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Autore: Lisaralin    06/09/2020    1 recensioni
Gli eroi hanno sconfitto il Male, ma il mondo non è stato salvato. All'indomani della battaglia, un bardo fa i conti con i propri rimorsi e si chiede se ci siano ancora storie che valga la pena raccontare.
[epilogo di una campagna realmente giocata]
Genere: Drammatico, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'The Bard's Songs'
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Ovviamente dedicata a whitemushroom come le altre storie di questa serie :)
Soltanto il personaggio principale appartiene a me; tutti gli altri personaggi presenti, l'ambientazione, i nomi di luoghi, le vicende e le situazioni accennate sono stati ideati dal master della campagna o dagli altri giocatori del gruppo.

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Live to tell the tale

 

"When I run through the dark deep forest long after this began
Where the sun would set, trees were dead and the rivers were none
And I hope for a trace to lead me back home from this place
But there was no sound, there was only me and my disgrace."
("Wolf", First Aid Kit)

 


La sella era rigida e scomoda, scivolosa per via della pioggia. Il cielo si era annuvolato poco dopo mezzogiorno, e da allora avevo perso il conto delle ore passate a cavalcare sotto la cortina d’acqua sottile e uniforme che non aveva smesso un solo istante di cadere.
Il mio viaggio non era iniziato sotto i migliori auspici.
Oltre il nastro fangoso della strada, la pianura era una massa impiastricciata di grigio e marrone. Sembrava andare avanti all’infinito. Se non fosse stato per le occasionali pietre miliari abbandonate tra l’erba, che mi informavano della distanza dalla capitale, avrei creduto di trovarmi prigioniero nell’illusione di una strega o nel gioco dispettoso di folletti maligni. La pioggia mi ticchettava incessante sul cappuccio, inghiottendo qualsiasi altro suono.
Dall’ultimo villaggio in poi non avevo incontrato anima viva, né intravisto casolari o altri rifugi dove fermarmi a riposare al caldo.
Un’ora prima del tramonto iniziò a soffiare un vento freddo da nord. Continuavo a cambiare posizione sulla sella come un’anima in pena, stringendo meccanicamente le redini e ringraziando ad ogni sobbalzo della strada sconnessa i guanti imbottiti e il morbido mantello con cappuccio di cui Hal mi aveva fatto dono.
Ben poco di ciò che portavo con me non era un dono del mio amico Hal, in effetti. Potevo contare sulle dita di una mano gli oggetti che mi appartenevano realmente. I pochi rimasugli della mia vita di un tempo.
Primo fra tutti il mio liuto, assicurato alla sella e racchiuso in una custodia che odorava di cuoio indurito e di ricordi del mio vecchio maestro e della sua stanzetta ricolma di spartiti al castello di Reeb. Poi una lettera per Isabel, mai spedita, accuratamente ripiegata sul fondo di una delle bisacce. La spilla magica che fermava il mantello, scintillante malgrado il fango e la pioggia. L'avevo ricevuta come premio anni prima, per aver portato a termine la prima missione per la Guardia Imperiale. Quando avevo conosciuto Freki e gli altri.
Infine un libro, avvolto in una sacca di cuoio. Un erbario illustrato, per la precisione. Non era propriamente mio, e non sapevo se avessi davvero il diritto di portarlo con me. Dopo la battaglia qualcuno lo aveva rinvenuto nell’accampamento fuori le mura di Valamar e, passando di mano in mano, era arrivato fino a me. Dovevano aver pensato che siccome conoscevo Querquen avrei potuto consegnarlo ai suoi confratelli o a eventuali familiari rimasti. Ma di familiari non sapevo nulla, e i sacerdoti di Tanah erano sparsi ai quattro venti da quando non esisteva più un tempio centrale a cui fare riferimento. Perciò lo avevo tenuto io.
Avevo spostato la sacca che lo conteneva davanti a me e l’avevo coperta con la falda del mantello in modo che prendesse meno acqua possibile. Immaginai l’espressione corrucciata del chierico se avessi permesso al suo libro di infradiciarsi o sporcarsi di fango. Mi strappò un sorriso, e allo stesso tempo mi fece male.
Sapevo che da qualche parte dovevano essere rimaste altre tracce del passato. Avrei potuto recuperare denaro e altri oggetti personali dal nostro vecchio alloggio, se solo mi fossi deciso a tornare a Valamar. Dopo la battaglia non avevo più avuto il coraggio di rimetterci piede. E non prevedevo di ritrovarlo tanto presto.
"Quindi dopo averci invaso la stanza per anni con i tuoi bauli pieni di mantelli non hai neanche la decenza di venire a riprenderteli?"
Il fischio del vento mi rovesciava secchiate d'acqua contro il viso e mi derideva senza sosta con la voce di Freki.
Accarezzai la criniera zuppa del mio povero cavallo, mormorando parole di incoraggiamento rivolte soprattutto a me stesso. Fissavo l’orizzonte sporco di nebbia, sperando che la sola forza di volontà bastasse a far comparire una taverna con cibo e un bagno caldo alla fine della strada.
Come in ogni ballata tragica che si rispetti, la natura desolata era lo specchio dello stato d’animo dell’eroe. Con un’unica, fondamentale differenza. Il bardo fradicio e tremante che cavalcava a testa china lungo la strada per Leer non era affatto un eroe.
 

 
“Arjen ti prego, scappa!”
“Vattene di qui, imbecille! Ora!”
L’onda di luce divampò con un rombo infernale dalle profondità della terra.
 

