Capitolo
17
Distinguere
acutamente il
bene dal male era sempre stata una prerogativa di Loki Odinson. La sua
penetrante intelligenza gli aveva regalato una forte
capacità critica che
applicava non solo nei riguardi di chi lo circondava, primo tra tutti
Thor, ma
anche verso se stesso. Guardandosi allo specchio,
l’ingannatore sapeva
distinguere uno per uno i rancori e gli odi che gli rimanevano
incastrati nelle
sopracciglia aggrottate, nello sguardo trasparente e spesso fin troppo
duro,
nella piega sprezzante e altera delle labbra sottili. No, Loki non era
come
quelli che inseguono una chimera o si lasciano corrompere dal male in
buonafede, tutt’altro, né s’illudeva o
chiamava le cose con un nome diverso dal
loro. Quando si travestì da viandante per celarsi agli occhi
del guardiano, incamminandosi
verso sentieri noti a lui solo che gli avrebbero fatto raggiungere
Jotunheim,
sapeva di stare per commettere un alto tradimento, doppio,
perché tradiva suo
padre e la sua patria. Allo stesso modo, quando arrancò
nella neve alta che
circondava il desolato palazzo di re Laufey, sapeva benissimo quali
punizioni
spettassero a chi vendeva Asgard al nemico. Perché questo
era esattamente ciò
che stava facendo: pur di impedire, con ogni mezzo, a Thor di diventare
re al
posto suo, Loki era disposto a gettare nel caos la terra
dov’era cresciuto, a
mettere a repentaglio tutto ciò che amava e gli era caro. A
suo tempo, aveva
fatto la stessa cosa con Sigyn, perdendola. Era cosciente che,
lasciando
entrare i giganti oltre le sacre mura di Asgard, esponeva gli
Æsir a una guerra
in cui molti sarebbero morti. Il sacrificio, però, gli parve
poca cosa rispetto
al bene che ne sarebbe derivato dopo: Loki aveva calcolato, con crudele
precisione, che se suo fratello fosse diventato re, i danni al regno
sarebbero stati
molto più ingenti e tragici di quelli provocati da lui
stesso. E, con questa
spietata tesi tutta da dimostrare, chiese e ottenne, non senza
difficoltà, che
il capo dei giganti di ghiaccio lo udisse. I motivi per cui aveva
scelto, tra i
molti nemici di Asgard, proprio i più temuti, erano
molteplici. La sicurezza
dello sdegno feroce, anzitutto. Thor avrebbe cercato
un’inutile e stupida
vendetta, mostrando a Odino quanto non meritasse di succedergli. E,
dopo averlo
escluso dal trono, la scelta di Padre Tutto, non potendo ricadere
sull’ancora
troppo giovane Balder, si sarebbe indirizzata verso l’unico
che avesse le
qualità e le abilità per regnare: lui, Loki
Lingua d’Argento.
Eppure,
nonostante il
terribile inganno che stava perpetrando a danno del fratello, il mago
non
odiava Thor. Gli aveva salvato la vita mille volte, seguendolo in
ognuna delle sue
folli imprese, e l’altro aveva fatto lo stesso con lui. Di
più, se qualcuno avesse
minacciato in qualche modo Asgard e Thor – gli stessi che
Loki stava mettendo
in pericolo – lui si sarebbe erto a difensore di entrambi,
lottando fino alla
morte, perché erano pari – entrambi figli di Odino
e investiti del diritto di
succedergli, un giorno. Solo che lo scranno di Padre Tutto non poteva
ospitarli
entrambi e allora, poiché Loki non aveva la
benché minima voglia di
sottomettersi in alcun modo a suo fratello, l’unica via era
sottrargli quel
privilegio che giudicava malriposto. Il dio del tuono, poi, non aveva
fatto
granché per ingraziarsi l’ingannatore o rendere
meno doloroso lo smacco. Si
credeva superiore a lui per via della sua forza bruta e delle lodi che
gli
venivano perennemente tributate dai guerrieri che gli ronzavano sempre
attorno.
Questo era il difetto principale e più insopportabile di suo
fratello: la
vanagloria, il volersi circondare di gente pronta a lodarlo e a
combattere al
suo fianco spesso unicamente per soddisfare il suo orgoglio. E Loki,
che si
rifiutava di sperticarsi in patetiche lodi, veniva tacciato
d’invidia.
