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Autore: La_piccola_Gna    11/09/2020    0 recensioni
Io non ho un padre parla di Luca e della sua vita, che è stata scossa da un bruttissimo avvenimento. Luca è venuto a conoscenza del dolore troppo presto e con questo dovrà farci i conti per sempre.
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La vita non è semplice, non lo è per nessuno

Chi se lo immaginava potesse cambiare così, all’improvviso?

 

Sono Luca, ho 33 anni, vivo in un paesino a nord di Torino ed scoperto troppo presto che la vita può essere ingiusta.

Quando ero piccolo ho perso mia mamma in un incendio.

Vivevo in una casa “diroccata”, come la chiamavo io, un buco di casa nel culo di niente, che stava in piedi per chissà quale miracolo, con le mie due sorelle e mio fratello. Purtroppo mio padre è finito in mano agli strozzini per via delle costose cure che deve fare mia sorella Maria; così questi aguzzini ci hanno trovato questo schifo di casa e pagavamo anche un affitto molto alto per sopravviverci dentro. Era piccola, umida, piena di muffa. Gli impianti elettrici e idraulici vecchi e marci, era una casa del dopoguerra dove nessuno ci aveva mai messo mano e disabitata da chissà quanti anni. Ogni tanto saltava la luce e stavamo al buio per ore. Era situata in un quartiere molto povero con altre case messe quasi tutte allo stesso modo. Erano palazzine di due piani, noi stavamo al secondo, sotto di noi non ci abitava nessuno perché l’appartamento era inagibile. Attorno a noi non c’era niente, campagna e qualche casa isolata. Parecchi chilometri in là c’era un centro commerciale. L’unico autobus che passava e che ci collegava alla realtà passava una volta all’ora.

 

Mio padre è un uomo del sud, il classico padre di famiglia che si trasferisce al nord per lavorare e dare un minimo di futuro ai figli. Quando si è sposato con mamma la prima cosa che le ha detto, ancora prima di dirle “ti amo” è stata “tu accudisci i nostri figli, al resto ci penso io”.

Ricordo infatti di non aver mai passato tanto tempo con lui, era sempre a lavorare: la mattina aiutava suo fratello, mio zio, al negozio di alimentari, si alzava alle 5 per sistemare scaffali e magazzino, mentre lo zio vendeva frutta e verdura. È sempre stato un bravo venditore, mi raccontava mio padre che negli anni 50 è riuscito a vendere una 500 senza sedili! Ancora però non mi ha svelato i suoi metodi e mi chiedo come diavolo possa essere possibile.

Poi la sera faceva il cameriere nell’unico ristorante che c’è in questo piccolo paesino e tornava sempre tardi la notte, io ed i miei fratelli eravamo già a letto. 

Mia sorella Giulia, la più piccola dei 4, piangeva sempre all’ora di cena, perché voleva che papà mangiasse con noi, voleva che le facesse l’aeroplanino e che facesse le sue facce buffe per farci ridere.

Nei fine settimana capitava spesso che andasse a lavorare fuori dal paese, una volta per campi, una volta alle vigne, quello che c’era da fare lui faceva, noi eravamo 4 e dovevamo crescere.

Mia mamma più volte ci ha litigato perché voleva dare una mano, fare qualche lavoretto in casa di qualche anziano signore che non era più capace di fare, ma lui è sempre stato fermo nella sua posizione, la donna deve fare la mamma ed accudire casa e figli.

Spesso mamma piangeva in silenzio, di nascosto, non poteva farsi vedere da papà perché, bensì fosse l’uomo più buono del mondo, su questo discorso nessuno si poteva permettere di dire qualcosa. 

A mamma non piaceva questa vita, non voleva essere solo la mamma, a lei piaceva dipingere ed i bellissimi quadri appesi per casa erano tutti suoi.