 
In lontananza, la pioggia delineò i contorni di quattro figure nere contro lo sfondo plumbeo del cielo. Rallentai l'andatura, cauto, e strizzai gli occhi per metterle a fuoco oltre la fitta cortina d'acqua.
Uomini a cavallo, armati. Piantati in mezzo al fango della strada, in chiara attesa di qualcosa o qualcuno. D'istinto strinsi la presa sulle redini, lasciandomi sfuggire un verso a metà tra il gemito e l'imprecazione.
Soldati. O banditi. Di nuovo.
Due giorni prima un dardo di balestra mi era sfrecciato a pochi centimetri dall'orecchio mentre attraversavo un bosco di faggi. Me l’ero vista brutta. Alla fine mi aveva salvato il lasciapassare con il sigillo di Hal, ma ci erano volute quasi un’ora e tutto il mio arsenale di tecniche persuasive per convincere il comandante della guardia di lady Adara che non ero una spia di lord Eckett in missione segreta nei suoi territori.
Stavolta il terreno ai lati della strada era completamente sgombro da alberi e non c'erano nascondigli da cui altri uomini potessero tendermi un agguato. Iniziai a nutrire la speranza che si trattasse di un gruppo meno numeroso, poco organizzato. Forse solamente molto disperato.
Alle mie spalle, in lontananza, il rombo di un tuono rotolò minaccioso lungo i fianchi delle colline. Se il vento era Freki, il ringhio basso del tuono parlava con la voce di Querquen. Mi sfidava a proseguire. Si chiedeva se ne avessi il coraggio. In ogni caso, era troppo tardi per tornare indietro.
Quando arrivai a pochi metri di distanza i banditi si disposero a ventaglio per sbarrarmi la strada, e finalmente riuscii a distinguere i loro volti e le loro armi. Sospirai di sollievo. Ci avevo visto giusto.
Uno di loro si fece avanti, piegando il collo per guardarmi sotto il cappuccio. Lo sentii sbuffare con palese delusione. "Accidenti ragazzi. Con quella bella chioma bionda speravo davvero che si trattasse di una graziosa fanciulla. Peccato! Avevo proprio voglia di spassarmela un po'!"
Gli altri tre fecero eco con una grassa risata alla sfolgorante battuta di quello che doveva essere il loro capo.
"Però guarda che mantello da gran signore!" esclamò un secondo. "Deve essere pieno di soldi!"
Il tono smargiasso e i sorrisi affilati non bastavano a nascondere l'evidenza dei fatti. Gli abiti delle quattro figure erano un mosaico di buchi e toppe che la pioggia faceva aderire senza pietà a spalle curve e intrizzite per il freddo. Gli uomini ondeggiavano sulla sella come spaventapasseri in un campo, sorretti a fatica dai poveri animali che, con le loro costole sporgenti, sembravano sul punto di accartocciarsi sotto il peso dei padroni. Probabilmente cavalli e cavalieri non mettevano sotto i denti un pasto decente da giorni. Il capo dei banditi era armato di una rozza clava con dei chiodi piantati all'estremità; quello con la voce untuosa che aveva parlato per secondo impugnava una roncola dall'aspetto malandato. Gli altri due portavano dei semplici bastoni e i loro stivali laceri erano tenuti insieme a stento da pezzi di corda.
"Io non credo che sia così ricco, sai?” continuò il capo. “Mi sa che la crisi economica ha colpito anche i lord. Questo evidentemente non poteva pagarsi una scorta come si deve. Ma noi siamo gente semplice, ci accontentiamo di quella bella spilla e del mantello. Magari anche di guanti e stivali. Su avanti, signor lord, sbrigati a darci tutto se non vuoi che ti sgrattugio la faccia con questa." L’uomo si premurò di sottolineare il concetto sventolandomi il bastone chiodato davanti al naso con doviziosa ostentazione.
"Dimenticavo, prenderemo anche il cavallo. E la cintura, già che ci siamo. Ma niente paura, le mutande giuro che te le lasciamo tenere."
Altro coro di grasse risate, bruscamente interrotte da una scarica di colpi di tosse bassi e cavernosi.
Presi tempo, mostrando loro le mani vuote per indicare che non intendevo opporre resistenza e sgranando gli occhi nell'espressione più ingenua e spaurita del mio repertorio.
"Certo, signori, certo. Subito. Non c'è bisogno di insistere… "
Una parte di me avrebbe voluto conoscere le storie di quelle persone. Non era difficile dipingerne con l’immaginazione le scene principali. Una casa confortevole, giornate tranquille scandite dai ritmi del lavoro e delle giornate di festa. Poi l’ombra della guerra. Il caos. La povertà improvvisa, la fame che azzanna le viscere di notte. Il pianto disperato di bambini che non si sa come nutrire.
Nella mia vecchia vita, in quanto membro della Guardia Imperiale, sarei addirittura stato in grado di aiutarli.
Ma perfino la leggendaria Guardia Imperiale era una storia finita male: una tragedia il cui ultimo atto era stato scritto malamente e in fretta, senza alcun rispetto verso i personaggi e il pubblico.
Ogni giorno mi domandavo se fosse valso la pena combattere e sacrificare così tanto solo per assistere a quel misero finale.
Lentamente portai la mano alla spilla, simulando il gesto di slacciare il mantello. Invece mormorai a fior di labbra una semplice parola magica.
Voce-untuosa si accorse per primo che la spilla aveva iniziato a brillare e fece per spronare il suo povero ronzino verso di me, ma era troppo tardi. Il lampo di luce avvampò per un solo istante, inghiottendo il grigio della pianura e le sagome scheletriche dei quattro cavalieri. Sentii i poveri animali nitrire dallo spavento e le voci dei banditi esplodere in una cacofonia di imprecazioni e bestemmie, ma non restai ad aspettare che riprendessero l’uso della vista. Spronai a mia volta la mia cavalcatura e li superai insinuandomi nei vuoti aperti nella loro formazione allo sbaraglio, sollevando alti schizzi di acqua e fango da entrambi i lati.
Il mio cavallo proveniva dalle stalle dei Blackwind ed era robusto, ben nutrito e allenato, perciò non c’era la minima possibilità che riuscissero a inseguirmi.
Per un attimo considerai l’idea di estrarre qualche moneta d’oro dalla bisaccia e gettarla sulla strada per quei quattro poveracci, ma poi ricordai il commento del capo su quanto gli sarebbe piaciuto “spassarsela con una fanciulla” e decisi che, in fondo, il denaro sarebbe servito molto più a me che a loro.
 

 
In un poema di quelli che si rispettino, il Signore del Male si sarebbe alzato con movimenti lenti e regali dal suo trono e avrebbe appellato gli eroi giunti al suo cospetto con l’intento di sconfiggerlo. La sua voce stentorea sarebbe rimbalzata lungo la volta e le pareti dell’immensa sala sotterranea e avrebbe gettato i semi del dubbio nel cuore dei valorosi guerrieri. Avrebbe domandato loro chi erano, da dove venivano e per cosa combattevano, per poi deridere i loro ideali con una risata stridula e ricolma di nera malvagità.
Nel nostro caso, invece, l’Imperatore non ci giudicò degni di tale considerazione. Cos’erano tre miseri umani di fronte alla grandezza del suo piano millenario? Il suo trono di Echen torreggiava su di noi come una montagna scintillante, frastagliata di cristalli che sembravano riflettere all'infinito il suo viso spigoloso, altero e senza tempo come quello dei re elfici delle leggende.
Ci vide, e non accennò neppure un’espressione di fastidio. Neanche il più minuscolo moto di stizza o vago sbuffo di noia.
Si alzò dal trono con movimenti regali, questo sì. Ma sguainò subito la spada, senza perdersi in discorsi. Scese gli scalini a passi misurati, deciso a scacciare gli insetti che osavano ronzare troppo forte nel suo momento di trionfo.
La sua spada scintillava tanto da abbagliare. Somigliava a una fiamma bianca modellata nella forma di una lama. Sentii la gola seccarsi, le parole degli incantesimi ingarbugliarsi nella testa, i muscoli tendersi in preparazione dell’impatto che sicuramente sarebbe arrivato.
Freki fu la prima a reagire. La sua arma era già fuori dal fodero, e la vidi fare un passo in avanti, attirando l’attenzione del nemico per dare a noi altri il tempo di preparare i nostri incantesimi.
Al contrario dell’Imperatore, lei qualcosa da dire lo aveva eccome. Iniziò a insultarlo con tutto il peggior repertorio di oscenità dei bassifondi di Valamar.
Riuscì a strapparmi un sorriso, a darmi quella scintilla di coraggio in più. Presi un lungo respiro e iniziai a mormorare le parole di un incantesimo. Alla mia destra, Querquen aveva già evocato un qualche tipo di protezione magica, che ora aderiva ai nostri corpi sotto forma di una rassicurante patina di luce calda.
La trafila di insulti si interruppe di colpo in un gemito di rabbia e stupore. Avevo gli occhi fissi sull’Imperatore e sulla sua spada terrificante, ma lui non aveva mosso un muscolo. Ci osservava. Per la prima volta mi sembrava di percepire un qualche barlume di emozione sul suo volto altrimenti serafico come una maschera mortuaria. Il lieve inarcarsi di un sopracciglio.
Le parole dell’incantesimo mi morirono sulle labbra. Quando spostai lo sguardo verso Freki, vidi che la mia amica aveva rivolto la punta della propria spada contro il suo stesso petto. Aveva gli occhi sgranati e la fronte imperlata di sudore, i muscoli delle braccia tesi fino allo spasmo nel tentativo di opporsi alla forza sovrumana che aveva preso possesso del suo corpo.
“FREKI!”
Ci lanciammo all’unisono verso di lei, ma era troppo tardi. La Spada della Torre del Nord la trafisse da parte a parte, e non potei fare altro che gridare di rabbia e orrore mentre il corpo della mia amica veniva inghiottito da una massa d’ombra vorticante.
 

