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Autore: saitou catcher    10/09/2020    5 recensioni
Dopo Shiganshina, Hange Zoe fa i conti con ciò che ha perduto e ciò che ancora le resta.
[Hange!centric- post terza stagione- spoiler capitolo 132- implied Hange/Moblit]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hanji Zoe
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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La sensazione più dolorosa è il vuoto dietro la benda.
È così intensa che a volte Hange si sveglia, nel mezzo della notte, e le sue dita incespicano nell’oscurità, percorrono il suo volto, trovano la stoffa e dietro non c’è niente, soltanto uno spazio che un tempo aveva qualcosa a riempirlo e adesso non lo ha più, e sentire il tessuto cedere sotto i polpastrelli è così terribile da spingerla a interrompere il contatto dopo pochi secondi. E lo stesso, non può farne a meno e ricorda: il bruciore affilato del vetro che le si spezza nell’occhio, il calore dell’esplosione che le incendia la pelle e Moblit che l’ha spinta via perché non bruciasse.
La sensazione più dolorosa è il vuoto dietro la benda, ma non è la peggiore, C’è un altro tipo di niente a tenerle compagnia, dopo Shiganshina- e per quanto allunghi le mani a cercarlo, è solo il vuoto che tocca.

Se c’è una cosa che Hange Zoe ha imparato, in anni trascorsi nel Corpo di Ricerca, è che a fare male non sono le cose che se ne vanno. A fare male sono quelle che restano.
Le voci che non puoi più udire, le mani che non puoi più stringere, ti piegano in due dalla sofferenza, ma è un dolore che passa. Sbiadisce col tempo e la tua memoria lo assorbe come il corpo assorbe i lividi. Quello che è perso rimane perso e Hange ha imparato ad andare avanti serrando ferocemente tra le mani i fili sfibrati della propria sanità mentale- sempre più sottili, sempre più fragili- e il colpo di forbice che minaccia di tagliarli è il foglio di appunti con la sua calligrafia che trova frugando tra i cassetti, il distintivo staccato dal corpo di un compagno caduto sopra una pila di distintivi di altri compagni caduti, il nome su una lapide sotto cui non è stato deposto nessun corpo. Il dolore di un occhio che ti esplode nell’orbita prima o poi scivola via, ma non l’oscurità che celerà per sempre metà del tuo mondo. Le persone se ne vanno. È la loro assenza che resta, ed è il peso più atroce di tutti.

Sono stanca. Si ritrova a pensarlo con una frequenza che la spaventa, perché lei non è mai stata stanca, o non riesce a ricordare l’ultima volta che lo è stata, ed erano sempre gli altri a ricordarle di mangiare o dormire o lavarsi, a pretendere che fermasse per un po’ gli ingranaggi implacabili del suo cervello prima che s’inceppassero per l’uso eccessivo. Era sempre qualcun altro a tirarla indietro un istante prima che raggiungesse il punto di rottura, era sempre Moblit, e adesso che lui non c’è più, Hange conta i passi e le parole e i pensieri e la stanchezza la travolge come una marea fatta di sabbia. Sono stanca, e nemmeno lei sa di cosa- andare avanti e avanti e avanti mentre gli altri se ne vanno e i loro vuoti restano, accumulare piani per vincere una battaglia di cui non vede la fine, offrire il proprio cuore per un’umanità che è solo uno sputo di reietti imprigionati su un isola. Se qualcuno le staccasse la testa dal collo con un calcio, come lei con quel gigante tanti anni fa, la vedrebbe affondare nel suolo per il peso dei rimpianti e dei dubbi che si porta dentro.
Hange è stanca, e non ha più nessuno che possa aiutarla a scordarsene.

Di tutte le persone che ha conosciuto da che si è arruolata, l’unico rimasto è Levi. Se dovesse morire anche lui, Hange lo sa come sa il proprio nome, non resterebbe più niente a tenerla in piedi, niente a impedirle di fracassarsi al suolo in un cumulo di schegge e di polvere- e nonostante questo, a volte lo odia.
Perché il problema non sono le cose che se ne vanno, il problema sono quelle che restano, e Levi cammina con i fantasmi di tutti coloro che non hanno salvato appesi alle spalle e Hange non riesce a guardarlo senza ricordare Shiganshina, la siringa che avrebbe potuto cambiare tutto, la scelta che avrebbe dovuto fare e non ha fatto. In questi giorni, Levi la segue come un’ombra, gli occhi perennemente oscurati da un velo di preoccupazione, ma Hange non vuole la sua preoccupazione, non vuole guardarlo e rammentarsi ogni volta che, senza di lui, non avrebbe più nessuno. Levi era l’ombra di Erwin, non la sua. L’ombra di Hange era Moblit, e se avesse avuto la possibilità di riportarlo indietro, non importa quanto labile, Hange l’avrebbe morsa tra i denti e non l’avrebbe mai lasciata andare; se avesse la possibilità di riempire il vuoto che le respira accanto ogni giorno, non la getterebbe via per niente al mondo.
Lei non ha avuto scelta. Levi sì. Non lo compatirà per aver preso quella sbagliata.

