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Autore: Soul Mancini    26/09/2020    3 recensioni
È il 26 settembre 1989.
Ethan si sveglia nella sua abitazione e si reca nella zona giorno, sicuro di trovare il suo migliore amico Ives sdraiato sul divano come al solito.
Ma lui non c’è.
Sembra essere scomparso nel niente, se non fosse per un agghiacciante biglietto d’addio.
È allora che Ethan si rende conto di quanto sia vuota la sua casa, senza la presenza che l’ha scaldata negli ultimi quattro anni.
È allora che realizza un’atroce verità: il peggior incubo della sua vita si sta concretizzando.
Dal testo:
«E mi ritrovai a pensare che Ives rappresentasse la parte più buona di me.
Non sarei mai stato capace di spiegare ciò che ci univa e nessuno l’avrebbe mai capito. Ma, di qualsiasi cosa si trattasse, era sempre in grado di portare fuori il meglio dal disastro che ero.»
- SECONDA CLASSIFICATA al contest "Le note del dramma" indetto da Sabriel_Little Storm sul forum di EFP.
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
- Questa storia fa parte della serie 'Needles'
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Gone
Disclaimer: questa storia è veramente veramente lunga, supera le 13.000 parole. Ed è davvero drammatica e pesante. Vi basti pensare che io la chiamo Il Mostro.
Non voglio che nessuno si senta obbligato a leggerla: se sei un mio lettore abituale e non te la senti di imbarcarti in una lettura così impegnativa, ti capisco e non voglio che tu ti senta forzato a farlo.
Pubblico questa shot oggi, 26 settembre, perché nella mia story line oggi è l’anniversario della morte di Ives. Per me, che sono un po’ la sua mamma, è un giorno doloroso.
Grazie anche solo per aver aperto la storia e letto questo trafiletto. E se vorrete seguirmi in quest’avventura, spero di riuscire a passarvi anche una minima parte delle emozioni che ho provato io mentre scrivevo.








Gone






Angels with silver wings
Shouldn't know suffering
I wish I could take the pain for you
If God has a master plan
That only He understands
I hope it's your eyes He's seeing through
[Depeche Mode – Precious]



Spalancai l’uscio e le mie pupille si scontrarono con la penombra che imperava nella stanza; le tende erano tirate e dalla finestra socchiusa filtrava una leggera e afosa brezza, che però non riusciva a dissipare l’opprimente odore di malattia.
Il cuore mi martellava nel petto, come ogni volta che mettevo piede nella piccola zona giorno di casa mia. Cercando di non fare rumore, avanzai di qualche passo e presi un profondo respiro.
Posai lo sguardo su Ives.
Lo trovai rannicchiato sul divano come al solito, avvolto nella pesante e sudicia coperta che ormai era diventata sua, con una siringa sporca di sangue ancora stretta tra le dita sottili. Teneva gli occhi chiusi e i suoi lineamenti parevano fin troppo distesi; le ciglia scure e lunghe erano l’unico dettaglio che spiccava sul viso diafano e smunto, alcune ciocche corvine si erano posate sulla pelle talmente sottile da sembrare trasparente.
Da quando ero entrato nella stanza, non aveva accennato a muoversi e reagire.
Restai immobile a osservarlo per alcuni interminabili istanti – il mio respiro accelerava, alcune gocce di sudore mi scorrevano tra i capelli e lungo il collo, avevo preso a mordermi convulsamente il labbro inferiore – e cercai di scorgere in lui anche solo un minimo indizio che stesse ancora respirando.
Feci un passo avanti.
Deglutii a fatica.
Un altro passo.
Mi sporsi appena verso il mio amico e gli posizionai una mano davanti al viso; il suo fiato, seppur leggero e quasi impercettibile, mi solleticò la pelle.
Tirai un sospiro di sollievo e un macigno che non sapevo di avere sul petto si dissolse; riempii i polmoni d’aria e tentai di placare l’ansia che mi scorreva nelle vene.
Ives era ancora vivo.
Scostai un ciuffo di capelli che gli era piovuto sul viso e i miei polpastrelli entrarono per un attimo in contatto con la sua fronte: era tiepida.
Decisi di prendermi qualche altro istante per stare accanto a lui; attento a non svegliarlo, mi sedetti sul bracciolo del divano e mi posai una mano sul petto: il cuore continuava a battere all’impazzata e avevo il fiato corto.
Scene del genere erano ormai all’ordine del giorno e, per quanto mi mostrassi forte e tranquillo agli occhi di tutti – Ives compreso –, venivo assalito da un terrore folle ogni volta che dovevo rientrare a casa. Tutti i giorni, aprendo quella maledetta porta, temevo il peggio: mi preparavo a trovarlo privo di vita e dovergli dire addio.
Sospirai e posai nuovamente lo sguardo su Ives, mentre un dolore sordo mi invadeva il petto. Ormai era solo questione di tempo, lo sapevamo entrambi, e lui non voleva che accelerare il processo: da quando aveva scoperto di avere l’AIDS non aveva voluto assumere nessuna medicina – nemmeno per alleviare i sintomi – e aveva preso a farsi ancora più spesso, con dosi sempre più abbondanti, nell’illusione che l’eroina lo facesse star meglio e nella speranza di porre fine al suo dolore e andarsene per sempre.
Ogni giorno, quando entravo nel piccolo soggiorno e trovavo il pavimento disseminato di siringhe e incarti vuoti, mi veniva voglia di prenderlo a schiaffi e sputargli in faccia quanto fosse egoista: voleva togliersi la vita il prima possibile per smettere di soffrire, ma non si domandava mai se qualcun altro ci sarebbe stato male? Non gli importava di tutti coloro che gli volevano bene?
Poi mi costringevo a prendere un profondo respiro e calmarmi: non avevo il diritto di giudicare come Ives aveva deciso di vivere i suoi ultimi istanti. Ormai non c’era più niente da gridare, nulla per cui combattere: il suo destino era segnato.
Era troppo tardi.
Sospirai e mi alzai a fatica.
Facendo attenzione a non sporcarmi e non ferirmi, sfilai la siringa dalla mano di Ives e la gettai via; sistemai la coperta in modo che non sfiorasse il pavimento, poi riempii un bicchiere d’acqua e lo poggiai a terra accanto al divano, in modo che al suo risveglio lo trovasse a portata di mano. Non ero certo la persona più affettuosa al mondo e non ero affatto portato per prendermi cura di qualcun altro, ma volevo far capire ad Ives che, anche se stavo tanto tempo fuori casa e non ci incrociavamo mai, poteva contare su di me per qualsiasi cosa.
Mi soffermai per un ultimo istante a osservare Ives. Sembrava quasi paradossale che un ragazzo come lui, col viso e l’anima da bambino, si fosse cacciato in una situazione del genere. Pareva ancora troppo giovane e innocente per conoscere il dolore, la dipendenza e la morte, eppure nei suoi ventun anni aveva sperimentato la sofferenza di una vita intera.
Non lasciarmi, Ives.
Mi allontanai, come facevo sempre quando stargli vicino mi faceva troppo male; afferrai una delle mie chitarre elettriche da un angolo della stanza e mi rintanai in camera mia.
Ogni volta che venivo assalite da emozioni troppo grandi per essere espresse, sentivo il bisogno di riversarle tutte nella musica.



° ° °



Coi gomiti appoggiati sul davanzale, aspiro l’ultima boccata di fumo e lancio uno sguardo al cielo plumbeo sopra di me, gli occhi ancora affaticati dal sonno. L’autunno è cominciato da qualche giorno e il suo grigiore si è già abbattuto su Los Angeles, spazzando via anche gli ultimi granelli d’estate.
Come a voler presagire l’arrivo di una tormenta.
Schiaccio il mozzicone nella tazzina da caffè che utilizzo come posacenere e mi allontano dalla finestra spalancata, prendendo un respiro profondo.
Stamattina mi sono svegliato in preda all’ansia, come spesso mi capita in quest’ultimo periodo. Non è da me.
Mi devo dare una calmata e mantenere il controllo della situazione, non posso permettermi di andare alla deriva insieme ad Ives. Gli ho promesso che sarei stato la sua roccia fino alla fine.
Mentre lascio la mia camera e mi dirigo verso il piccolo soggiorno, percepisco ancora quel groppo in gola che non mi ha abbandonato dal momento in cui ho aperto gli occhi. Oggi sarà una giornata di merda, me lo sento.
L’ambiente è immerso nella penombra e, anche se non posso scorgerlo chiaramente, suppongo che il mio amico stia ancora dormendo. Mi dirigo a passo leggero verso la credenza con l’intento di prendere qualcosa per colazione – onestamente mi si contorce lo stomaco alla sola idea di mangiare –, ma sono costretto a fermarmi di botto non appena il mio sguardo cade sul divano, generalmente occupato da Ives.
Non può essere.
“Cazzo” sputo fra i denti, mentre il cuore comincia a pulsarmi nelle orecchie e l’adrenalina mi riempie le vene.
Ives non c’è.
Col respiro spezzato e un mare di imprecazioni impigliate in gola, raggiungo il bagno in poche falcate per controllare se il mio amico si trova al suo interno. È l’unica spiegazione possibile, non c’è nessun altro posto in cui si sarebbe potuto recare.
La porta è spalancata e la stanza, inondata dalla luce grigiastra di fine settembre, è deserta.
“Ma porca puttana” sbotto con disperazione, passandomi una mano tra i capelli corti e fradici di sudore.
Torno presso il divano, afferro la coperta che vi è posata sopra e la scaravento a terra, scalcio via istericamente il cimitero di siringhe, fazzoletti sporchi e lacci emostatici sparsi tutt’attorno – l’unico segnale del fatto che Ives si trovasse qui fino a poco fa.
Come cazzo è possibile che sia sparito? Dove può andare a cacciarsi un ragazzino talmente magro e debole da non riuscire a reggersi in piedi?
Mi lascio cadere sul divano in preda allo sconforto e mi passo le mani sul viso. Devo uscire di qui, andare a cercarlo, scovare qualsiasi indizio che mi porti a lui. Non può essere fuggito molto lontano…
È allora che lo noto.
Piccolo e bianco, ripiegato in due e poggiato sul bracciolo del divano: un biglietto.
Annego una risata nell’ansia mentre lo afferro e lo dispiego. Vorrei avere Ives davanti per poterlo riempire di insulti: cos’è questa pagliacciata, una sorta di caccia al tesoro? Mi sta forse prendendo per il culo? Direi che non è il caso di farmi preoccupare più di quanto non lo sia già.
Ma ogni traccia di rabbia e perplessità scivola via, lasciando posto a un’opprimente angoscia, non appena poso gli occhi sulla scritta sbilenca che marchia quel pezzetto di carta.