 
“... il caso di aspettare almeno qualche mese. L’inverno è alle porte e le comunicazioni con le altre città sono sempre più irregolari. I nani si sono rinchiusi nella loro fortezza, Piken e Fontescura sono ai ferri corti, e come se non bastasse girano voci su questa nuova epidemia che… Arjen, mi stai ascoltando?”
La birra nel mio boccale era ormai ridotta a una minestra calda. Vi staccai lo sguardo con difficoltà. Mi erano balenati in mente ricordi dell’ultima volta che avevo bevuto in compagnia. La birra nanica, aspra e forte, che quella sera scorreva a fiumi attorno ai falò fuori le mura di Valamar. Avevo cantato tutta la notte per tenere alto il morale dei soldati. Avevo cantato perché ero convinto che sarebbe stata l’ultima volta che ne avrei avuta la possibilità. Persino Querquen, alla fine, si era soffermato ad ascoltare…
“Scusami, Hal. Hai perfettamente ragione. Ma ormai ho deciso. Parto domani mattina.”
Il mio amico si lasciò sfuggire un lungo sospiro e ritirò con riluttanza le mani da sopra le fiamme del grande camino, per poi tornare a sedersi di fronte a me. Vabbi sorgeva vicino al mare e il suo clima di solito era temperato anche nel bel mezzo dell'autunno, ma quella sera il gelo sembrava annidarsi in modo particolarmente tenace dentro ogni angolo della dimora dei Blackwind.
“Non che non abbia apprezzato la tua ospitalità” continuai. Decisi che ormai la birra era una causa persa e mi chinai in avanti per posare il boccale sul tavolino basso in mezzo ai nostri sedili. “Anzi, un milione di ballate non basterebbe per esprimere tutta la mia gratitudine nei tuoi confronti. Hai fatto per me molto più di quello che avresti dovuto.”
Hal scosse lentamente la testa. “Non dire sciocchezze. Siamo amici. Tu avresti fatto lo stesso.”
Mi lasciai andare contro lo schienale, evitando volutamente il suo sguardo. Forse non volevo vedere le linee di preoccupazione scolpite sul suo viso, sempre più profonde ogni giorno che passava. Eravamo quasi coetanei, ma nei pochi mesi trascorsi dalla battaglia di Valamar Hal sembrava invecchiato di anni. La fine dell’Impero aveva frammentato Toremoth in una costellazione di città e piccoli regni lasciati a loro stessi e spesso in lotta l’uno con l’altro, e il mio amico, in quanto ultimo erede della casata Blackwind, si era ritrovato di colpo a sostenere sulle spalle il governo di Vabbi in uno dei momenti più difficili della sua storia.
“Un vero amico non se ne andrebbe in un momento del genere. C’è tanto lavoro da fare.”
La mia coscienza ultimamente aveva preso la brutta abitudine di rimproverarmi con la voce aspra di Querquen. Ma non avevo risposte da offrire, né soluzioni. Non avrei saputo nemmeno da dove cominciare per amministrare una città.
Scappare, invece, quello mi riusciva sempre benissimo.
"È per via di Isabel, vero?" domandò Hal all'improvviso, a voce più bassa. Aveva intrecciato le mani sulle ginocchia, e stavolta era lui a non guardarmi direttamente negli occhi. Danzando, le fiamme del camino scavavano ombre scure e valli profonde sul suo viso reclinato.
"Speri ancora di ritrovarla."
Di colpo, capii il vero motivo per cui il mio amico era preoccupato per me. Non tanto per i pericoli della strada, i banditi o le epidemie. Dopo la battaglia era stato lui a raccogliermi, a rimettermi in piedi, a darmi un rifugio sicuro sopra la testa. Aveva visto i miei occhi cerchiati di pianto dopo le lunghe notti senza sonno. Aveva sopportato il peso dei miei silenzi, nei giorni in cui credevo che non sarei mai più riuscito a cantare in vita mia.
Adesso temeva che tornassi a provare il dolore della perdita, senza prima guarire dalle vecchie cicatrici.
"Non ho mai smesso di sperarlo" ammisi. "Con lei almeno… ho ancora la possibilità di sistemare le cose."
“Ma sono passati mesi e non hai nessuna informazione, nessun indizio su dove si trovi adesso… “
Hal non aveva torto. L’unica traccia in mio possesso era la lettera tramite cui il lord padre di Isabel aveva denunciato la scomparsa della figlia alla Guardia Imperiale. Si trattava di un documento riservato all'attenzione del Gran Cavaliere, di cui dei semplici sottoposti come noi non avrebbero dovuto sapere nulla. Freki, tuttavia, non era mai stata il modello del soldato ligio al protocollo. Aveva trovato la lettera e riconosciuto il nome della mia perduta amica d'infanzia. Ricordavo lo sguardo trafelato e colmo di apprensione con cui mi aveva porto quel semplice pezzo di carta, ad un soffio dalla partenza per l'ennesima missione. Ricordavo la vertigine, la sensazione di vuoto alla bocca dello stomaco, e poi l’ancora delle parole di Freki. Solide e sicure, un bastione contro la marea di emozioni che minacciava di sopraffarmi.
"Qualsiasi cosa tu decida di fare, io sono con te."
Ma non c'era stato il tempo per prendere alcuna decisione. Gli eventi ci avevano travolti nel loro turbine senza ritorno. E Freki, adesso, non era più con me.
"Non si tratta solo di Isabel, Hal. Ho bisogno di muovermi, di… fare qualcosa. Di partire."
Di fuggire.
Il mio amico non si arrendeva facilmente. Si protese verso di me e stavolta inchiodò il mio sguardo nel suo. Dovetti fronteggiare i cerchi scuri sotto i suoi occhi e le guance scavate dalla preoccupazione.
"Io posso assicurarti riparo e protezione solo entro i confini di Vabbi. Dopo cosa farai per vivere?"
"L'unica cosa che so fare davvero" con qualche sforzo riuscii ad evocare sulle labbra l'ombra di un sorriso. Raddrizzai la schiena e distesi le spalle nel tentativo di proiettare un minimo di sicurezza. Con tutte le preoccupazioni che già aveva, non volevo che Hal passasse i giorni successivi a immaginarmi stecchito sul fondo di un burrone o morto di disperazione sul ciglio di una strada.
"Ho un bel po' di nuove storie da raccontare, del resto."
“Ma non sono storie felici.”
Hal non aggiunse altro, ma i suoi timori restavano sospesi tra di noi, pesanti ed eloquenti. Strisciavano verso di me dagli angoli lontani del grande salone, dove le fiamme del camino non riuscivano ad arrivare. Istintivamente mi strinsi nelle braccia, reprimendo un brivido.
“Lo so. Ma non è rimasto nessun altro che possa raccontarle.”
 

