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Autore: Ryo13    31/08/2020    7 recensioni
Sono trascorsi quattro anni da quando Kaylee Turner ha dovuto vendere la sua anima per avere salva la vita: ha conquistato la sua fama di “regina nera” accanto a Rafail Kudryashov, tanto che è ritenuta un ostaggio di valore per Alioscia, membro della Belaya Smert, un’associazione segreta di assassini di cui anche Rafail fa parte: l’uomo desidera condurre un gioco di potere, ma nell'incursione viene catturato anche Sergej e ora i due dovranno liberarsi.
❈❈❈ Quarta classificata pari merito al contest “Immergersi nell’immaginazione” indetto da Artnifa sul forum di EFP❈❈❈
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo
- Questa storia fa parte della serie 'La regina nera'
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Prefazione

Sono trascorsi quattro anni da quando Kaylee Turner ha dovuto vendere la sua anima per avere salva la vita: ha conquistato la sua fama di “regina nera” accanto a Rafail Kudryashov, tanto che è ritenuta un ostaggio di valore per Alioscia, membro della Belaya Smert, un’associazione segreta di assassini di cui anche Rafail fa parte: l’uomo desidera condurre un gioco di potere, ma nell’incursione viene catturato anche Sergej. 

 

La promessa che ti ho fatto

La noia mi stava uccidendo. Non riuscivo a spiegarmi come fossi finito a questo galà, a sorbirmi inutili discorsi politici o a guardare strascichi d’abito senza numero girarmi intorno, quando avrei potuto essere al poligono di tiro con Alek, o a farmi una sana scopata. 
C’era gente di ogni tipo, ma in fondo tutta uguale: pronta a sfoggiare la propria ricchezza e a mostrarsi degna di quella classe sociale a cui si accedeva solo tramite il portafogli: era un iter assodato che donne bellissime accompagnassero partner meno avvenenti a party di questo genere. Nulla di nuovo, solita solfa.
«Sergej!» Una pacca sulla spalla distolse la mia attenzione dalla sala da ballo.
«Sasha», salutai, lanciandole un’occhiata. «Non sapevo che partecipassi.»
La donna sorrise, piegando il collo in modo vezzoso. La sua mano risalì verso la mia faccia e poggiò un un'unghia laccata vicino all’orecchio. «È insolito vedere te, a questi incontri. Non sono mai stati il tuo elemento.»
«No, infatti.»
Ritirò la mano, impassibile davanti alla mia reticenza. Si accomodò al mio fianco. 
«Ryumka vodki1», ordinò al barista. Prese il bicchiere con due dita e lo portò lentamente alle labbra, assaporando l’alcol. «Immagino tu sia qui per lei.»
Lei. Ovviamente. Altrimenti per quale motivo avrei dovuto sprecare il mio tempo? 
Non dissi niente e lei rise. «Guarda», puntò il dito in direzione della pista. «Non è Roman Koval quello? A quanto pare, ha preso un altro ricco pesce al suo amo…»
Non mi voltai, non occorreva che guardassi. Avevo già trascorso l’ultima ora a vederla danzare con un politico e poi con un altro: l’ultimo a chiedere un giro era stato proprio Koval, un rampollo dell’industria del metallo che aveva saputo rinnovarsi nel suo settore dopo la caduta dell’Unione Sovietica.
Non era necessario scrutarla in viso per sapere che avrebbe rivolto a chicchessia la medesima espressione: impassibile e lievemente sorridente, non di quel sorriso che arriva agli occhi. No, i suoi occhi non erano decisamente fatti per sorridere. Tutt’altro: erano pozzi scuri in grado di inghiottire l’anima di un uomo, stuzzicandolo a morte con la curiosità di scoprire i segreti che celavano.
«Non ho incontrato Rafail e visto che ci sei tu, dubito che lui sia venuto. Quindi come mai è alla festa?»
Sollevai un sopracciglio. «Pensi che se ne vada in giro solo al fianco di Rafail?»
«Beh, non è al tuo», soffiò, arricciando le labbra. «E comunque avrei detto di sì.»
«Come vedi, ti sbagli.» Purtroppo. Infatti aveva insistito per partecipare al party anche se per mio cugino era sorto un altro impegno. 
E io ero finito incastrato. Con lei.
«Forse la sua fama di ‘regina’ non è gonfiata come pensavo.» Sasha si teneva il volto tra le mani, i gomiti poggiati sul bancone di marmo. «Pensavo fosse Rafail a tirarle fuori quell’aura da regina delle nevi, ma vedo che la sfoggia con naturalezza anche a centinaia di chilometri da Mosca. Nemmeno gli uomini ucraini ne sono immuni.»
Sbuffai. «Sanno chi è e cosa rappresenti per Rafail. Dubito che senza il loro legame la degnerebbero di una seconda occhiata.»
«Ahi, ahi», ridacchiò. «Non pensi di essere un giudice troppo severo, Sergej? In fondo non è priva di fascino.»
Era il suo fascino a essere pericoloso, appunto. Ma non dissi neanche questo: sarebbe stato da idioti esporre i miei pensieri.
Lo schermo del cellulare si illuminò. Lessi il messaggio.
«Devo andare.» Afferrai la giacca dal bordo della sedia, sollevato di avere finalmente una scusa per porre fine alla serata. «Trascorri una bella nottata.»
«Anche tu, Sergej.» Sollevò il secondo bicchierino di vodka. «Anche tu.»