Ti ho disturbato fin troppo, è arrivato il momento di andare via. So di essere un inutile fardello e non voglio mai più farti del male.
Non esistono le parole giuste per ringraziarti di tutto ciò che hai fatto per me, Ethan.
Ti amo come si può amare solo un gemello, come si ama un frammento della propria anima. Ovunque andrò, qualunque sarà la mia fine, resterò per sempre il tuo fratellino.
Ives

Il mondo comincia a vorticarmi attorno, i polmoni bruciano al centro del petto come in preda a un incendio.
No, non può essere. È uno scherzo.
Non se n’è andato.
Stringo quel fottuto bigliettino tra le dita fino a macchiarlo di sudore e frustrazione, mentre dentro di me comincia a montare una rabbia indomabile.
Come ha potuto anche solo pensare di essere un peso per me? Come ha potuto lasciare questa casa, andar via da solo senza dirmi niente?
E come ho potuto io non accorgermene? Avrei dovuto sorvegliarlo di più, essere presente e fare di più per lui; invece, come un codardo e uno stronzo, ho cominciato a evitarlo e a rientrare a casa il meno possibile, bloccato dalla paura di vederlo morire tra le mie braccia da un momento all’altro.
Altro che roccia, sono solo uno stronzo egoista.
Mi alzo, lancio il bigliettino a terra con violenza e sferro un calcio al divano. Sono incazzato. Con Ives, con me stesso, pure con gli oggetti inanimati.
Devo ritrovarlo. Devo correre da lui e stargli accanto fino al suo ultimo respiro, anche se mi si dovesse squarciare il petto per il dolore.
Mi avvio verso il telefono, sollevo la cornetta e compongo freneticamente il numero di Davi. Detesto chiedere aiuto e ammettere di non sapere come fare da solo, ma lui è l’unico che può veramente darmi una mano, grazie a tutti i suoi contatti.
“Pronto?” risponde mio fratello in tono piatto dopo qualche squillo.
“Cazzo, Davi… Ives è sparito, porca puttana!” esplodo in portoghese con voce roca; solo allora, dopo aver pronunciato quelle parole, mi rendo conto dell’assurdità di questa situazione. Non sta succedendo davvero…
“Okay, Ethan, calmati” ribatte Davi nella nostra lingua madre, col suo solito tono calmo e pacato.
“Mi dovrei calmare? Ives è moribondo ed è scappato da casa mia lasciandomi un biglietto d’addio, e io mi dovrei calmare?! Io ti giuro che quando lo troviamo, se sarà ancora vivo, lo ucciderò con le mie stesse mani! Ah, ‘fanculo… non so cosa cazzo fare!” sbraito. Tremo di rabbia, talmente forte che la cornetta rischia di cadermi di mano.
“Ethan! Smettila di urlare e datti una calmata, altrimenti io riattacco e tu ti attacchi al cazzo” mi interrompe mio fratello fermamente. “E spiegami meglio cos’è successo, così magari ti posso aiutare.”
Prendo un paio di respiri profondi. “Cosa vuoi che ti dica? Stamattina mi sono alzato, sono andato in soggiorno e lui non era sul divano, era sparito. Non c’era in bagno, non c’era in nessun fottutissimo angolo della casa… e mi ha lasciato un biglietto in cui mi diceva che se ne andava. Devo trovarlo, era in condizioni pietose e non…”
“Chiamerò un po’ di gente e la metterò sulle sue tracce. Ives è uno dei miei clienti fissi, può essere che abbia contattato qualcuno dei miei ragazzi perché gli vendesse una dose. Magari qualcuno l’ha visto, chiederò un po’ in giro. Ti mando Josh a casa, okay?” afferma in tono pacato.
Davi sembra avere sempre la situazione sotto controllo, il solo sentirlo parlare è in grado di rassicurarmi e alleviare appena la mia ansia. So che per me – e di conseguenza per Ives – farebbe qualsiasi cosa.
Esito per un istante prima di porgli la domanda che mi frulla in mente; odio mostrarmi vulnerabile, ma in questo momento mi sembra di cadere a pezzi. “Tu non puoi venire qui, Davi?” mormoro infine.
“Non posso, devo concludere un affare con un pezzo grosso entro stasera, è venuto in città dal Messico. Però tienimi aggiornato.”
Mi trattengo dall’impulso di buttar giù la cornetta e lanciare un grido di frustrazione. “Difficile la vita dello spacciatore, eh? Non puoi mai esserci quando serve” sputo fuori con sarcasmo.
Dall’altro capo del telefono scorre qualche istante di silenzio. “Non sono parole che diresti a mente lucida, Ethan. Devo andare, ti mando Josh.”
Detto ciò, riattacca.
Sospiro e sistemo la cornetta al suo posto. La mia affermazione non deve essergli piaciuta tanto: Davi fa tutto il possibile per me, vive immerso nell’illegalità e nel mondo della droga per tirare avanti e mantenere anche me, e sicuramente non piace nemmeno a lui dovermi stare lontano in una circostanza del genere.
Ma come al solito quando mi incazzo divento impulsivo e dico cose che non penso.
Telefono a Oliver. Nessuna risposta. Logico: oggi è martedì, è al lavoro.
Telefono ad Alick e lui risponde al terzo squillo. Gli spiego brevemente ciò che sta accadendo e lui, senza perdere altro tempo, mi promette che sarà qui il prima possibile e chiude la chiamata.
Mi avvio verso la finestra del soggiorno, la spalanco e scosto bruscamente le tende – questa stanza non vedeva un raggio di luce da anni, da quando Ives ha occupato il mio divano e ha cominciato a bucarsi – e mi guardo attorno in preda allo sconforto.
Ogni centimetro di questo posto parla di Ives: sulla spalliera del divano è abbandonata una sua maglietta nera e stropicciata, il suo basso è chiuso dentro la custodia e poggiato su una sedia, sul tavolo staziona un piccolo quadernetto in cui il mio amico annotava idee per le sue canzoni e accenni a testi e poesie. La sua essenza mi viene sbattuta in faccia con forza, eppure risulta già così distante, ricoperta da una patina di polvere; è come se Ives, pur vivendo in questa casa, se ne sia andato già da tanto tempo.
Sto impazzendo.
Ancora prima di accorgermene, mi ritrovo con una bottiglia di Jack Daniel’s tra le mani e l’alcol che mi incendia la gola. Faccio bene a tenerne una scorta in casa; in questo momento ho davvero bisogno di qualcosa che mi aiuti a rilassarmi.
Ma stavolta non basterà un po’ di whisky a placare la tempesta che ho dentro.


“Mentre venivo qui ho fatto un bel giro completo del circondario per controllare che Ives non fosse nei dintorni” spiega Josh, gesticolando e sistemandosi in continuazione il cappellino che ha in testa. “Ho sentito qualche altro spacciatore della zona e nessuno sembra averlo visto. Insomma, mi sembra assurdo! Nelle condizioni in cui è, mi pare incredibile che passi inosservato e che nessuno si accorga che qualcosa non va!” esclama poi, mettendosi in piedi e cominciando a camminare avanti e indietro per la stanza.
È visibilmente preoccupato. Oltre che essere un subordinato di mio fratello e lo spacciatore ufficiale degli Storm It Down, Josh è un caro amico della band e ha ricoperto anche il ruolo di roadie in alcune occasioni: ci ha visto crescere e avere successo, ci ha supportato e aiutato in tutti i nostri concerti, ci ha seguito negli spostamenti fuori città e ci è stato accanto anche durante la nostra distruzione. Non mi sorprende affatto che Davi abbia deciso di avvertire lui per primo e di spedirlo a casa mia.
Mi passo una mano sulla fronte e sposto lo sguardo su Alick che, con le ciocche ricce e scure che gli piovono sul viso, tiene lo sguardo basso e non osa proferire parola. Non so cosa gli passi per la testa in questo momento, ma intuisco che stia facendo i conti con i suoi sensi di colpa: da quando ha saputo della malattia di Ives, il nostro batterista si è pian piano allontanato da noi e soprattutto da lui, probabilmente senza nemmeno rendersene conto. Non lo biasimo, è sempre stato un ragazzo troppo sensibile.
Ma ora che Ives è sparito, è come se l’incubo di tutti noi si fosse concretizzato all’improvviso.
“Sentite, dobbiamo fare qualcosa. Io non ho la minima intenzione di restare qui con le mani in mano mentre Ives se ne va in giro chissà dove” affermo, mettendomi in piedi e afferrando le chiavi della macchina poste sul piano del tavolo.
“Non sarebbe meglio che almeno uno di noi restasse qui?” Alick prende la parola all’improvviso e solleva una mano, come a volermi fermare.
Fisso lo sguardo nei suoi enormi occhi scuri e ci rifletto per qualche istante.
“Alick ha ragione. Metti caso che Ives voglia tornare qui: non possiamo lasciarlo da solo. E poi serve qualcuno che risponda al telefono e prenda tutte le comunicazioni che arriveranno” concorda Josh, fermandosi accanto a noi e incrociando le braccia al petto.
Guardo alternativamente l’uno e l’altro senza sapere cosa ribattere. Da una parte riconosco che abbiano ragione, è necessario che almeno uno di noi rimanga in casa, ma al contempo non so se sarei capace di restare ancora chiuso in quella che è diventata la mia prigione. Da ore mi trovo qua dentro a scervellarmi e sfiorare con lo sguardo tutti gli oggetti che appartengono ad Ives, a dannarmi e chiedermi cos’avrei potuto fare per evitare tutto ciò.
“So a cosa stai pensando. Ma no, io non rimango da solo a casa di un’altra persona” si tira subito indietro Alick, leggermente a disagio.
“Non sia mai che ti accusi di avermi rubato un bicchiere d’acqua… ma fammi il favore, parli come se fossi uno sconosciuto” borbotto ironicamente, pentendomene subito dopo. Ormai sono un fascio di nervi, mi spazientisco non appena mi rivolgono la parola.
“Però, Ethan, non ha tutti i torti. Forse è meglio che tu rimanga qui e non ti prenda altre responsabilità, per fare delle ricerche in maniera efficiente serve qualcuno che possa ragionare a mente lucida” interviene Josh in tono pacato, cercando di mantenere una conversazione civile.
“E io non sarei in grado di ragionare a mente lucida? Perché ho bevuto un po’ di Jack Daniel’s?” comincio ad alterarmi, affilando lo sguardo e raddrizzandomi sulla sedia.
“Ethan…” Josh solleva gli occhi al cielo e fa cenno di lasciar perdere, poi si volta verso Alick e gli lancia uno sguardo d’intesa.
Mi mordo il labbro per evitare di ribattere: dopotutto hanno ragione. Devo smetterla di essere egoista e pensare a ciò che voglio fare, se Ives dovesse rincasare è giusto che mi trovi qui.
Alick si mette in piedi e i miei amici si dirigono verso la porta d’ingresso.
“Ehi, Ethan” mi richiama Josh mentre abbassa la maniglia, voltandosi per incrociare il mio sguardo. “Andrà tutto bene, lo troveremo. Per qualsiasi cosa, ho il cercapersone appresso: lascia un messaggio là.”
Mentre lui e Alick escono da casa mia, vorrei gridare che nulla va bene da anni e che continuerò a stare di merda finché Ives soffrirà, ma le forze sembrano avermi abbandonato e le parole, insieme alla disperazione, mi rimangono incastrate in gola.
Allungo una mano, afferro la bottiglia quasi vuota e prendo l’ennesimo lungo sorso. Vorrei soltanto smetterla di pensare.
I secondi si susseguono interminabili, uno dietro l’altro, scanditi dal pesante ticchettio dell’orologio appeso alla parete. E io resto immobile, all’erta, con gli occhi chiusi, una mano sulla fronte e il gusto del Jack Daniel’s sulle labbra – all’improvviso non sembra più così buono, mi dà la nausea.
È solo mezzogiorno e io ho l’impressione di non dormire da settimane. Mi sento spossato.
D’un tratto il trillo del telefono squarcia l’aria, facendomi balzare in piedi. Mentre mi precipito ad afferrare la cornetta, i battiti impazziti del mio cuore pungono nel petto come spine.
“Chi è?” sbotto con voce roca.
“Ethan…” mi chiama la voce di Davi.
“L’hanno trovato? È vivo?” incalzo subito, sedendomi sul pavimento. Mi gira la testa.
“Non l’hanno trovato, ma l’hanno visto stamattina presto. Non è tanto, ma almeno sappiamo che direzione ha preso.”
“E chi è il genio che ha incrociato Ives mentre andava in giro per strada come uno zombie e non ha pensato di avvisarmi? Lo sa tutta la fottuta città che viviamo insieme!” mi inalbero, sempre più allibito e spazientito.
“Los Angeles è piena di eroinomani e di senzatetto, sai meglio di me che poteva benissimo passare inosservato.”
Poggio il capo alla parete accanto a me. “Davi, per favore…”
“Lo stanno già cercando ovunque. Ti prometto che farò setacciare ogni angolo della California se sarà necessario.”
Mi alzo e metto giù senza aggiungere altro. Più passa il tempo, più l’angoscia mi contorce le viscere e mi annienta.
Scruto per un attimo l’orologio: mezzogiorno e dieci. Forse dovrei mettere qualcosa sotto i denti. Mi viene da ridere e da vomitare al sol pensiero.
Mi avvicino al divano – il luogo in cui ha albergato Ives per più di tre anni – e mi accorgo di quanto sia vuota questa stanza senza di lui. Mi mancano i suoi occhi azzurri e assonnati che seguono tutti i miei movimenti, mi manca il suo sorriso appena accennato quando mi sedevo accanto a lui, mi mancano perfino i suoi colpi di tosse trattenuti a fatica per non darmi fastidio.
E se non dovessi rivederlo mai più? E se non facessi in tempo a dirgli addio?
Mi lascio scivolare sul divano e non me ne fotte niente se è sudicio, impregnato di malattia, di sudore e di eroina, perché tutto ciò fa parte di Ives; poso la testa sulla spalliera nel punto in cui la posa sempre lui, chiudo gli occhi e prego affinché, ovunque si trovi in questo momento, riesca a sentire i miei pensieri.
Ives, dove sei?
Non mi muoverò da questo divano finché lui non tornerà da me, perché questo tessuto lurido e consumato mi fa sentire più vicino al mio fratellino. E se mi dovessi ammalare, se dovessi prendermi l’AIDS, non m’importa: preferisco morire per un motivo serio che morire di dolore.
Se solo mi ricordassi come si piange, lo farei.
Ma sono così stanco e spossato che non mi va di pensarci…


