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Autore: Elena Waters    24/09/2020    6 recensioni
Asia sa di aver sempre provato qualcosa per Ivan, un suo amico dell'università, ma adesso che è arrivata una bellissima studentessa Erasmus, Yasmin, teme che sia troppo tardi per farsi avanti.
Per questo, anche se è sabato sera e tutti i ragazzi del suo corso si stanno divertendo a una festa in casa, Asia si ritrova sul divano, con una tazza di tè bollente tra le dita, e non riesce a smettere di pensare alla nuova arrivata...
(Quarta classificata nel contest “Voglia di tè (II edizione)”, indetto da elli2998 e Inchiostro_nel_Sangue sul forum di EFP.)
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ambra e Vaniglia


 
Residui di tè fluttuano nell’acqua ambrata, affondano lentamente verso il fondo della tazza — una tazza larga, bassa, di porcellana bianca, che mi brucia sotto le dita. Volute di vapore dal profumo intenso si sollevano e mi si appiccicano al viso; mi scotto appena le labbra, l'aroma legnoso della vaniglia si sparge sulla lingua.
Il calore mi avvolge come il viso di Ivan quella sera di tre settimane fa, come la sua risata strana e le sue mani chiare — le dita strette attorno al pacchetto di tè di Ceylon che avevamo appena acquistato in un piccolo bazar. L’odore della vaniglia traspirava nella pioggia, mentre ci riparavamo sotto un portico umido, grondanti d’acqua.
Le mie coinquiline sono andate a una festa. Il silenzio è spezzato solo dai giri metallici e pigri della lavatrice, dalla porta aperta del bagno. Osservo ancora la tazza, l’acqua ambrata, i residui delle foglie di tè che si depositano piano piano sul fondo. Sono le dieci, ma vorrei solo dormire.
Il tè nero è pieno di caffeina, mi ha detto Ivan, ma forse l’adrenalina che sento montarmi in testa è solo un’illusione, come l’euforia che mi saliva nel petto quando Ivan mi era vicino a lezione e si gonfiava una bolla tra me e lui, impermeabile alle parole dei professori, agli sguardi degli altri. Non osavo farmi avanti: mi bastava averlo accanto e sperare che, prima o poi, si accorgesse di me.
Che errore.
Non voglio pensare alla festa. Non voglio pensare alla nuova studentessa Erasmus, Yasmin, alla sua risata cristallina e ai capelli color cioccolato che le scendono sulla schiena in onde vaporose.
Non voglio pensare a quello sguardo che si sono scambiati lei e Ivan.
Ho sempre creduto che il desiderio di un uomo si manifestasse alla donna come una sensazione fisica, come una carezza morbida o una melassa appiccicosa sulla pelle; che questo incantesimo si verificasse soltanto tra due persone e fosse invisibile agli altri. Giovedì scorso, però, mentre lei cercava di capire le scritte della macchinetta e lui la aiutava, ero in lei e sentivo il suo sguardo scorrermi addosso come una cascata primaverile, come uno scroscio d'acqua estivo.
Ero con lei mentre si chinava a raccogliere il suo mocaccino con doppio zucchero, mentre intercettava lo sguardo di lui e prorompevano in una risatina imbarazzata. E volevo morire.
Una volta a casa mi sono buttata sul letto ancora stretta nei jeans, ho scalciato via le scarpe e sono scoppiata a piangere sul mio cuscino; ho pianto così tanto che mi sono addormentata.
Yasmin. Yasmin e la sua voce argentata, le braccia sottili e ambrate che ieri a lezione intravedevo sotto il tessuto trasparente della camicetta. Era seduta tra me e Ivan; lui le sussurrava in inglese tutte le parti della spiegazione che non riusciva a capire e lei annuiva e si chinava sui suoi appunti fitti. Una strana sonnolenza mi aveva invasa e avevo appoggiato il mento sul gomito: mi sforzavo di osservare le scritte alla lavagna, ma non le vedevo. Desideravo soltanto cadere incosciente, che le frasi sussurrate in inglese e i grazie strascicati appena da lei, in quel suo accento melodioso, si allontanassero come se affondassi sott'acqua.
