare di Ives. E soprattutto mi domando in che modo si concluderà la nostra serata una volta giunti a destinazione, anche se forse la risposta è fin troppo ovvia.
Sento Ethan respirare piano al mio fianco, penserei che stia dormendo se ogni tanto non lo vedessi con la coda dell’occhio mentre sposta lo sguardo da me alla città che si srotola fuori dal finestrino. E vorrei tanto sapere cosa gli frulla in testa, vorrei che buttasse fuori tutto ciò che lo tormenta – da sempre, da quando lo conosco, da quando i suoi occhi erano troppo seri per essere quelli di un ragazzino di quattordici anni.
“Cosa cazzo stai combinando con tutto quell’alcol?” me ne esco infine. Ecco, ho cominciato con l’argomento peggiore tra tutti quelli che potevo scegliere.
“Lo bevo. In genere si fa così con le bevande alcoliche.”
“Che spiritoso.”
“Bess, non rompere il cazzo.”
Prendo un respiro profondo per calmarmi. “Quando sono partita eri diverso. Suonavi la chitarra, ti divertivi, sognavi… che fine hanno fatto gli Storm It Down?” domando, scandendo ogni parola – e sperando di aver azzeccato il nome della sua band, è passato così tanto tempo…
Mi fermo a un semaforo giusto in tempo per vedere Ethan ghignare appena e una scintilla attraversargli gli occhi, è qualcosa simile alla rabbia. “Gli Storm It Down” ripete, come se quelle tre parole gli fossero estranee. “La band è morta. Ives è morto, Bess. Overdose, 1989.”
E lo dice in una maniera così diretta, quasi distaccata, che è come ricevere tante pugnalate.
Ives è morto.
Il ragazzino dagli occhi blu, sempre sorridente, che aveva una buona parola per tutti.
Il migliore amico di Ethan.
Mi volto lentamente verso il ragazzo che sta alla mia destra, e chi se ne importa se il verde è scattato e gli autisti dietro di me suonano il clacson come ossessi. “È uno dei tuoi scherzi di cattivo gusto, vero?”
Ethan sostiene il mio sguardo, ma sembra non vedermi realmente. “È la verità. È la fottutissima verità. È morto, porca puttana.” E calca talmente tanto la mano su quelle parole, le mastica rabbiosamente e poi le sputa in una maniera che fa quasi paura.
Non vuole far trasparire nessuna emozione, perché preferirebbe morire a sua volta piuttosto che mostrarsi fragile, ma non mi sfugge la mano che stringe a pugno, abbandonata all’altezza del suo grembo.
“Cazzo” riesco soltanto a commentare, mentre torno a concentrarmi sulla guida – effettivamente sto ostruendo il traffico, se non mi sposto subito qualche autista scenderà dalla sua macchina per linciarmi.
Frugo nella mia mente in cerca di qualcosa da dire, ma ogni frase di circostanza mi sembra inadatta. Ives non era un conoscente qualsiasi per Ethan, non era nemmeno un semplice amico; loro due erano legati quasi come due anime gemelle, riuscivano a comunicare senza aprir bocca, si leggevano quasi nel pensiero. Condividevano il sogno di diventare musicisti famosi – anche quello per Ethan sembrava sfumato –, condividevano il futuro, i demoni, la casa, la vita.
Per lui, ci scommetto, Ethan si sarebbe anche gettato in mezzo alle fiamme.
E adesso si spiega tutto, si spiegano i suoi occhi spenti. Insieme ad Ives, è morta anche una parte di lui.
“Lo amavi tanto, vero?” spezzo il silenzio qualche minuto più tardi. Che domanda idiota.
“Ives è il mio fratellino” risponde lui senza esitare, nel tono più fermo e tranquillo del mondo.
Quel verbo al presente mi devasta.
“Posso fare qualcosa per te?” Altra domanda idiota.
“Puoi riportarlo in vita?” chiede ironico, ma il suo tono assume un’inflessione lugubre.
So benissimo che non posso aiutarlo in alcun modo, è distrutto e ogni particella del suo essere sembra gridare nessuno può salvarmi.
“Sai già la risposta” mormoro.
“Ma c’è un’altra cosa che puoi fare per me.” E, detto questo, mi posa con eloquenza una mano sul ginocchio.
E io mi sento di nuovo una ragazzina di  dodici anni alla sua prima volta.
 