 
Per qualche secondo non vedemmo niente.
L'oscurità era spessa come la cortina di un sipario, e in quel momento ebbi la certezza che sarei morto senza neanche il tempo di entrare in scena, trafitto da un colpo che non avrei visto arrivare.
Poi le ombre si assottigliarono, si separarono. Tra le loro spire apparve di nuovo il trono dell'Imperatore, avvolto nella luminosità azzurra dei cristalli di Echen.
Sentii Querquen bestemmiare e mi lasciai guidare dalla sua voce, incespicando a fatica nella sua direzione. Quando lo raggiunsi gli afferrai il braccio e feci per spingerlo a terra, ma le ombre ci superarono sfiorandoci appena. Rabbrividii al loro tocco freddo contro la pelle, chiudendo gli occhi d'istinto. Il chierico imprecò di nuovo. Mi riscossi, e mi affrettai a guardare nella direzione che stava indicando.
Le ombre adesso si erano sollevate, come se un vortice le avesse risucchiate verso le volte del soffitto. Convergevano tutte verso un unico punto. Trattenni il respiro, cercando di dare un senso allo spettacolo davanti ai miei occhi.
Le ombre non producevano il minimo suono, ma tra le loro sagome cangianti mi sembrava di distinguere accenni di braccia, gambe, zanne, mani protese per spezzare e lacerare. Si accanivano attorno a una figura chiara e luminosa con la ferocia di belve fameliche, incalzandola da tutti i lati.
"Stanno… attaccando l'Imperatore?"
La risposta alla domanda di Querquen risuonò da oltre la massa azzurra del trono di Echen.
"È la spada del Nord! Non so cosa stia facendo, ma… aiutatemi a tenerlo impegnato! Il suo potere è legato all'Echen, se distruggiamo il trono morirà anche lui!"
"Freki?!"
Prima ancora di lei vidi il suo riflesso moltiplicato dai cristalli. Un'ombra sorta dal pavimento, una sagoma fumosa che a poco a poco si solidificò assumendo i tratti della mia amica. I suoi capelli candidi, gli occhi chiari come il ghiaccio, la figura snella e scattante. La ferita al centro del petto era sparita senza lasciare traccia, ma la Spada della Torre del Nord era ancora tra le sue mani. Le ombre che avevano circondato l'Imperatore scaturivano proprio dalla sua lama, che adesso aveva l'aspetto di un nastro saettante di oscurità.
Non ebbi il tempo di rallegrarmi per la salvezza di Freki o di domandarmi che cosa le fosse successo. Di colpo la ragnatela di ombre ondeggiò, si gonfiò ed esplose in un lampo di frammenti di luce. Sentii il riverbero dell'incantesimo avvamparmi sulle guance e mi schermai gli occhi con le mani, abbagliato.
Le poche ombre rimaste si sfilacciarono come stracci logori portati dal vento. Tra i loro resti, i lunghi capelli e le vesti dell'Imperatore sembravano risplendere di una luce ultraterrena.
Lo sguardo immortale del sovrano di Toremoth si posò di nuovo su di noi. La maschera d'indifferenza ormai era caduta. Rabbia e disgusto erano scolpiti in ogni linea del suo viso. Deglutii mentre le mie gambe si trasformavano in ammassi di gelatina.
Un attimo dopo una lama incandescente saettava a tutta velocità nella nostra direzione.
 

 
Al villaggio successivo utilizzai il denaro che avevo deciso di non consegnare ai banditi per comprare abiti meno appariscenti. Gli incontri dei giorni precedenti mi avevano fatto capire con le cattive maniere che i tempi delle strade sicure e dei viaggi spensierati erano tramontati definitivamente. Dare troppo nell'occhio non era un'idea saggia.
Così feci il mio ingresso nella taverna locale avvolto in un informe mantello da viaggio verdastro che in altri tempi non avrei indossato nemmeno sotto minaccia di morte. Conoscevo già il posto: Freki, Hal ed io vi avevamo pernottato varie volte in passato ed eravamo sempre rimasti soddisfatti dalla qualità della cucina e dalla cortesia del personale.
Tuttavia, già dalle stalle mi fu chiaro che dovevo togliermi dalla testa qualsiasi aspettativa ridente avessi su quel luogo. Parte delle assi del tetto erano crollate ed erano state accatastate alla buona in un angolo. Nel poco spazio rimasto non era alloggiato nessun animale. Il garzone a cui misi in mano le redini continuava a fissare il mio povero cavallo con aria trasognata: quasi gli si vedevano roteare negli occhi i bei pezzi di carne sugosa che dovevano tormentare la sua fantasia. Gli lasciai una mancia più cospicua del previsto. Per precauzione.
All'interno, la locanda puzzava di cavolo e di cane bagnato. Quattro avventori in croce erano buttati in un angolo, muti di fronte a ciotole di zuppa che aveva tutta l'aria di acqua piovana allungata con… non ero certo di volerlo sapere. Le piantine di erbe aromatiche che ricordavo dall'ultima visita erano scomparse dai davanzali; in compenso, in ogni angolo si erano materializzati numerosi strati di polvere, e tutta la sala appariva sporca, unta a sgradevole.
Vincendo il disgusto mi avvicinai al bancone e chiesi all'oste se ultimamente avesse pernottato lì una donna di nome Isabel.
"Sulla trentina, lunghi capelli neri. Anche lei è un bardo."
Dovevo aver fatto una battuta particolarmente divertente, perché il tizio cacciò una grassa risata e diffuse tutto intorno un pungente aroma di cipolle.
"Mi dispiace per lei allora! E per te. Di questi tempi chi può permettersi di pagare un bardo?" La risata terminò in un fischio triste e l'uomo scrollò le spalle, sospirando sotto i folti baffi grigi.
"Accidenti, forse voi siete gli unici messi ancora peggio di noi. Comunque qui non passa nessuno da settimane. Tu devi essere molto coraggioso o molto pazzo per viaggiare da solo. Ti offrirei da bere, se me lo potessi permettere."
Mi arrischiai a ordinare della birra e per qualche minuto rimasi seduto al bancone a sorseggiarla in silenzio. Era meno peggio di quel che credessi.
“Grazie. Era da un po' che non bevevo qualcosa di così buono.” Non era esattamente la verità, ma l’oste non poteva saperlo. Vidi il suo sguardo illuminarsi di gratitudine.
“Ho visto che anche qui in città tira una brutta aria" continuai. "Speravo che avvicinandomi alla capitale la situazione fosse migliore…”
“Macché.” l'uomo sbuffò mentre ripuliva il boccale nell’acquaio. “Il commercio è fermo da mesi. Nessuna carovana ha il coraggio di muoversi con tutti quei banditi e gli scagnozzi dei vari lord Vattelappesca che si fanno i dispetti tra loro. E i campi… io l’avevo sempre detto che non dovevamo fare troppo affidamento su tutte quelle macchine azionate dall’Echen. Adesso non si muovono neanche a pregarle in nanico. Come se non bastasse, visto che le disgrazie viaggiano sempre insieme, i figli del fabbro sono tornati l’altro mese tutti e due con i segni di quella dannata malattia del cristallo. Li abbiamo rinchiusi nella forgia e caliamo loro il cibo da un buco nel soffitto. È brutto, lo so. Poveri ragazzi. Ma che altro possiamo fare? Il nostro unico chierico è andato a combattere a Valamar e non è più tornato.”
“Mi dispiace. Mi dispiace davvero.”
L'oste si asciugò le mani con un panno consunto e scosse tristemente la testa. "Siamo tutti sulla stessa barca, amico mio. E la barca sta colando a picco. Mi dispiace solo per voi giovani."
Ordinai di nuovo da bere. Non perché ne avessi particolarmente voglia, ma forse buttare giù qualcosa di liquido avrebbe allentato il nodo che mi aveva improvvisamente stretto la gola. E avrebbe fatto guadagnare qualche moneta in più al povero oste.
"È arrivato il salvatore dell'economia di Toremoth. Ti ricordo che la tua bisaccia d'oro non è illimitata. Non vorrai fare il parassita pagato e spesato da Hal per il resto della tua vita?"
Inghiottii un lungo sorso e misi a tacere la voce di Querquen nella mia testa. Il boccale fu di nuovo vuoto in pochi minuti, ma il nodo alla gola era sempre lì, più tenace di prima.
L'oste aveva ragione. A cosa serve un bardo su una barca che sta per affondare? Ero venuto fin lì con l'intento di cantare storie, ma in quel villaggio c'era bisogno della spada di Freki, per rendere sicure le strade e proteggere le carovane di mercanti. O della scienza medica di Querquen, per fermare l'epidemia e prendersi cura dei feriti di guerra.
E invece c'ero soltanto io. Io e il mio inutile carico di storie che non potevano aiutare nessuno.
"Tu vieni dalla regione di Vabbi?" La voce roca dell'oste mi distolse dalla palude di pensieri in cui stavo affondando. "Che novità ci sono da quelle parti?"
"Il morbo di cristallo non è arrivato fin lì, almeno per il momento. Però molti profughi di Valamar e delle regioni circostanti hanno cercato rifugio dietro le mura di Vabbi. La città è sovraffollata. Per fortuna lord Blackwind ha reagito con prontezza. Ha dato alloggio ai nuovi arrivati impiegandoli nel lavoro dei campi per compensare la mancanza dei macchinari. E sta tentando di radunare i maghi della Torre sopravvissuti." Cercai di mettere in risalto soprattutto le buone notizie, per scarse che fossero.
"Beh, non sembra male questo lord Blackwind. Ci credi che noi non sappiamo neanche chi dovrebbe governarci adesso? Anche se da un lato è meglio così. Ci manca solo qualche lord che sbuca dal nulla e ci fa piombare in testa nuove tasse."
La conversazione aveva attirato l'attenzione della manciata di avventori presenti nella sala comune. Erano tutti abitanti del villaggio, prevalentemente anziani, incuriositi dalle notizie sul mondo esterno portate dall'arrivo di uno straniero. Qualcuno mi chiese di persone care disperse, esattamente come io, entrando, avevo chiesto di Isabel. Non fui in grado di aiutarli.
Finimmo per sederci tutti intorno a un tavolo, compreso l'oste che non aveva praticamente nessuno da servire. Iniziavo a sentire un buco allo stomaco e le spalle pesanti per la stanchezza del viaggio, perciò chiesi una ciotola di zuppa e informai il padrone di casa che mi sarei fermato per la notte. Non che ci fosse carenza di camere libere.
La minestra sapeva di poco, ma dopo tutta l'acqua che avevo preso durante il viaggio era piacevole sentire qualcosa di caldo scivolare giù per la gola e riempire lo stomaco affamato. Mi cullai nel ronzio dei commenti dei miei compagni di tavolo mentre sentivo le palpebre appesantirsi pian piano.
"Ci vorrebbe un lord Blackwind anche qui. Un capo forte che rimetta le cose a posto, ecco cosa ci vorrebbe."
"L'ultimo capo forte che abbiamo avuto ha buttato Toremoth giù per la latrina, ti ricordo. E poi ci ha pisciato sopra."
"Sempre se le voci sono vere! A me questa storia dell'Imperatore impazzito di colpo non ha mai convinto!"
Sollevai lo sguardo dalla scodella. "Sono vere" dichiarai, pacato.
"Ma non è impazzito di colpo. Tutt'altro."
Intorno al tavolo calò il silenzio. Sentii il peso degli sguardi di tutti convergere su di me.
"Trasformare Toremoth in una distesa di Echen senza vita era il suo obiettivo da secoli."
Il vecchio che aveva parlato per ultimo mi fissò strizzando gli occhi miopi: "E tu come cavolo fai a saperlo?"
Esitai. Strinsi tra le mani il tovagliolo, perdendo più tempo del dovuto a pulirmi la bocca. Se avessi continuato adesso non ci sarebbe stato più modo per tornare indietro. Avrei dovuto rivivere tutto daccapo. Senza sconti. Senza scampo.
Eppure ero venuto lì apposta per raccontare quella storia.
"Perché l'ho visto."
 