La sala era gremita di gente, ma adocchiai l’obiettivo come se non l’avessi mai perso di vista: Koval le stava offrendo da bere. Una mano pallida avvolse il lungo bicchiere dal corto stelo, portandolo alla bocca dopo un cenno cortese.
«Potrei invitarti a fare un giro della galleria, da quella parte?» La voce di Koval era bassa e nascondeva una nota intensa.
Non la stava guardando in faccia, ma più in basso, verso il collo sottile, dove risplendeva un piccolo diamante adagiato nel solco tra le clavicole. Il gioiello era un regalo di Rafail, come del resto ogni cosa che possedeva, compreso il vestito di quella sera: pur avendo un taglio semplice, catturava lo sguardo della gente con lo splendore del tessuto che a ogni movimento rifletteva la luce in un milione di piccoli lampi2
«Temo che la regina debba venir via con me», dissi senza lasciare la possibilità alla ragazza di rispondere.
Koval contrasse il viso in una smorfia di disappunto. Si ricompose quando si accorse di chi fossi.
«Sergej», salutò. «Non pensavo di trovare anche te.»
«Roman. A quanto pare nessuno si aspettava di vedermi.»
Tirai la mano fuori dalla tasca per posarla sulla schiena della ragazza. «Kaylee, dobbiamo andare.»
Ed eccola puntarmi coi suoi occhi nocciola: Kaylee Turner, la mia spina nel fianco. 
Non sembrava propensa a seguirmi, ma non avevo intenzione di scoprire se mi stesse ignorando di proposito oppure no. Recuperai il bicchiere e lo porsi a Koval che lo afferrò di riflesso. «Sii gentile e occupati di questo. Noi andiamo. Ci si vede, Roman.» 
Afferrai Kaylee per un braccio e la spinsi in direzione dell’uscita, senza dedicare un altro pensiero all’uomo.
Kaylee mi toccò la mano e cercò di sottrarsi alla presa. «Non occorre che tu sia così rude. Posso camminare benissimo da sola.»
«Ma certo. Ciò che metto in dubbio è se tu sia in grado di seguirmi senza fare storie.» Strinsi le dita come avvertimento prima di lasciarla andare.
«Non è un po’ presto per rientrare? Siamo qui solo da due ore…
«E sono sufficienti.» Misi le mani sui fianchi. «Rafail mi ha scritto di tornare. Vuoi ancora lamentarti?»
Corrugò la fronte. 
Nessuno dei due avrebbe aggiunto altro.
«Bene», proruppe dopo un lungo minuto. «Torniamo.» 
Marciò verso l’uscita. 
La lasciai andare e mi avvicinai al bancone del deposito abiti per recuperare i nostri cappotti. Nel tempo che ci impiegarono gli addetti, era sparita. Mi costrinse a correre.
Camminava sul marciapiede nella direzione sbagliata. 
«Dove pensi di andare?!» gridai afferrandola.
Lei si voltò, scippò l’indumento dalla mia stretta e lo indossò impassibile, obbligandomi a mollarla. 
«In albergo. Dove, sennò?»
«La macchina si trova dalla parte opposta.» Scossi la testa e serrai gli occhi. “Calma, Sergej, cerca solo di farla ragionare senza scadere nelle solite discussioni”.
«Ho voglia di passeggiare», disse. «Non siamo poi così lontani, no? Si tratta di un paio di isolati.»
Passai le mani tra i capelli. «Perché con te ogni cosa deve essere difficile?!»
Mi lanciò un’occhiata sopra la spalla. «Forse sei tu che la fai più difficile di quel che è. Ho voglia di camminare e cammino: qual è il problema?»
Mi avvicinai di un passo. «Il punto che ti sfugge è che non possiamo rimanere scoperti!» Guardai in tutte le direzioni, prima di proseguire. «Non ho una bella sensazione. Rafail mi ha scritto di rientrare, ma non ha spiegato altro. Conosco mio cugino: qualcosa bolle in pentola, altrimenti dubito si sarebbe preoccupato dell’orario del nostro rientro.»
«Ma se è un maniaco del controllo…» le sfuggì dalle labbra.
Mi si contrasse un angolo della bocca. Cosa diamine facevo? Era un sorriso, quello?
Tornai subito serio e corrugai la fronte. «Hai ragione, ma ha motivo di esserlo. Ti sarai accorta che in questi anni la sua efficienza ci ha salvato da situazioni critiche più di una volta.»
«…» 
Puntò gli occhi a terra, poi li sollevò verso di me. 
La luce di un lampione creava uno strano chiaro-scuro sul suo volto dai tratti delicati. Era truccata, ma leggermente. Le ciglia finissime e bionde quasi non si sarebbero viste se non fossero state messe in risalto dal mascara. Era così vicina che vedevo le efelidi sul naso e sulla cima delle guance. Le labbra erano di un rosa pallido e tremarono leggermente.
«Hai motivo di credere che siamo in pericolo?»
Eccola lì: una traccia di vulnerabilità. Così rara da scorgere in mezzo a una volontà granitica, sproporzionata rispetto alle ristrette dimensioni del suo corpo.
Persi la voglia di essere crudele e di infierire. Abbassai il tono della voce, senza toccarla.
«Non lo so, può darsi», mormorai.
Distolsi lo sguardo per scrutare un’altra volta la strada. «Comunque è meglio non rimanere all’aperto. Torniamo in macchina.»
Assentì e si voltò indietro.
Inalai il sentore del suo profumo: fresia e gelsomino; rabbrividii, smarrendomi nei miei stessi pensieri.
Una Mercedes sfrecciò sull'asfalto, seguita da un furgoncino dai vetri oscurati.
Mi tesi, portando la mano alla fondina dietro la schiena.
Ci si accostarono all'improvviso, sgommando di lato. Lo sportello si spalancò e un uomo vestito di nero afferrò Kaylee per i fianchi.