Effettivamente, in una prova che riguardasse la mera forza fisica, come
il
lancio del tronco, Thor non aveva rivali e Loki, sebbene forte, non era
alla
sua altezza. Ma era più resistente e furbo e veloce. E tutti
questi elementi
avevano un loro peso, in battaglia, tanto che trovarsi davanti il primo
figlio
di Odino era un’esperienza spaventosa, ma col cadetto non si
scherzava di certo.
A labbra strette, Loki avrebbe anche dovuto ammettere, almeno con se
stesso, che
il risentimento verso Thor era scoppiato quando Padre Tutto lo aveva
preferito
smaccatamente a lui. Che con l’impulsività di suo
fratello aveva convissuto per
una vita intera, buttando il capo all’indietro e ridendo di
cuore di fronte
alle sue impetuosità. Che prima di disprezzarlo, lo aveva
ammirato, seguito,
spronato, consigliato. Le vittorie dell’uno erano state
quelle dell’altro e
senza i loro teatrini e i piani, che spesso allestivano in
virtù del fatto che
bastava loro uno sguardo, per capirsi, Asgard avrebbe avuto meno
lustro. Solo
che Loki non era disposto a inchinarsi e prestare giuramento a suo
fratello. Né
ora né mai.
A Laufey
l’ospite venuto
da Asgard non piacque affatto. Lo squadrò da capo a piedi
riconoscendo, in lui,
qualcosa di storto, di sbagliato. C’era, nella sua figura
orgogliosa,
un’incongruenza di cui solo il re dei giganti sembrava
accorgersi. Fu tentato
di chiamare un indovino che sbrogliasse i suoi dubbi circa le
intenzioni dello
straniero, ma la voce del ragazzo – perché tale
era – lo incatenò con promesse
suadenti. Lo scrigno degli Antichi Inverni di nuovo al suo posto, a
Utgard. Il
traditore – perché il suo ruolo era
evidente– aveva scelto di presentarsi con
un nome falso per sua stessa ammissione. Spiegò che
ciò avrebbe tutelato sia
lui che i giganti da future rappresaglie – perché
ci sarebbero state, sicuramente.
Laufey non seppe mai dire perché lo ascoltò fino
in fondo. Il suo primo impulso
era stato quello di alzarsi e di andarsene, insultato da una visita che
prometteva chimere e riesumava antiche ferite. Il questuante bugiardo e
millantatore andava punito con la morte, il suo cadavere gettato in un
dirupo,
affinché i lupi lo divorassero. Solo che l’ospite
conosceva davvero Odino e il
palazzo reale e fu quella consapevolezza, trapelata dal bel discorso di
lui, a
incatenare il sovrano al suo posto.
Non
ravvisò mai nei suoi
lineamenti quelli di una donna con cui, un tempo, si era intrattenuto:
lo
ingannarono le sue fattezze d’Ase.
“Fidatevi
delle mie
parole,” lo incalzò Loki, ipnotico. “Se
seguirete il passaggio che vi ho
indicato, nessuno vi vedrà. E mentre tutta Asgard
sarà impegnata ad ammirare
Odino e la sua famiglia, a festeggiare il futuro erede,”
proseguì leccandosi le
labbra, quasi stesse pregustando già il momento,
“un manipolo dei vostri
uomini, mio signore, potrà entrare e appropriarsi del vostro
scrigno,”
concluse.
Laufey lo
scrutò per l’ennesima
volta da capo a piedi, soppesandolo insieme alla sua proposta
scriteriata. Il
giovane, nei suoi movimenti fluidi, gli ricordava l’odiato
nemico, Odino. Rintracciò
in lui la medesima scaltrezza, l’identica protervia nel
proporre soluzioni
facili solamente sulla carta. Persino il modo di allargare le braccia
per
accompagnare un concetto, o di increspare le labbra in un ghigno
compiaciuto,
somigliava a quello del re degli Æsir.
“Perché?”
gli domandò,
assottigliando gli occhi e sistemandosi meglio sul trono.
“Perché tu, che sei
un figlio di Asgard, tradisci la tua patria?”
La schiettezza
della
domanda costrinse Loki a drizzare la schiena. Quella parola sbattuta in
faccia,
tradisci, lo colpì al punto da far
scolorire il suo viso affilato,
avvampare il suo sguardo aguzzo. Stava imboccando un sentiero da cui
non c’era
ritorno: ripensò a quando aveva tentato di salvare Sigyn dal
suo destino e, tra
le radici dell’Yggdrasill, aveva incontrato le tenebre
– e le Tenebre
avevano incontrato lui.