 
La colonna di fuoco si abbatté sull'Imperatore insieme a tutta la rabbia di Querquen.
Non riuscivo a capire per grazia di quale forza il nostro chierico si reggesse ancora in piedi. Le vesti bruciacchiate, un ginocchio piegato per terra, il braccio sinistro che pendeva inerte lungo il fianco: eppure non cessava di lanciare un incantesimo dopo l'altro, quasi senza respirare. Sputava le parole magiche a denti stretti, tra una sequela di bestemmie e l'altra.
I nostri incantesimi avevano distratto l'Imperatore per il tempo sufficiente da permettere a Freki di evocare un nuovo plotone di ombre, ma avevamo pagato a caro prezzo quella piccola vittoria. Se la spada della nostra compagna attingeva a un potere di tenebra, la lama dell'Imperatore era la luce che giudica e non perdona: non importava dove ci nascondessimo, i suoi strali riuscivano a raggiungerci a qualsiasi distanza, senza mai fallire un colpo.
Ero convinto che nessun dolore al mondo potesse eguagliare l'artiglio di un drago conficcato nella spalla, ma quando uno di quei dardi incandescenti mi colpì credetti che un incendio divampasse nella carne viva del mio braccio. Gridai, lottando disperatamente per non perdere i sensi.
Una volta scemato il calore dell'incantesimo di Querquen presi qualche respiro profondo e arrischiai un'altra occhiata da dietro il riparo che mi ero scelto, una colonna laterale verso l'ingresso della sala del trono. Appoggiai una spalla al marmo liscio e freddo, cercando di ignorare le bruciature che pulsavano spedendo lungo tutto il corpo una serie di fitte contemporaneamente ardenti e ghiacciate. Avevo i capelli appiccicati alla fronte e al collo, madidi di sudore.
Sollevai il braccio non ferito mentre le parole magiche accorrevano rapide alle labbra. Le punte delle dita si illuminarono di un bagliore violetto, e un attimo dopo cinque dardi sfrecciarono nella larga sala, aprendosi a ventaglio per poi convergere l'uno dopo l'altro sulla sagoma dell'Imperatore in una picchiata spiraleggiante.
Lo colpirono, ma da quella distanza non riuscii a capire se gli avessero causato un danno significativo. Le ombre avevano di nuovo calato i loro artigli sul sovrano di Toremoth, nascondendolo alla mia vista.
Il grido strozzato di Querquen interruppe il mio secondo incantesimo. Voltai la testa e il mio cuore mancò un paio di battiti quando vidi il sacerdote in ginocchio, appoggiato al pavimento con l’unica mano ancora in grado di sorreggerlo. Imprecai. Maledii tra i denti la sua testardaggine. Sapevo che non stava usando gli incantesimi di guarigione di proposito, in modo da poterli conservare per noi.
Gettai un’altra occhiata al combattimento in corso. L’Imperatore era impegnato a incenerire le ombre che lo azzannavano da ogni parte, mentre Freki approfittava della sua distrazione per calare la spada sul trono, sollevandola sopra la testa come fosse una mazza e colpendo con tutta la forza di cui era capace. Schegge azzurre volavano tutto intorno a lei mandando bagliori lancinanti.
Non avrei avuto un’occasione migliore. Abbandonai il riparo e mi precipitai verso Querquen estraendo dalla tasca una delle preziose pozioni che avevo portato con me.
“Che fai… devi coprire Freki, razza di… “
Mi inginocchiai al suo fianco ignorando le sue proteste. Aveva il viso cereo. La pelle della spalla sinistra, sotto la veste carbonizzata, si andava riempiendo di tante piccole vesciche contornate da una macchia rossastra.
“Prendi questa.”
“Non… non dire sciocchezze. Ce la faccio. Risparmiale per…”
Non lo feci finire. Approfittando della sua debolezza stappai la boccetta e con un gesto rapido gliela infilai di forza nella bocca.
“Scusami.”
Querquen cercò di dimenarsi, tossì e mugugnò qualcosa di inintelligibile, ma dovevo essere riuscito a fargli inghiottire almeno qualche goccia di pozione perché in pochi secondi la pelle iniziò a cicatrizzarsi e lui fu in grado di rimettersi in piedi sulle proprie gambe, sebbene un po’ barcollante.
“Grazie” borbottò. Il suo sguardo indugiò sul mio braccio, ma non ebbe tempo di usare la sua magia curativa. Il grido di Freki mise entrambi di nuovo in allerta.
Ancora una volta l’Imperatore si era liberato delle ombre e stava piombando su di lei. Come a rallentatore vidi la lama di luce compiere un arco nell’aria, simile alla scia lucente di una cometa. Sollevai una mano, ma Querquen fu più rapido di me. Gridò le parole magiche con la rabbia di chi scaglia una maledizione, e al suo gesto imperioso una colonna di lingue di fuoco eruppe dal pavimento attorno ai piedi dell’Imperatore.
Il sovrano di Toremoth non si lasciò sorprendere un’altra volta dallo stesso trucco. Lo vidi fare un gesto con la mano libera, chiudendo di scatto le dita come per afferrare al volo qualcosa, e le fiamme di Querquen morirono all’istante. Freki colse l’opportunità per lanciarsi in un affondo, ma l’Imperatore schivò senza neanche voltarsi e la travolse con un altro dei suoi dardi luminosi. Al contatto con la magia di luce il corpo della mia amica si dissolse, disperdendosi in tanti sbuffi di oscurità lungo il pavimento.
Poi l’Imperatore sollevò la mano libera, il palmo rivolto verso di noi.
Querquen gridò. Lo vidi sollevarsi da terra con gli arti piegati in angoli innaturali, come una marionetta manovrata da un burattinaio crudele. Cercai di afferrargli un braccio, ma la manica della sua tunica mi scivolò tra le dita mentre una forza inesorabile attirava il suo corpo verso l’Imperatore, lasciandolo cadere in ginocchio ai suoi piedi. Gridai di pura frustrazione, consapevole che il mio incantesimo non avrebbe mai colpito in tempo.
Dal pavimento, le mani e gli artigli delle ombre sorsero per intercettare la spada di luce. Un velo oscuro si frappose tra l’Imperatore e Querquen, che colse l’attimo per rotolare fuori dalla portata dell’arma.
Un istante dopo i miei dardi sibilarono nell’aria e si abbatterono di nuovo sul nemico. Stavolta non ebbi dubbi: stava barcollando. Le sue spalle si incurvarono in una posa molto poco regale mentre le ombre lo serravano nuovamente da ogni direzione e la figura di Freki si materializzava ancora una volta accanto al trono.
Il gigantesco colosso di Echen ormai era quasi del tutto incurvato su un lato.
Fu in quel momento che, per la prima volta, mi convinsi che avremmo davvero potuto vincere.
 