Estrassi la pistola, ma il rapitore usò la ragazza come scudo.
L'altro uomo puntò un’arma nella mia direzione e ci immobilizzammo.
«Lasciatela andare immediatamente!» tuonai.
«Davay, zakhod3!» disse l’uomo alla guida. 
Kaylee venne gettata dentro il furgone, dove salì anche il rapitore. 
Feci fuoco, piegandomi a terra.
Il fischio di un proiettile passò sopra la mia testa; un secondo colpo mi beccò al braccio. Ignorando il dolore, mi alzai sulle ginocchia per aggredire il lato del guidatore fino a che il click della pistola risuonò un paio di volte: era scarica.
«Chert4!» borbottai.
Abbandonai l’arma ormai inutile e corsi verso il veicolo in movimento. Con un salto mi appesi alla struttura metallica dell'auto carico: l’adrenalina, per fortuna, sostenne il mio assalto, tanto che non sentii bruciare la ferita, ma sapevo che prima o poi avrebbe dolorosamente pulsato.
C'era del trambusto all’interno: la gattina doveva avere sfoderato gli artigli perché l’uomo urlò in ucraino; i rumori della colluttazione coprirono i miei spostamenti sul tetto.
Guidarono per circa venti minuti, restando nel centro di Kiev. Superata una zona residenziale, entrarono in un parcheggio sotterraneo. 
“Dove cazzo la vogliono portare? Chi è il mandante del fottuto rapimento?!” 
Anche se delle risposte mi avrebbero fatto comodo, non  mi conveniva tergiversare.
Si fermarono e scesero dall’auto: uno di loro continuava a trattenere Kaylee; le aveva messo una fascetta stringicavo ai polsi e del nastro adesivo sulla bocca. 
Kaylee sfoggiava un livido sullo zigomo, ma se quello fosse stato l’unico danno, non c’era da lamentarsi. Pure così legata non gliela rendeva semplice: si agitava a ogni passo, fulminandoli.
Con me e Rafail si era sempre mostrata impassibile ai limiti dell’assurdo: qualsiasi cosa le facessimo, o la minacciassimo di fare, si limitava a scrutarci in attesa della nostra mossa.
Camminavano verso gli ascensori interni per raggiungere un posto dove probabilmente avevano rinforzi.
“Adesso o mai più”, mi dissi.
Scivolando giù dal tettuccio, mi acquattai sul fianco di un’auto.
Corsi alle spalle del guidatore, che era armato di un M4 Mk18, e riuscii a colpirlo alla tempia prima che si voltasse: non crollò, ma non fu in grado nemmeno di puntare l’arma. Gliela strappai di mano, mollandogli una pedata alle ginocchia.
Impugnai il calcio e feci fuoco.
Il corpo dell’uomo sussultò per l’impatto, poi giacque inerte.
L'altro uomo stava gridando l’allarme da una ricetrasmittente attaccata al maglione. Con un braccio tratteneva Kaylee al collo, puntandole la pistola sotto il mento.
«Lasciala andare o ti sparo lo stesso.»
Rise. «Non lo faresti. È l'amante di Rafail.»
«Tochno5! Mica la mia… Rafail se ne troverà un’altra.»
Perse l’ilarità e corrugò la fronte.
Kaylee, invece, non batté ciglio: ansimava respirando con difficoltà attraverso il nastro. Stava aggrappata al braccio dell’uomo per impedirgli di soffocarla.
«Mi credi uno stupido?! Perché l’avresti seguita fino a qui se non ti importava di lei?»
Scrollai le spalle e tesi le labbra in un sorrisetto di scherno. «Mi annoiavo.»
Quando aprì bocca, lo centrai alla fronte.
La mano si contrasse in uno spasmo, sparando un colpo che mancò Kaylee per un soffio.
Avendo previsto la mia mossa, si era lasciata cadere per togliersi dalla traiettoria.
Mi piegai sul corpo riverso ai miei piedi e gli frugai nelle tasche, recuperando le chiavi del furgone e un coltello.
«L’avevi visto arrivare?»
Kaylee si tirò su a sedere, si strappò lo scotch dalla faccia e allungò le braccia. 
Recisi il cavo con un taglio netto. 
«Avevi quello stupido sorrisetto…» borbottò, sfregandosi i polsi. Parte dei capelli e del cappotto si erano sporcati di sangue. 
L'aiutai a mettersi in piedi.
«Dobbiamo scappare,  temo proprio che ne stiano per arrivare degli altri.»
Le agitai le chiavi davanti al viso. «Perché credi che le abbia prese? Muoviti!»
Corremmo fino all'auto e ci sistemammo dentro. 
Quando misi in moto, si spalancò la porta delle scale ed entrarono quattro uomini. Cominciarono subito a sparare.
«Stai giù!» gridai.
Pigiai sull'acceleratore, percorrendo una decina di metri. Il parcheggio rimbombò di esplosioni metalliche.
Le ruote sbandarono, persi il controllo del volante: le avevano bucate.
L’impatto col pilastro non lo vidi neanche arrivare: sbalzai avanti e indietro. Kaylee gridò, afferrandomi la spalla ferita.
Ci fu un silenzio concitato e mezzo minuto dopo ci circondarono. 
«Lee, stai bene?»
Strinse la presa sul cappotto. «Sì.»
«Sono troppi», dissi. «E noi abbiamo solo un’arma. Dobbiamo seguirli.»
Allungai una mano per afferrarle il mento. «Non è una situazione ideale, ma non credo che ti vogliano morta, altrimenti già lo saresti.»
«E a te cosa faranno? Hanno già provato a colpirti…»
«Stiamo per scoprirlo, suppongo.»
Sollevai le braccia per farmi vedere dal finestrino. Aprii lentamente lo sportello e scesi dall’auto.
«In ginocchio!» gridò uno di loro.
Feci come dissero, le mani dietro la testa.