“Avrò
il mio tornaconto,
se voi, mio signore, prenderete lo scrigno,” insistette con
la risolutezza del
principe che era.
“E
quale sarebbe?”
s’interessò il gigante. “Ci
darà potere. Con quel potere, rappresenteremo di
nuovo una minaccia.”
“Forse.
O, forse, un’altra
guerra logorante potrebbe distruggere entrambi i nostri
regni,” insinuò Loki con
uno dei suoi sorrisi ambigui e spiazzanti. I suoi consigli avevano il
potere di
piantarsi nella testa di chi li ascoltava e di germogliare in idee
difficili da
estirpare.
Laufey
pensò che fosse
pericoloso e disperato. “Te lo domando di nuovo, e
bada,” l’avvertì, alzandosi.
“Bada a dirmi la verità, o ti ucciderò,
ti farò a pezzi e darò i tuoi resti in
pasto ai lupi. Perché lo fai?”
Il dio
dell’inganno si
assicurò che il suo respiro fosse assolutamente regolare.
“Devo vendicarmi di
Thor Odinson,” rispose con una calma rovinosa.
“Impedirò la sua incoronazione.”
Riuscì a
pronunciare quelle parole
concentrandosi sulle volte in cui suo fratello, tronfio e arrogante
com’era, si
era rifiutato di considerarlo suo pari, illudendosi che lui, Loki,
fosse
vittima, come tutti, del suo fascino, tanto da tributargli
un’inesistente
superiorità. Ma l’ingannatore non credeva
né vedeva una simile disparità: ciò
che il tonante possedeva nel braccio lui l’aveva nella testa.
Erano compagni
d’arme e lottavano per lo stesso obiettivo, sebbene paresse,
a volte, che a
Thor interessassero più la gloria e le lotte, che il
buongoverno della propria
terra.
Laufey si prese
qualche
momento per ragionare. Loki continuava a tenergli testa col suo
atteggiamento
fiero e lo sguardo fiammeggiante: intuì che le ombre che gli
asserragliavano il
petto erano più fitte e pericolose di quanto non sembrasse a
prima vista, e fu
per quell’oscurità che decise di credergli.
Eppure, Loki
quella notte
non rientrò trionfante ad Asgard. Raggiunse la periferia
della città nelle
vesti di un semplice pellegrino dall’aspetto stanco e
dinoccolato per sfuggire
all’occhio del guardiano, ma una volta al sicuro, non riprese
il consueto
abbigliamento e aspetto. Preferì rintanarsi
nell’ombra di una bettola
disgustosa a vedersi, indegna di accoglierlo, ma dentro cui aveva
brindato con
Thor mille volte e recitato versi appassionati per qualche bella
ragazza. E, in
un’occasione, la canzone gli era stata ispirata non dalla
graziosa ostessa
dall’ampia scollatura e la risposta svelta che li serviva, ma
da un’altra. Una
a cui aveva riparato un braccialetto d’oro e che lo fissava
sempre con
dispetto. Bevve il sidro sforzandosi di cacciare via dalla mente
persino il
nome di quell’ingrata bugiarda che le Norne avevano punito,
sforzandosi di
concentrare ogni suo pensiero sul piano. Nel momento in cui Odino
avrebbe
proclamato a tutti gli Æsir l’incoronazione del suo
primo, brillante, figlio,
un manipolo di Jotnar si sarebbe intrufolato nei sotterranei del
palazzo. La
reazione di un idiota come suo fratello sarebbe stata ben diversa da
quella,
accorta e ponderata, di Padre Tutto. Ne era certo. Il disgusto
manifestato da
Thor quando, insieme, avevano cercato di dirimere l’orribile
faida fraterna
scoppiata tra Oddr e Helgi gli aveva fornito la misura di
quell’odio. E la
triste storia dei due rivali bruciava ancora, nel petto del tonante,
come
un’ingiustizia che andava lavata via col sangue e di cui
riteneva responsabili
i vicini giganti di ghiaccio. A suo parere, questi ultimi avrebbero
esacerbato
la faida, anziché sedarla. Sì, il piano di Loki
sarebbe andato a buon fine –
solo che il sorriso che gli si dipinse sul viso affilato fu amaro e
breve.