Il campo di lavanda con il mulino era il mio preferito, mi ci perdevo intere ore a guardare ogni singola pennellata, ogni dettaglio pitturato minuziosamente. Un quadro dai colori sgargianti che però celava una malinconia interiore molto profonda; potevo sentire gli esatti sentimenti con cui ha dipinto quel quadro: l’enorme felicità e la gioia nel fare quello che amava e la devastante tristezza nel non potersi esprimere come desiderava. Avrebbe voluto aprire un negozio per metterli in vendita, ma mio padre ogni volta rideva davanti ai suoi tentativi di fargli capire che stava male.

 

Oh, mamma... come eri brava a dipingere... se mai avessi aperto un negozio non avrei mai permesso per nessun motivo al mondo di vendere questo quadro.

 

Così, noi figli, ci trovavamo sempre a casa con lei, che doveva badare a Giulia, ancora troppo piccola per andare da sola, Giovanni che iniziava a crescere e dare problemi, io che stavo entrando nell’adolescenza, e sapete quanto è difficile quel periodo, e Maria.

Maria ha una malattia rara ed ha sempre avuto bisogno di continue attenzioni e cure, nonché di frequenti visite specialistiche ed esami. Mia mamma non ci permetteva di stare troppo con Maria, la quale praticamente viveva nella sua camera da letto, perché aveva paura le passassimo qualche germe o batterio e per la sua condizione era gravissimo prendere anche solo un raffreddore. Mio fratello Giovanni, non capendo la delicata situazione di Maria, faceva i capricci; non capiva perché lei potesse avere una stanza tutta sua mentre lui doveva condividere la stanza con noi e spesso mia mamma doveva zittirlo con uno schiaffo. 

Io guardavo queste scene senza proferire parola. Ma cosa avrei potuto fare? Mio padre era inesistente, mia mamma si barcamenava tra 4 figli piccoli e una casa da portare avanti, non avevo alcun potere, essendo comunque piccolo nonostante fossi il più grande.

 

Quindi mio padre passava il tempo a lavorare per cercare di sostenere economicamente la famiglia e, forse, anche per restarne il più fuori possibile.

La malattia di Maria lo aveva distrutto, credo che più che per i soldi lavorasse così tanto per sfiancarsi e non pensarci e non vederla nel letto, ferma, bianca e debole. Lui desiderava tanto una bambina, quando è nato Giovanni ricordo che ha urlato, ma non di gioia. Prima io poi Giovanni, dov’era la figlia che aveva sempre sognato di tenere in braccio? Perché Dio non gli mandava una bambina? Pregava e bestemmiava lo stesso Dio che poi, tre anni dopo, gli ha mandato una bambina malata.

 

Ma i tre lavori di mio padre non bastavano perché le cure e le medicine costavano troppo ed eravamo comunque quattro bambini bisognosi, così abbiamo dovuto cambiare casa per venire in questa catapecchia cercando di risparmiare qualche soldo. 

Purtroppo quella decisione non risparmiò la mamma. La notte del 7 giugno del 2002 un guasto all’impianto elettrico creò delle scintille ed in pochi attimi c’erano fiamme dappertutto. Io avevo 15 anni, ero ancora sveglio mentre i miei fratelli dormivano tutti. Stavo guardando le donne nude sui quei canali sconosciuti, a volume spento sperando che nessuno si svegliasse e mi beccasse. Ero in piena esplosione ormonale e la scuola era appena finita, non avevo una fidanzata e quei canali erano una compagnia molto gradevole la notte. Ad un tratto ho sentito una incredibile puzza di bruciato, non mi ero accorto delle fiamme che, nonostante la mia camera non fosse vicino alla cucina, luogo da cui si è propagato l’incendio, facevano abbastanza luce da riflettere sulle pareti e vedersi anche in camera. In un attimo ho capito che dovevo correre e anche veloce!