Un paio di loro si avvicinarono ad armi spianate: mi perquisirono, svuotando le tasche. Un altro recuperò Kaylee e la trattenne.
Mi bloccarono i polsi dietro la schiena con le manette, poi mi strattonarono in piedi.
«Che ne facciamo di lui?» domandò in ucraino l'uomo alla mia sinistra: conoscevo abbastanza la lingua da comprendere lo scambio.
«Alioscia lo reclama.»
“Cazzo, è Ali!” Mi si ghiacciò il sangue nelle vene, ma mi sforzai di non darlo a vedere.
Anche se Kaylee non parlava ucraino, udendo il nome, gemette.
«Portateli dentro», comandò il quarto uomo, quello che doveva essere il loro capo. «Siamo già abbastanza in ritardo.»

♛♚♛
 

Non mi aspettavo di finire negli uffici della Feniks Pharmaceutical, come appresi dalle insegne alle pareti: la struttura era deserta, salvo il gruppo di mercenari che la occupava. 
Avevamo attraversato un corridoio pieno di porte con segnali di allerta e divieto di eccesso: dovevano essere i laboratori. 
I nostri rapitori ci guidarono più avanti, verso un gruppo di uffici con scrivanie ammassate in un open space e poi dentro una stanza più elegante, che recava una targa con su scritto ‘direttore’.
Qualcuno domandò di Alioscia; gli risposero che sarebbe arrivato a momenti. 
Un paio di loro mi si avventarono contro a sorpresa, pestandomi fino a farmi sputare sangue.
Mi piegai sul pavimento per ripararmi dai colpi e proteggere i punti vitali: avrei dovuto serbare le forze per la successiva occasione. 
Quello che avevo individuato come il capo diede l’ordine di smettere; mi lasciarono ansimante per terra, a recuperare fiato. 
Quando la testa smise di girare e il sangue di rombarmi nelle orecchie, azzardai un’occhiata per studiare la situazione: Kaylee non aveva più opposto resistenza e non l’avevano legata. Era seduta su un basso divanetto di pelle scura con le mani sulle ginocchia; il viso pallido era puntato sull’uomo che torreggiava sopra di lei. Percepì un mio movimento e abbassò lo sguardo: mi parve di scorgere sollievo, ma non potevo esserne certo. 
Il nostro antagonismo durava da sempre e io facevo di tutto per esasperarla. Mi rispondeva col silenzio oppure con gelide parole. Dato che non poteva prevedere il mio comportamento, mi evitava: le piaceva avere tutto sotto controllo. 
Kaylee si alzò e tentò di fare un passo in avanti, ma l’uomo le diede una spinta per rimetterla al suo posto.
«Volevo solo sgranchirmi le gambe.»
«Lascia pure che si muova, Andy», si intromise una voce dal vano aperto della porta. «Non farà nulla di male.»
Alioscia comparve come il cattivo in una storia: le mani in tasca, il passo ondeggiante e un ghigno sulla faccia; padrone del suo piccolo universo in cui ci teneva in pugno.
«Signorina Turner», la salutò gioviale. «Mi fa piacere averla finalmente a mia disposizione.»
Le si avvicinò fino a trovarsi a un passo di distanza. 
«Devo scusarmi per i modi rozzi dei miei uomini», fece un cenno al livido. «Sono certo che non avranno trasgredito volutamente al mio ordine di non farle del male. Sarà stato un fraintendimento. Può perdonarli?»
Kaylee indossò la consueta maschera di cortesia. «Nessun problema, signor Mazur.» 
«Chiamami Ali, anche io userò il tuo nome. Possiamo smettere con le formalità… le cose tra di noi stanno per cambiare.»
«Ali», si mostrò compiacente. «Come cambieranno, se posso chiedere?»
L’uomo rise e fece qualche passo indietro. 
«Oh, c’è tempo per discutere di affari, Kaylee. Perché non ci rilassiamo con un drink? Posso offrirti qualcosa?» Nell’angolo vicino alla scrivania c’era un carrello in ferro e metallo sul quale erano disposti diversi tipi di alcolici.
«Sto bene così, grazie.»
Versò comunque tre dita di whisky in due bicchieri, porgendole il secondo: «Bevi».
Kaylee lanciò un'occhiata a lui e al bicchiere alternativamente. Alla fine tese una mano, accettando l’offerta: inalò l’aroma e bevve. Sorseggiò con calma, senza scomporsi.
Alioscia sorrise e si girò nella mia direzione. 
«Sergej, vorrei dire che è una sorpresa vederti, ma contavo proprio sul fatto che la tua testardaggine ti trascinasse ai miei piedi. Hai risparmiato ai miei uomini la fatica di rapirti.»
«Ma certo… sono sicuro che per alcuni di loro non sia stato affatto gravoso rimanerci secchi.» 
Sputai un grumo di sangue sul tappeto.
«Non sarebbe stato da te se non ne avessi ammazzati almeno un paio.»
Scrollai le spalle, ignorando le fitte del corpo. «Sapevi quando beccarci.» Le tempistiche erano sospette. «Chi avevi all’interno?»
«Non lo sospetti?»
Sasha. L’ultima persona con cui avevo parlato: sapeva che stavamo andando via improvvisamente.
Kaylee nel frattempo aveva fatto un giro dell’ufficio, osservando ogni superficie o suppellettile e reggendo il bicchiere non ancora vuoto. Arrivò alla scrivania a piccoli passi; abbandonò il drink in un angolo, carezzò con le dita la superficie di legno e si issò a sedere su di essa, con un balzo.
«Suppongo che il motivo per cui mi trovi qua sia Rafail», si intromise. «Dicevi di avere con lui un conto in sospeso. Posso sapere cosa io c’entri in tutto questo?»
Alioscia ingollò l’ultimo sorso di whisky e sbatté il bicchiere sul tavolino. La raggiunse, guardando da vicino il suo vestito e toccandolo: percorse le pieghe con dita leggere. 