Tutto è azzurro.
L’aria, il cielo, il pavimento, ogni cosa è avvolta da una leggera polverina celeste. È lo stesso colore degli occhi di Ives, brilla come le sue iridi quando sorride, riempie tutto di sfumature turchesi.
Davanti a me vedo emergere una figura cangiante, i raggi di un sole color ghiaccio si riflettono sulla sua pelle diafana e fanno luccicare le ciocche lisce e corvine, scure come la notte.
È Ives. Mi sorride, di quel sorriso luminoso che l’ha sempre caratterizzato e che è in grado di far impallidire le stelle, ed emana una dolcezza che mi fa esplodere il cuore di sollievo.
D’istinto allungo una mano nella sua direzione e lui fa lo stesso; le nostre dita si intrecciano, ma le sue sembrano fatte di nulla, come la nebbia azzurrina che ci circonda.
Come fosse uno spettro.
“Ives, vieni qui” lo supplico, cercando invano di attirarlo a me. È sfuggente, è come infilare le dita in una nuvola.
Ma non ce n’è bisogno: Ives si accosta a me lentamente, i suoi occhi azzurri sono dentro i miei e mi infondono una gran calma. Accenna un sorriso, abbastanza ampio per mettere in mostra le fossette sulle guance, e una ciocca ribelle gli piove sbarazzina sulla fronte. Sembra un bimbo innocente e buono, proprio come il giorno in cui l’ho conosciuto.
“Grazie.” La sua voce mi accarezza le orecchie con dolcezza.
Poi si sporge appena verso di me e lascia che le nostre labbra si sfiorino. Dura un istante, come un battito d’ali, e percepisco quel contatto come un soffio.
Poi tutto sparisce, si dissolve in una nube celeste.
E io piango, come non ho mai fatto prima, con i singhiozzi che mi sconquassano il petto, le mani che mi coprono il viso e le lacrime che mi scorrono tra le dita. Piango, perché all’improvviso mi sono ricordato come si fa.
E quando sollevo nuovamente lo sguardo per cercare Ives, lui non c’è più.


Mi sveglio di soprassalto e mi poso una mano sul petto.
Non capisco come ho fatto ad addormentarmi.
Non capisco che razza di sogno ho fatto.
E non capisco se dovrei vergognarmene.
Mi guardo attorno con aria circospetta. Dov’è Ives? L’hanno trovato? Ho il cuore in gola e temo che lo vomiterò fuori da un momento all’altro.
Poi il mio sguardo si ferma sulla porta d’ingresso e capisco come mai mi sono svegliato: l’uscio è aperto, Alick e Josh stanno facendo il loro ingresso in silenzio.
Balzo in piedi e mi piazzo davanti a loro, inchiodandoli con lo sguardo. “E Ives?” ringhio, la voce impastata dal sonno e dall’alcol.
“Ethan, senti…” prende la parola Josh, sospirando ed evitando di incrociare il mio sguardo.
“Mi volete dire cosa cazzo avete scoperto?” grido, spostando lo sguardo su Alick: il mio amico non accenna ad alzare il capo, ma osservandolo con attenzione mi accorgo che ha gli occhi rossi di pianto.
Perché stava piangendo? Dov’è Ives?
“L’abbiamo trovato” afferma Josh in tono piatto.
Lo afferro per una spalla e lo costringo a guardarmi negli occhi; le sue iridi nocciola sono torbide. “Come sta?”
Lui si morde il labbro. “Perché non ci sediamo e ne parliamo con calma?”
Lo strattono per la maglietta; sono così incazzato che potrei strangolarlo a mani nude se non parla immediatamente. “Col cazzo! Dimmi dov’è Ives e come sta!”
Lui sospira e si divincola dalla mia stretta. “Era… nello sgabuzzino di una bettola in cui stanotte hanno dato una festa. Si dev’essere infiltrato in mezzo alla confusione generale e… Ethan… non ce l’ha fatta. Se n’è andato per sempre.”

No.
È uno scherzo.
Non è vero.
Semplicemente non può essere.
Un mondo senza Ives non può esistere.
Mi viene quasi da ridere, perché sembra tutta una grande barzelletta.
E invece non c’è un cazzo da ridere ed è tutto vero, compreso il vuoto che sento dentro la testa e al posto del cuore.
È tutto vero, anche il fatto che mi sto sgretolando pian piano.
Le mie certezze crollano.
Il mondo crolla tutto attorno a me.
Mi guardo attorno: è tutto uguale a prima, eppure è tutto sbagliato. L’aria è più fredda, le luci brillano di meno.
Alick piange e mi dà fastidio, perché io invece non piango affatto. E che diritto ha lui di soffrire davanti a me, che sto male il doppio di lui?
“Ethan” mi chiama la voce di Josh, ma la sento così lontana che non sembra nemmeno reale.
Da più di due anni, dal momento in cui ad Ives è stato diagnosticato l’AIDS, avevo la certezza che questo momento sarebbe arrivato. Ho cercato di prepararmi, di accettarlo, di farmene una ragione ed elaborarlo.
Allora perché adesso fa così male? Perché mi sento completamente annientato?
La verità è che, qualunque cosa tu ti racconti, quando arriva la batosta ti toglie il respiro. Ti schiaccia.
“Ethan… forse è il caso che ti siedi da una parte” mi suggerisce Josh posandomi una mano sul braccio, ma me la scrollo di dosso con un movimento brusco.
Rabbia.
Ecco cosa provo.
E la porto fuori, tutta. Comincio a imprecare, a bestemmiare contro quel dio in cui nemmeno credo, perché non so neanche con chi prendermela.
Stringo i pugni finché le unghie non mi si conficcano nei palmi, digrigno i denti finché non ho l’impressione che mi si stiano per frantumare.
Sferro un pugno alla porta.
Poi la apro di scatto e scendo di corsa le scale. Ho assolutamente bisogno di uscire e di non sentire più quelle quattro mura stringersi attorno a me, ho bisogno di respirare aria pulita nella speranza che basti a riempirmi i polmoni.
Una volta sull’asfalto, sollevo lo sguardo verso la coltre di nubi grigiastre e anche quelle mi sembrano finte, parte di un sogno.
Ho bisogno di rompere qualcosa.
Mi avvicino alla mia auto, quella che Davi mi ha regalato per il mio sedicesimo compleanno, e lascio una scarica di pugni sulla carrozzeria. Grido, do calci, mi infiammo, mi incendio, distruggo, graffio, sfogo tutta la mia frustrazione finché i muscoli non iniziano a bruciare per quanto guizzano, finché le nocche non mi si sfasciano e il rosso diventa l’unico colore all’interno del mio campo visivo.
Finché la mia auto non si accartoccia sotto la mia rabbia.
Finché i frammenti di vetro non mi si conficcano sotto le suole delle scarpe.
Finché non mi rendo conto che nulla di tutto ciò farà tornare indietro Ives.
Allora, col fiato corto e un dolore sordo che mi invade le vene, indietreggio di qualche passo fino ad appoggiare la schiena al muro.
Non so cos’ho fatto, ma qualunque cosa sia, non è servita a trovare un senso alla morte di Ives.
Morte.
Non può essere successo davvero. Sembrava così lontano, impossibile.
Alick e Josh mi raggiungono timidamente – devono avermi seguito e aver assistito a tutta la scena.
“Se questo ti è servito per stare meglio, okay” afferma Josh in tono comprensivo.
Stare meglio?! Ma che cazzo stai dicendo? In ventidue anni di vita non mi sono mai sentito così di merda!” gli urlo contro con tutta la forza che mi è rimasta in corpo.
“Ethan, ascolta… abbiamo chiamato anche Oliver, sta arrivando. E quelli dell’ospedale hanno già informato anche la famiglia di Ives, cioè, la zia. Se ti senti di vederlo, possiamo accompagnarti in obitorio” spiega Alick con la sua solita calma, nonostante abbia la voce roca per il pianto.
Obitorio?
No.
Non ci penso nemmeno.
Una strana e indescrivibile paura mi invade e mi mozza il respiro. Proprio io, Ethan, che mi vanto di avere sangue freddo da vendere, sono terrorizzato dall’idea di entrare in un fottuto ospedale e trovarmi davanti il cadavere del mio migliore amico. Proprio io, che sono cresciuto per strada, ho visto la morte in faccia tante volte e ne sono sempre stato circondato.
Ma non ce la faccio. Mi sento un vigliacco, ma stavolta è troppo.
Salgo nuovamente al mio appartamento, afferro le chiavi dell’auto e mi carico la chitarra classica in spalla.
Prima di uscire, mi guardo attorno per un’ultima volta: la coperta di Ives è ancora scaraventata a terra ai piedi del divano, il suo quadernetto è poggiato sul tavolo e il suo basso è abbandonato su una sedia, in un angolo.
Questo luogo mi annoda la gola.
Richiudo la porta con forza, scendo le scale e, superando Josh e Alick senza nemmeno rivolger loro uno sguardo, mi chiudo in macchina e getto la chitarra sul sedile del passeggero. Spero che la mia auto sia ancora in grado di accendersi e viaggiare, nonostante le condizioni pietose in cui l’ho ridotta.
Mentre avvio il motore, noto i miei due amici fare qualche passo avanti con aria preoccupata.
“Non sei nelle condizioni di guidare, Ethan!” cerca di fermarmi Josh.
“Non rompete il cazzo. Ho bisogno di stare solo.” E, così dicendo, premo sull’acceleratore e sfreccio via.
Devo riordinare i pensieri per i fatti miei.