 

Il passaparola degli anziani del villaggio mi aveva procurato un pubblico più nutrito di quel che mi aspettassi.
L’oste, in qualità di portavoce dei suoi concittadini, era stato chiaro su un punto molto specifico: non dovevo attendermi nessun tipo di compenso. Mi avrebbero offerto una ciotola di zuppa e una birra, nulla di più. Un ringraziamento per aver portato loro notizie sulla battaglia di Valamar. In realtà, si premurò ancora di sottolineare l’oste, alla gente interessava principalmente quello: notizie. Potevo tagliare tranquillamente su tutto il lato artistico della faccenda. Tanto più che non ci avrei guadagnato nulla.
Annuii alle sue raccomandazioni, ma non feci nessuna promessa.
Fuori dalla locanda stava calando la notte. Rombi di tuono in lontananza annunciavano l'avvicinarsi di un nuovo temporale, ma dentro la sala comune il camino scoppiettava vivace e il chiacchiericcio indistinto degli astanti mi faceva da sottofondo mentre finivo di accordare le corde del liuto. Sedevo su uno sgabello alto, con le spalle appoggiate al bancone. Per qualche attimo mi concessi il lusso di chiudere gli occhi e di provare a convincermi che fosse una serata come tante altre.
Invano. Sentivo il malumore del pubblico strisciarmi sulla pelle come un insetto disgustoso. Ovunque voltassi la testa lo vedevo serpeggiare tra le braccia conserte e le mandibole serrate degli astanti. Lo scorgevo nei pugni chiusi, nei sibili di scherno, sulle schiene talmente curve da piegarsi in due. Dietro agli sguardi vuoti, resi insensibili dal troppo dolore.
Quasi nessuno mangiava, solo in pochi avevano ordinato da bere.
Quella gente non era venuta per rifocillarsi o ascoltare una storia. Cercava un responsabile da accusare per le proprie disgrazie, e sperava che lo straniero venuto da lontano potesse finalmente indicargliene uno.
Accarezzai il manico del liuto con la punta delle dita. Dovevo riconciliarmi anche con lui, in fin dei conti. Ultimamente avevo trascurato fin troppo la pratica quotidiana e gli esercizi. Sfiorai le corde con delicatezza, pizzicando i primi accordi. Gli chiesi il permesso di cominciare. Il mio fedele amico rispose con prontezza. Le note sgorgarono liquide e pure, e le lasciai scorrere intorno a me, avvolgendomi nel loro abbraccio come in un secondo mantello. Caldo e profumato di ricordi.
"Ci vuole ancora tanto?"
"Oh, stai zitta Marr! È comunque più piacevole da guardare dei tuoi quattro denti marci!"
"Appunto. Con quel faccino delicato, volete davvero farmi credere che ha combattuto a Valamar? Ci prende per il culo, ve lo dico io!"
Non ero abituato a interruzioni del genere, ma il mio maestro avrebbe detto che non erano una scusa sufficiente per interrompere un’esibizione. Perciò non lo feci. Carpii un sospiro di nostalgia provenire da qualche parte tra i tavoli più lontani, in prossimità della porta. Probabilmente qualcuno che non ascoltava musica da prima che Toremoth ci crollasse sulla testa. Come avevo potuto anche solo pensare di smettere di suonare?
“Non è rispettoso. Non è rispettoso nei confronti di chi davvero ha dato la vita per noi!”
Un mormorio di approvazione percorse la sala alle parole di Marr. La donna sedeva da sola su una panca accanto a una finestra, infagottata in uno scialle nero. Non dimostrava più di quarant’anni, ma la ragnatela di linee sottili attorno ai suoi occhi incorniciava uno sguardo che doveva essersi posato su sofferenze sufficienti per una vita intera. Fissai i miei occhi nei suoi e chinai lievemente il capo, in segno di rispetto.
“Mi dispiace per la tua perdita, signora.”
Le sue guance avvamparono di colpo. Abbassò la testa, borbottando qualcosa di inudibile.
“Chi era?” domandai ancora. Non avevo smesso un solo istante di suonare. Improvvisavo. Facevo danzare le dita da una corda all’altra in una melodia malinconica, lasciando che le note scorressero una ad una come lacrime lungo un viso.
Marr rispose con un filo di voce: “Mio marito.”
“Potrei…. potrei sapervi dire qualcosa di lui. Era al seguito di qualcuno?”
La donna poggiò la fronte sul palmo aperto e non rispose. Un ragazzo dall’altro lato del suo tavolo alzò una mano e prese la parola al suo posto.
“Da questo villaggio sono partiti cinque volontari. Si sono uniti alla milizia proveniente da Piken. Ma non abbiamo saputo più niente di nessuno di loro.”
“Piken” ricordai. “Hanno partecipato all’assalto principale. Insieme alle macchine da guerra dei nani. Si sono battuti valorosamente contro i draghi di cristallo dell’Imperatore. Se il nostro piccolo gruppo ha superato le mura indisturbato ed è riuscito a penetrare nel cuore della roccaforte imperiale lo deve soltanto a loro. So che non vale molto, e non vi consolerà della vostra perdita, ma… vi sono grato. Dal profondo del cuore.”
Narrai dell’attacco. Evocai il fragore dei proiettili scagliati dai trabucchi nanici, le grida concitate dei comandanti, la polvere sollevata dalla carica contro i cancelli di Valamar. Il racconto si tramutò gradualmente in canzone, e quando arrivai a descrivere l’ultimo volo dei draghi di cristallo il silenzio era ormai calato definitivamente nella sala comune.
Alla fine, Marr piangeva. E non era l’unica tra gli avventori. Io stesso sentivo gli occhi pizzicare, e fui grato della breve interruzione. Respirai a fondo, ricacciando indietro le lacrime. Non era il momento di rischiare che mi tremasse la voce.
“La Guardia Imperiale si è infiltrata nel palazzo dell’Imperatore?” Era di nuovo il ragazzo di prima a parlare. Aveva gli occhi lucidi, ma la fronte, sotto la massa di riccioli scuri, era aggrottata in un’espressione di dubbio. “Ma… non è possibile! Sono morti tutti prima della battaglia! O meglio, sono stati trasformati in burattini di cristallo al servizio dell’Imperatore, no? È quello che dicono tutti…”
“Sicuramente erano in combutta con lui fin dall’inizio!” un uomo dalla folta barba castana accompagnò l’affermazione con un vigoroso pugno sul tavolo.
“La Guardia Imperiale è al servizio dell’Imperatore, no?” fece eco qualcun altro dal fondo della sala.
“La Guardia Imperiale è… era al servizio di Toremoth” puntualizzai, trattenendo il resto della risposta pungente che stava per affiorarmi alle labbra. Serrai con rabbia le dita intorno al manico del liuto. Voci e resoconti distorti ci avevano già trasformati nei cattivi, dunque.
Ma non era colpa di quella gente.
Ripresi a pizzicare le corde. La familiarità del gesto bastò a calmarmi. Mi presi tutto il tempo che serviva, indugiando su ogni nota, accarezzando ogni accordo. Non si può mettere fretta a una buona storia.
“Morirono quasi tutti, è vero. Anzi, furono condannati a un destino peggiore della morte. Ma due membri della Guardia e un sacerdote non si trovavano a Valamar nel momento in cui la maledizione dell’Echen prese il sopravvento. Erano in missione lontano, sotto il cielo vasto e maestoso dei deserti del sud. Quando appresero la notizia, ormai era troppo tardi. In un battito di ciglia avevano perso amici, compagni d’armi, persone care. Sulle loro spalle gravava il peso di essere gli ultimi rimasti… e di non aver potuto fare niente per impedire la catastrofe.”
Questa era la parte più difficile. L’avevo temuta a lungo, sicuro che la mia voce si sarebbe incrinata nel momento culminante. Ma la musica mi racchiudeva come un’armatura, e io mi affidai completamente alla sua guida. Adesso sapevo di camminare sull’unico campo di battaglia su cui non avrei mai tremato di paura.
“Conoscete i loro nomi?”
Dalla prima fila, una bambina con le trecce balzò in piedi e puntò l’indice verso di me con un ghigno furbetto: “Io lo so! Uno sei tu!”
“Ecco una giovane signora a cui non si può nascondere nulla!” Le sorrisi con commozione sincera. “Ma il nome di chi racconta la storia ha poca importanza. Io sono solo qualcuno che ha avuto il privilegio di conoscere i veri eroi e di assistere alle loro imprese. Il mio dovere è di fare in modo che la loro memoria non muoia. Che il loro sacrificio sia onorato, come merita di essere onorato quello del marito di Marr e dei valorosi abitanti di questo villaggio.”
“E allora chi erano gli eroi?” chiese ancora la bambina, dando voce alla domanda che ormai formicolava sulla bocca di tutti.
“Sono felice che tu me lo chieda.”
Le fiamme del camino si erano pian piano affievolite sotto le braci. Le finestre adesso erano confini a picco sull’oscurità. La nostra sala però rimaneva un rifugio caldo e piacevole, intimo. Guardavo i visi di fronte a me ed avevo l’impressione che l’astio e la sfiducia si stemperassero nei bagliori arancioni del fuoco semiaddormentato. Era il momento perfetto per raccontare.
“Perché questa è proprio la loro storia. La storia del saggio chierico Querquen e della coraggiosa guerriera Freki, gli eroi che sconfissero l’Imperatore.”
 