«Hai fatto parecchia strada per una ragazzina dei bassifondi di Detroit.» Piegò le labbra in una leggera smorfia. «È bastata una piccola ricerca per scoprire che eri la figliastra di quel tale, Ian Parker. Si mormora che ti abbiano ucciso il patrigno davanti agli occhi, eppure eccoti qui: al fianco di Rafail, il suo assassino. 
«Molti pensavano che avresti approfittato della prima occasione per pugnalarlo alle spalle, invece lui ti ha preso sotto la sua ala e tu sei diventata un elemento inusuale del suo arsenale.»
Kaylee scrollò il capo, inclinandosi sulla spalla in modo seducente. «Ian era un pezzo di merda.»
Alioscia scoppiò in una risata rauca.
«Immagino che non siano le uniche voci che hai sentito…»
«No, infatti.» Afferrò tra il pollice e l'indice l’anello che portava, quello regalatole da mio cugino, e carezzò le teste dei re e delle regine di scacchi di cui era composta la fascia in metallo. 
«Si dice che tra di voi ci sia un patto.» Kaylee sfilò la mano dalla sua presa. Si puntellò sul tavolo, piegandosi indietro. «Si dice… che sia per questo che ti chiama la sua “regina nera”.»
«Che cosa vuoi da me, Ali?» il tono della ragazza mutò impercettibilmente.
L’uomo schioccò la lingua e stirò le labbra in un sorriso di disprezzo. 
«Voglio verificare se per Rafail tu sia davvero così importante. Forse voglio solo vincere un gioco di potere contro di lui. 
«Le regole della Belaya Smert non permettono di ammazzarci tra di noi: questo può diventare snervante… una volta, lo spirito di questa compagnia era diverso», si lamentò.
«I tuoi uomini hanno provato ad ammazzare Sergej, però.»
Alioscia si piegò su di lei e sussurrò: «Oh, no. Se fosse successo, sarebbe stato di sicuro un incidente, ne sono certo».
Gli indirizzai un verso di beffa; Alioscia rise apertamente.
Kaylee portò una mano al collo, giocò col pendente e passò un dito sul filo interno della collana, avanti e indietro. «Potremmo fare anche noi un patto.»
La guardai incuriosito: sembrava fin troppo tranquilla, a mio parere. 
Un dubbio si insinuò nella mia mente: che fosse finalmente disposta a tradirci? Del resto, si trovava quasi esattamente nella stessa situazione di quattro anni prima, quando si era venduta a Rafail: vulnerabile e nelle mani di un uomo che poteva distruggerla.
Aveva sempre lottato per sopravvivere e non c’era nulla che mettesse al di sopra della propria vita. Inoltre, bisognava riconoscerlo: aveva un dono veramente raro nel preservarla.
Temeva forse che questa sarebbe stata la sua fine?
«Hai tutta la mia attenzione, piccola», tubò Alioscia.
«Il patto con Rafail era semplice», disse lei. «La mia fedeltà a lui in cambio di potere e agiatezza. Doveva impedire che facessero di me una puttana.»
«Tutto qui?» Spostò il peso del corpo per fissarla da una certa distanza. «Mi sorprende che Rafail si sia fatto tentare da un beneficio… inesistente.» 
Passò al vaglio il suo corpo con una smorfia, come fosse una merce. «Di certo non vedo alcun motivo per cui io dovrei accettare!» 
L’afferrò per i capelli e per il collo, piegandola di lato, infliggendole intenzionalmente dolore. 
Kaylee agguantò il suo pugno e soffocò un gemito; le si inumidirono gli occhi.
«Pensi forse che sia uno stupido?!» La strattonò con forza. «Che mi lasci irretire dai tuoi tranelli? A me non importa niente di te! Sei solo uno strumento nella mia partita contro Rafail! Credi che voglia sottrarti a lui per regalarti una libertà di cui già godi impunemente?»
Strinse la mano fino a quando le sue guance si colorirono di una sfumatura violacea. 
«No. Adesso ti dico quello che faremo: tu mi obbedirai. E non pretenderai nessuna ricompensa per fare ciò a cui sei obbligata dalla mia forza.»
La liberò con una spinta. 
Kaylee crollò su un fianco, le mani alla gola; respirava e tossiva affannosamente. 
«Ho sentito anche che Rafail non ti divide con nessuno.» Mi gettò un’occhiata da sopra la spalla. «Nemmeno col cuginetto.»
Catturò una ciocca dei capelli sciolti e gliela sistemò dietro l’orecchio. «Ehi, Kaylee…» soffiò, «io lo vedo come ti guarda.»
Si sollevò, dandole le spalle.
«Una puttana è una puttana, Sergej. Spero che questo ti ripaghi per l’accidentale pestaggio e saldi qualsiasi debito.»
«Fatelo sedere», comandò ai suoi uomini. Quelli mi misero in piedi, gettandomi sopra una poltrona.
Costrinse la ragazza ad alzarsi, anche se aveva le gambe malferme, e la spinse verso di me. «Ora fa’ la brava e fallo divertire.» Si mise a braccia conserte. «Se non farai un buon lavoro, te ne farò pentire.»
Le spalle di Kaylee tremavano. Si raddrizzò e mi venne incontro a piccoli passi, l'espressione decisa. Si asciugò una lacrima con il polso, avanzando fino ad attaccare le sue ginocchia alle mie. Sollevò la gonna con una carezza delicata — sensuale — e salì a cavalcioni sulle mie gambe. Scivolò avanti, fino a creare un contatto; le punte dei suoi capelli mi pizzicavano la guancia e il mento. 
Respirò su di me, sulla mia bocca. Le sue mani salirono dal petto, sfiorarono le spalle, si misero ai lati del viso e mi ghermirono con una forza sorprendente. 