I've never knew what it was to be alone, no
'Cause you were always there for me
You were always home waiting
And I'll come home and I miss your face so
Smiling down on me
[Alter Bridge – In Loving Memory]



° ° °



Lasciai scorrere le dita sulle corde della chitarra, concentrato sul brano che stavo eseguendo. Ormai era diventata la norma: tornavo a casa, attaccavo la chitarra all’amplificatore e suonavo per Ives.
Nonostante la malattia lo stesse inghiottendo giorno dopo giorno, sentire la mia musica era l’unica cosa in grado di far brillare ancora i suoi occhi azzurri, di riempirli di vita ed entusiasmo. E così suonavo per lui finché aveva voglia di sentirmi, finché non mi facevano male le dita.
Quel giorno avevo deciso di eseguire Samba Pa Ti perché sapevo che Ives adorava sentirmi suonare Santana; quando ci eravamo conosciuti, ero in fissa con Abraxas, stavo imparando tutto l’album a memoria e Ives mi si sedeva accanto, in silenzio, ad ascoltarmi per ore. Era instancabile.
“Tu sei un pochino come Santana,” mi diceva spesso, “riesci a dire con la chitarra tutto quello che non riesci a dire a parole. È per questo che mi piace tanto sentirti.”
Pronunciava quelle parole con la leggerezza tipica dei bambini, ma per me, che avevo fatto della chitarra la mia più grande passione, significavano tutto.
“Ethan.”
La voce di Ives mi riportò alla realtà e, senza smettere di suonare, sollevai lo sguardo per rivolgergli un’occhiata interrogativa.
Lo trovai così sbiadito, ma i suoi occhi azzurri luccicavano appena di lacrime.
“Mi dai un abbraccio?”
Sgranai gli occhi, colto totalmente alla sprovvista.
Mi conosceva da più di dieci anni e sapeva perfettamente quanto detestassi i contatti fisici troppo stretti e in particolare gli abbracci. Non sapevo cosa rispondergli: quella semplice domanda era stata capace di mettermi profondamente a disagio.
Ives sbatté per un attimo le ciglia; gli si leggeva negli occhi che necessitava davvero di quel gesto, dell’affetto che non era mai riuscito a ricevere e dare. Era così dolce e sensibile, e in quel momento – in cui si sentiva vulnerabile e percepiva la vita scivolare via da lui – cercava ancora con più smania qualche briciola di calore umano.
Ma purtroppo io ero un insensibile pezzo di merda e ancora una volta non riuscivo a essere ciò di cui aveva bisogno; non contavo più le volte in cui avevo visto scorrere sul suo viso il desiderio di abbracciarmi, ma si era sempre trattenuto per non darmi fastidio.
Mi sentivo terribilmente in colpa.
Ives sarebbe potuto morire quel giorno stesso e io non l’avrei lasciato andare senza dargli ciò che desiderava.
Quel pensiero mi colpì con talmente tanta violenza da farmi riscuotere all’improvviso.
Tentando in tutti i modi di reprimere il naturale istinto di allontanarmi, mi alzai con cautela, posai la chitarra in un angolo e mi accomodai timidamente sul divano. Non abbracciavo qualcuno da così tanto tempo che non sapevo più come si facesse; mi limitai a lanciare al mio amico un’occhiata di sbieco mentre annegavo nel mio stesso imbarazzo.
Ives non esitò un istante e mi si avvicinò, per poi stringersi forte a me con tutta la – poca – forza che aveva in corpo.
Mi bastò quello per sentirmi soffocare e sprofondare nel disagio: Ives si era gettato addosso a me quasi con disperazione, cercando la mia vicinanza.
Tuttavia, in quel mare di fastidio, avvertii qualcosa di diverso, che mai avrei pensato di poter provare: un moto di tenerezza, uno strano e tiepido pizzicore nel petto. Per quel granello di dolcezza, avrei messo da parte il mio orgoglio e il mio disprezzo. Lo dovevo ad Ives.
Gli circondai le spalle con un braccio, in quella maniera goffa di chi non è abituato; Ives mi posò la testa sulla spalla e nascose il viso nella mia maglietta – il suo corpo era tutto un tremito.
Era come un bimbo in cerca di protezione e affetto, aveva atteso talmente tanto quell’abbraccio – da mesi, forse anni – e ora che l’aveva ottenuto non riusciva a smettere di stringermi e singhiozzare.
Mi si spezzò il cuore. Sentirlo così fragile e indifeso tra le mie braccia faceva ancora più male dell’inadeguatezza che provavo dentro me.
Come avevo potuto vederlo ogni singolo giorno negli ultimi tre anni e non essermi accorto che aveva bisogno soltanto di questo?
Lasciai che si appigliasse a me e lo tenni stretto con delicatezza – avevo quasi paura di romperlo, io che ero forte e grosso e così rozzo. Lui pianse sulla mia spalla per minuti interi, mentre io lottavo contro l’impulso di ritrarmi. Pian piano, quasi in maniera inconsapevole, mi accorsi che la sensazione sgradevole scivolava via insieme al tempo; non mi opposi nemmeno quando Ives, leggermente più calmo e col respiro che si regolarizzava, cercò la mia mano per stringerla forte. Le sue dita erano così sottili e fredde da mettermi i brividi.
Lo sentii rilassarsi, ancora col capo posato sulla mia spalla; le sue ciocche ispide e corvine mi accarezzavano appena la pelle. Non riuscivo proprio a capire come fosse possibile, ma sembrava trovare davvero conforto in quell’abbraccio; nonostante le guance rigate di lacrime e il colorito insano, il suo viso ora pareva così sereno.
“Vorrei morire così, adesso” lo sentii mormorare mentre stringeva un po’ più forte la mia mano, prima di sprofondare in un sonno profondo.
Si era letteralmente addormentato tra le mie braccia.
Si trattava della situazione più bizzarra e surreale in cui mi fossi mai trovato.
Lasciai trascorrere alcuni minuti; il silenzio regnava sovrano nella stanza e mi permetteva di ascoltare il respiro leggero e regolare del mio amico.
E mi ritrovai a pensare che Ives rappresentasse la parte più buona di me.
Non sarei mai stato capace di spiegare ciò che ci univa e nessuno l’avrebbe mai capito. Ma, di qualsiasi cosa si trattasse, era sempre in grado di portare fuori il meglio dal disastro che ero.



° ° °



Oggi il mare sembra più torbido del solito: il suo azzurro si sporca del grigio del cielo, borbotta cupamente presso la riva e ogni tanto si altera un po’ di più al soffio del vento, sgridando la sabbia con strilli sordi.
È lo specchio del mio stato d’animo.
Sfido lo sciabordio delle onde col suono della mia chitarra. Mi fanno male le mani per tutti i pugni che ho tirato, è un pizzicore fastidioso che mi distrae almeno in parte dalla mia voragine interiore.
Mi sono rifugiato in una spiaggia deserta perché il mare è l’unico luogo in cui la mia anima sembra placarsi e trovare sollievo. Mi sono seduto e, lasciando che il vento mi frustasse addosso la salsedine, ho cominciato a guardare l’infinito davanti a me.
In fondo sono solo un granello di sabbia in mezzo a tanti. E come può un misero granello di sabbia cambiare un destino che forse era già scritto?
Riverso sulle sei corde tutti i miei sensi di colpa, tutte le mie domande.
Mi ero ripromesso di proteggere Ives come un fratello minore – quasi come un figlio – e non ne sono stato in grado: sono stato io a permettergli di comprare la sua prima dose di eroina da mio fratello, non sono riuscito a fare niente per aiutarlo quando ho visto la sua dipendenza peggiorare, non gli sono stato accanto nel modo in cui meritava quando ha scoperto che la sua vita si sarebbe presto spezzata.
E infine non ero insieme a lui quando ha esalato l’ultimo respiro. Se n’è andato da solo, in uno squallido e freddo stanzino, con un ago conficcato in vena. Nessun ultimo abbraccio, nessuna carezza, nessun addio.
Mi viene quasi da ridere quando ripenso a quanto mi sia stato grato in questi anni. Per che cosa, poi? A che è servito fare tutto ciò che potevo, se nemmeno quello è stato abbastanza?
Mentre torturo la mia chitarra e ripercorro tutte le canzoni che gli ho suonato mentre stava male, mi tornano in mente i fotogrammi dei momenti vissuti assieme, di tutti i sorrisi che mi ha regalato anche quando gli costava fatica e di tutte le volte che mi ha fatto promettere che non avrei mai smesso di suonare, nemmeno quando lui non ci sarebbe più stato.
Osservo le onde che si infrangono sulla battigia e mi domando dove si trovi Ives in questo momento, se esista un luogo in cui la sua anima possa continuare a brillare. Non credo nell’aldilà, nel paradiso, nella vita dopo la morte e tutte quelle altre stronzate, ma in questo momento mi ritrovo a sperare che almeno una di queste stupide teorie sia vera. Perché pensare che Ives abbia smesso di esistere per sempre fa troppo male.
All’improvviso mi torna in mente un dettaglio che avevo completamente dimenticato: il sogno. Il ricordo mi colpisce così forte che smetto per un attimo di suonare e trattengo il fiato senza rendermene conto.
È come se con quell’ultimo saluto il mio amico mi abbia voluto dire addio a modo suo. Ha fatto irruzione nei miei sogni con quella naturalezza e quella spontaneità in grado di spiazzare chiunque e mi ha ringraziato per l’ultima volta, come se la sua anima avesse voluto passare da me prima di volare via.
Forse dovrei vergognarmi del fatto che il mio subconscio abbia elaborato un simile pensiero – nella realtà non mi sarei mai sognato di avvicinarmi ad Ives in quel modo –, ma la verità è che non mi importa niente di ciò che è giusto o sbagliato. Terrò per me quell’immagine e quel bacio a fior di labbra per sempre.
È l’ultimo saluto tra me e Ives. Lo sappiamo solo io e lui.
Smetto definitivamente di suonare e mi stendo nella sabbia, socchiudendo gli occhi e lasciando che i granelli chiari mi pizzichino la pelle. Oggi non c’è nemmeno un po’ di azzurro in cielo.