♥
“Non
credevo leggessi
fiabe.”
Loki si
svegliò con uno
scatto rapido, e il libro che aveva sulle ginocchia cadde, perdendo il
segno.
Era mattina. Una luce livida e tenue filtrava dalle alte e strette
finestre a
ogiva che illuminavano la severa biblioteca di Odino. Negli occhi di
Sigyn
brillava una luce divertita e trionfante, segno evidente di come il
sorprenderlo lì, addormentato su una poltrona,
l’avesse piacevolmente stupita.
Le trecce in cui erano avvolti i suoi capelli erano meno severe di
quelle abituali
e le donavano maggiormente, ma Loki non le avrebbe mai detto che era
bella. Ancora
stropicciato e confuso, si riscosse, cercando di trincerarsi dietro il
contegno
abituale, – aveva bisogno di dissetarsi e di fare un bagno.
“Non
credevo fossi così
mattiniera.”
“La
prigionia mi rende
quasi insonne,” chiosò lei, “e le nostre
preghiere iniziano prima dell’alba.”
L’ingannatore
notò che lo
sguardo liquido e grigio della scintilla era appena segnato dalla
stanchezza e
ripensò a quando, un paio di sere prima, aveva visto la luce
filtrare da sotto
la sua porta. Lei, ancora incuriosita per la strana lettura del mago,
si chinò
per raccogliere il volume e porgerglielo, ma Loki si abbassò
per bloccarla a
metà strada, anche se, ormai, le dita della ragazza
sfioravano la copertina in
pelle. Erano più vicini di quanto non dovessero, ma
prestarono molta attenzione
a non toccarsi.
“Le
tue fiabe,” sorrise
lei.
“Nelle
fiabe si nascondono
spesso verità e insegnamenti. Non sottovalutarle,”
suggerì l’Ase. Quando fu in
piedi, si concesse di squadrarla meglio. “E tu, che cercavi
tu, qui, a
quest’ora?”
Un guizzo
indecifrabile
balenò nello sguardo di Sigyn. “Le cronache di tuo
nonno Bor. Le ho cercate
anche ieri, ma non le ho trovate.”
L’Ase
assottigliò gli
occhi e s’inumidì le labbra. La richiesta della
ragazza giungeva inaspettata,
come imprevisto era l’aiuto che lei, implicitamente, gli
chiedeva.
“Come
mai ti
interessano?” ghignò e, messosi il suo volume
sottobraccio, s’incamminò rapido
per i corridoi della biblioteca. Era una delle zone più
antiche della dimora di
Odino. Negli anni era stata ampliata e allargata più volte e
ora la sua pianta
vantava delle irregolarità capaci di trasformarla in un
labirinto dall’ordine
oscuro. Alcune sale sembravano fatte per stupire i visitatori:
possedevano
ampie finestre, grandi camini e poltrone, tavoli sedie. Altre, nei
tempi
passati avevano ospitato copisti e miniatori intenti a consumarsi la
vista alla
luce delle candele, nel tentativo di creare libri che erano opere
d’arte, prima
che oggetti capaci di trasmettere il sapere. Sigyn era affascinata e
incuriosita da quel luogo, forse il più interessante di
tutto il palazzo, ma
non era in grado di orientarvisi. Seguiva Loki cercando di non perderlo
di
vista e di ammirare, al contempo, le fitte scaffalature e sbirciare
qualcuno
dei titoli incisi sul dorso dei libri. A un certo punto, Loki si
fermò e la
ragazza per poco non gli andò contro. Si sporse per
raggiungere un ripiano
quasi troppo alto persino per lui e trasse un tomo dalla copertina nera
piuttosto
rovinata.
“Le
più belle e
accurate,” annunciò. “Ma vorrei sapere
perché.”
C’era
una nota a metà
strada tra la curiosità e il sospetto, nella sua voce. Erano
in un’ala sperduta
e oscura della biblioteca; nonostante fosse ormai giorno, la luce
penetrava a
stento nella sala. Forse, ipotizzò la ragazza, le finestre
erano orientate
verso occidente, ma a parte quest’ipotesi, Sigyn non avrebbe
saputo dire dove
fosse l’uscita. Era sola, con Loki Odinson che la scrutava in
quel suo modo fiaccante
e terribile, capace di strapparle via ogni sicurezza e leggere nel suo
cuore. Raccolse
ogni energia per rispondergli con la consueta fermezza. “Per
contrastarvi devo
conoscervi. E l’unica maniera che conosco è
questa. Studiarvi.”