«Che stai facendo?» gracchiai.
Non avrei dovuto, ma la desideravo con tutto me stesso: volevo il sapore della sua bocca nella mia, il tocco delle sue dita tra i miei capelli, il peso del suo corpo su di me. 
Avevo passato troppo tempo a negare quel desiderio. Apparteneva al mio sadico cugino: toccarla significava sfidarlo. 
Il giorno che ci incontrammo le promisi che sarebbe stata mia: nei successivi quattro anni questo proposito non era mai venuto meno; avevo però dubitato di poterlo realizzare. 
Non sarebbe stata una vittoria perché si trattava di una costrizione, ma non mi importava: mi veniva data una scusa per soddisfare la mia sete. 
Kaylee premette la bocca sulla mia, socchiudendola appena. All’angolo delle labbra assaporai un umidore salato: una lacrima. 
Saggiò con cautela ogni angolo, succhiando. Ne volevo ancora e spalancai la bocca: la sua lingua toccò piano la mia, prima di ritirarsi. Sussultai, sfregandomi su di lei, e Kaylee rispose approfondendo il contatto. 
Strattonai le braccia: avrei voluto circondarle la schiena, temevo si ritraesse. Non lo fece. Al contrario si appoggiò a me e ondeggiò i fianchi. 
Pulsavo in modo imbarazzante, soprattutto considerata la presenza del pubblico che schiamazzava intorno.
Kaylee si strofinò sulla mia guancia. «Tra i seni», bisbigliò, mascherando le parole con un gemito. Si sollevò sulle ginocchia, avvicinando la mia testa al petto. 
Baciai la sua morbida pelle, posando la bocca sulle curve appena accennate. 
Sul margine del vestito, infilato in una piega, trovai un oggetto metallico: lo presi tra i denti, tirandolo piano; lo rigirai dentro la guancia: era una graffetta.
“Piccola strega! Dove diamine l’ha trovata?”
Si tirò indietro e mi spinse la punta di un dito in bocca. «Succhia.»
Un fischio di apprezzamento si levò nella stanza.
Kaylee recuperò la graffetta, chiudendola nel pugno: percorse una scia dalla mia bocca al braccio, graffiandomi; mi afferrò le mani legate mentre si muoveva contro di me e la nascose nel mio palmo. 
Era decisamente un’ottima attrice, ma il gemito che mi sfuggì era reale.
Quando pensai che non potesse spingersi oltre, sentii la sua mano sul mio uccello. «Blyad6!» sputai. «Che cazzo fai?» 
Sfregò la patta dei pantaloni e mi fece scivolare tra le cosce un’altra arma.
«Basta così, ragazza», si intromise Alioscia. Posò una mano sul suo capo ed ebbe un sussulto; si immobilizzò. «Credo si sia divertito abbastanza.»
Kaylee scese dal mio grembo, lasciandomi esposto: se qualcuno avesse dato un’occhiata non avrebbe notato altro che un’erezione. 
Per un pezzo si avvicendarono fischi e battute salaci.
Alioscia congedò gli uomini, mandandoli a compiti diversi e lasciandone solo un paio a sorvegliarmi. Trascinò Kaylee verso la porta. 
Prima di lasciare l’ufficio, lei si voltò e mi fissò con intento: “Se mi lasci in balia di questo stronzo, sei morto”. Non avrebbe potuto essere più chiara.
Feci un cenno: mi ero già liberato dalle manette.
Raddrizzò la schiena come una regina e seguì il suo rapitore al di là dell’uscio.
Le guardie si distrassero subito, conversando tra loro. L’oggetto che avevo nascosto sotto la gamba era di metallo sottile ma pesante: un aprilettere. 
Bene, sarebbe tornato utile.
«Ehi, uno di voi due potrebbe venire qui e liberarmi le mani? Ho un certo fastidio al cavallo dei pantaloni.»
Mi guardarono divertiti dalla mia frustrazione.
«O magari potreste finire il lavoro… a me non importerebbe se una di voi due checche volesse farmi una sega.»
«Bud tykhoyu7!» sbraitò il tizio più vicino. 
Tentò di colpirmi col calcio dell’M16, ma lo schivai buttandomi di lato. Sfruttai la spinta e l’effetto sorpresa per afferrarlo e sbilanciarlo: atterrò sotto di me sul pavimento; con un colpo deciso gli affondai la lama nel collo, impadronendomi dell’arma.
L’altra guardia si trovò spiazzata: la freddai col fucile su cui, per fortuna, era montato un silenziatore.
Feci un check up veloce, recuperando un paio di caricatori e una ricetrasmittente dai cadaveri: spogliai uno di loro del giubbotto antiproiettile in kevlar, in cui sistemai le altre armi. 
Nessun rumore. Socchiusi la porta per scrutare il corridoio: libero.
Non avevo una piantina dell’edificio, il che mi lasciava con la spiacevole necessità di dovermi muovere alla cieca. Agli assalti a cui partecipavo andavo preparato e armato di tutto punto, ma questa volta mi sarei dovuto arrangiare.
Individuare gli altri fu questione di minuti: si trovavano nella zona degli uffici, dove gli spazi erano divisi da grandi vetrate e si vedeva tutto. 
Parlavano tra loro e facevano uno spuntino: erano totalmente rilassati. Non si aspettavano guai dal sottoscritto.
In un’altra circostanza mi sarei gettato nella mischia, sfidando quella marmaglia: sarebbe stato un gesto di provocazione, una sconfitta più cocente; e mi attraeva anche l’adrenalina. Ma pensavo allo sguardo di Kaylee, alle sue spalle dritte mentre seguiva Alioscia. 
Così li aggirai, nascondendomi dietro i pilastri. Raggiunsi la parte opposta, da cui eravamo venuti. Dietro l’angolo c’era una zona rinfresco: sfoggiava divanetti colorati e piante da salotto.