Ho iniziato ad urlare svegliando tutti, ho tirato su Giovanni dal letto con un braccio e Giulia con l’altro tenendola salda attaccata a me, sono corso in camera di Maria che, fortunatamente, a causa della sua malattia pesava pochissimo, e mi sono messo in braccio anche lei oltre a Giulia. Spingevo Giovanni con dei calci urlandogli di correre e scendere le scale. Mamma, che nel frattempo si era precipitata in cucina vedendo che ai miei fratelli ci stavo pensando io, credevo che cercasse di domare l’incendio mentre io portavo i ragazzi giù, ricordo che urlava, credevo si stesse bruciando per cercare di salvare le nostre poche e care cose. Mi urlava di scendere e di non voltarmi “scendi e non voltarti io sono qua dietro”, ma io l’ho vista che si era fermata.

“Scendi e non voltarti”... avrei dovuto ascoltarla. Mi sono voltato e l’ho vista, ho visto che si è arresa, io l’ho visto quello sguardo che mi ha trafitto il cuore, uno sguardo che diceva “scusa figlio mio, ma non ce la faccio più”, uno sguardo che non cancellerò mai dalla mia memoria. Credevo volesse spegnere l’incendio ed invece stava spegnendo sé stessa e la tristezza di una vita non vissuta.

 

  • MAMMA!!! MAMMA!!!

Chiamava Giulia mentre correvo giù dalle scale

  • Non preoccuparti la mamma arriva subito...

Guardavamo l’appartamento bruciare seduti sul marciapiede di fronte, abbastanza lontani per non percepire il calore provocato dalle fiamme. Io tenevo Giulia sulle mie ginocchia e le asciugavo le lacrime con la maglia del pigiama, Maria e Giovanni erano seduti di fianco a me, tutti abbracciati stretti come fossimo un’unica entità.

  • Luca ma la mamma è morta?
  • Non lo so Maria...

Ho risposto che non lo sapevo, anche se in realtà io sapevo benissimo cosa avevo visto.

La gente stava iniziando a scendere dalle case sentendo le urla ed aveva iniziato a radunarsi intorno a noi chiedendoci se stessimo bene e guardando disperatamente il portone, aspettando nostra mamma, sperando che prima o poi uscisse.

Dopo diversi minuti, che a noi è sembrata un’eternità, è arrivata un’armata di furgoni e macchine: ambulanze, vigili del fuoco, polizia; non so chi li avesse chiamati, probabilmente un vicino, ma era comunque troppo tardi. Casa era distrutta e mamma... mamma era morta.

 

 

“Ma papà dov’è?” Mi chiedevo incessantemente. “Dov’è? Perché non era con noi?” e piangevo di una rabbia che bruciava dentro più di quel fuoco appena vissuto.

  • Ragazzo, lo so che è difficile, ma ora devi farti forza per i tuoi fratelli, sei il maggiore ed hanno solo te qui ora. Non puoi farti vedere in questo stato.

Il poliziotto non capiva. Ero incazzato con quel padre che è sempre stato assente ed anche ora, che avevo bisogno di lui, come al solito non c’era. 

Lo odiavo. E piangevo lacrime di odio. La mamma era appena morta ed io non potevo far altro che odiare mio padre.

La polizia ci voleva portare in centrale per farci delle domande, ristorarci, farci riprendere un po’ e ci avrebbe diviso perché sulla volante non ci stavamo tutti e quattro. Giulia e Giovanni si disperavano, non volevano lasciarmi, Maria guardava in terra, avvolta da una coperta, non parlava, non piangeva.

  • No voi non ci separate. I miei fratelli hanno bisogno di me ed io di loro e staremo sempre uniti perché noi siamo una famiglia. Noi ci saremo sempre l’uno per gli altri.

Li guardavo con gli occhi ancora gonfi di lacrime, dall’alto, stringendoli a me e loro si aggrappavano alla mia maglia ed ai miei pantaloni, stretti stretti e mentre dicevo quelle parole pensavo a mio padre. Ormai era escluso, la famiglia eravamo noi non avevamo bisogno di un uomo che ha lasciato morire la moglie da sola, bruciata viva in una casa che non era nemmeno sua.

   
 
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