L’Ase
s’irrigidì e le
diede il volume. “Tu non sai distinguere i tuoi amici dai
tuoi nemici.”
“Voi
Æsir sareste i miei
amici?” Ora era Sigyn a essere pallida. “Sono un
tuo ostaggio, Loki,” ricordò. “Hai
preteso che vi seguissi, sfruttando il fatto che fossi la scintilla,
senza
curarti che ero un’ancella…”
“Tuo
padre,” iniziò
l’ingannatore, ma la ragazza lo interruppe.
“Mio
padre cosa?
Non vi ha mandato i suoi aiuti? Lo so. Me lo hai
detto. E so che sei
rimasto ferito, ma io non sono responsabile di
questo.”
L’Ase
scosse la testa. “Tuo
padre ha fatto tante promesse che non poteva
mantenere. E non tutte a
noi. Ti avrebbero consacrato come ancella, presto, ma fidati delle mie
parole:
la tua vita non sarebbe trascorsa come tu immagini.” Di
più non poté – non
riuscì a dirle. Maledisse la propria tendenza a essere
sempre diplomatico, che
fin troppo spesso sfociava nel necessario inganno, e la debolezza
– o pietà –
che lo aveva colto, impedendogli di essere schietto.
Sigyn, invece,
giudicò
falsa la predizione di Loki. Chiese bruscamente di essere condotta
all’uscita.
L’ingannatore lasciò che la propria immaginazione
fantasticasse lungo quei
corridoi avvolti perennemente dalla penombra – con lei, con
le sue labbra
imbronciate, col suo profumo delicato e persistente. Le fece strada
senza dire
una parola, invidiando le ombre che l’avrebbero ghermita,
ricacciando in gola
le frasi pungenti e dannatamente sincere che lei meritava di ascoltare.
Ragazzina
orgogliosa, mia
infelice scintilla, tuo padre ti ha venduta a un altro, prima che a me.
E non
c’è modo di strapparti a lui – presto ti
reclamerà.
♥
L’aveva
bandito[1].
Odino aveva bandito suo fratello, cacciandolo sull’oscura
Midgard non prima di
avergli tolto ogni suo potere. Compreso Mjollnir. Era quello che Loki
voleva?
Sì e no. Aveva agito con cognizione di causa, con
l’intento di arrecare un
danno a Thor, ma non immaginava che l’ira di Padre Tutto
sarebbe stata così
terribile. La realtà aveva superato le aspettative,
lasciandolo, per un
momento, incerto e sgomento. Lui, che pareva avere la risposta a ogni
domanda o
soluzione, che si vantava di essere brillante e sagace e sempre pronto
a
modificare i propri piani in base alla circostanza, era rimasto a corto
di
parole. C’era stato un momento in cui aveva cercato di
limitare i danni e di
intervenire; per quanto suo fratello, istigato da lui, aveva
trasgredito a un
preciso ordine, il suo agire sconsiderato era comunque lecito, da una
certa
prospettiva. Forse non era una scelta politicamente vincente, ma
rappresentava
un atto di forza di cui Asgard aveva bisogno. Da
troppo tempo il fiero
figlio di Bor preferiva la cautela allo scontro. Gli Jotnar reputavano
lui un
vecchio debole, i suoi figli dei cuccioli viziati. Thor era stato
sciocco e
impulsivo, ma Loki aveva sentito il bisogno di difenderlo,
perché per quanto la
sua spedizione fosse niente di meno che una missione suicida
– lui, la sua
vendetta, l’avrebbe ottenuta in maniera più
efficace: con l’intelligenza – era
animata da propositi, intenzioni e volontà che
l’ingannatore condivideva. Non
era servito. Padre Tutto l’aveva zittito con un urlo
disarticolato e quasi
belluino, segno evidente di quanto non desiderasse ascoltare le sue
giustificazioni
retoriche. Un momento dopo, Thor aveva passato il segno offendendo il
re loro
padre e aveva lasciato Asgard nell’ignominia.
Era quello che
volevi,
Loki?
La voce di una
coscienza insinuante
lo tormentava mentre percorreva, come trasognato, i corridoi della sua
casa
divenuti improvvisamente troppo vuoti e grandi. Thor era stato
esiliato.