Is he already gone?
Can we call him back again?
Is he already gone?
Will I find him in the end?
[Disturbed – Already Gone]



Parcheggio l’auto fuori da casa di Davi e scendo con calma, afferrando anche la custodia contenente la chitarra.
Il buio ha avvolto la città da più di un’ora ormai e io sono in condizioni pessime: sulle mani mi si stanno formando delle croste enormi, ho la maglietta inzuppata di sangue e di sudore, ho la pelle secca per la salsedine e i capelli pieni di sabbia. Avrei bisogno di una doccia, ma il mio stato psicologico è doppiamente devastato di quello fisico e non ho nessuna intenzione di rientrare nella casa che ho condiviso con Ives, per ritrovare tutte le sue cose ancora al loro posto, come se nulla fosse.
Suono il campanello e attendo.
Davi mi ha detto un milione di volte di non recarmi a casa sua: la polizia, o addirittura gli agenti federali, potrebbero piombare da lui da un momento all’altro e arrestarlo. Nel caso si presentasse quest’eventualità, mio fratello non sopporterebbe che finisca nei guai insieme a lui; per questo cerca di non rendere troppo palese il legame di parentela che ci unisce.
Lo fa per proteggermi, lo so, ma oggi me ne fotto. Anzi, se entrasse uno sbirro e mi piantasse una pallottola in testa, mi farebbe un favore.
Davi socchiude l’uscio dopo quello che sembra un minuto buono e mi fulmina con i suoi occhi neri e severi, identici ai miei. “Perché non mi hai chiamato? Sarei venuto io da te” sibila.
“Non rompere il cazzo” ribatto in tono piatto, prima di spingere la porta e intrufolarmi in casa sua. Mi reco a passo spedito verso il soggiorno, in cui trovo Serena – l’attuale ragazza di Davi – e Josh accomodati sui divani.
Non appena mi vede entrare, il mio amico si alza e viene verso di me con un’espressione preoccupata e al contempo sollevata dipinta in viso. “Ethan…”
“Sì, sono sempre io. Hai visto che non ho sfasciato la macchina in un incidente stradale e non mi sono rotto l’osso del collo? Anche se forse avrei preferito così” borbotto, ricordando quanto fosse restio a lasciarmi andare via da solo.
“A proposito di macchina” interviene mio fratello, comparendo alle mie spalle e poggiandosi allo stipite della porta. “L’hai ridotta proprio male. Mi sa che dovrò regalartene un’altra.”
Mi volto e incrocio il suo sguardo. Sa benissimo che non deve chiedermi come sto e non deve affrontare l’argomento finché non sarò io a farlo, mi conosce perfettamente.
Gliene sono davvero grato.
“Sentite, so che forse non è il caso,” prende la parola Josh, attirando la mia attenzione con un cenno, “ma Alick e Oliver erano in pensiero per te. Posso dir loro di passare di qui? Così magari ti vedono e stanno più tranquilli…”
Sollevo subito una mano per fermare il suo flusso di parole. “Non se ne parla. Non voglio raduni di gente che piange e si dispera: meno gente vedo e meglio sto” metto in chiaro mentre mi butto con malagrazia sul divano.
“Hai bisogno di qualcosa in particolare?” mi domanda Davi.
Di fare chiarezza nella mia mente. Non so nemmeno io cosa provo, sono così confuso e spaesato…
“Di qualcosa di forte da bere.”
Senza spiccicare parola, Serena si alza dalla sua postazione e scompare in cucina, probabilmente con la scusa di procurare qualcosa per me. Ma sicuramente ha capito di essere in più, ammesso e non concesso che si renda conto di ciò che le capita attorno. Non sembra una tipa molto sveglia.
“Beh… almeno posso avvisarli che sei qui e sei tutto intero. Posso usare il tuo telefono, Davi?” chiede Josh.
Mio fratello annuisce appena. “Lo sai già: lo trovi in corridoio.”
Quando anche Josh lascia la stanza, incrocio lo sguardo di Davi e non so cosa lui scorga nel mio, ma si avvicina e si accomoda nel posto occupato dall’altro ragazzo fino a poco fa.
“A te non fotte niente” affermo dopo qualche pesante attimo di silenzio.
“In che senso?”
“Per te è soltanto l’ennesimo cliente che si ammazza con la tua roba. Ormai sei abituato a questa merda.”
Davi sospira. “Non è facile come credi. Quando eravamo ancora in Brasile e ho cominciato come un piccolo spacciatore per guadagnare qualche soldo, sembrava tutto uno scherzo, quasi un divertimento. A me servivano i contanti e così riuscivo a ottenerli. Poi siamo riusciti a scappare, io mi sono ritrovato a dover mantenere te e i tuoi fratelli e così ho continuato, perché non avevo altra scelta e non potevo rischiare di rimanere al verde. Arrivi a un punto in cui questo giro ti inghiotte: c’è un sacco di gente che ti vuole morto, un sacco di gente che dipende da te e altre persone ancora vogliono chiuderti dietro le sbarre, e quando te ne accorgi è troppo tardi e non ne puoi uscire indenne. Io non sono contento che migliaia di ragazzi muoiano di overdose per via della roba che vendo, ma ormai non ho alternative.”
Osservo mio fratello e, forse per la prima vera volta, non lo vedo come il supereroe che ha sempre la situazione sotto controllo: è un uomo di trentacinque anni col volto pieno di rughe per la preoccupazione e la stanchezza, che vive con la costante paura di essere arrestato e ha troppe vite sulla coscienza, talmente pieno di soldi da potersi comprare il mondo intero ma senza la possibilità di goderseli veramente.
Ora capisco perché vuole tenermi lontano dal mondo dello spaccio.
Poggio la testa sullo schienale del divano e sospiro. “Io non capisco. Non riesco proprio a trovare un cazzo di senso per ciò che è successo.”
Davi mi scruta in silenzio, attendendo che continui.
“Perché Ives? Perché dobbiamo vivere in un mondo in cui i buoni soccombono? Perché lui e non io?” sbotto mentre la rabbia mi invade nuovamente.
“Non c’è un senso, Ethan. È inutile sprecare tempo ed energie per trovarlo.”
“Ma cos’aveva fatto di male?” prorompo nuovamente. “Forse si poteva fare qualcosa per evitarlo, potevo…”
Davi mi sorride mestamente. “Ethan, smettila di ficcarti in testa certe stronzate. Sappiamo entrambi che hai fatto tutto il possibile per lui. Nessuno di noi può combattere contro un mostro come l’AIDS, sarebbe stata una battaglia persa. O pensavi forse di iscriverti a Medicina e trovare tu una cura?”
“Se ne avessi avuto le capacità, magari l’avrei fatto. Invece non ho saputo fare un cazzo, non sono riuscito a salvarlo e… non gli sono stato accanto nemmeno mentre moriva, porca puttana! Lui meritava di vivere, io no!”
Vedo gli occhi di mio fratello luccicare appena, come a volermi comunicare che è davvero orgoglioso di me. Non so perché, dato che sono un fallimento totale, ma sono certo che il suo sguardo non mente mai. Non a me.
“Abbiamo della tequila.” Serena fa il suo ingresso nella stanza e mi porge un bicchierino.
Lo afferro e mando giù il liquido tutto d’un fiato. Solo mentre stringo il vetro tra le dita mi accorgo di quanto sto tremando.
Io, così alto e forte, con le spalle larghe e i lineamenti talmente marcati da sembrare cattivi, tremo come una foglia.
Davi ridacchia. “Cazzo, l’hai mandata giù come fosse acqua! Se vai avanti di questo passo, dovrò chiedere a Josh di darti un passaggio fino a casa!”
“No, forse non hai capito.” Mi faccio serio di colpo e fisso i miei occhi nei suoi. “In quella casa non passerò più neanche una notte.”
Mi vergogno quasi ad ammetterlo, ma ho una paura folle di rimettere piede nel luogo che per quasi quattro anni è stata la casa di me e Ives.



° ° °



Non appena incrociai gli occhi di Ives, mi resi subito conto che qualcosa non andava quel giorno. Anche se non ci conoscevamo da tanto tempo, quel bambino era un libro aperto e avevo già imparato a riconoscere i suoi stati d’animo.
Di solito mi raggiungeva di corsa, con le guance tutte rosse e il sorrisone sulle labbra. Quando questo non capitava – molto raramente – voleva dire che era successo qualcosa di così grave da buttarlo giù.
Si avvicinò lentamente, si sedette sullo scalino accanto a me e tenne il capo abbassato, gli occhioni azzurri fissi sulle punte delle scarpe.
“Ciao” lo salutai come se niente fosse, ma allo stesso tempo gli lanciai un’occhiata interrogativa. Non ero il tipo che riempiva la gente di domande, e poi comunque Ives mi avrebbe raccontato tutto. Non riusciva a tenersi niente per sé.
“Ciao” rispose con un sospiro e non aggiunse altro.
Aggrottai le sopracciglia. Non era proprio da lui rimanere in silenzio.
“Cos’è quella faccia?” indagai allora.
“No… niente.”
Cominciavo a preoccuparmi. Se non ne voleva parlare nemmeno con me, a cui raccontava sempre tutto, doveva essere davvero grave.
“Non è vero che non hai niente.”
“Dai, è una cosa stupida, non è importante. E poi perché hai cominciato a farmi domande? Hai detto che non ti piacciono.”
Gli mollai un pugno sul braccio. “Smettila di fare il misterioso! Se è una stronzata, magari ti posso aiutare a risolverla.”
Lui sospirò e si passò una mano tra i capelli. “Ho litigato con Maggie.”
Sollevai gli occhi al cielo. “Ancora quella troia?”
“Non chiamarla così! È sempre mia sorella!” mi rimproverò subito.
“Veramente è tua cugina. Comunque, cos’ha fatto stavolta la troia?”
“Ecco, ieri… io e te abbiamo fatto tardi, e quando lei è venuta al nostro punto di incontro e non mi ha trovato si è arrabbiata tantissimo, perché se non rispettiamo l’orario che ci ha dato zia Maura è lei a prendersi la colpa. Così quando sono arrivato al piazzale lei era completamente impazzita, mi ha urlato che eravamo già in ritardo di mezz’ora e ha continuato a gridare per tutto il tragitto verso casa. Mi ha detto che… che ero uno stronzo e che nessuno mi voleva bene, che nemmeno zia Maura mi vuole bene perché sono il figlio di una puttana e che dovevo morire come mia madre. Io ho cercato di spiegarle che non ho un orologio e non mi rendo conto dell’orario, ma lei si è arrabbiata ancora di più e mi ha preso per i capelli e mi ha sbattuto al muro. Guarda.” Ives tirò il lembo della sua t-shirt per scoprire la spalla, su cui spiccava un grande livido scuro.
Io ero senza parole. Come poteva quella stronza prendersela con un bambino che aveva sei anni in meno di lei? Come poteva dire certe cose a un bambino di otto anni e farlo sentire in colpa per qualcosa che non dipendeva nemmeno da lui?
Mi veniva voglia di andare a cercarla e prenderla a pugni. Ives forse non sarebbe mai riuscito a difendersi, era uno scricciolo e alla fine voleva bene a Maggie, non si sarebbe mai messo contro di lei, ma non era giusto che quella pazza la passasse sempre liscia.
“Che psicopatica del cazzo” commentai con rabbia.
“E sai cosa mi ha detto oggi mentre stavamo uscendo? Che fa bene a lasciarmi in quella specie di piazzale pieno di spazzatura dove di notte fanno le sparatorie, così magari fanno fuori anche me e lei è più contenta.” Gli occhi celesti di Ives diventarono lucidi di lacrime mentre parlava e la voce gli si spezzò sulle ultime parole.
Strinsi i pugni. La cosa più grave era che il mio amico credeva a tutto ciò che Maggie gli diceva: riusciva davvero a convincerlo che fosse in più e che nessuno gli volesse bene.
“Senti, io non sono mai a favore di chi si mette a frignare e a fare la vittima,” cominciai a dire dopo qualche secondo di silenzio, guardando Ives dritto negli occhi, “ma stavolta è diverso. Perché non racconti tutto a zia Maura?”
Lui scosse il capo. “No, non glielo dirò mai, non voglio fare la spia. Perché poi se la prenderebbe con Maggie e io non voglio che lei mi odi ancora di più. E poi… Maggie è la sua vera figlia, io sono capitato in questa famiglia per caso, perché mia madre è morta… e non è giusto che litighino ancora per colpa mia.”
Sospirai e mi sedetti nuovamente accanto a lui. Non conoscevo bene la famiglia di Ives, ma lui me ne aveva parlato tanto e io la odiavo, tutta. Sua cugina faceva di tutto per farlo sentire di troppo e gli rinfacciava che le aveva rubato il posto di figlia unica e più importante; sua zia diceva di amarlo come fosse suo figlio, ma non c’era mai e non si accorgeva quando qualcosa non andava bene. E, nonostante tutto, lui continuava a voler bene a entrambe.
Era troppo buono.
Gli lanciai un’occhiata di sottecchi e lo trovai triste e imbronciato. Avrei tanto voluto aiutarlo, ma cosa potevo fare? Non ero bravo a fare discorsi, a dare consigli e tirare su la gente con le parole.
In fondo avevo soltanto nove anni.