Udii Alioscia discutere al telefono in un dialetto troppo stretto perché riuscissi a comprenderlo.
Chiuse la comunicazione, masticando una bestemmia. «Resta e tienila d’occhio. Rafail sta creando qualche problema», disse a chi si trovava al suo fianco.
Mi nascosi in fretta in uno dei laboratori.
Alioscia attraversò il corridoio, scomparendo oltre il disimpegno.
Non avrei avuto problemi a togliere l’ostacolo di mezzo: era totalmente esposto agli attacchi provenienti dal corridoio.
Con una raffica di colpi cadde a ridosso del muro e scivolò a terra. Lo finii sparandogli in testa.
Kaylee aprì la porta e fissò la guardia morta. 
«Andiamo», disse. Era fredda e focalizzata, come se avesse previsto tutto. 
Ripensai alla graffetta, all’aprilettere, a come aveva sfruttato al meglio la nostra unica occasione di contatto: mi aveva fornito un modo per liberarmi. Per farlo, aveva raccolto gli strumenti sin da quando aveva messo piede nell’ufficio. 
Aveva provocato Alioscia di proposito con la storia di non volere essere una puttana, mi resi conto.
«Usiamo le scale di emergenza», suggerì, lasciando che la precedessi. Le porte non erano bloccate perché gli uffici risultavano aperti. 
Non so quali affari avesse Ali con la Feniks Pharmaceutical, ma era chiaro che usasse questo posto come fosse casa propria.
Scendemmo le scale silenziosamente; Kaylee si era tolta le scarpe. 
Riuscimmo a evadere senza ulteriori intoppi. 
«Cazzo, questo lo farà uscire di testa», risi. «I suoi uomini passeranno un brutto quarto d’ora.»
«Purché ce ne liberiamo e andiamo via di qui, non faccio obiezioni.»
Attraversammo la strada; svoltammo nel primo vicolo e cominciammo a correre. 
L’aria della notte era fredda e pungente: le strade ricoperte di ghiaccio. 
Dopo un centinaio di metri, Kaylee si fermò, richiamando la mia attenzione. «Aspetta, mi fanno male i piedi.»
Aveva la punta delle dita arrossate dal gelo e non avevamo più nemmeno i nostri cappotti.
Misi l’M16 a tracolla e mi piegai su un ginocchio.
«Forza, sali.»
Si arrampicò sopra di me. A dispetto di tutto, tremava.
«Mi hanno portato via portafogli e cellulare, ma non possiamo rimanere qui fuori.» Strinsi la presa sulle sue gambe, aggiustando il peso. «È meglio trovare un posto dove riposare.»
«Va bene», mi soffiò all'orecchio, riscaldandomi il lobo. 
Procedetti ancora per qualche isolato, fino a una zona abitata: cercai un condominio o una villetta che ci potesse offrire riparo. Entrare non era un problema, le strutture delle porte erano deboli.
«Non possiamo infilarci a casa delle persone», disse Kaylee. «Che cosa dobbiamo fare?»
«Lo so, sarebbe troppo rischioso. Questo complesso dovrebbe avere uno scantinato.» Indicai le scale. «Dai, scendi.»
Drizzai le spalle e osservai meglio: era una specie di magazzino in comune. Trovai l’interruttore; dalla lampadina riverberò una luce gialla. 
Con una rapida ricognizione scovai un materasso a molle che sistemai per terra; usai il telo che lo ricopriva come lenzuolo, dopo averlo liberato dalla polvere. «Abbiamo solo questo per coprirci», dissi. «Stenditi.»  
Kaylee non si mosse. «Davvero, Lee, time-out: sono sfinito. Possiamo litigare domani.»
Non protestò; del resto sarebbe stata sciocca a farlo e lei era tutto meno che questo.
Spensi la luce e con due passi le fui accanto. La afferrai dai polsi per attirarla verso di me. «Scaldati.»
Dopo un momento, si girò sul fianco e sfregò i piedi sulle mie gambe. Credevo si sarebbe limitata a quello, ma si avvicinò fino a chiudere il viso nell’incavo della mia spalla e appoggiò le mani al petto.
Sospirò. «Che nottata di merda.»
Proruppi in una risata tagliente. «Lo sapevo che era una pessima idea venire a Kiev.»
Mi diede un pugno non troppo convincente. «Credo che la tua ferita stia ancora sanguinando.»
«Lasciala. Vedrai che presto si ferma.»
«Purché non rimanga soffocata dal tuo sangue.»
«Ti starebbe proprio bene», sussurrai e lei gemette.
Ascoltai i nostri respiri e presto i miei occhi si abituarono al buio: distinguevo il contorno dei mobili, un paio di sedie; sul bordo delle alte finestre, la neve si era raccolta in cumuli.
Man mano che il gelo ci abbandonava, rabbrividimmo l’uno tra le braccia dell’altra.
«Tu sapevi come provocarlo», dissi a un certo punto. «Alioscia.»
Sollevò un poco la testa, anche se non poteva vedermi in faccia. «Sì.»
«Non hai mai avuto intenzione di tradirci, quindi.»
Sbuffò. «Per cadere nelle mani di quel pazzo? Almeno Rafail è onorevole…»
Abbassai il mento, poggiandolo sul suo capo. 
«Avresti potuto essere nelle mie.»
Percepii nella sua voce del divertimento: «Già. E guarda ora dove mi trovo».
“Che bugiarda.”
Ci riscaldammo al tepore dei nostri corpi, vicini come non lo eravamo mai stati, eppure sempre distanti: Lee era di Rafail.
Ignorai il desiderio che mi sommerse, l’istinto di sollevarmi sopra di lei e prenderla: mi balenò alla mente il calore che aveva scatenato in me precedentemente, ma non mi mossi. Pian piano la sentii abbandonarsi al sonno.
“Un giorno sarai mia”, le avevo detto.
“Chyort voz'mi8!” Respirai per calmarmi. “Forse, prima o poi, riuscirò a mantenere quella promessa.”