Il preferito di
suo
padre, il brillante fratello maggiore – anche se di una
manciata di mesi appena
– che Loki aveva ammirato, combattuto, difeso, aiutato.
C’era rivalità tra
loro? Certo. Erano entrambi ambiziosi e fieri. L’ingannatore
non aveva mai
nascosto la sua volontà di primeggiare né
l’idea che fosse più meritevole
perché più astuto dell’altro. Quante
volte Frigga aveva alzato gli occhi al
cielo vedendoli litigare e malmenarsi, quante Odino li aveva redarguiti
per
quello stesso spirito indomito e bellicoso che apprezzava sul campo di
battaglia? E cosa avrebbe fatto, Padre Tutto, se avesse sospettato
quanta parte
di responsabilità aveva lui stesso nella ribellione di suo
fratello?
Eppure, Loki non
era totalmente
responsabile di quanto capitato a Thor. In qualsiasi momento, lo
sfolgorante
erede di Odino avrebbe potuto fermarsi, abbandonare qualsivoglia
proposito di
vendetta e rimettersi alle decisioni del suo re. Si era ficcato in
testa di
agire diversamente – lui lo aveva solo spinto
in tal senso,
approfittando della sua influenza presso Thor e della
volontà stessa
dell’altro. Conoscevano entrambi il parere del loro padre;
lui si era limitato
a dirsi sinceramente d’accordo nell’idea che i
giganti erano un pericolo finché
respiravano – e lo credeva, ne era
convinto con ogni fibra del proprio
essere, soprattutto dopo averli affrontati sul loro stesso territorio.
Per poco
non erano morti – se non fosse intervenuto Odino, sarebbero
senz’altro morti.
Poi Sif lo aveva
pregato
di intercedere presso Odino. Di supplicarlo al fine di mitigare la
punizione di
suo fratello, supportata, in questa richiesta, dagli amici di Thor,
sempre
pronti a idolatrarlo senza vederne gli eclatanti difetti, subito
sospettosi nei
riguardi di lui stesso, che li aveva salvati. Perché il
brillante piano di suo
fratello – andiamo e distruggiamoli – non era solo
politicamente svantaggioso,
ma stupido e impulsivo, come Thor, del resto. Lo
avevano accusato di
essere invidioso e malvagio, ma erano degli irriconoscenti
infedeli,
nient’altro. Soprattutto Sif, che sotto la sua maschera
d’imperturbabilità e
freddezza che, sempre, gli riservava, alludeva a un passato vissuto
nella
penombra. Si vergognava di essere andata a letto con lui, di averlo
usato come
ripiego perché non riusciva ad avere Thor, e ora lo
implorava perché riportasse
a casa il suo eroe. Voleva manipolarlo in nome di una relazione che non
era mai
andata oltre la semplice scopata per preciso volere di entrambi. E, in
virtù di
qualche amplesso consumato di nascosto, mentre entrambi pensavano e
desideravano altre persone, lei pensava di poter
intercedere.
Di contare
più di quanto,
realmente, contava. Era sciocca e stupida, ma a sua difesa occorreva
dire che l’ingannatore,
in quei mesi, l’aveva cercata con più frequenza e
ardore, nell’inutile
tentativo di scacciare Sigyn dalla sua testa. Ma la scintilla era
un’ombra rinchiusa
in un mondo di tenebre, e tutto ciò che aveva di lei era una
lettera di cui
ricordava a memoria ogni parola e che prometteva sventure; nella sua
cecità, la
scintilla aveva visto, finalmente, l’approssimarsi
dell’inverno lungo sette
inverni, sognato tracce di sangue sulla neve. Un presagio
d’incerta valutazione
in base a chi fosse il lupo e chi la preda.
Se
non fosse stata Sif a supplicarlo, forse
Loki avrebbe cambiato idea e, con calma, dopo un ragionevole periodo di
tempo
ed essersi assicurato di avere ciò che meritava –
la futura investitura come re
di Asgard – avrebbe interceduto presso suo padre per far
tornare Thor. Ma suo
fratello contava su un numero cospicuo di seguaci che non si sarebbe
mai
stancato di considerarlo l’erede legittimo di Asgard,
l’unico degno, e così il
regno dell’ingannatore avrebbe avuto, per sempre, un
insopportabile punto debole.
E allora, che fare?