° ° °



Piove.
L’acqua scroscia forte giù dai tetti e per le strade, ricoprendo il mondo di un freddo e sinistro grigiore. Qualcuno in vena di pensieri poetici potrebbe pensare che il cielo stia piangendo la morte di Ives, ma io – che sono molto più concreto – sono dell’idea che questo temporale sia soltanto una rottura di coglioni.
Se c’è una cosa che detesto più dei cimiteri, sono i funerali. Non sopporto di essere circondato da gente in lacrime e ipocrita – spesso le due cose combaciano.
La chiesa per fortuna è quasi deserta: Maura e Maggie – coloro che Ives chiamava famiglia – si trovano sulla panca vicino all’altare, mentre io, Alick, Oliver e una manciata di altri ragazzi che frequentano il nostro gruppo ci siamo sparpagliati alle loro spalle. Qualcuno si avvicina alla zia e alla cugina di Ives per porger loro le condoglianze, mentre io mi tengo in disparte ed evito pure di posare lo sguardo su di loro. Le ho sempre odiate.
Durante la cerimonia funebre rimango per tutto il tempo nascosto in un angolo vicino all’ingresso, a osservare la pioggia che scorre sulle vetrate e a lottare contro l’impulso di andare dal prete e tirargli un pugno in bocca. Non fa che blaterare stronzate per quasi un’ora, ripetere che Ives è stato accolto tra le braccia di Dio e che ora troverà la pace nell’alto dei cieli.
Ma quale dio? Ora credo meno che mai nella sua esistenza, non mi darebbe nessun conforto l’idea che un’entità superiore si sia preso la briga di spegnere con tanta crudeltà la vita di un ragazzo di ventun anni. È più facile pensare che nessuno abbia la responsabilità di ciò che è accaduto, perché se esistesse un colpevole, potrei salire fino in paradiso per farlo fuori con le mie mani e rivendicare il mio amico.
Dio è buono, dio è misericordioso, dio ha voluto Ives al suo fianco.
Dio è un ingrato e un egoista. Se davvero l’avesse amato come lui meritava, l’avrebbe lasciato vivere in pace.
Mi riscuoto soltanto quando Oliver richiama la mia attenzione con un cenno, riportandomi alla realtà. Solo allora mi accorgo che la messa è finita.
Faccio per raggiungere lui, Alick e May – la ragazza storica del batterista –, ma mentre mi incammino tra le file di panche in legno mi sento osservato. Impiego qualche istante per capire che Maura e Maggie mi stanno scrutando con disprezzo.
Digrigno i denti.
Ethan, calmati.
“Quello è il ragazzino che ha portato il mio Ives sulla cattiva strada” sento sibilare alla più anziana con odio.
Allora non ci vedo più.
Alick, May e Oliver scompaiono.
Mi volto nella sua direzione e la raggiungo a passo lento ma sicuro, cercando di contenere la rabbia.
Mi fermo e fisso negli occhi prima Maura e poi Maggie – quest’ultima mi disgusta profondamente, con la sua faccia pulita da brava ragazza segnata dal pianto.
Torno a squadrare la zia di Ives e mi sorprendo di trovare il suo sguardo così risoluto e infuocato, nonostante tutto in lei lasci intuire quanto sia devastata. “Sì, sono io. Colui che, secondo il suo parere, ha distrutto il suo nipotino e l’ha fatto drogare. Si dà il caso, però, che questo pessimo elemento sia stato l’unico stronzo a stare accanto ad Ives fino all’ultimo giorno, quando tutti gli altri l’avevano abbandonato” ringhio. Contenere la rabbia si sta rivelando più difficile del previsto: le mani mi tremano e sono costretto a serrare i pugni per non darlo a vedere.
“Ma con quale faccia ti presenti qui? È tutta colpa tua se mio nipote si trova dentro una bara in questo momento, tua e di tutti quei delinquenti da cui sei circondato! Pensi che gliel’abbia data io la droga? Da quando ha conosciuto te non ha fatto che cadere sempre più in basso e distruggersi!” mi accusa, il suo vocione profondo rimbomba tra le pareti della chiesa come a volerle impregnare di questa sentenza.
E mi fa rabbia, mi fa male. Perché in parte è vero.
Ma come può lei, proprio lei, prendersi il diritto di far sentire in colpa me?
Mi avvicino di un altro passo, sento il viso andare a fuoco per l’ira. “Mi stia bene a sentire: io non gli ho ficcato un ago in vena, è stata una scelta di Ives. E sa quand’è stata la prima volta in cui si è bucato? Il giorno stesso in cui lei gli ha trovato una dose di cocaina tra le mani e l’ha cacciato di casa per sempre. È facile proclamarsi una madre amorevole e riversare le proprie colpe sugli altri, ma il caso vuole che lei non abbia mai visto Ives negli ultimi quattro anni. E chi c’era al suo fianco mentre la sua dipendenza peggiorava? Chi gli è stato vicino quando gli hanno diagnosticato l’AIDS? Sempre io. Sotto quale tetto ha vissuto in tutto questo tempo? Sotto il mio. Quindi, fossi in lei, prima di additare il prossimo mi farei un bell’esame di coscienza.” Indietreggio di alcuni passi, profondamente disgustato, e con la coda dell’occhio mi accorgo che Maggie ha cominciato a piangere e si è coperta teatralmente il viso con le mani.
Dio, quanto vorrei strangolarla, quella puttana…
“E – provi un po’ a indovinare, signora Mancini – chi c’era accanto ad Ives mentre moriva?” riprendo la parola, sollevando appena il tono della voce. Se queste mura hanno sentito la sua versione, ora ascolteranno anche la mia. “C’ero io! La mia faccia è l’ultima che quel ragazzo ha visto! E guarda caso mi considerava la sua famiglia!”
Non è vero, sto mentendo. Non so nemmeno il motivo; forse perché, davanti a un essere spregevole come questa donna, non ammetterò mai di non esserci stato fino alla fine. Voglio farla sentire in colpa, sputarle in faccia tutto il mio veleno e illudermi, anche solo per un istante, di non aver dato il mio contributo per spedire Ives nella tomba.
Gli occhi di Maura luccicano; per la prima volta da quando la conversazione è cominciata, la vedo vacillare. Improvvisamente il suo viso dai tratti marcati non sembra più così duro, la sua stazza non appare più tanto imponente. “Mio figlio non era così, l’hai trasformato” mormora.
“Non era suo figlio. E non l’ha amato abbastanza” puntualizzo.
Per un attimo l’occhio mi cade su Maggie, che continua a singhiozzare – quant’è falsa – e non accenna a spiccicare parola. Dev’essere proprio una brava attrice per fingersi così disperata.
Quanto la odio…
“E tu cosa cazzo hai da piangere, troia?” esplodo, muovendo un passo verso di lei.
Ho ufficialmente finito la pazienza.
Lei si riscuote all’improvviso, solleva il capo e mi fissa con quegli occhi verdi all’apparenza così sinceri. “Cosa vuoi da me? Il mio cuginetto se n’è andato e non ho nemmeno il diritto di soffrire?” piagnucola con voce rotta.
Mi lascio sfuggire una risata amara e priva di divertimento. “Da oggi si scopre che è il tuo cuginetto? Nella versione dei fatti che conosco io, l’hai sempre fatto sentire una merda e gli hai augurato di morire un’infinità di volte. Dovresti festeggiare, ora che il tuo sogno si è realizzato!”
“Come ti permetti di parlare così a mia figlia?” interviene Maura con rabbia, afferrandomi per la manica della t-shirt e tentando di allontanarmi dalla ragazza.
“Ah, non ne sapeva niente, signora? Credo che la sua adorata bambina abbia giusto un paio di cose da dirle. Per esempio, Maggie, perché non le racconti di quando hai minacciato Ives di soffocarlo con un cuscino? O perché non le spieghi che quando uscivate lo lasciavi da solo in un piazzale pieno di spazzatura e delinquenza per andartene a spasso con i tuoi amichetti, mentre assicuravi a tua madre che l’avevi tenuto d’occhio per tutto il tempo? Quando ho conosciuto Ives lui era in mezzo alla strada, giocava con travi marce e piene di chiodi arrugginiti… e aveva otto anni.”
“Ma io dopotutto gli volevo bene!” strilla Maggie tra i singhiozzi. È così finta, ha un modo così studiato pure di asciugarsi le lacrime e di scostarsi le ciocche di capelli dal viso, come se stesse dando spettacolo per un pubblico che esiste solo nella sua testa.
Maura è ammutolita, sposta lo sguardo da me a lei e sul suo viso scavato dal dolore si è dipinta una smorfia di incredulità.
Dopotutto gli volevi bene, certo. Anche dopo avergli messo le mani addosso, averlo strattonato e lasciato un sacco di lividi. Anche dopo avergli rinfacciato di essere il figlio di una puttana, dopo avergli messo in testa di non fare davvero parte della famiglia in cui viveva e di essere sempre un gradino sotto di te, perché tu eri la vera figlia di Maura mentre lui viveva con voi solo per non essere lasciato per strada. Ives aveva l’autostima distrutta, pensava di portare solo dolore attorno a sé, pensava di non meritare affetto e di essere un inutile peso per chi lo circondava; tutto questo grazie a te che gli hai ficcato nel cervello certe stronzato fin da quando era ancora un bambino! E, di nuovo, a chi raccontava tutto ciò? Al sottoscritto.”
So che è da bastardi, ma godo come un matto nel vedere l’espressione perplessa e irata di Maura: scruta la figlia con intensità, con occhi nuovi e pieni di risentimento. È palese che non sapeva nulla di tutto ciò.
Punto i miei occhi in quelli di Maggie, voglio che stia bene attenta a ciò che le sto per dire. “Sai perché non ha mai raccontato niente a tua madre e ha sofferto in silenzio per tutti questi anni? Perché, nonostante tutto, ti voleva bene e ti considerava sua sorella, non avrebbe mai fatto niente per metterti nei guai. Giorno dopo giorno raccoglieva i cocci del suo cuore troppo grande e li rimetteva insieme per riuscire a perdonarti, mentre tu non facevi che distruggerlo di nuovo, sempre più cattiva e agguerrita. Che strano modo di dimostrare affetto, eh?”
Maura comincia a piangere silenziosamente.
Maggie abbassa il capo e io spero si stia vergognando per la sua insulsa esistenza.
“Ethan, dacci un taglio!” interviene Oliver a un certo punto, comparendo alle mie spalle e tirandomi leggermente indietro per un braccio.
Solo ora mi accorgo che i miei amici si sono avvicinati a noi e hanno assistito a tutta la scena; probabilmente hanno cercato di placare la mia violenta sfuriata, ma io ero troppo concentrato e incazzato per rendermene conto.
“Sparisci” sibila Maura rivolgendomi uno sguardo pieno di disprezzo, ma ora sembra molto meno risoluta e molto più fragile di prima. “Ti conviene toglierti di mezzo, prima che io ceda alla tentazione di darti uno schiaffo.”
Mi stringo nelle spalle. “Mi vuole dare un ceffone? Si accomodi, se questo la farà stare meglio. Però sappia che io me ne andrò da questa chiesa con uno schiaffo e con la consapevolezza di essere stato un buon amico per Ives, e questo mi basta.”
Oliver sospira, segno che sta cominciando a spazientirsi e che io sto tirando troppo la corda.
Guardo Maura e Maggie negli occhi per l’ultima volta e sorrido appena, come a volermi prendere gioco di loro. “Bene, ora levo le tende e vi lascio al vostro esame di coscienza. Scommetto che ora avete un sacco di cose da raccontarvi… buona fortuna. E buona vita.”
Do loro le spalle con un moto di soddisfazione che mi serpeggia nel petto.
Ma questa sensazione si dissolve qualche istante dopo, mentre io, Oliver, Alick e May usciamo dalla chiesa in silenzio.
Il cantante non fa che scrutarmi con occhi pieni di rimprovero e tristezza.
“Che cazzo hai da guardare?” sbotto, mentre la pioggia comincia a scrosciarmi addosso con impeto. Ovviamente non ho un ombrello.
“Complimenti, hai rinfacciato a una donna distrutta dal dolore e dal lutto tutti i suoi errori, l’hai fatta sentire una merda e le hai addossato colpe che non aveva. Adesso ti senti meglio?” sbotta, diretto come sempre.
Distolgo lo sguardo e mi passo una mano tra i capelli già inzuppati d’acqua. No, cazzo, non sto affatto meglio.
Far sentire in colpa Maura e Maggie non ha reso me meno responsabile o più bravo. Ringhiare, sbraitare e mentire mi ha fatto sentire uno stronzo e stare ancora peggio, perché è come se in parte avessi accusato anche me stesso.
E se sono scattato così, è solo perché mi sono reso conto che Maura non aveva tutti i torti ad additarmi e definirmi il ragazzino che ha portato Ives sulla cattiva strada.
Sospiro mentre ci dirigiamo verso la macchina di Oliver – è venuto a prendermi lui per andare al funerale, dato che la mia auto è in condizioni pietose.
Sono un pezzo di merda e un ipocrita. E se prima ero arrabbiato, ora lo sono il doppio.
Ives non avrebbe voluto nulla di tutto ciò.
Mentre siamo in viaggio verso il cimitero – i miei amici ci tengono a fare anche questa tappa – poggio il capo al finestrino e le goccioline gelide scorrono a pochi centimetri dal mio viso. Vorrei solo scendere da questa fottuta vettura, allontanarmi da tutto e tutti, entrare nel primo bar che mi capita a tiro e ubriacarmi fino a perdere la ragione.