 
Mi rigiro appena tra le lenzuola, mi stendo su un fianco e lo osservo mentre fuma una sigaretta affacciato alla finestra, il bagliore grigiastro di dicembre gli accarezza il viso bellissimo e provato, insieme all’aria gelida che si insinua nella stanza.
I capelli corti e scuri, divinamente scompigliati dalla notte appena trascorsa, accentuano ancora di più i suoi occhi grandi e profondi, il naso allungato, le labbra sottili ma piene.
Lascio scorrere lo sguardo sul suo fisico slanciato, dai muscoli ben definiti ma mai troppo imponenti, e mi chiedo come possa essere ancora così perfetto come lo ricordavo, dopo tutte le batoste che ha preso dalla vita. A vederlo così, con addosso soltanto un paio di boxer neri, mentre fuma lentamente e con movimenti misurati, pare che Ethan abbia l’intero mondo in pugno. Dà l’impressione di avere tutto sotto controllo, di poter uscire da questo squallido monolocale da un momento all’altro e spaccare tutto, ammaliare l’intero genere umano, uscirne vincente.
Ma, quando ieri notte ci siamo amati, io ho percepito tutta la sua fragilità mentre si aggrappava a me con forza, mentre mi faceva sua con prepotenza e disperazione, si impossessava di ogni centimetro del mio corpo minuto senza chiedere permesso e scusa. Non abbiamo fatto l’amore – nemmeno la prima e unica volta in cui siamo stati insieme l’abbiamo fatto – perché non siamo fatti per la dolcezza; mi ha scopato, mi ha preso con rabbia, e poi si è allontanato da me perché detesta le carezze e i gesti d’affetto.
A me va bene così, pure io volevo solo scopare. Ma la verità è che di Ethan mi importa più di quanto io stessa voglia ammettere e, quando l’ho visto rannicchiarsi su se stesso e seppellire il volto nel cuscino, avrei voluto accostarmi a lui e stringere quel corpo tremante e colmo di dolore, donargli un po’ di conforto, prendermene cura.
Un giorno gli chiederò perché detesta tanto essere abbracciato e coccolato, perché non ha mai concesso a nessuna ragazza qualcosa in più del semplice sesso.
Un giorno lo farò, ma non oggi.
Distolgo lo sguardo da lui e mi guardo attorno per la prima volta, dato che ieri notte nella foga del momento non me ne sono preoccupata. Il monolocale è piuttosto spoglio, fatta eccezione per un giradischi, uno stereo, qualche chitarra elettrica e acustica ammassata in un angolo e una mole impressionante di cassette, vinili, CD, libri e riviste. Tutto in questa stanza sembra parlare di Ethan.
Poi la mia attenzione viene attirata da una valigia aperta e piena per metà, abbandonata per terra accanto al comodino.
“Come mai la valigia?” domando, la voce ancora impastata dal sonno.
Ethan schiaccia il mozzicone sul davanzale, richiude la finestra e comincia a raccattare qualche oggetto sparso per la stanza. “Dopodomani parto.”
“Parti?” Mi metto a sedere sul materasso, facendo ben attenzione che le coperte non scivolino via dal mio corpo nudo. Fa un freddo impressionante, mi domando come faccia lui a stare tranquillamente svestito.
“Hai presente Davi, il mio fratello maggiore? Quello che spacciava.”
Annuisco: Davi era entrato in un giro importante prima che io mi trasferissi a Londra, aveva un sacco di soldi e pagava anche l’affitto dell’appartamento di Ethan.
“Qualche giorno fa l’hanno arrestato. È finita, siamo nella merda.” Getta un libro e qualche disco nella valigia, in mezzo ai vestiti spiegazzati che vi sono già, poi si lascia ricadere ai piedi del letto, attento a non incrociare il mio sguardo. “Mio fratello è stato chiaro: se l’avessero beccato, io sarei dovuto partire immediatamente e stare via dalla città almeno per un anno. Ha dei buoni contatti e riuscirà a coprirmi e cancellare ogni collegamento tra me e lui, ma nel frattempo è meglio che io me ne tenga alla larga. Mio fratello mi ha salvato il culo tante volte, per questo non mi ha mai voluto coinvolgere nei suoi giri.”
“Cazzo. Dove andrai?” gli domando.
“Dopodomani ho l’aereo per il Brasile. Torno a Bahia.”
Sgrano gli occhi. “In… Brasile? Ethan, tu non hai più niente lì! Dove vivrai, per strada?”
“Può essere. Cosa cambia?”
“Ma…”
“Mi stai davvero facendo la predica?” Ethan solleva lo sguardo di scatto e mi fissa con un’intensità nuova. “Bess, io per strada ci sono cresciuto. E poi che cos’ho da perdere?” Fa un ampio cenno con la mano all’ambiente circostante. “Cosa mi è rimasto qui? Probabilmente a mio fratello daranno l’ergastolo e non lo rivedrò né risentirò mai più, nessuno deve capire che ci conosciamo.”
Ci rifletto su un attimo e solo ora mi rendo conto della catastrofe che è la vita di questo ragazzo: il suo migliore amico se n’è andato per sempre, i suoi sogni si sono infranti e si è ritrovato senza un futuro, l’unico membro della sua famiglia che poteva aiutarlo è fuori gioco e di conseguenza tutti i fondi monetari gli sono stati tagliati, non può più vivere nella città in cui è cresciuto. Tanti piccoli macigni si sono accumulati sulle sue spalle fino a formare una valanga troppo grande, che ora lo sta schiacciando.
Adesso, mentre lo guardo, posso quasi percepire le sue spalle incurvarsi.
“Appunto, arriverai in Brasile a mani vuote. Come pensi di fare?” gli domando, seriamente preoccupata.
Lui scoppia a ridere, ma non c’è traccia di divertimento nella sua risata. “Non l’hai capito? Mi possono anche piantare un proiettile in testa a questo punto, non me ne fotte niente.”
“Ma non dire cazzate!” sbotto con rabbia. Mi viene voglia di pestarlo quando parla così. “Hai venticinque anni, la vita te la puoi ancora costruire. E sappiamo entrambi che ne sei in grado, sei sopravvissuto praticamente a qualsiasi stronzata che la vita ti ha proposto!”
“Che cazzo ne sai tu di me?” sibila e distoglie nuovamente lo sguardo, segno che ora si chiuderà nuovamente a riccio e non parlerà più dei fatti suoi. Mi devo già ritenere fortunata ad aver ascoltato queste sue confidenze.
Sospiro. “Hai ragione, non so niente di te. Ma promettimi che questa non è l’ultima volta che ti vedrò vivo.”
“Me la caverò. Come me la sono sempre cavata” conclude in tono piatto.
Se la caverà, da solo. Come se l’è sempre cavata, da solo. Perché è sempre stato così, non ha mai avuto nessuno a cui aggrapparsi, nessuno disposto a salvarlo: è sempre stato lui l’angelo custode dei più fragili, ma nessuno si domanda mai se pure agli angeli qualche volta si spezzano le ali.
Nessuno può salvarlo ora, nemmeno stavolta, e lui è troppo orgoglioso per chiedere aiuto. Nessuno può salvarlo, perché preferirebbe sprofondare nell’abisso piuttosto che ammettere di non farcela con le sue forze.
“Sei davvero un coglione, Ethan. Ti posso abbracciare?”
“No.”
Certo che no, sono soltanto una delle innumerevoli ragazze che si è portato a letto.
Lo osservo e mi lascio sfuggire un sorriso: anche lui per me è soltanto uno dei tanti. O meglio, lo sarebbe se non fosse così dannatamente diverso dal resto del mondo, così ricco di sfaccettature e misteri, così Ethan.
 