Si
toccò il braccio, lì dove lo Jotunn lo
aveva afferrato spaccando la placca di metallo e la corazza. La pelle
appariva
liscia, intonsa, perfetta. Nemmeno un segno suggeriva che fosse venuto
a
contatto con un gigante di ghiaccio. Serrò la mascella;
Volstagg, grande e
grosso com’era, ancora gridava di dolore per la terribile
ustione ricevuta solo
sfiorando uno dei suoi avversari. Lui, invece, si era salvato.
Perché? Era
merito del seiðr che scorreva potente nelle sue vene? Oppure,
era caduto
vittima di una qualche subdola maledizione sconosciuta, che si sarebbe
manifestata, ma solo poi?
A passi lenti,
s’inoltrò
verso i sotterranei del palazzo, deciso a risolvere un problema per
volta.
La sala era
immensa e il
rumore dei suoi stivali solitari e decisi echeggiava in maniera
sinistra lungo
le tortuose scalinate che conducevano giù, sempre
più giù. Loki conosceva la
storia di ognuno dei tesori lì custoditi o, almeno, questo
era ciò che aveva
fatto credere una volta a una Sigyn che fingeva di non essere stupita
da tanta
magnificenza. Un’incantevole reliquia in mezzo a tante altre.
In verità, molti
di quegli artefatti erano entrati in possesso degli Æsir in
tempi, modi e
luoghi oscuri. Dell’appropriazione di altri, invece, Loki era
certo che si
raccontasse con un certo compiacimento una versione edulcorata, se non
totalmente falsa. Ma il principe cadetto non era sceso nei sotterranei
per
lasciarsi travolgere dai ricordi: procedeva sempre più
spedito verso un angolo
in particolare, dove, alla luce tenue delle fioche lampade, brillava
uno
scrigno bluastro, che sapeva di ghiaccio e lame e morte. Come mai il
tocco
degli Jotnar non aveva avuto alcun effetto, su di lui? Cosa avrebbe
detto, se un
simile fatto avesse riguardato qualsiasi altro individuo? Quali
supposizioni si
sarebbe scaltramente premurato di rivelare? Ciò che,
acutamente, era in grado
di dedurre per il prossimo non poteva essere sacrificato o mitigato
quando
l’oggetto della supposizione diveniva lui. Prese un lungo
sospiro – sono solo
sospetti – eppure la ragione gli suggeriva che la soluzione
era più semplice e
dolorosa di quanto pensasse. Le sue dita strinsero le maniglie e
sollevò lo
scrigno. E il potere del più antico tesoro degli Jotnar gli
scivolò nelle vene
con una naturalezza sbalordita e spaventosa.
La voce di Padre
Tutto,
perentoria e roboante, giunse troppo tardi.
“Sono
maledetto?”
“No.”
“E
cosa sono?”
“Sei
mio figlio.”
“E
cosa, più di questo?”
L’angolo di Shilyss
Care Lettrici e cari Lettori
del mio cuore,
Non vedevo l’ora di
arrivare
esattamente qui. Come dico in nota, ho evitato di raccontare le scene
che avete
già visto nel primo film di Thor. Le motivazioni di Loki
sono frutto di mie
riflessioni sul personaggio, quindi abbiatene rispetto ♥,
come per tutti gli
headcanon che inserisco nelle mie storie. La settimana prossima
è il turno di Accordo.
Fuggo rapidamente, ma non per questo vi si adora di meno.
Ringrazio chi ha listato,
recensito o semplicemente letto questa storia: siete importanti e sappiate che
leggo tutti i vostri
commenti e non vi mangio. Spesso non rispondo pubblicamente, ma se vi
palesate
lo faccio e sono molto alla mano, ecco. Se avete piacere, passate su
Ombre e
fate attenzione agli avvertimenti. Piacerà anche a chi ama
il canone.
Ricordo che il personaggio
di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce
“Sigyn” su Wikipedia, è una mia
personale interpretazione/reinterpretazione/riscrittura. Non vi
autorizzo a
ispirarvi o peggio a questa versione o alle altre storie da me postate
né qui
né altrove (peggio mi sento con le fiabe) e lo stesso vale
per gli headcanon su
Vanheim, su Loki o su Asgard stessa. Creare un mondo con usi e costumi
non è
uno scherzo.
A presto e grazie per tutto
l’affetto/sostegno/cose, vi si lovva (e spero voi lovviate
me).
Vostra,
Shilyss