° ° °



“Sorridete! O, insomma… fate quello che vi pare!” May sorrise mentre ci osservava tramite l’obbiettivo della macchina fotografica di Oliver.
Ero poggiato al bagagliaio della mia auto e avevo assunto un’espressione seria e imperscrutabile – da duro.
Alla mia destra, Ives si era poggiato a me e sorrideva raggiante; accanto a lui, Oliver sfoggiava un paio di occhiali da sole anche se era notte e stringeva una sigaretta tra le labbra per darsi un tono. Al mio fianco, sulla sinistra, Alick si esibiva in una serie di espressioni facciali per trovare quella che più si addicesse al nostro scatto.
“Ma era necessaria fare proprio oggi questa foto? Sono distrutto!” esclamò il batterista, ravviandosi i capelli ricci e lunghi dietro le spalle.
“Dobbiamo avere un bello scatto da inserire sulle nostre locandine! Tutte le band famose ne hanno uno!” ribatté Ives, gonfiando il petto e mettendo su un’espressione fintamente altezzosa.
“Ragazzi, a me stanno per cadere le braccia, questa cosa pesa un quintale!” commentò May con una risata. “Se non state fermi, non riesco a mettere a fuoco!”
“Ecco, appunto: mettetevi in posa e facciamola finita, mi sto rompendo il cazzo di stare imbalsamato nella stessa posizione” concordai in tono divertito.
Ives mi lanciò un’occhiata contrariata. “Che palle, Ethan! Perché non sorridi? Davvero vuoi finire sulle pareti di tutta la città con quel muso lungo?”
“Perché ci pensi già tu a sorridere per tutti e quattro” lo sbeffeggiai.
Oliver scoppiò a ridere. “Mi si sta consumando la sigaretta! Datevi una mossa!”
Il flash della macchina fotografica ci riempì gli occhi, cogliendoci di sorpresa. Aggrottai le sopracciglia e lanciai uno sguardo scettico a May, che ormai rideva senza ritegno. “Non hai davvero scattato, non puoi averlo fatto!”
Ives scoppiò a ridere e fu costretto a sostenersi a sua volta alla mia auto. “Ethan, avevi una mano sul pacco! Non ci credo, questa foto finirà nella storia!”
Mi strinsi nelle spalle e ridacchiai. Beh, volevo assumere una posa accattivante…
“Io avevo la bocca aperta!” protestò Alick, accostandosi alla sua ragazza e puntandosi le mani sui fianchi. “Se mi ami davvero, dammi quel rullino affinché io possa distruggerlo!”
“Non ci penso nemmeno!” May gli fece la linguaccia, poi si voltò verso Oliver. “Ne scatto un’altra?”
“Se io sono venuto bene, no” affermò il cantante, sfilandosi gli occhiali da sole e portandosi indietro i corti capelli biondicci con una mano. “È arrivato il momento di brindare! Ethan, fuori l’alcol!”
Mi chinai per raccattare le bottiglie di birra che avevo preso prima di uscire dal locale e che avevo poggiato a terra; mentre le afferravo, notai due ragazze avvicinarsi a noi con degli enormi sorrisi stampati sulle labbra. Riconobbi subito una delle due come Daisy, l’attuale ragazza di Oliver, mentre l’altra era una tizia che mi era capitato di vedere qualche volta ai nostri concerti ma con cui non avevo mai parlato.
Daisy, strillando e pigolando come suo solito, si avvinghiò subito al suo ragazzo. “Amore! Siete stati pazzeschi stasera, divini!” Poi si voltò verso la sua amica. “Lei è Sophie, una mia amica nonché vostra grande fan!”
Sophie – alta, belle forme, lunghi capelli biondi e occhi da cerbiatto – si accostò a noi in preda all’emozione. “Ragazzi, vi adoro! Quando farete il vostro primo tour mondiale, voglio venire con voi!”
Mollai le birre in mano ad Alick e May e mi accostai a quell’intrigante donzella – non potevo certo lasciarmi sfuggire un’occasione così succosa. “Se ci sarà posto nel van, perché no?” ammiccai con un sorrisetto.
Lei arrossì e si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
“Sono qui le star?” Una voce familiare esplose alle nostre spalle, annunciando l’arrivo di Josh. Il nostro amico ci raggiunse e batté una pacca sulla spalla a ciascun componente della band. “Avete spaccato stasera, ragazzi! Wembley attende solo voi!”
“Hai portato la roba?” gli domandò Ives, piegando appena il capo di lato.
Josh ci sorrise. “Ho con me un bel gruzzolo di coca per spassarcela un po’!”
“Ehi, ma noi non dovevamo fare un brindisi?” richiamò la nostra attenzione Oliver, che teneva ancora Daisy stretta per la vita.
Constatai che le birre a nostra disposizione non bastavano per tutti: eravamo stati raggiunti da un sacco di amici, ragazze e fan, era tutto un tripudio di complimenti e festeggiamenti.
Dopo qualche minuto io, Ives, Alick e Oliver ci ritrovammo con una birra ciascuno tra le mani, allora ci posizionammo in cerchio al centro del marciapiede con tutti i nostri amici attorno a noi.
Oliver sollevò la sua bottiglia. “Questo è per festeggiare l’ennesimo concerto degli Storm It Down portato a casa!”
Sollevai a mia volta l’oggetto che stringevo tra le dita. “Devo dire qualcosa?”
Alick scoppiò a ridere. “Qualcosa tipo: brindiamo per un futuro pieno di successo, concerti…”
Inarcai un sopracciglio.
“Ah, che palle, Ethan!” saltò su Ives, facendo scontrare con le nostre la sua bottiglia. Mise su un enorme sorriso ed enunciò: “Brindiamo per la nostra band e per un futuro pieno di musica, per la nostra amicizia che va oltre lo spazio e il tempo, perché tutti noi troviamo tanta felicità e tanto amore!”.
Alle nostre spalle partirono alcuni fischi e grida di approvazione, mentre le guance di Ives si tingevano appena di rosso.
“Che romanticone, il nostro bassista!” commentò Oliver con una risata, scompigliandogli i capelli come si fa coi bambini.
E in effetti, con quegli occhioni azzurri e innocenti, il viso arrotondato e delicato e il ciuffo sbarazzino sulla fronte, Ives pareva proprio un bimbo. Incrociai il suo sguardo e mi sorpresi per l’ennesima volta della fiducia che vi si poteva scorgere: pensava davvero ciò che diceva, credeva davvero nell’amore e si aggrappava con forza ai suoi sogni.
Gli sorrisi appena, stappai la mia birra e presi un lungo sorso. Dato che attorno a noi tutti avevano ricominciato a chiacchierare e scherzare tra loro, mi sporsi appena verso di lui con fare complice. “Sei davvero così interessato a trovare il grande amore, eh?”
Lui annuì con convinzione. “Ma certo!”
“Allora perché non cominci la ricerca con quella bella moretta che non ha fatto che fissarti per tutto il concerto?”
Lui sgranò gli occhi, cadendo dalle nuvole. “Quale? Dove? Io non me ne sono accorto!”
Scoppiai a ridere e gli diedi una leggera e scherzosa spinta, mentre lui arrossiva appena.
In cuor mio, anche se all’amore e altre stronzate del genere non ci credevo e non mi importava, speravo davvero che Ives riuscisse a trovarlo. Se lo meritava, ed ero certo che lui avesse tanto da dare; sicuramente la donna che gli sarebbe stata accanto per tutta la vita sarebbe stata davvero fortunata.
Spostai lo sguardo su Alick, che teneva May stretta a sé e le sussurrava qualcosa all’orecchio, e poi su Oliver, che rideva insieme a Josh e qualche altro ragazzo, e mi sentii davvero appagato.
Suonavo nella band dei miei sogni insieme ai migliori amici che mi potessero capitare e le cose avevano iniziato a girare per il verso giusto: le nostre date si moltiplicavano di continuo, calcavamo i palchi dei locali più in voga di Los Angeles, stavamo cominciando a farci un nome e un pubblico, presto saremmo potuti entrare in uno studio di registrazione a incidere le nostre prime demo.
Levai lo sguardo al cielo trapuntato di stelle e lasciai che la brezza di ottobre mi scompigliasse i capelli. Non potevo essere più felice di così: mi sembrava di poterli sfiorare con un dito, quegli astri luminosi.
Tornai a guardare Ives. “Allora…”
“Sì?”
“Andiamo dentro a cercare la moretta? Magari la troviamo con qualche amica e posso approfittarne anch’io… sai com’è.”
Lui ridacchiò. “Che stronzo!”
Risi a mia volta, e non ci fu bisogno di aggiungere altro.