Se potesse, tornerebbe indietro? È una domanda a cui Hange non sa rispondere, e in fondo, la sua vita non è stata altro che questo, domande su domande e frammenti di risposte effimeri come fumo e taglienti come lame. Adesso, quando guarda la linea dell’orizzonte, Hange sente quel dubbio crescerle dentro, riempire gli spazi vuoti tra le costole come un secondo cuore: a volte lo sente battere, a volte fermarsi, a volte s’ingrossa sempre di più fino a farle temere che risucchierà tutto il resto, fino a non lasciare di lei nient’altro che stracci e ossa cave.
Se potesse, tornerebbe indietro? A quando le mura erano sbarre di una gabbia senza ragione, e i giganti mostri fatti di denti e occhi vuoti, niente storia né nomi, a quando il passato era solo una lastra bianca e non una catena forgiata da colpe altrui, quando era certa che sarebbe morta senza averlo deciso e che l’avrebbe fatto urlando?
(A quando il sacrificio aveva un senso e la morte uno scopo, e il desiderio di sapere la teneva sveglia la notte come se avessero acceso il suo sangue con cento fuochi di artificio; quando Levi era ancora capace di sorridere come se non facesse male ed Erwin era lì per indicare la strada e di Moblit esisteva più che un foglio accartocciato di appunti?)
Non sa quale sia la risposta. Non crede che la troverà mai. E forse, si dice, è meglio così. Ci sono verità che non serve sapere.

È in mezzo al corridoio, accasciata contro la parete, lottando per tenersi in piedi, lottando per respirare, gli sguardi Nile e Zackley e Pixis che le affondano nel cervello come uncini arroventati, e non serve che parlino perché Hange riesca ad immaginare cosa pensano, cosa pensano tutti. Non sei fatta per tutto questo, non hai la stoffa per essere Comandante. Non avrebbero mai dovuto scegliere te.
E può dare loro torto? È lei la prima a sapere che non è questo il suo posto- ci sono così tante strade da prendere e così tante cose che potrebbe sbagliare e ogni giorno le catene attorno alla sua gola si stringono un po’ di più. Riprenditelo! Lo urla nella sua testa fino a lacerarsi la voce, ogni volta che il viso morto di Erwin lampeggia in fondo alla sua mente, ogni volta che lo sente nominare anche solo di sfuggita. Questo era il tuo ruolo, il tuo compito, quello che spettava a te! Io non lo voglio! Perché lo hai dato a me? Perché, quando sapevi che non avrei avuto idea di cosa fare?
Quando avverte dei passi alle sue spalle, non si gira a controllare chi sia. Sa già chi troverà, e l’ultima cosa che le serve, in questo momento, è uno specchio del suo dolore e della sua inadeguatezza, così, quando Levi le si inginocchia accanto, cercando il suo sguardo, lei tiene il suo testardamente fisso a terra.
“Hange” lo sente mormorare. La sua voce è fievole come se provenisse da molto lontano. “Hange-”
No” sputa lei, l’unico suono che riesce a tirare fuori dalla gola serrata, e i suoi occhi, quello che ancora possiede e quello che è soltanto un vuoto, si fanno brucianti di lacrime; ma le lacrime non ricuciono le ferite, piangere non riporta indietro nessuno, così le ingoia e le ricaccia, in un luogo oscuro da cui non potrà recuperarle mai più. “Lo sai che cosa mi hai chiesto? Lo sai che cosa mi hai imposto?” alza la testa a guardarlo, e nonostante la rabbia che le si annoda rovente tra i polmoni, la desolazione che vede sul volto di lui resta un colpo al cuore. “Ti sei reso conto, quella volta, che stavi decidendo anche per me?”
Per un tempo che sembra infinito, Levi non risponde. Sono inginocchiati l’uno di fronte all’altra, nel buio di un corridoio vuoto, due relitti consunti e spezzati di una guerra che non si decide a finire, due reduci che hanno schivato la morte una volta di troppo, e se chiude gli occhi, se si concentra, Hange quasi può sentirlo: il respiro di Moblit che le sfiora il volto come una carezza fatta d’aria, lo sguardo di Erwin che pesa come una sentenza sulla schiena. Il vuoto che le ha squassato il petto quando ha guardato in quegli occhi che conosceva per non vedervi più neanche una scintilla è una sensazione che la strazierà per il resto della vita.
Nel silenzio e nella penombra, quando si è convinta che ormai non parlerà, la mano di Levi si posa sulla sua spalla. “Sì” dice soltanto, metà una confessione e metà una scusa. “Sapevo che potevi farcela. Lo sapeva anche lui.”
Non ti credo, ringhia la mente di Hange, ma non ha la forza di dirlo, così come non ha la forza di respingere le dita che sente sulla pelle. Non sono le cose che se vanno a fare più male. Sono quelle che restano, e malgrado la rabbia e la delusione e il dolore, c’è una verità che Hange sa come sa il proprio nome: che non permetterà a Levi di diventare l’ennesima assenza che cammina al suo fianco.

