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Autore: Soul Mancini    08/09/2020    4 recensioni
«Non chiudo occhio da tre settimane, dalla sera in cui quello sconosciuto mi ha bloccato al muro e mi ha strappato via i vestiti – la vita, la dignità, il sorriso.
Ed eccomi qui, fragile e distrutta, con le palpebre troppo pesanti e gli occhi appannati da lacrime e vapore. Eppure non riesco a chiuderli, forse perché so che poi non avrò più la forza di riaprirli. […]
Mi porto una mano sul ventre troppo piatto e magro, lascio che le dita troppo sottili e pallide accarezzino la pelle nascosta sotto la stoffa sdrucita. Non riesco davvero a credere che esattamente in quel punto, dentro di me, stia nascendo una nuova vita.
Sembra quasi uno scherzo, un paradosso: mentre la mia si spegne e si consuma, quella del mio bambino comincia ad ardere e scalpitare.»
Un breve scorcio nei pensieri di Veronica Mancini, nel momento in cui il destino ha deciso di spezzare la sua esistenza e la sua sete di vivere.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Needles'
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Niki
My cup of sorrow



Il sapore leggero e speziato del tè nero mi pizzica la lingua, la vaniglia tenta di addolcire l’amaro che sento in bocca. Incredibile come una delle mie bevande preferite mi risulti nauseante in questo momento.
Il liquido caldo e scuro mi brucia la gola, eppure tremo.
La tazza bollente mi scotta i polpastrelli, eppure tremano.
L’afosa notte di luglio s’insinua dalla finestra, eppure non riesco a smettere di tremare. Come se l’inverno ce l’avessi dentro.
Maura si accomoda accanto a me e mi scruta con attenzione; i suoi occhi scuri, sempre così severi e critici, si addolciscono solo per me.
“Vuoi dello zucchero per il tè?” mi domanda in un mormorio, spingendo appena la zuccheriera in ceramica verso di me.
Scuoto il capo; una lacrima mi scivola sulla guancia e si tuffa nella tazza stracolma di tè. Le premure di mia sorella mi commuovono: lei è l’unica che mi è rimasta accanto in ogni circostanza, anche quando sono scappata, anche quando ho sbattuto il muso contro il muro della vita vera, anche adesso che sono distrutta.
“Voglio soltanto dormire” soffio con la voce rotta.

Non chiudo occhio da tre settimane, dalla sera in cui quello sconosciuto mi ha bloccato al muro e mi ha strappato via i vestiti – la vita, la dignità, il sorriso.
Ed eccomi qui, fragile e distrutta, con le palpebre troppo pesanti e gli occhi appannati da lacrime e vapore. Eppure non riesco a chiuderli, forse perché so che poi non avrò più la forza di riaprirli.
Avevano ragione i miei genitori quando dicevano che le ragazze come me vengono punite, che le ribelli e le diverse non meritano di avere un futuro. Ma io non li ho ascoltati, sono stata testarda e adesso ne pago le conseguenze.
Solo perché ero una ragazzina che voleva tuffarsi nel mondo ed esplorarlo fino in fondo, solo perché sono fuori dagli schemi.
Poso lo sguardo su Maura e capisco fino in fondo quanto ho fallito: lei si è sistemata, ha una bella casa, un marito che lavora sodo e una figlia adorabile; è una brava ragazza, mia sorella.
Mi poso una mano sulla fronte e sospiro. Vorrei tanto dormire e dimenticare chi sono, risvegliarmi senza avere memoria del mio passato e ricominciare a vivere, come facevo prima di tre settimane fa.