 

Ero stato troppo lento a lanciare l'incantesimo.
Il raggio di energia scaturì dal mio indice puntato proprio mentre l'Imperatore sollevava il palmo nella mia direzione. La magia impattò contro una barriera invisibile e rimbalzò all'indietro come l'elastico di una fionda. Mi sembrò di ricevere uno schiaffo talmente forte da farmi girare la testa. Indietreggiai di un paio di passi, con il respiro corto. Il sapore metallico del sangue mi riempì subito il naso e la bocca.
Piegai un ginocchio a terra, portando le mani al viso. Le dita divennero subito rosse e appiccicose. Le fissai stordito, cercai di arginare con la manica il fiotto caldo che continuava a sgorgare dal naso. Ero allo stremo delle forze.
I movimenti del nostro avversario, tuttavia, non erano più veloci come prima. Anche se non aveva emesso un solo lamento da quando il combattimento era iniziato, ormai tutti vedevamo le sue spalle alzarsi e abbassarsi al ritmo sempre più affannoso del suo respiro. Le sue vesti regali cadevano a brandelli, i capelli si ammassavano sulla fronte in un groviglio disordinato. I tratti del viso erano impastati in una maschera d'odio.
Più che un re degli elfi adesso sembrava una vecchia fattucchiera indemoniata. Patetico e coperto di sangue e sudore esattamente come lo eravamo noi. Una potente creatura millenaria, forse, ma pur sempre un essere fatto di carne, tendini e ossa.
Dopo aver neutralizzato il mio incantesimo non riuscì a voltarsi in tempo per contrastare la colonna di fuoco di Querquen. Si protesse a malapena, cadde in ginocchio. Lo sciame di ombre accorse come un nugolo di mosche e lo tenne bloccato a terra, trasformando la sua sagoma accasciata in un brulicante ammasso nero.
Freki non aveva più ostacoli. Continuava a vibrare colpi da fabbro alla base del trono, accompagnando ogni fendente con un urlo, incurante dei frammenti di cristallo che le schizzavano sul viso. Il martellare cadenzato si interruppe di colpo quando la lama oscura sembrò penetrare all'interno della massa di Echen, restando incastrata fino quasi all'elsa. Freki tirò con entrambe le mani per liberarla, senza successo.
I cristalli di Echen iniziarono a brillare più intensamente nel punto dove la Spada della Torre del Nord si era fatta strada. Prima di essere costretto ad abbassare lo sguardo per il bagliore vidi Freki lasciare la presa sull’arma e indietreggiare fino al fondo della sala.
Nello stesso momento, l'Imperatore lanciò un urlo. Era un lamento che non aveva nulla di umano. Acuto e lacerante, mi penetrò sotto la pelle come una ventata di aghi di ghiaccio. Fu come un segnale per le ombre, che si dispersero all’istante, dileguandosi ai quattro angoli della stanza.
Quando furono scomparse, del corpo dell’Imperatore non era rimasto che un fragile mucchietto di cenere.
Poi il terreno sotto i nostri piedi iniziò a tremare e un rombo infernale divampò dalle profondità della terra.
 