Dopo Shiganshina, gli anni passano in fretta. Scivolano gli uni sugli altri come granelli di sabbia, il mondo gira su sé stesso con una velocità che prima non ha mai posseduto- e all’improvviso, il confine tra cielo e mare diventa soltanto un’altra cerchia di mura invisibili. Hange ci prova, a tenere il passo. È il Comandante del Corpo di Ricerca, ora, anche se non è rimasta più alcuna verità da cercare, ma ovunque si giri, ad aspettarla non c’è altro che un’altra guerra, un altro nemico, un’altra battaglia a cui donare il proprio cuore, anche se ormai non lo sente più battere.
(Come riafferri il mondo, quando per te il tempo si è fermato? Come disegni il futuro, quando ti basta chiudere gli occhi per rivedere il passato- quando i tuoi sogni sono una mano che ti spinge e una caduta che non ha più fine?)
Hange prova a tenere il passo, ma la strada le sfugge da sotto I piedi- e quando si rende conto di che cosa sta davvero accadendo, l’ombra di Eren si è allargata su tutto, e il mondo annega in un’ondata di sangue.

Prende il volo per l’ultima volta, su una distesa fumante di Colossali che marciano per distruggere ogni forma di vita, e il cuore le esplode nel petto con una gioia che per anni non ha più provato; che le fa desiderare di ridere fino a farsi scoppiare I polmoni, mentre mette mano alle lame. “Ah” esala. “I giganti sono sempre stati meravigliosi.”
Vola sempre più in alto, nel calore che le brucia la pelle, che le polverizza il respiro, e non si ferma- perché ha promesso che sarebbe stata coraggiosa, perché può mettere a posto ogni cosa, perché questa è la sua ultima battaglia e la concluderà a testa alta- perché ogni cosa che ha perduto è lì con lei, adesso, e il calore del pugno di Levi stretto sul cuore è più forte di tutti i Colossali che la circondano. Resisti, ripete, ed è quel pensiero che la tiene in piedi, mentre la carne le si affloscia sulle ossa come uno straccio vecchio, mentre anche l’unico occhio rimastole si dissolve in una poltiglia di oscurità rovente. Per Moblit che ti ha salvato la vita, per Erwin che ti ha affidato ogni cosa, per Levi che hai lasciato indietro- resisti per loro, per tutti I tuoi compagni, per te stessa; resisti e offri il tuo cuore, se non ti è rimasto altro da dare.
Con tutto ciò che le resta, vibra un colpo, l’ultimo colpo- la lama sfugge dalle sue dita piagate, ed Hange cade, senza vedere, senza poter urlare- ma sa di star sorridendo, e per la prima volta da anni, in lei non c’è posto per il vuoto.

Quando riapre gli occhi, ad accoglierla c’è il sorriso di Moblit.

Se qualcuno mi avesse chiesto chi, fra i personaggi ancora presenti, ritenevo più o meno al sicuro dalla falce di Isayama, prima di questo capitolo avrei risposto senza indugio Hange. Essendo diventata la leader de facto di Paradis, data l'eliminazione di tutto lo Stato Maggiore ed Historia che non perviene (e di cui nessuno sembra ricordarsi l'esistenza XD), mi sembrava la più indicata a ricostruire il mondo dopo la sconfitta di Eren. E' saltato fuori che mi sbagliavo, e di grosso, anche.
Come che sia, per quanto stia ancora faticando a digerire la notizia, se non altro, la sua morte è arrivata in un momento in cui il suo percorso narrativo poteva dirsi completo, quando Hange ha recuperato parte dello spirito, della determinazione, della lungimiranza un po' folle che erano i suoi cavalli di battaglia e che in questa seconda parte di storia erano andati un po' persi, nel momento in cui si è riscattata per la sua inerzia nei confronti di Eren realizzando ciò che sembrava impossibile: un'alleanza tra Eldiani e Marleyani. Se Eren verrà sconfitto (cosa che mi auguro ardentemente), sarà sopratutto perché lei è riuscita a riunire tutti contro di lui, perché si è sacrificata per dare all'aeronave il tempo di decollare, perché, ancora una volta, ha saputo credere in qualcosa che sembrava impossibile. E' morta mostrandosi degna del suo ruolo, degna della fiducia che Erwin e il Corpo di Ricerca avevano risposto in lei, e per quanto possa far male, trovo che sia un finale adeguato per uno dei personaggi di quest'opera che più si è guadagnato il mio affetto.
Quindi, questa fic è una sorta di panoramica del percorso che Hange ha fatto in questi ultimi capitoli, e spero che possa piacervi.
Catcher

  
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