° ° °



Riprendo pian piano i sensi e mi sento già immensamente spossato. Non ricordo dove mi trovo, che ora e che giorno sia; non ho nemmeno il coraggio di aprire gli occhi.
Le uniche sensazioni che percepisco sono un dolore lancinante alla testa, la gola secca e un sapore terribile in bocca.
Affino l’udito: attorno a me regna un silenzio strano e teso, interrotto ogni tanto da qualche vociare e dal rombo di un motore.
Quando, dopo qualche minuto, trovo la forza e il coraggio di riaprire le palpebre, apprendo che è pieno giorno e che sono stravaccato sul sedile della mia auto sfasciata. La brezza fresca di fine settembre filtra dal finestrino dalla parte del passeggero, che ho distrutto giusto qualche giorno fa e ora non si può più chiudere.
Cerco di raddrizzarmi a guardarmi attorno per capire in quale zona della città mi trovi, ma un capogiro mi coglie di sorpresa e sono costretto a prendermi la testa tra le mani.
Cazzo, sto malissimo.
È l’ennesimo giorno di fila che mi risveglio in preda ai postumi della sbornia, dopo aver bevuto come una spugna la sera precedente. Ormai non ricordo più ciò che faccio, dove mi reco, con quali persone trascorro il mio tempo: mi stordisco fino a non pensare più.
Perché fermarsi a riflettere in questi giorni sarebbe troppo straziante.
Sospiro, apro lo sportello ed esco sul marciapiede, stiracchiandomi e sentendo i muscoli doloranti. Non mi fa bene dormire sul sedile di un’auto, rannicchiato su me stesso o disteso in qualche posizione innaturale.
Mi accendo una sigaretta e comincio a osservare la gente attorno a me: tutti continuano a fare la loro vita, guidano indisturbati le loro vetture o passeggiano per strada come se niente fosse, e nessuno sembra far caso alla mia presenza.
Nessuno si accorge di quanto sia sbiadito il mondo.
Prendo una boccata di fumo e ripenso a tutte quelle sigarette che ho fumato insieme ad Ives, a tutte le volte che abbiamo condiviso l’accendino e ci siamo detti tutto senza nemmeno aprir bocca, avvolti dalle nuvolette dense che soffiavamo fuori dalle labbra. Ho l’impressione che da un momento all’altro il mio amico comparirà da dietro l’angolo e mi dirà: ehi, ho scordato a casa il pacchetto, me ne offri una?.
Non è possibile che non sia qui, al mio fianco. Lui che c’è sempre stato, con cui ho vissuto ogni avventura, ogni momento, dal più banale al più importante. È un’assenza che mi toglie il respiro.
E ogni volta che un passante attraversa la strada, ogni volta che una persona svolta l’angolo o sbuca dalla porta di un edificio, mi illudo che sia lui. Mi pare quasi di vederlo, che mi raggiunge col suo sorrisone entusiasta e gli occhi azzurri pieni di luce e di cose da raccontare.
Brillava troppo per essersi spento così. E dopo ventun anni in cui non ha fatto che illuminare ogni angolo di mondo in cui è passato, ora ha lasciato un grande buio dietro di sé.
Mi siedo sul marciapiede e poco importa se mi trovo in mezzo alla strada. Sollevo lo sguardo al cielo velato di nubi biancastre e mi domando se dietro di esse vi sia ancora il celeste dentro lo sguardo di Ives.
Non gli sarò mai abbastanza grato per essere stato la parte più buona di me, l’altra metà della mia anima e l’unica persona ad avermi dato un motivo per aggrapparmi alla vita.
Nessuno gli sarà mai grato abbastanza per aver reso questo mondo un luogo migliore.



You were as kind as you could be
And even though you're gone
You still mean the world to me
[Alter Bridge – In Loving Memory]






♠ ♠ ♠


Non so bene che dire.
Scrivere questa storia mi ha fatto malissimo, e sono così tanto sopraffatta dalle emozioni che non riesco nemmeno a capire se ho fatto un buon lavoro o meno. Sicuramente la storia ha molti difetti, ma l’ho scritta con il cuore e con tanto dolore, dalla prima all’ultima parola. Quindi va bene così.
Parlare della morte di Ives è sempre complicato per me, ma lo è ancora di più se dal punto di vista di Ethan. Lui è probabilmente uno dei personaggi che ne ha sofferto di più e immergermi nella sua mente è stato davvero devastante.
Ma, sapete, mi ha fatto anche bene. Penso che tramite la scrittura si possano esorcizzare molti demoni che si ha dentro.
Ma bando alle ciance, mi sono dilungata fin troppo, quindi è il caso che passi alle note di spiegazione!
Nella storia ho cercato di essere il più chiara possibile, ma per chi non conosce la serie alcuni punti potrebbero non essere molto chiari.
Per esempio (chi sa già può saltare): Ives viveva con la zia Maura e la cugina, Maggie, perché sua madre Veronica (sorella di Maura) una settimana dopo averlo dato alla luce. Maggie definisce una “puttana” la madre biologica di Ives perché è stata stuprata ed è proprio da questa violenza che è nato il bambino, ma sta ben attenta da non farsi sentire da Maura perché quest’ultima nutre un grande rispetto per la compianta sorella.
Altra cosa che forse non è chiara: quando Ives aveva diciassette anni (nel novembre dell’85), Maura l’ha colto in flagrante con una dose di cocaina in camera sua e allora, presa da un moto di rabbia, l’ha cacciato di casa. Il ragazzo è quindi stato ospitato da Ethan, che aveva un appartamento suo pagato da Davi; comunque, per la disperazione di aver deluso la zia, il giorno stesso si è fatto per la prima volta di eroina, cadendo sempre più nella dipendenza.
Davi è appunto il fratello spacciatore di Ethan ed è riuscito a entrare in un giro molto importante. I due ragazzi sono arrivati a Los Angeles insieme ad altri due dei loro fratelli (Arthur e Olivia), che però poi si sono fatti una vita altrove.
Infine, gli Storm It Down sono la band dei ragazzi che (almeno nel momento in cui è ambientata la storia) presenta la seguente formazione: Oliver alla voce, Ethan alla chitarra, Ives al basso e Alick alla batteria.
Chi ha letto le altre storie della serie, conosceva già anche il personaggio di May; le new entry più importanti, che sicuramente compariranno più avanti in altre storie, sono Josh e Daisy. Spero di essere riuscita a delinearli un pochino, nonostante la situazione complicata!
E finalmente facciamo anche la conoscenza di Davi! Ormai questo famoso fratello di Ethan era diventato una sorta di leggenda XD ne parlavo sempre ma non era mai apparso! E ora, anche se molto marginalmente, l’abbiamo “incontrato” ^^
Ah, a proposito: ovviamente i due parlano in portoghese tra loro perché vengono dal Brasile!
Per quanto riguarda la scena in cui Ethan suona la chitarra per Ives e poi lui gli chiede di abbracciarlo (avete visto??? Ethan, l’uomo che DETESTA gli abbracci, si è lasciato andare solo col suo migliore amico *_____*), viene citata Samba Pa Ti, una STUPENDA canzone di Santana totalmente strumentale. ADORO l’idea che Ethan la suoni, perché lo immagino proprio così quando imbraccia la chitarra: pieno di sentimento e di delicatezza!
Qui il link per ascoltarla: https://www.youtube.com/watch?v=timZoOs9ozo
Abraxas è, ovviamente, l’album di cui il brano fa parte.
Poi… a un certo punto Josh cita il cercapersone. Per chi non lo sapesse, è un aggeggio diffuso soprattutto negli anni Ottanta e Novanta (prima del telefoni cellulari, insomma) che ti avvisava nel caso ricevessi qualche chiamata al telefono fisso e non potevi rispondere perché eri fuori casa. Chi cercava di contattarti aveva la possibilità di lasciarti dei brevi messaggi vocali (più avanti anche dei brevi testi, in stile SMS). Dalle autobiografie che ho letto, ambientate in quegli anni, ho appreso che gli spacciatori spesso lo avevano per tenersi rintracciabili dai loro clienti.
Quando nella penultima scena nomino Wembley, mi riferisco al famosissimo stadio di Londra in cui hanno suonato – e tutt’oggi suonano – le più importanti band del panorama musicale internazionale.
Infine (vi giuro che ora la pianto con queste note chilometriche) ho realizzato il sogno di alcune persone, inserendo un lievissimo accenno slash tra Ives&Ethan. Io non lo considero nemmeno tale, dato che faceva parte di un sogno e si sa che l’inconscio gioca brutti scherzi, ma ecco, mi sembrava una cosa ancora più straziante e drammatica XD
In realtà l’idea mi è venuta leggendo alcuni articoli riguardanti Chris Cornell (cantante di Soundgarden e Audioslave) e Chester Bennington (cantante dei Linkin Park); per chi non lo sapesse, i due erano grandi amici ed entrambi si sono tolti la vita nel 2017.
Il primo a compiere il gesto estremo è stato Chris, precisamente il 18 maggio; nei giorni seguenti, Chester ha reso pubblica una lettera davvero straziante, e un passaggio in particolare mi ha fatto davvero salire il magone e le lacrime agli occhi. Ve lo copio di seguito:
«Ho sognato i Beatles la notte scorsa. Mi sono svegliato con Rocky Raccoon in testa e davanti allo sguardo preoccupato di mia moglie. Mi ha detto che il mio amico era appena morto. La mia mente si è riempita di tuoi ricordi e ho pianto. […] Ho appena guardato un video in cui tu cantavi A Day In The Life dei Beatles e mi è tornato in mente quel mio sogno. Mi piace pensare che eri tu che mi stavi dicendo addio a modo tuo.»
Questo dettaglio mi ha talmente devastato che ho pensato dovesse succedere anche con i miei Ives e Ethan, mi faceva impazzire l’idea che Ives desse il suo ultimo saluto a Ethan in un sogno.
Chris e Chester erano davvero legati (tanto che quest’ultimo si è suicidato il giorno in cui Chris Cornell avrebbe compiuto gli anni) e il loro rapporto mi fa inevitabilmente pensare ai miei amati OC.
Dovrebbe essere tutto!
Ringrazio chiunque sia stato così coraggioso e determinato da spingersi fin qui, ringrazio Sabriel per il suo contest stupendo e ringrazio DI CUORE i miei Ives&Ethan, per rubarmi l’anima ogni giorno e rendermi felice di scrivere ♥

   
 
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