- FINE -

 


Glossario.
Рюмка водки, Ryumka vodki, “Bicchiere di Vodka”, in russo.
Abito di Kaylee: https://www.pinterest.it/pin/639229740850418533/
3 Давай, заходь, Davay, zakhod, “Forza, sali”, in ucraino
4 черт, Chert, ‘Merda’, in russo
точно! Tochno!, Esatto!, in ucraino e russo
6 
блядьBlyad', Cazzo, in russo
Будь тихою, Bud tykhoyu, Stai zitto, in ucraino.
черт возьми, Chyort voz'mi, Diamine!, in russo

 

Note finali.

Il contest di Artnifa mi ha dato la possibilità di tornare a scrivere di questi due personaggi che, non solo adoro, ma sono ancora in attesa di una loro long: appartengono a una storia di tre capitoli che ho scritto per un precedente contest e che copre un arco temporale di 13 anni: questa one-shot si inserisce tra il primo e il secondo capitolo di quel racconto ma presuppone un contesto che, ahimè, vive ancora solo nella mia mente e che mi riprometto sempre di scrivere non appena ne avrò il tempo.
Lo scopo principale era di riuscire a descrivere un personaggio dando l’idea di conoscerlo da sempre, o comunque di figurarselo in modo vivido e questo non era affatto semplice: uno dei cardini della relazione tra i personaggi, infatti, è che Sergej non riesce del tutto a comprendere Kaylee; e quest’ultima non si fida mai abbastanza da lasciarsi avvicinare emotivamente: spicca per la sua peculiare tendenza a essere una sorta di
mastermind, di dire sempre la cosa giusta per volgere le situazioni in suo favore; di trovare un appiglio nelle mente delle persone e sfruttarlo per dirigere gli eventi come vuole. Ecco perché, più che descrizioni, ho optato per raccontare le azioni, di lasciare poche frasi che tratteggiassero il loro rapporto; molto viene lasciato al non detto.
Spero che qualcuno rimanga incuriosito da questo racconto e che decida di leggere la storia da cui è nato: La regina nera.

  
Ringrazio Artnifa per la bella idea del contest: spero che questa storia ti piaccia!
 
   
 
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