Mi porto una mano sul ventre troppo piatto e magro, lascio che le dita troppo sottili e pallide accarezzino la pelle nascosta sotto la stoffa sdrucita. Non riesco davvero a credere che esattamente in quel punto, dentro di me, stia nascendo una nuova vita.
Sembra quasi uno scherzo, un paradosso: mentre la mia si spegne e si consuma, quella del mio bambino comincia ad ardere e scalpitare. Il mio bambino, sì, perché lo amo già e lo voglio con me; in mezzo a questo mare di dolore, lui – o lei, ancora non lo so – è l’unico evento positivo, l’unica fiammella di speranza che mi dà ancora la forza di lottare.
Anche se è il frutto di una violenza, lui sarà la creatura più pura che questa Terra possa conoscere. Sarà comunque il mio dolce bambino.
Mi specchio nel liquido scuro che ormai riempie la tazza solo per metà e il mio riflesso sbiadito si perde sul fondo.
Forse sono io a essere sbiadita.
Chissà se mio figlio avrà gli occhi scuri come i miei, o saranno di quel blu ghiacciato che riempiva le iridi del mio aggressore. Ormai conosco ogni sfaccettatura del suo sguardo cattivo, mi ha costretto a guardarlo per tutto il tempo mentre mi metteva le mani addosso e si prendeva il mio corpo con la forza. Bastardo.
E quegli occhi mi seguono ovunque, mi scrutano dall’oscurità, mi intimano di tenere i miei aperti, in agguato.
Vorrei soltanto dormire e risvegliarmi tra nove mesi, in un mondo migliore, in una dimensione dove non esiste la violenza e i colori riempiono ogni angolo.
Vorrei soltanto insegnare a mio figlio a vivere, senza sentirmi morire ogni volta che lo guardo e lo stringo a me.

Mi sento così sporca, sudicia.
Mi sento sporca in mezzo alle gambe, laddove sono stata violata, e non esistono prodotti, saponi o medicine in grado di ripulirmi.
Mi sento sporca tra i capelli stopposi, tra le pieghe dei vestiti provati dalla vita di strada, sulla pelle pallida e secca.
Mi sento sporca nell’anima.
Sporca ed esausta. Debole, impotente.
In fondo io che ne so della vita? Che ne so di cosa si deve fare in queste situazioni, quando qualcuno prende a calci la tua dignità e ti lascia a tremare in un angolo, piena di lividi e con un bambino in grembo?
Io non lo so, perché sono sempre stata ingenua, ho sempre pensato che la vita fosse soltanto un gioco e che, anche se avessi perso una partita, mi sarei potuta rifare nella successiva. Non avevo capito quanto ci si potesse far male.
E non lo so perché ho solo ventun anni.
Il futuro mi fa così tanta paura che non lo voglio affrontare, non ne ho le forze e le capacità. Non sono pronta a dimenticare lo stupro, non sono pronta a diventare madre, non sono pronta a crescere così in fretta.
Vorrei soltanto serrare gli occhi – una pesante saracinesca che si chiude sul mio futuro – e rimanere intrappolata in questo limbo che è il presente, con la tazza tra le mani e l’aroma della vaniglia che mi pizzica le narici, dolce illusione che possa ancora andare tutto bene.
Mi poso nuovamente una mano sul ventre e piango.
Vorrei tanto dormire e non risvegliarmi mai più, lasciarmi andare al rassicurante nulla privo di pensieri e preoccupazioni, e cullare il mio bambino verso l’oblio insieme a me. Staremmo bene insieme, lontani dalla crudeltà della vita.
Ma oggi so che non posso, so che lui ha bisogno di me e lotterò fino all’ultimo respiro per permettergli di venire al mondo. Perché è una creatura tanto dolce, senza colpe e senza peccati e lo terrò in vita così come lui tiene in vita me.
Anche se ho il cuore pieno di graffi e lividi, oggi finirò di bere la mia tazza di dolore e andrò avanti per il mio bambino.




♠ ♠ ♠


Era da tempo che volevo scrivere una storia dal punto di vista di Niki, la madre di Ives; la sua storia è davvero triste e meritava di essere raccontata.
Per chi non conosce la serie, non farò alcun tipo di spoiler su come sia andata a finire la vicenda, anche perché non credo ce ne sia bisogno – ho cercato di rendere il tutto più chiaro possibile e limitare al minimo i riferimenti alla serie di cui lo scritto fa parte ^^
Per chi invece conosce la serie: notate qualche somiglianza tra il carattere di Niki e quello di Ives? Non l’ho fatto volutamente, ma giunta al termine della stesura mi sono resa conto che hanno tanto in comune, sono proprio madre e figlio XD voi che ne pensate?
Grazie mille a chiunque abbia letto questo piccolo momento introspettivo, spero di non avervi turbato troppo con queste tematiche estremamente delicate!
Alla prossima ♥

   
 
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