 
 
 
♠ ♠ ♠
 
 
Cari lettori della serie e non, sono felicissima di aver scritto la mia prima storia dal punto di vista di Bess! Chi segue assiduamente Needles e chi ha letto la mia ultima minilong, l’ha vista comparire come personaggio più o meno marginale ed effettivamente anche qui si muove in funzione di Ethan ^^ ma avremo modo più avanti di indagarla meglio – o più indietro, a seconda di come si evolverà la storyline XD
Qui troviamo un Ethan ancora distrutto dalla morte di Ives, la persona che ha amato come si può amare solo un fratello, e si è lasciato andare al degrado, non combinando niente nella sua vita e continuando a farsi mantenere dal fratello spiacciatore. Ma ormai la “pacchia” è finita e Davi è stato arrestato, quindi la vita di questo poveretto verrà stravolta di nuovo… non so voi, ma io sono molto preoccupata per il mio bimbo T.T
Per coloro che non conoscono la serie – giudice compresa – spero che la storia sia comunque comprensibile, ho cercato di dare il meglio di me nella caratterizzazione e di spiegare tutti i riferimenti!
Lascio giusto un paio di notine per rendere ancora più chiara la situazione ^^
Ethan dice di dover tornare in Brasile perché lui, come tutta la sua famiglia, è brasiliano ed è nato a Bahia; tuttavia è fuggito insieme a tre dei suoi fratelli (compreso Davi lo spacciatore) quando aveva solo cinque anni, per sfuggire da un padre violento e cercare un futuro migliore. È da allora che non ci torna, ma intanto non ha mantenuto i contatti con nessun dei suoi parenti che abitano in Brasile e non ha nessun punto di riferimento.
Per quanto riguarda la band, gli Storm It Down, è stata fondata da Ethan (chitarra) e Ives (basso); la formazione d’oro, attiva soprattutto nella prima metà degli anni Ottanta, comprendeva anche OIiver alla voce e Alick alla batteria ^^
Penso di aver detto tutto!
Ringrazio chiunque sia giunto in fondo e soprattutto ringrazio Artnifa per il bellissimo contest, che mi ha dato la possibilità di dar vita a questa storia! :3
Alla prossima!!! ♥
 
 
   
 
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