Finalmente la casa è vuota, le luci sono spente e il cielo stellato brilla oltre il vetro. Sento il bip della lavatrice, ma non mi va di ritirare il bucato. Vorrei soltanto dormire. Dormire e dimenticare, dormire e non vederla più nella mia testa, non pensare alla sua voce sottile, alle sue dita strette attorno al bicchiere di plastica fumante, a quell’aroma di caffè insopportabile.
Il sangue mi scorre troppo veloce sotto la pelle, mi sembra che una strana rabbia evapori dal mio corpo, ma forse è solo il calore del tè che sale in superficie. Sono troppo agitata per dormire, come se qualcuno mi avesse iniettato tutta la caffeina della città.
Lancio via la coperta di pile, corro davanti allo specchio. I cerchi viola sotto gli occhi sembrano dire che ho pianto, ma non è vero: sono solo frutto del torpore, della rassegnazione. Forse non voglio davvero dormire: voglio scacciarli via, trovare un modo per farli tacere.
Appena uscita dalla doccia afferro il beauty case: mi tiro i capelli chiari e mossi indietro, prendo dal cassetto le lenti a contatto e mi sfilo gli occhiali.
Alla fine sono contenta del mio riflesso, dei miei occhi nocciola sotto un velo di trucco ambrato, delle ciglia gonfiate innaturalmente dal mascara scuro; schiudo le labbra color malva e mi sento quasi bella.
Bologna è bellissima di notte. Qualsiasi cosa mi ricorda Ivan: i portici, la piazza del Nettuno, quello strano gioco acustico sotto il voltone del Podestà; vorrei sussurrare qualcosa sotto l’incrocio delle volte, ma non c’è nessuno dall’altra parte ad ascoltarmi.
Entro nel salone gremito di gente; tutti ballano tra i divani addossati al muro e il tavolo coperto di patatine fritte e noccioline, di birra da discount e di brocche piene di un punch rosso pallido. Qualche bicchierino di plastica giace calpestato per terra ed è allora che la vedo, ma non è con Ivan come mi aspettavo: è seduta in un angolo, un bicchierino pieno di quel punch rossastro le dondola stancamente nella mano. Annuisce distratta alle chiacchiere di una ragazzina bionda del primo anno, con gli occhiali più grandi del viso. Il suo sguardo vaga per la stanza e si posa su di me, prima che riesca a individuare Ivan nella folla.
Mi sorride, lascia indietro la ragazza del primo anno.
«Ciao, Asia. Pensavo che… che non venivi più!»
Vorrei risponderle, ma è come se la voce mi si incastrasse nel petto. Il mio sguardo scorre su di lei, sul vestito color bronzo con le maniche a tre quarti; un bracciale dorato e rigido, quando solleva una mano per scostarsi i capelli castani dal viso, scivola verso il basso e si incastra alla base dell’avambraccio.
«È che questa sera era il mio turno di pulire il bagno e si è fatto tardi».
Increspa appena le labbra e socchiude gli occhi: non riesce a sentirmi. Mi avvicino e le parlo più forte. C’è una nota di vaniglia e di ambra nel suo profumo ― penso alla tazza di tè, che sarà ancora sul bracciolo piatto del divano, le foglie adagiate sul fondo e l’acqua ormai fredda.
Smetto di cercare Ivan tra la folla. Mi sembra che la musica sia più alta, ma so che non è vero. Yasmin mi sorride ancora: è impossibile non vedere quel guizzo negli occhi scuri, quella luce che significa una sola cosa. Mi sento così ridicola: come ho fatto a sbagliarmi? Mentre pensavo che Ivan la guardasse, era lei che guardava me; non si era seduta tra me e Ivan per stare vicino a lui, ma per stare vicino a me.
È la cosa più naturale del mondo che mi prenda per mano e mi trascini a ballare. Ivan emerge dalla folla, mi abbraccia e sorride a Yasmin, ma in quel sorriso e in quello sguardo non c'è traccia di attrazione e adesso lo so: so anche che due giorni fa, quando per un istante mi è sembrato di essere lei, lo sguardo che sentivo scivolarmi addosso non era quello di Ivan, ma il mio.


 


   
 
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