 
Non ricordo con precisione quando iniziai a divenire una presenza attesa nei villaggi.
All’inizio ero stupito. La gente chiedeva di me, voleva ascoltare la storia. Mi offrivano cibo e riparo, talvolta persino dei soldi che non riuscivo mai a rifiutare senza causare considerevole imbarazzo da entrambe le parti.
Di solito mi fermavo poche sere per non approfittare troppo della generosità di chi mi ospitava. In ogni città o villaggio continuavo imperterrito a domandare di una donna bardo dai lunghi capelli neri. La risposta, purtroppo, non cambiava mai.
Non ricordo neanche il momento in cui mi resi conto che riuscivo a cantare della battaglia di Valamar senza dovermi fermare ogni tanto per asciugarmi gli occhi o per tenere a bada i fantasmi del passato. Successe naturalmente, penso. Smise di essere un modo per espiare la colpa di essere sopravvissuto, e divenne… una specie di malinconico conforto.
I bambini erano sempre quelli che facevano più domande. Ricordavano tutti i nomi, conoscevano tutti gli eventi. A volte, rivivendo le scene nella loro fantasia, aggiungevano particolari nuovi. Non li rimproveravo mai per questo. Una storia non è diversa da una freccia: una volta scagliata dall’arco non appartiene più soltanto a noi.
“Dovrebbero avere più rispetto” borbottò una volta un vecchio seduto sul limitare della piazza di un villaggio. Appoggiato a un bastone, osservava due bambini giocare da sotto un paio di sopracciglia cespugliose congiunte in un arco di nera disapprovazione.
La bambina aveva sollevato un rametto al cielo e gridava: "Arrenditi, necromante! Sono Freki della Guardia Imperiale, e questa è la mia spada magica!" Il fratellino si portò le mani al petto, sfoderò un grido degno di un attore tragico e si lasciò cadere sull'erba a braccia spalancate. Risi insieme a loro, guadagnandomi l'ennesima occhiataccia del vecchio. Freki si sarebbe divertita da matti.
Era solo naturale che prima o poi sia bambini che adulti iniziassero a chiedere storie nuove.
"Come ha trovato Freki la Spada della Torre del Nord?"
"Che Prova ha superato per entrare nella Guardia?"
"Davvero avete visto la Fossa delle Stelle?"
Non sempre sapevo rispondere a tutto. Cosa fosse realmente la Spada della Torre del Nord e perché nel momento supremo avesse trafitto Freki donandole quei poteri straordinari  restavano domande che mi avrebbero divorato fin sull'orlo della tomba. E così cantavo ciò che nel profondo del cuore avevo sempre creduto fermamente. Che Freki era speciale. Che la Spada l'aveva scelta. Che solo una guerriera generosa e con un coraggio fuori dal comune poteva trovare la forza di governare le ombre e resistere al potere dell'Imperatore.
Il momento in cui cantavo una nuova canzone per la prima volta era sempre speciale. Appena i primi accordi del liuto risuonavano nella taverna la fatica del viaggio e le ingiustizie a cui avevo assistito lungo la strada mi scivolavano di dosso come panni sporchi. Mi specchiavo negli sguardi colmi di meraviglia del mio pubblico e lo prendevo per mano, lo portavo con me nel luogo caldo e sicuro dove vivevano i miei ricordi più preziosi.
E a volte, mentre suonavo, ero convinto che mi sarebbe bastato voltare di poco la testa per ritrovarmi faccia a faccia con i miei amici. Freki, appoggiata al bancone con un bel boccale di birra spumeggiante. Mi faceva cenno di raggiungerla e, con aria da cospiratrice, mi sussurrava di eliminare dal racconto gli episodi più imbarazzanti. Querquen che sbuffava in un angolo, minacciando di lanciare un incantesimo di Silenzio su tutta la locanda nel caso in cui osassi nominarlo anche solo in un verso.
Una sera stavo riponendo il liuto dopo un'esibizione particolarmente lunga e pregustavo il momento in cui la mia testa avrebbe finalmente toccato il cuscino, quando una ragazza mi si avvicinò con passi incerti. Teneva lo sguardo basso, giocherellando nervosamente con le dita sul bordo della gonna. Dietro le sue spalle, un gruppetto di giovani che non dovevano avere più di vent'anni spiava i suoi movimenti senza curarsi affatto di passare inosservato. Era palese che l'avessero mandata in avanscoperta per formulare un qualche tipo di richiesta.
"Posso fare qualcosa per te?"
"So che è già molto tardi, ma… non ci canteresti qualcosa di allegro? Ti prego. Qualcosa, magari… qualcosa che si possa ballare."
Le regalai un sorriso luminoso e un inchino mentre dentro di me dicevo addio al tanto sospirato letto morbido. Nessun ospite della locanda dormì quella notte. Canti e balli si susseguirono fino all'alba mentre la birra scorreva a fiumi. Le risate si accatastarono l'una sull'altra, libere e spensierate come non ne udivo da mesi, e io capii di aver ritrovato il mio posto nel mondo.
 
 

I resti del trono spezzato si condensarono in un globo di luce scintillante come un sole in miniatura. Gli occhi bruciavano al solo guardarlo direttamente, ma emetteva il suono terrificante di una tempesta di fulmini imprigionata in una sfera di vetro.
La terra tremava.
In quei secondi frenetici nella mia mente c'era spazio soltanto per una cosa: l'incantesimo di teletrasporto.
"Venite, dobbiamo andarcene da qui!"
Congiunsi le dita, iniziai a pronunciare le parole magiche e a correre verso i miei compagni.
Non arrivai lontano. Il rombo crebbe d'intensità. Una scossa più forte delle altre mi fece perdere l'equilibrio e mi catapultò sul pavimento mentre dall'alto pezzi di intonaco e pietra iniziavano a crollarci addosso.
Vidi Freki e Querquen gridare, lottare per tenersi in piedi. Erano lontani. Troppo.
"Non pensare a noi! Vattene!"
Un vento infernale mi investì come il soffio ardente di un drago quando l’onda di luce annichilì ogni particolare intorno a me in un bianco abbacinante. Non vedevo più i miei amici.
Ma continuavo a sentire le loro voci.
"Arjen ti prego, scappa!"
"Vattene di qui, imbecille! Ora!"
Pronunciai le ultime parole dell'incantesimo in un balbettio incoerente.
"Mi dispiace, mi dispiace, mi… "
Uno strappo all'altezza dello stomaco, la vertigine del vuoto. Una deflagrazione assordante inghiottì le mie urla, poi i concetti di sopra e sotto persero ogni significato. Un'onda colossale mi trascinò via, mi risucchiò sbattendomi in tutte le direzioni. Ero convinto che il mio corpo sarebbe finito in pezzi.
Riemersi di colpo, la bocca spalancata in un respiro avido, disperato.
La pelle aveva smesso di bruciare. La penombra e il silenzio del castello di Reeb mi colpirono con la forza di uno schiaffo.
Non so per quanto tempo rimasi in ginocchio, i palmi poggiati sul pavimento freddo, il suono spezzato del mio respiro ingigantito dall’eco del vasto salone abbandonato. La prova inconfutabile che ero ancora vivo.
Il mio corpo era pieno di lividi e bruciature, ma non sentivo alcun dolore.
Lentamente, come se avessero dovuto percorrere una distanza lunghissima, le lacrime affiorarono agli occhi. La sala svanì in un insieme di macchie confuse e io mi piegai in due, le spalle scosse da singhiozzi. Colpivo il pavimento senza fare caso ai graffi e al sangue tra le dita, e quando capii che il dolore non sarebbe stato abbastanza da stordirmi feci crepitare una fiamma sul palmo della mano e la liberai con un grido disperato. L’arazzo di fronte a me si accartocciò in un istante, divorato dal fuoco.
Continuai fino a prosciugare ogni briciolo di magia che ancora mi restava in corpo e solo allora, finalmente, il buio scese sui miei occhi.
 
 
Giorni dopo, quando finalmente si iniziò a scavare tra le macerie del palazzo imperiale, non venne ritrovato nessun corpo. I miei amici, i resti dell’Imperatore: tutto era stato spazzato via dalla furia dell’esplosione.
Anche delle due spade magiche si perse ogni traccia.
 
 

Dopo la fine dell’ultima canzone la maggior parte del pubblico lasciò la locanda a piccoli gruppi. La porta si aprì e richiuse diverse volte con un lieve cigolio, lasciando irrompere qualche sbuffo di neve sulle assi del pavimento e provocando i brontolii dell’anziana padrona di casa. Come accadeva spesso, qualcuno si soffermò per scambiare due chiacchiere o domandare le ultime notizie dalle città vicine. Rimasi volentieri a parlare fino a tardi.
L’ultima ad andarsene fu proprio la padrona della locanda, ma non prima di avermi messo davanti un ultimo boccale di idromele caldo, una gradita offerta della casa. Le augurai la buonanotte e rimasi a sorseggiarlo con gli occhi socchiusi, godendo del tepore del camino che mi accarezzava piacevolmente la schiena.
Non mi accorsi subito dell’unico avventore rimasto nella sala comune insieme a me. Si era tenuta in disparte, dandomi le spalle mentre faceva asciugare i guanti e gli abiti bagnati al calore del fuoco. Scelse proprio quel momento per avvicinarsi.
“Mi hanno detto che hai chiesto di me.”
L’ultimo sorso di idromele mi rimase bloccato nella gola.
Quasi non l’avevo riconosciuta con i capelli neri raccolti in un’acconciatura alta e gli abiti scuri da viaggio, ma bastò un suo sorriso per dissolvere ogni dubbio.
“Mi era mancato tanto sentirti cantare.”
  
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